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da stellantis a stallantis

29 marzo, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°23


Riecco sul podio il Direttore musicale per dirigere un concertone di quelli davvero tosti, con due opere che sono scolpite nella storia della musica dell’800. Di autori che, al di là della loro volontà, furono eletti a rappresentanti di avverse fazioni: pro e contro Wagner!

Dapprima ecco il Concerto per violino di Brahms, che ci viene proposto dalla bella Liza Ferschtman, presentatasi con un lungo nero imbrillantato e dotato di profonda scollatura sul... retro. Ottimamente supportata da Flor e dall’Orchestra, ha sciorinato una prestazione maiuscola, riuscendo a dar calore a questo Brahms fin troppo... nordico.

Da ricordare l’Adagio, dove l’oboe (ieri il bravissimo Luca Stocco) ruba per un po’ la scena al violino solista, quindi dialogando mirabilmente con lui (-lei).

Prestazione salutata da convinti applausi del non oceanico pubblico dell’Auditorium. Applausi ricambiati da questo bis di Ysaÿe.
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La seconda parte del programma è occupata dalla Romantica di Bruckner. Sinfonia, come parecchie altre della produzione dell’organista di SanktFlorian, dalla storia tormentata e costellata da continue, a volte pesanti revisioni e rielaborazioni che coprirono circa 15 anni, dal 1874 (nascita della prima versione) al 1889 quando Gutmann ne stampò l’ultima. In mezzo quella del 1878 (con il cosiddetto finale Volksfest) e quella del 1878-80, con i nuovi due movimenti rifatti (Scherzo e Finale). Ma altre revisioni sono state censite dai musicologi. Alcuni di questi (Wöss, Haas, Nowak e Redlich nel ‘900, e Korstved nei primi anni 2000) si sono cimentati nella produzione e pubblicazione di edizioni critiche della sinfonia. Da allora le versioni del 1878-80 e l’ultima si contendono il primato delle esecuzioni, con recente prevalenza della prima, adottata anche oggi da Flor. Per un commento un po’ più dettagliato rimando a questo post scritto in occasione di un’esecuzione (che non mi aveva impressionato, devo dire) de laVerdi del 2010. 

Per chi volesse dedicare tempo ad ascolti comparati segnalo le seguenti esecuzioni fra quelle disponibili su youtube
  

Nella seguente tabella ho riassunto, per ciascuna delle quattro, dati quantitativi di tempo di esecuzione (dei riferimenti proposti) e numero di battute dei singoli movimenti (per gli Scherzi sono le battute effettivamente eseguite, inclusi quindi i ritornelli):


Intanto si può superficialmente notare come, con il passare degli anni e delle revisioni, il numero di battute totale della sinfonia e, parallelamente, il tempo di esecuzione (pur tenendo conto dell’approccio interpretativo dei diversi Direttori) sia costantemente diminuito. Segno abbastanza evidente di un processo di sottrazione e di volontà di prosciugare l’opera da pleonasmi e inutili divagazioni. Ma mentre per i primi due tempi si è trattato di interventi (del 1878, confermati nell’ultima versione) che non hanno seriamente modificato la struttura tematica, lo Scherzo e il Finale sono stati abbastanza pesantemente rinnovati nel 1878-80 e poi semplicemente accorciati e/o leggermente riorchestrati nel 1888-89.

Lo Scherzo, al di là della drastica riduzione (fino al 40%!) delle battute, ha subito nel 1878 (con l’edizione denominata Jagd, caccia, ispirata al Tristan e con il leggiadro Trio) un drastico quanto benefico rifacimento. Francamente quel richiamo del corno ripetuto fino alla nausea, e il Trio piuttosto anonimo erano davvero poco edificanti. La versione ultima lo accorcia nella ripresa dello Scherzo.

