apparentamenti

consulta e zecche rosse

25 giugno, 2019

Milano olimpica ma de-bartolizzata


Mentre si faceva in quattro per garantire a Milano un’Olimpiade invernale (! pattinaggio sui navigli artificialmente ghiacciati?) per il lontano 2026, l’ineffabile Sala, colto da insospettabile quanto repentino decisionismo in fatto di... Scala, ha gettato una palla di neve che si è trasformata in valanga, travolgendo l’intera iniziativa triennale (2019-21) targata Pereira-Bartoli!

E così, mentre è certo che i moltissimi milanesi non-melomani si metteranno fin da subito in trepida attesa di ciò che potranno gustare fra sette anni (!?) i pochi milanesi (e non solo) melomani si mangiano le unghie e inventano nuove bestemmie per ciò che non potranno gustare fra pochi mesi.

I fan della santa Cecilia per non potersela mangiare con gli occhi e le orecchie come Cleopatra, Semele e Ariodante. E i suoi detrattori per non potersi prendere la soddisfazione di subissarla nuovamente di contumelie, come già fecero nel 2012.

Domanda: qualcuno ha idea del saldo (positivo o negativo) di queste due vicende meneghine sul famigerato spread?

21 giugno, 2019

Cornelius Meister fra Strauss e Mendelssohn alla Scala


La stagione concertistica scaligera 18-19 si è chiusa ieri con il l’ultima replica del concerto diretto (in sostituzione del programmato Metzmacher) da Cornelius Meister, al suo ritorno in Scala dopo l’applaudita Fledermaus dello scorso anno.

Concerto assai ricco ed impegnativo, con ben due poemi sinfonici straussiani (in origine Metzmacher aveva in programma Rendering di Berio) e la più lunga sinfonia di Mendelssohn. Purtroppo, che sia lirica o sinfonica, la... sinfonia è sempre la stessa: platea con almeno il 40% dei posti vuoti, palchi un filino meno peggio e gallerie abbastanza affollate (ma non certo esaurite).

Don Juan e Macbeth sono (Aus Italien permettendo...) i primi due Tondichtungen composti (insieme a Tod und Verklärung) dal giovane Richard Strauss fra il 1888 e il 1890.

Curiosamente le tre opere coeve hanno caratteristiche diverse ma sono in qualche modo tra loro collegate. Il Don è un poema erotico-eroico, pervaso da lirici languori amorosi e da grandi slanci passionali, dall’abbagliante luminosità, per nulla offuscata dalla repentina fine. Macbeth viceversa è un’opera scura, introversa, come si addice al soggetto: l’instabile personalità di Macbeth appena controbilanciata da quella più lirica e seducente della Lady. La Tod sembra voler creare quasi una simbiosi o una sintesi delle altre due opere: parte dalla cupa evocazione di dolore (fisico - la malattia - e spirituale - il lancinante anelito verso alti ideali, sempre mancati in vita) per arrivare, dopo la morte, proprio alla conquista di quegli ideali, che si dispiegano in tutta la loro grandezza. Insomma, un trittico, o una trilogia, dove il polo positivo e quello negativo della natura umana vengono dapprima evocati separatamente e poi messi in contatto per far scoccare la scintilla del sublime.

Meister mi è parso abbastanza a suo agio (sarà... l’età?) con Don Juan, mentre l’ho trovato un poco contratto e spaesato nel Macbeth, obiettivamente più sbifido da padroneggiare, ammettiamolo. Certi eccessi di fracasso sono in fondo giustificabili nel Don, perchè accompagnano temi e motivi di straordinaria presa, mentre lasciano indifferenti nel Macbeth, che è, dal punto di vista tematico, assai poco appariscente.

Il pubblico ha accolto con applausetti i due poemi, che evidentemente non hanno suscitato eccessivi entusiasmi.
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La mendelssohniana Lobgesang è - a dispetto della numerazione (2) - la penultima delle 5 sinfonie del celebre direttore della Gewandhausorchester. Alla Scala mancava da più di 11 anni, precisamente dal Natale 2007, quando fu diretta da uno dei successori di Mendelssohn sul podio di Lipsia: Riccardo Chailly. Proprio in quell’occasione scrissi alcune note su contenuti, struttura e soprattutto sostrato filosofico-religioso della Sinfonia, note che mi sento di riproporre ai soliti affezionati perditempo...

