Ieri sera ecco alla Scala la prima de I
masnadieri, tornati a farsi vivi qui - rilasciati per buona
condotta? - dopo un lungo ergastolo e accolti peraltro da un pubblico per nulla
folto (anche l’altro ieri sera, all’ultima
della Tote Stadt, paurosi vuoti
ovunque...) Prima dell’inizio Pereira ha fatto la sua comparsa al proscenio per
ricordare Zeffirelli.
Ma prima di entrar nel merito, una domanda
frivola: che tinta hanno I masnadieri?
Sappiamo che per definire l’ambientazione (prima drammatica - il
soggetto - e, conseguentemente, musicale)
delle sue opere Verdi usava questo termine assai stimolante, ma anche
diversamente interpretabile: la tinta.
Termine che richiama concetti pittorici, quindi innanzitutto caratteristiche cromatiche: i colori (tenui o forti,
brillanti od opachi). Ma anche caratteristiche di luminosità: luce, ombra e, soprattutto, contrasto. Ma poi anche elementi relativi al tratto della pittura: pennellate morbide o scabre, sfondi omogenei
o irregolari. Ma ancora: oggetti o personaggi o fatti dipinti con precisione
fotografica o visti attraverso lenti deformanti o caleidoscopi... E altro
ancora.
Venendo alla musica, cosa contraddistingue la tinta di un’opera? La tonalità
prevalente? Il metro prevalente? Il
trattamento strumentale (brillante, trasparente, magmatico, pesante...)? L’impiego
di particolari forme chiuse,
chiaramente distinguibili (arie, romanze, cabalette, duetti, concertati)? La
reiterazione di temi conduttori o di
motivi associati a personaggi o sentimenti, o oggetti?
Verdi peraltro mai ha definito con
precisione e dettaglio la tinta di
ogni sua opera; ci ha semplicemente informato di averla immaginata (ed anzi cercata nei soggetti che personalmente
sceglieva) per poi trasferirla al suo prodotto musicale. Ma di certo sui
frontespizi delle sue partiture si è ben guardato dallo specificarne gli attributi
di tinta: siamo noi a doverli casomai
desumere ed etichettare dall’ascolto della sua musica!
Quindi ancora: che tinta hanno I masnadieri?
Lasciamo la risposta ad un illustre contemporaneo
di Verdi, un vero esperto in materia, che nel 1859 così sentenziava: Nei Masnadieri non vediamo traccia
di questa tinta generale, e sembra di scorgervi varj pezzi cuciti insieme,
anziché una tela continua con differenti disegni. (Abramo Basevi: Studio sulle opere di Giuseppe Verdi).
E, a parte la tinta, Basevi scrisse -
fra pochi, onesti e sinceri elogi - un sacco di stroncature: sul soggetto,
innanzitutto, accusato di volgarità e di pretendere che poi la musica (la cui
qualità dovrebbe essere l’amore del bello)
possa attagliarsi a far amare il turpe.
Ma anche sulla musica di Verdi, accusata di volta in volta di essere monotona, dal ritmo fiacco; di proporre un volgarissimo
coro; nella cavatina di Amalia... il
canto seguita con ritmi comunissimi... apparendo lungo, slegato, floscio e gonfio;
nel duetto Carlo-Massimiliano Verdi si
abbassa fino al posto de’ più volgari copisti (!) Infine, il Maestro ha qui
galvanizzato un cadavere! Insomma,
ecco un antesignano di Massimo Mila,
che catalogò senza appello l’opera fra quelle brutte di Verdi.
Certo, qui abbiamo un Verdi che - forse
come contrappeso all’innovativo e coevo Macbeth
- torna a vecchie abitudini e a comodi stilemi: Attila! E come in Attila, anche qui abbondano eroismi (musicali) a
buon mercato ma di sicuro effetto. Come è stato giustamente osservato, nel
primo atto manca del tutto ogni parvenza di azione, ma il pericolo di monotonia
viene scongiurato - come in Attila - dalla trascinante vitalità delle cabalette, che poi innervano anche buona
parte del second’atto. Sempre Basevi apparenta Nell’argilla maledetta di Carlo a É gettata la mia sorte di Ezio. E poi trova analogie fra il
quartetto che chiude l’atto primo con il terzetto di Attila, il quale Attila
rifà capolino all’inizio dell’atto conclusivo, con l’incubo vissuto da Francesco.
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Stabilito quindi che I masnadieri non è propriamente un
capolavoro, vengo a dire la mia su come Michele
Mariotti lo ha tinteggiato.
Premetto di non concordare del tutto con i chiarissimi buh che hanno accolto il Maestro all’uscita finale. Però mi sento
di dire che la sua è stata una lettura troppo sostenuta, o poco aggressiva, se
si preferisce. Insomma, questo, credo di averlo chiarito a sufficienza, è
ancora il famigerato Verdi della vanga,
il Verdi dell’Attila, e costringerlo in una camicia di forza rossiniana o
mozartiana non gli rende giustizia. In ogni caso, personalmente darei al
Direttore ampia sufficienza, soprattutto riguardo la concertazione e
l’equilibrio delle dinamiche.