Quanto al Finale, l’originaria ciclicità determinata dalla reiterata riproposizione del tema di apertura della sinfonia aveva un che di stucchevole. Già la Volksfest - dando più risalto al tema elegiaco - ha migliorato le cose, e poi la nuova stesura del 1880 ha dato il volto nuovo e nobilissimo alla chiusa dell’opera, relegando il ritorno del tema d’apertura solo a due fugaci comparse nel corpo del finale e poi (ma solo nell’edizione di Nowak) alla riproposta proprio nelle ultimissime battute.

Sappiamo che i detrattori di Bruckner (la cerchia di amici anti-wagneriani e simpatizzanti di Brahms, capeggiati da Eduard Hanslick) ascoltando la Terza Sinfonia vi trovarono ragioni per irriderla, nientemeno bollandola come ciarpame... Ecco, figuriamoci come avrebbero accolto la Quarta del 1874, invero macchinosa, prolissa e tematicamente povera (almeno nei due tempi finali) se mai fosse stata eseguita a quel tempo!
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Chi ha disertato ieri l’Auditorium si è davvero perso una cosa grande; chè tale è stata la prestazione di Flor: impeccabile e quasi maniacale la sua aderenza alla lettera e allo spirito dell’opera, sfrondata da ogni facile enfasi e retorica; e dell’intera orchestra (schierata con i violini secondi al proscenio) che ha sciorinato un’ammirevole compattezza e bellezza di suono in tutte le sezioni (alla fine Flor ha fatto alzare separatamente le viole, protagoniste dell’Andante e non solo, e i quattro moschettieri ai corni).

Chi invece era in sala ha accolto l’esecuzione con grande calore, dispensando applausi a tutti e a ciascuno. Queste sono serate che fanno bene alla salute!

25 marzo, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°22


Per la sua terza presenza (di quattro) nella stagione, Patrick Fournillier, il Direttore Principale Ospite, si è ripresentato (venerdi sera e ieri pomeriggio) sul podio dell’Auditorium per dirigervi un concerto tutto francese. Si direbbe che il suo rapporto con laVerdi abbia proprio come oggetto la valorizzazione di musica d’oltralpe, almeno a giudicare dai contenuti che propone qui. Questa volta il concerto presentava tre opere collocate storicamente fra l’800 romantico di Berlioz e il ‘900 disincantato di Roussel; in mezzo, un Fauré a far da cerniera fra i due poli. Opere che sono di rarissima presenza in Italia e che l’Orchestra nei suoi 25 anni di storia ha eseguito solo una volta (Fauré e Berlioz) o addirittura mai (Roussel). Trattandosi di brani di notevole valore va quindi dato merito a laVerdi di averli proposti al suo pubblico.   

È con il baricentrico Gabriel Fauré che si è dato inizio al concerto, con la Suite di musiche di scena per il Pelléas et Mélisande, del 1898. Suite articolata su 4 numeri, corrispondenti ad altrettanti scenari dell’opera di Maeterlinck.

Nelle ultime battute del primo (Prélude) c’è una curiosa quanto chiara citazione wagneriana, allorquando si ode il primo corno esporre un motivo che vuole evocare il personaggio di Golaud. Ebbene, si tratta dello stesso motivo caratteristico del corno di toro di Hunding (Die Walküre, Atto II):

    
L’accostamento Golaud-Hunding è assolutamente pertinente, non tanto rispetto alla personalità dei due (il primo non è certo un troglodita come il secondo...) ma rispetto ai legami di parentela all’interno del rapporto triangolare: Hunding (sposato a Sieglinde) e Siegmund sono cognati; Golaud (sposato a Mélisande) e Pelléas sono fratellastri!