Le prime 22 battute della sinfonia ne presentano - si potrebbe dire - il programma: è il tema del Magnificat, esposto subito dai tre tromboni (strumenti religiosi per antonomasia) che verrà ripreso successivamente dalle voci, e poi ripetuto proprio nelle ultime 10 battute dell’opera, sul possente richiamo:

Alles, was Odem hat,
lobe den Herrn!
Halleluja! 
Tutto ciò che ha respiro
lodi il Signore!
Alleluia!

A puro titolo di curiosità, vediamo alcuni esempi (presi da youtube, in modo che chiunque possa toccare con... orecchio) di interpretazione di questa solenne apertura, che in qualche modo sintetizza lo spirito dell’opera. Va premesso che Mendelssohn ha posto precise indicazioni metronomiche su ogni sezione della partitura, quindi è possibile fare verifiche assai puntuali sul rispetto (o meno) di tali indicazioni da parte dell’interprete. (Poi ciascuno tirerà le proprie conclusioni estetiche, magari infischiandosene delle indicazioni dell’Autore medesimo...) Bene: l’introduzione consta precisamente di 21 battute in 4/4, con indicazione 96 semiminime (al minuto). Ergo la fredda e implacabile aritmetica ci dice che tali 21 battute dovrebbero essere suonate precisamente in 60:96x4x21 = 52,5 secondi. Ecco ora i risultati della ricerca (tempi misurati al secondo, senza frazioni, quindi risultati arrotondati):

interprete

secondi

metronomo

scostamento

Herbert von Karajan con i Berliner

80

63

+34%

Claudio Abbado con la London Symphony

80

63

+34%

Wolfgang Sawallisch con la New Philharmonia

80

63

+34%

Vladimir Ashkenazy con la DSO Berlino

77

65

+32%

Christoph Spering con la DNO

59

85

+11%

Andrés Orozco-Estrada con la ONF

54

93

+3%

Edo de Waart con la Radio olandese

53

95

+1%

Markus Stenz con la Radio olandese

52

97

-1%

Mark Elder con la Halle

51

99

-3%

Marcus Bosch con la Aaken Sinfonieorchester

50

101

-5%


In rete si trova anche un’esecuzione di Chailly al Gewandhaus. Si tratta però - toh, la mania del Direttore di riesumare oggetti obsoleti... - della versione originale della Sinfonia (25/6/1840, cui mancano quindi parti dei numeri 3-6-9, aggiunte prima del 3/12/1840) che ha piccole differenze proprio nell’Introduzione (battute 5-8 e 20-21) peraltro credo ininfluenti sul tempo di esecuzione. Dove Chailly stacca 62 secondi, corrispondenti a metronomo 81, con un rallentamento rispetto a Mendelssohn del 16%.

Cosa si può dedurre da questi risultati? Che c’è una scuola tradizionale (Abbado giovine incluso) che ammanta questo Mendelssohn di enfasi e pomposa retorica, sforando addirittura di 1/3 le sue indicazioni? E invece una generazione più moderna che rispetta la volontà dell’Autore, magari spingendosi (di poco) anche al di là dei suoi dettami? Io ho pochi dubbi sul come schierarmi: con i secondi! Perchè francamente, i primi mi pare scambino Mendelssohn con... Wagner, tanto per non far nomi ma cognomi! Uno che, fra l’altro, aveva stroncato senza appello la Sinfonia-Cantata. Tuttavia l’Introduzione rappresenta pur sempre solo 60 secondi su 60 o più minuti, quindi non sarebbe neanche corretto giudicare solo da essa l’interpretazione dell’intero lavoro.

Cornelius Meister? Non avevo con me uno strumento da cronometrista di atletica, ma il mio orecchio mi suggerisce che il giovane crucco abbia tenuto un tempo assai più sostenuto rispetto ai dettami dell’Autore, ma non così smaccatamente lento quanto i citati quattro dell'avemaria...

Dopodichè devo dire che la sua lettura mi ha abbastanza convinto, a giudicare dalle agogiche e dalle dinamiche adottate. Sembrerà paradossale, ma forse la Lobgesang è più facile da dirigere (e magari anche da suonare) dei poemi di Strauss, fatto sta che ne è uscita un’esecuzione equilibrata, rigorosa, che alle mie orecchie ha reso al meglio l’atmosfera di serietà e di nobiltà che caratterizza quest’opera.