Bruno
Casoni
ha, come sempre del resto, ottenuto il massimo dal suo coro, che qui deve
impersonare due tipi diversi di gentaglia: i masnadieri, ovviamente, ma anche i
compari di Francesco, che come disprezzo dell’etica non sono certo da meno
della banda di Carlo.
Trionfatrice della serata è stata la
cubanamericana Lisette Oropesa, che
ha sfoggiato perfetta impostazione di voce in tutta la tessitura, con acuti
morbidi e portamento impeccabile, sia nelle arie che nei tre duetti che la
vedono protagonista. Per lei davvero un gran bell’esordio alla Scala.
Fabio
Sartori
ha risposto con una prestazione apprezzabile, non solo nelle cabalette e nei
duetti, ma anche nell’intimistica, lirica e romantica Come splendido e grande il sol tramonta. Convinti applausi e
consensi per lui alle uscite finali.
Meno convincente il Francesco di Massimo Cavalletti (non per nulla fatto
oggetto di moderate contestazioni finali) che ha stentato, a parer mio, a dare
profondità a quello sbifido personaggio che anticipa (pur a grande distanza)
nientemeno che Jago.
Perfetto invece Michele Pertusi, un Massimiliano autorevole e commovente,
applauditissimo alla fine. Anche l’altro basso, Alex Spina, si è ben portato, nella sua parte piccola ma
impegnativa, che ricorda il Papa dell’Attila e anticipa il Grande Inquisitore
del Carlos.
Francesco
Pittari
e Matteo Desole hanno onestamente
dato voce ad Arminio e Rolla.
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Vengo ora al team di David McVicar, responsabile dell’allestimento
e fatto oggetto alla fine di sonorissime contestazioni. Che, proprio come nel
caso di Mariotti, personalmente non mi sento di condividere in toto. L’impostazione
del regista scozzese ha peccato forse di eccessiva cerebralità, ma va
riconosciuto che non ha minimamente intaccato, nè tanto meno stravolto (come
accade spesso a regìe troppo creative)
i contenuti del soggetto da presentare.
Il regista ha immaginato un antefatto al
dramma (presentato durante l’esecuzione del Preludio) in cui si mostra il
giovane Carlo in un’Accademia militare (il riferimento è evidentemente all’esperienza
conosciuta dal giovane Friedrich Schiller)
mentre subisce una dolorosa punizione corporale (sarà questa a far scattare la
molla della ribellione?) Vediamo anche il giovane Carlo estrarre da una teca un
libro, verosimilmente Le vite parallele
di Plutarco (che il Carlo dell’opera leggerà proprio nella prima scena). Questo
giovane Carlo è impersonato da un mimo che rimane in scena per l’intera opera,
a costituire evidentemente la presenza
costante del protagonista (la corporatura cicciottella del mimo deve aver
qualcosa a che fare con quella di... Sartori!) che significativamente compie
anche piccoli ma importanti gesti: stare vicino, quasi abbracciato ad Amalia
quando lei ricorda i bei giorni passati con l’amato; poi fornire alla donna la
spada con cui difendersi da Francesco (Atto II) oppure trafiggere lo stesso Francesco
(Atto IV) scaraventandolo poi nella stessa segreta dove era rinchiuso
Massimiliano. Infine, recare al Carlo vero la spada con cui trafiggere Amalia e
gettarsi poi sul corpo di lei mentre cala il sipario. Il fascicolo con il testo
di Plutarco resta perennemente fra le mani del Carlo, a ricordare la nobile
infatuazione del protagonista per i grandi personaggi che han fatto la Storia: pagine
del libro cadono poi svolazzando sulla scena proprio mentre cala l’ultimo
sipario.
La scena di Charles Edwards ha una struttura unica: totalmente aperta e
limitata sul fondo da una parete (che lascerà intravedere l’incendio di
Praga...) alla quale si appoggia una passerella sulla quale si muovono talora le
comparse (e raramente i protagonisti). Durante il Preludio (Accademia militare)
la scena è occupata da tavoloni e panche, poi parzialmente rimossi per il primo
atto. Nel second’atto troviamo invece i letti di un ospedale da campo, dove si
rifugiano i masnadieri, ma che serve anche da ambientazione per la prima sortita
di Amalia dal castello. Per il resto, pochi oggetti consunti. Sulla destra
torreggia in permanenza una statua, rappresentante una qualche autorità
militare (il padre di Schiller era capitano...) o magari un antenato della
dinastia dei Moor. Le luci di Adam
Silverman collaborano a mantenere la tinta
cupa del dramma. I costumi di Brigitte
Reiffenstuel sono plausibilmente dell’epoca indicata dal testo di Schiller
e dal libretto di Maffei (secolo XVIII). Jo
Meredith è responsabile delle coreografie, che prevedono l’intervento di
mimi e figuranti in alcune fasi concitate dell’opera.
In conclusione, un allestimento
intelligente che forse ha sfidato eccessivamente le doti di perspicacia di
parte del pubblico, che deve averlo trovato piuttosto incomprensibile e
cervellotico (della serie: perle ai porci?...)
Dal mio punto di vista: uno spettacolo
complessivamente più che dignitoso, che credo potrà migliorare ancora lungo le prossime
sei recite.