Quanto all’esecuzione, da incorniciare in particolare la celeberrima Siciliana (N°3) splendidamente illustrata dal flauto di Nicolò Manachino accompagnato dall’arpa di Elena Piva. Ma tutti hanno meritato applausi.
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Si è poi retrocessi di parecchi decenni per incontrare l’Hector Berlioz delle Nuits d’Eté. Come la Fantastica fu scritta da un Berlioz letteralmente ossessionato dalla sua infatuazione per Harriett Smithson, così questo ciclo di poesie di Théophile Gautier fu composto da un Berlioz disilluso dal matrimonio con l'ormai declinante ed alcolizzata attrice albionica. Una delle canzoni (Absence) fu dedicata originariamente dall'autore a Marie Martin (in arte Marie Recio) un mezzosoprano di non eccelse qualità canore, ma dotata evidentemente di altre più carnali prerogative, tanto da divenire dapprima amante e in seguito seconda moglie del musicista. Il ciclo fu originariamente scritto per voce di mezzosoprano o tenore, con accompagnamento di pianoforte. Poi Berlioz fu convinto a produrre una versione con accompagnamento orchestrale e per l'occasione apportò anche alcune variazioni alle partiture e all'indicazione delle voci, il che lo indusse a trasporre la tonalità di un paio di canzoni, per adattarla alle caratteristiche dei cantanti – da lui conosciuti in Germania - ai quali venivano dedicate.

Villanelle (in LA maggiore) dedicata alla signorina Wolf, cantante del Granducato di Weimar: l'attesa e l'arrivo della primavera per due innamorati. Et dis-moi de ta voix si douce: Toujours!

Le spectre de la rose (in SI maggiore, trasposto dall'originale in RE maggiore) dedicata alla signorina Falconi, cantante del Granducato di Gotha: Mon destin fut digne d'envie, et pour avoir un sort si beau plus d'un aurait donné sa vie; car sur ton sein j'ai mon tombeau. E chi non vorrebbe essere al posto di quella rosa?

Sur les lagunes (in FA minore, trasposto dall'originale SOL minore) dedicato al signor Milde, cantante del Granducato di Weimar: lamento per la morte dell'amata. Ah! sans amour s'en aller sur la mer!

Absence (in FA# maggiore) dedicato alla signora Nottès, cantante della cappella reale di Hannover: senza l'amore, la vita non ha senso. Comme une fleur loin du soleil, la fleur de ma vie est fermée, loin de ton sourire vermeil!

Au cimitière (in RE maggiore) dedicato al signor Caspari, cantante del Granducato di Weimar: una colomba canta sopra un tasso, vicino alla tomba dell'amata. E la sua anima sembra piangere all'unisono con quel canto. Cosa insopportabile, per l'amato: Oh! jamais plus près de la tombe, je n'irai, quand descend le soir.

L'île inconnue (in FA maggiore) dedicato alla signora Milde, cantante del Granducato di Weimar: nel Baltico, Pacifico, Giava, Norvegia, mia bella giovane, dove vuoi andare? La voile enfle son aile, la brise va souffler. Portami, dice la bella, à la rive fidèle où l'on aime toujours! Già, ma si tratta purtroppo di un'isola sconosciuta! 

La belga Katarina Van Droogenbroeck ha presentato le sei canzoni in un ordine un po’ diverso da quello di pubblicazione, che viene normalmente rispettato (difficile immaginare le ragioni precise di questa scelta): al loro posto i brani esterni, mentre all’interno si è seguita la sequenza Absence, Spectre, Cimitière e Lagunes. Voce non troppo penetrante (più adatta forse al repertorio barocco di cui il mezzosoprano è specialista che a quello romantico); all’inizio mi è parso anche di cogliere qualche problemino di intonazione, ma nel complesso la prestazione è stata più che dignitosa, e il pubblico non ha risparmiato applausi e chiamate.
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Ha chiuso il concerto la Sinfonia n°3 di Albert Roussel, compositore la cui prolificità è inversamente proporzionale al suo successo presso il vasto pubblico. La Sinfonia, composta nel 1929 su commissione della BSO di Serge Koussevitsky in vista dei festeggiamenti per i 50 anni dalla fondazione dell’orchestra di Boston, è saldamente ancorata ai canoni formali del’800, mentre i contenuti divergono assai da quelli del romanticismo (precoce o tardo che sia).    