Giudicherei anche ottima o quasi la prestazione delle tre voci, fra le quali ha spiccato Genia Kühmeier (sostituta di Eva Liebau, annunciata originariamente). Ma anche Martina Janková e Tomislav Mužek hanno ben meritato (il tenore ha efficacemente proposto quel drammatico e reiterato Hüter, ist die Nacht bald hin?)

Naturalmente non si può non rendere omaggio - ma proprio in ginocchio, cantandogli una speciale Lobgesang - al Coro di Bruno Casoni, a dir poco strepitoso nelle colossali fughe e nelle perorazioni della lode. Per i coristi e per tutti un autentico trionfo, con ripetute chiamate e fragorosi applausi, che han fatto sembrare il Piermarini zeppo come un uovo.

19 giugno, 2019

Masnadieri alla Scala dopo 41 anni


Ieri sera ecco alla Scala la prima de I masnadieri, tornati a farsi vivi qui - rilasciati per buona condotta? - dopo un lungo ergastolo e accolti peraltro da un pubblico per nulla folto (anche l’altro ieri sera, all’ultima della Tote Stadt, paurosi vuoti ovunque...) Prima dell’inizio Pereira ha fatto la sua comparsa al proscenio per ricordare Zeffirelli.

Ma prima di entrar nel merito, una domanda frivola: che tinta hanno I masnadieri?

Sappiamo che per definire l’ambientazione (prima drammatica - il soggetto - e, conseguentemente, musicale) delle sue opere Verdi usava questo termine assai stimolante, ma anche diversamente interpretabile: la tinta. Termine che richiama concetti pittorici, quindi innanzitutto caratteristiche cromatiche: i colori (tenui o forti, brillanti od opachi). Ma anche caratteristiche di luminosità: luce, ombra e, soprattutto, contrasto. Ma poi anche elementi relativi al tratto della pittura: pennellate morbide o scabre, sfondi omogenei o irregolari. Ma ancora: oggetti o personaggi o fatti dipinti con precisione fotografica o visti attraverso lenti deformanti o caleidoscopi... E altro ancora.

Venendo alla musica, cosa contraddistingue la tinta di un’opera? La tonalità prevalente? Il metro prevalente? Il trattamento strumentale (brillante, trasparente, magmatico, pesante...)? L’impiego di particolari forme chiuse, chiaramente distinguibili (arie, romanze, cabalette, duetti, concertati)? La reiterazione di temi conduttori o di motivi associati a personaggi o sentimenti, o oggetti?   

Verdi peraltro mai ha definito con precisione e dettaglio la tinta di ogni sua opera; ci ha semplicemente informato di averla immaginata (ed anzi cercata nei soggetti che personalmente sceglieva) per poi trasferirla al suo prodotto musicale. Ma di certo sui frontespizi delle sue partiture si è ben guardato dallo specificarne gli attributi di tinta: siamo noi a doverli casomai desumere ed etichettare dall’ascolto della sua musica!

Quindi ancora: che tinta hanno I masnadieri?

Lasciamo la risposta ad un illustre contemporaneo di Verdi, un vero esperto in materia, che nel 1859 così sentenziava: Nei Masnadieri non vediamo traccia di questa tinta generale, e sembra di scorgervi varj pezzi cuciti insieme, anziché una tela continua con differenti disegni. (Abramo Basevi: Studio sulle opere di Giuseppe Verdi).

E, a parte la tinta, Basevi scrisse - fra pochi, onesti e sinceri elogi - un sacco di stroncature: sul soggetto, innanzitutto, accusato di volgarità e di pretendere che poi la musica (la cui qualità dovrebbe essere l’amore del bello) possa attagliarsi a far amare il turpe. Ma anche sulla musica di Verdi, accusata di volta in volta di essere monotona, dal ritmo fiacco; di proporre un volgarissimo coro; nella cavatina di Amalia... il canto seguita con ritmi comunissimi... apparendo lungo, slegato, floscio e gonfio; nel duetto Carlo-Massimiliano Verdi si abbassa fino al posto de’ più volgari copisti (!) Infine, il Maestro ha qui galvanizzato un cadavere! Insomma, ecco un antesignano di Massimo Mila, che catalogò senza appello l’opera fra quelle brutte di Verdi.

Certo, qui abbiamo un Verdi che - forse come contrappeso all’innovativo e coevo Macbeth - torna a vecchie abitudini e a comodi stilemi: Attila! E come in Attila, anche qui abbondano eroismi (musicali) a buon mercato ma di sicuro effetto. Come è stato giustamente osservato, nel primo atto manca del tutto ogni parvenza di azione, ma il pericolo di monotonia viene scongiurato - come in Attila - dalla trascinante vitalità delle cabalette, che poi innervano anche buona parte del second’atto. Sempre Basevi apparenta Nell’argilla maledetta di Carlo a É gettata la mia sorte di Ezio. E poi trova analogie fra il quartetto che chiude l’atto primo con il terzetto di Attila, il quale Attila rifà capolino all’inizio dell’atto conclusivo, con l’incubo vissuto da Francesco.
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Stabilito quindi che I masnadieri non è propriamente un capolavoro, vengo a dire la mia su come Michele Mariotti lo ha tinteggiato. Premetto di non concordare del tutto con i chiarissimi buh che hanno accolto il Maestro all’uscita finale. Però mi sento di dire che la sua è stata una lettura troppo sostenuta, o poco aggressiva, se si preferisce. Insomma, questo, credo di averlo chiarito a sufficienza, è ancora il famigerato Verdi della vanga, il Verdi dell’Attila, e costringerlo in una camicia di forza rossiniana o mozartiana non gli rende giustizia. In ogni caso, personalmente darei al Direttore ampia sufficienza, soprattutto riguardo la concertazione e l’equilibrio delle dinamiche.

Bruno Casoni ha, come sempre del resto, ottenuto il massimo dal suo coro, che qui deve impersonare due tipi diversi di gentaglia: i masnadieri, ovviamente, ma anche i compari di Francesco, che come disprezzo dell’etica non sono certo da meno della banda di Carlo.

Trionfatrice della serata è stata la cubanamericana Lisette Oropesa, che ha sfoggiato perfetta impostazione di voce in tutta la tessitura, con acuti morbidi e portamento impeccabile, sia nelle arie che nei tre duetti che la vedono protagonista. Per lei davvero un gran bell’esordio alla Scala.

Fabio Sartori ha risposto con una prestazione apprezzabile, non solo nelle cabalette e nei duetti, ma anche nell’intimistica, lirica e romantica Come splendido e grande il sol tramonta. Convinti applausi e consensi per lui alle uscite finali.

Meno convincente il Francesco di Massimo Cavalletti (non per nulla fatto oggetto di moderate contestazioni finali) che ha stentato, a parer mio, a dare profondità a quello sbifido personaggio che anticipa (pur a grande distanza) nientemeno che Jago. 

Perfetto invece Michele Pertusi, un Massimiliano autorevole e commovente, applauditissimo alla fine. Anche l’altro basso, Alex Spina, si è ben portato, nella sua parte piccola ma impegnativa, che ricorda il Papa dell’Attila e anticipa il Grande Inquisitore del Carlos.

Francesco Pittari e Matteo Desole hanno onestamente dato voce ad Arminio e Rolla.
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Vengo ora al team di David McVicar, responsabile dell’allestimento e fatto oggetto alla fine di sonorissime contestazioni. Che, proprio come nel caso di Mariotti, personalmente non mi sento di condividere in toto. L’impostazione del regista scozzese ha peccato forse di eccessiva cerebralità, ma va riconosciuto che non ha minimamente intaccato, nè tanto meno stravolto (come accade spesso a regìe troppo creative) i contenuti del soggetto da presentare.