Il rispetto delle tradizionali convenzioni va dalla struttura formale nei classici quattro movimenti (Allegro vivo, Adagio-Andante, Vivace e Allegro con spirito) all’impiego della tonalità (con tanto di armature di chiave in partitura) e alla relativa concatenazione tonale dei movimenti (SOL minore, DO minore, RE maggiore e SOL maggiore) per finire con la robusta composizione dell’orchestra, di stampo berlioz-iano (tipo quella della Fantastica...)

Come detto, i contenuti sono però assai poco ottocenteschi, e Roussel dà libero sfogo alla sua inventiva, alla quale le forme vengono abilmente asservite. Così nell’Allegro iniziale si fatica a discernere una struttura di forma-sonata, sostituita da un continuo accostamento di temi e ritmi diversi, con ampio uso del cromatismo che fa sfumare spesso e volentieri i confini tonali. Più tradizionale l’Adagio, di stampo quasi mahleriano o espressionista, dove Roussel sfodera idee e immaginazione degne di apprezzamento, come la sezione centrale fugata e il finale idilliaco, chiuso dal MIb sovracuto del primo violino. Il terzo tempo è assimilabile ad uno Scherzo dal cipiglio quasi bruckneriano, privo però del classico Trio, ma con una struttura tematica che richiama un rondò. Il conclusivo Allegro sembra invece organizzato proprio come Scherzo-trio-scherzo, anche se tutto in tempo pari. Nella sezione interna, in Andante, ascoltiamo una preziosa melopea del violino solo. Esilarante davvero la conclusione con un unisono generale sul SOL.

Insomma, un’opera di tutto rispetto, che merita di essere proposta più di frequente. Intanto ieri, grazie al Direttore e ai ragazzi dell’Orchestra - che hanno innescato per lui un applauso ritmato - ha ottenuto un calorosissimo successo dal pubblico che non ha disertato l’Auditorium, a dispetto di una giornata più che primaverile.

23 marzo, 2019

La Manon di Chailly


Domenica 31 andrà in scena alla Scala la prima recita di Manon Lescaut, che Riccardo Chailly intende proporci nella stesura originale della prima assoluta di Torino (mercoledi 1 febbraio 1893). Sappiamo che l’opera fu da subito riveduta e corretta, ancora nel 1893, per una rappresentazione a Novara (giovedi 21 dicembre) e così fu presentata nel 1894 a Napoli (domenica 21 gennaio) e alla Scala (mercoledi 7 febbraio).

Puccini continuò a ritoccare la partitura anche in seguito (fin quasi alla morte!) ma resta il fatto che la modifica più sostanziale e sostanziosa fu quella (giammai revocata, si noti bene) apportata dopo Torino - anche a fronte degli acuti suggerimenti (condivisi dall'editore Ricordi) del tanto bistrattato Illicaal finale del primo atto. E proprio questa sarebbe la più interessante novità (rispetto alla Manon che da più di un secolo si canta in tutto il mondo) che il Direttore Musicale è ansioso di offrirci.

Ma sarà proprio un’offerta gradita? Personalmente mi son preso la briga di fare una lettura comparata del libretto e un ascolto comparato della musica. E offro a questo rispettabile pubblico il materiale di base impiegato per l'interessante disamina.

Ecco qui i due testi (a sinistra quello universalmente adottato, a destra la versione originale).

Poi ho predisposto i due finali per l’ascolto comparato: versione standard e versione originale (ometto di segnalare gli interpreti, essendo aspetto secondario). Le due registrazioni partono dall’accorato appello di Des Grieux a Manon, perchè si decida a fuggire con lui (Ah! Manon, Manon, v’imploro!) e divergono nel testo dopo circa 40” e nella musica dopo circa 1’10”Da qui la versione originale è occupata da una gran baraonda generale, della durata di circa un minuto e mezzo, con arrivo di gente da ogni dove, chiusa (1’33”) dal concertato accompagnato stentoreamente dalle note di Donna non vidi mai. Quella divenuta definitiva invece si protrae per tre minuti e mezzo, comprendendo il richiamo alla calma di Lescaut accompagnato dall’allegra canzoncina degli studenti, mutuata dalla canzonetta di Des Grieux.