Il regista ha immaginato un antefatto al dramma (presentato durante l’esecuzione del Preludio) in cui si mostra il giovane Carlo in un’Accademia militare (il riferimento è evidentemente all’esperienza conosciuta dal giovane Friedrich Schiller) mentre subisce una dolorosa punizione corporale (sarà questa a far scattare la molla della ribellione?) Vediamo anche il giovane Carlo estrarre da una teca un libro, verosimilmente Le vite parallele di Plutarco (che il Carlo dell’opera leggerà proprio nella prima scena). Questo giovane Carlo è impersonato da un mimo che rimane in scena per l’intera opera, a costituire evidentemente la presenza costante del protagonista (la corporatura cicciottella del mimo deve aver qualcosa a che fare con quella di... Sartori!) che significativamente compie anche piccoli ma importanti gesti: stare vicino, quasi abbracciato ad Amalia quando lei ricorda i bei giorni passati con l’amato; poi fornire alla donna la spada con cui difendersi da Francesco (Atto II) oppure trafiggere lo stesso Francesco (Atto IV) scaraventandolo poi nella stessa segreta dove era rinchiuso Massimiliano. Infine, recare al Carlo vero la spada con cui trafiggere Amalia e gettarsi poi sul corpo di lei mentre cala il sipario. Il fascicolo con il testo di Plutarco resta perennemente fra le mani del Carlo, a ricordare la nobile infatuazione del protagonista per i grandi personaggi che han fatto la Storia: pagine del libro cadono poi svolazzando sulla scena proprio mentre cala l’ultimo sipario.

La scena di Charles Edwards ha una struttura unica: totalmente aperta e limitata sul fondo da una parete (che lascerà intravedere l’incendio di Praga...) alla quale si appoggia una passerella sulla quale si muovono talora le comparse (e raramente i protagonisti). Durante il Preludio (Accademia militare) la scena è occupata da tavoloni e panche, poi parzialmente rimossi per il primo atto. Nel second’atto troviamo invece i letti di un ospedale da campo, dove si rifugiano i masnadieri, ma che serve anche da ambientazione per la prima sortita di Amalia dal castello. Per il resto, pochi oggetti consunti. Sulla destra torreggia in permanenza una statua, rappresentante una qualche autorità militare (il padre di Schiller era capitano...) o magari un antenato della dinastia dei Moor. Le luci di Adam Silverman collaborano a mantenere la tinta cupa del dramma. I costumi di Brigitte Reiffenstuel sono plausibilmente dell’epoca indicata dal testo di Schiller e dal libretto di Maffei (secolo XVIII). Jo Meredith è responsabile delle coreografie, che prevedono l’intervento di mimi e figuranti in alcune fasi concitate dell’opera.

In conclusione, un allestimento intelligente che forse ha sfidato eccessivamente le doti di perspicacia di parte del pubblico, che deve averlo trovato piuttosto incomprensibile e cervellotico (della serie: perle ai porci?...)

Dal mio punto di vista: uno spettacolo complessivamente più che dignitoso, che credo potrà migliorare ancora lungo le prossime sei recite.

17 giugno, 2019

La giara fantasma del Regio (con Cavalleria)


Ieri al Regio-Torino quinta delle nove recite di un dittico abbastanza insolito: al dramma verista mascagnano viene infatti affiancato il balletto (precisamente: commedia coreografica) La giara di Alfredo Casella. Effettivamente un punto di contatto fra le due opere esiste (meglio dire: esisterebbe, a fronte di ciò che si vede a Torino): la Sicilia, dalla quale provengono i due autori delle opere letterarie ispiratrici, e della quale si mettono in scena - magari inventandoli - alcuni tratti naturalistici ed antropologici.   

Il soggetto della Giara è tratto dalla famosa novella di Luigi Pirandello, che narra la bizzarra vicenda di Zì Dima, un anziano artigiano esperto in riparazioni di giare e oggetti consimili, chiamato ad aggiustarne una di dimensioni enormi a casa del ricco possidente Don Lolò. Lui per sistemarla come nuova vi si introduce all’interno, e così ne rimane fatalmente imprigionato. Dopo un braccio di ferro con Lolò che pretenderebbe il pagamento della giara in cambio della sua liberazione, la storia si conclude con lo scorno del padrone di casa e il trionfo dell’artigiano.

La struttura del balletto è in due macro-parti, per una durata poco superiore alla mezz’ora. Per meglio esplorarla possiamo ricorrere a quest’unica registrazione live disponibile (che io sappia) su youtube, grazie all’amor proprio del maestro Mauro Fabbri, che l’ha diretta tempo fa in Bulgaria. Nel seguito sono evidenziati i tempi corrispondenti alle diverse indicazioni agogiche presenti in partitura, corredate, quando esistenti, dalle didascalie di scena.
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I - a) Preludio b) Danza siciliana

Preludio
(28”) Andantino dolce, quasi pastorale
(1’53”) Un poco più lento, quasi adagio
(3’02”) Allegro grottesco ed animato (Zi’ Dima passa al procenio e scompare)
(3’20”) Tempo primo

Chiòvu (Chiodo, danza popolare siciliana)
(5’00”) Allegro vivace (Scena: aia siciliana; entrano i contadini)

Danza generale
(5’40”) Allegro vivace
(6’19”) Lontano - Avvicinandosi - Brillante e giocoso
(7’17”) Sempre più forte, ma senza affrettare - Con tutta la forza - Calmato
(8’20”) Lontano - Avvicinandosi - Giocoso
(8’55”) Sempre più brillante e fortissimo - Stringendo
(9’33”) Vivace (Irrompono tre ragazze spaurite)
(9’50”) Grave, funebre (La grande giara spaccata; tutti piangono; strazio generale)
(10’51”) Vivace (Un contadino chiama tre volte Don Lolò)
(11’16”) Allegro drammatico (Don Lolò appare e scende; scena di furore; finimondo; contadini atterriti)
(12’50”) Poco a poco stringendo (Entra Nela)
(13’17”) Vivace grazioso (Nela riesce a placare le ire del genitore)
(14’13”) Allegro vivace e grottesco (Entra Zi’ Dima; i contadini lo accolgono come a una messa)
(14’32”) Allegro vivace e rustico (Tutti lo circondano e gli raccontano il fatto; lo conducono davanti alla giara)
(15’21”) Lento (Zi’ Dima esamina la giara; silenzio religioso)
(15’38”) Di nuovo animando (Zi’ Dima annuncia che riparerà la giara; “Evviva Zi’ Dima”)
(15’53”) Stringendo (Don Lolò si spazientisce e scaccia i paesani; tutti fuggono; Don Lolò esce con Nela)
(16’22”) Andante moderato (Zi’ Dima prepara la riparazione; si fa notte; fora i pezzi col trapano)
(17’16”) Vivace (Le tre ragazze spiano Zi’ Dima)
(17’40”) Andante moderato (Zi’ Dima riprende il lavoro)
(17’56”) Vivace (Le tre ragazze riappaiono; Zi’ Dima non le vede)
(18’13”) Andante moderato (Zi’ Dima riprende ancora il lavoro)
(18’30”) Allegro animato (Rientrano giocosamente i contadini)
(18’52”) Stringendo (Zi’ Dima viene introdotto nella giara, poi chiusa con lembo rotto)
(19’07”) Lento molto e misterioso (La giara sembra nuova; i contadini sono ammirati)
(19’32”) Pesante ed allegro (I contadini cercano si estrarre Zi’ Dima, ma la cosa non va)
(19’42”) Agitato (Zi’ Dima urla; nuovi tentativi dei contadini; nuove urla del vecchio; sforzi eroici)
(20’01”) Allegro vivacissimo (Arriva Don Lolò stravolto e fa ruzzolare a terra i salvatori; disputa violentissima fra padrone e contadini)
(20’24”) Alla breve, stringendo (I contadini vogliono spaccare la giara per liberare Zi’ Dima; Don Lolò non lo permette: prima Zi’ Dima deve pagare il danno; baruffa generale)
(20’47”) Prestissimo (Don Lolò, dispersi i contadini, risale in casa)

II - a) “La storia della fanciulla rapita dai pirati” b) Danza di Nela c) Entrata dei contadini d) Brindisi dei contadini e) Danza generale f) Finale

(21’08”) Allegro animato (Un contadino torna, accende la pipa a Zi’ Dima e lo tranquillizza)
(21’22”) Lento, calmissimo (Notte; chiaro di luna; calma; dalla giara escono le volute di fumo della pipa)
(21’55”) “La storia della fanciulla rapita dai pirati” (Dal fondo della campagna s’innalza un canto popolare) (testo di Alberto Favara, 25 battute musicali in FA# maggiore cantate dal tenore)


(24’00”) Vivacissimo e leggero (Nela scende dalla casa; danza attorno alla giara; chiama i contadini)
(25’29”) Allargando (Entrano tutti i contadini festosamente)
(25’35”) Pesante (Viene portato da bere)
(25’55”) Allegro deciso (Brindisi dei contadini che acclamano Zi’ Dima)

Danza generale
(26’39”) Allegro rude e selvaggio (I contadini ebbri danzano intorno alla giara)
(29’57”) Orgiastico e brutale (Don Lolò, destato dal baccano, si affaccia e vede la scena)
(30’14”) Allegro vivacissimo (Don Lolò scende come toro infuriato; spavento generale)
(30’26”) In due (Don Lolò abbranca la giara e la fa ruzzolare giù dall’altura; terrore dei contadini che si precipitano in soccorso di Zi’ Dima)
(30’47”) Allegretto molto moderato e rustico (Rientrano i contadini, innalzando in trionfo Zi’ Dima liberato)

Finale
(31’51”) Prestissimo (Don Lolò, disperato, è fuggito; Nela guida la danza generale)
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Non ci vuol molto a concludere che quest’opera si basi su tre pilastri strutturali, già sospettabili nel genere attribuitole dall’Autore: commedia coreografica. Che comporta quindi il carattere di commedia, cioè di soggetto letterario, con tanto di trama, personaggi e azioni; e comporta caratteri di coreografia, sostanzialmente di danza e di pantomimica. Ebbene, l’ineffabile regista-coreografo siciliano (si noti!) Roberto Zappalà cosa ti combina? Tiene buona solo la danza e butta nel cesso la commedia e la pantomimica! E per raggiungere questo mirabile risultato si serve pure di un Dramaturg (Nello Calabrò). Apperò, complimenti! Il suo balletto poteva e potrebbe benissimo essere indifferentemente appiccicato alla musica di Petruška o del Faune... Perchè scovarci tracce di giare, di Don Lolò, di Nela e di... Sicilia è impresa proprio disperata. Ecco perchè alcuni sparuti ma sonorissimi buh piovuti dall’anfiteatro all’abbasarsi del sipario non mi son parsi per nulla immeritati. Insomma, una Giara davvero fatta a pezzi! Peccato per i tanti bambini che i genitori avevano magari portato a teatro proprio perchè vedessero rappresentata quella storia imparata a scuola...

Battistoni (si dà sempre pose che finiscono per renderlo antipatico) ha diretto però con apprezzabile cura questa partitura in cui risuonano, oltre ad atmosfere sicule, anche accenti (vecchi di 10 anni almeno) stravinskiani. Marco Berti da lontano ha efficacemente cantato la canzoncina riservata al tenore. 
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Ecco poi la sempreverde Cavalleria. Qui le cose sono andate decisamente meglio, in quanto abbiamo appunto visto Cavalleria e non, che so... Pagliacci!!! Merito di Gabriele Lavia (che i Pagliacci proprio qui li ha già fatti, e ben... distinguibili!) Approccio assolutamente rigoroso (i soliti schizzinosi lo definiranno... soporoso, ma peggio per loro) con la Sicilia (magari non proprio quella di Vizzini, come ammette lo stesso regista) ben rappresentata da lavia lava solida (nera come la tragedia) e... liquida (rossa come il vino e il sangue che scorrono a fiotti). Movimenti di masse ben gestiti; moderato ricorso a stereotipi stantii (una Madonna e un Cristo, nulla più); e grande cura della recitazione per i protagonisti. Insomma, uno spettacolo assolutamente dignitoso e (parlo per me) del tutto soddisfacente. 

Vicissitudini di ogni tipo hanno fatto sì che il cast, rispetto alle originali scritture, sia stato quasi rivoluzionato: niente Danielona Barcellona per Santuzza (le è subentrata Sonia Ganassi) e niente Carlo Ventre per Turiddu (reincarnatosi in Marco Berti). Poi anche Marco Vratogna si è dato malato (tornerà forse per due appuntamenti) e quindi lo stoico Gëzim Myshketa si è dovuto sobbarcare finora tutte le recite come Alfio.

Devo dire che tutti tre i protagonisti se la sono cavata più che discretamente, così come la Lola di Clarissa Leonardi e la comprimaria Lucia di Michela Bregantin. Onorevole la prestazione del Coro di Andrea Secchi

Battistoni ha diretto con sufficiente sensibilità e attenzione ai particolari, strappando applausi per sè e per l’Orchestra dopo il celebre Intermezzo.
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Teatro non al completo, ma prodigo di consensi per tutti.