Prima del mio giudizio, riporto testualmente quello di una delle massime autorità pucciniane in circolazione, Michele Girardi: un commento apparso sul programma di sala della Fenice in occasione della produzione del 2010. L’oggetto è la versione originale (quella che ci propinerà Chailly):

Puccini imbastisce un concertato di vaste proporzioni, basato sull’aria di Des Grieux ripresa per intero, senza rispettare fedelmente l’ordine dei versi del libretto.

L’orchestra al gran completo suona a «tutta forza», e il volume in scena è molto notevole.

Il brano è di fattezze ‘scapigliate’ (in particolare per la perorazione su vasta scala di una melodia che riveste un ruolo musicale importante), e si capisce bene perché il compositore lo abbia sostituito in gran fretta.

Dal punto di vista drammatico Geronte perde i tratti imbarazzanti di un raffinato libertino e viene degradato a basso da opera buffa (come uno dei tanti vecchi facoltosi in cerca di moglie); così per Lescaut, che smarrisce quel poco di capacità diplomatiche di cui disponeva, ed è solo gabbato, non ruffiano; viene inoltre a mancare qualsiasi trait d’union tra la fuga di Manon e la sua presenza nel palazzo di Geronte nell’atto successivo, che appare così assai meno motivata.

Dal punto di vista musicale l’eccessivo rilievo attribuito all’aria «Donna non vidi mai» (che qui viene riesposta per la terza volta!) scompagina il raffinato equilibrio della rete tematica complessiva; inoltre, il trattamento di questo finale in due parti (tema in progressione e ripresa dell’aria come base del concertato) ingenera una prevaricante monotonia, e lo stile esibito invecchia a dismisura un’opera che per tutti gli altri aspetti ha da offrire soltanto novità importanti.

A leggerlo oggi, pare proprio che Girardi (mettendo al passato la versione riveduta) stia commentando la decisione di Chailly! Ebbene: devo dire che concordo in toto con le sue osservazioni critiche a questo finale primo originale. E mi permetto di affermare che rispolverarlo nella stagione principale della Scala mi pare una scelta quanto meno bizzarra (e Chailly è pure recidivo in iniziative di questo tipo): si tratta di operazioni pseudo-filologiche (insisto a definirle pisciatine di cane) da lasciare ai festival o alle bonus-tracks dei CD.

La prima del 31 marzo sarà ascoltabile su Radio3 alle 20.

18 marzo, 2019

L’Orfeo di Carsen-Capuano-Vistoli a Roma


L’Orfeo di Gluck ieri pomeriggio in un Costanzi piuttosto affollato (ma non esaurito) è arrivato alla seconda recita delle 5 (+1) in programma.  

Carlo Vistoli era al centro dell’attenzione e devo dire che il combinato disposto della scrittura di Gluck, piuttosto sobria, e delle dimensioni non proibitive del teatro (dotato fra l’altro di buona acustica) ha contribuito a garantire alla sua prestazione un’accettabile efficacia, non facendo troppo rimpiangere i robusti suoni di contralto che da sempre siamo abituati a sentir uscire dalla bocca di Orfeo. Personalmente, avendo ascoltato (solo in registrazione, devo precisare) il sopranista Jaroussky (a Parigi nel maggio 2018) mi sentirei di dare un voto più alto a Vistoli, non fosse altro che per la miglior appropriatezza della sua voce di contraltista rispetto alle caratteristiche del personaggio. Ottima anche la sua presenza scenica.   

Onesto e non di più il contributo dei due soprani Mariangela Sicilia (Euridice) ed Emőke Baráth (ormai specialista del ruolo di Amore): due vocine abbastanza piccole e debolucce nei centri e nei gravi. Lodevole invece l’apporto del coro di Roberto Gabbiani (invero fondamentale in quest’opera).

Tutti autorevolmente concertati dall’esperta bacchetta di Gianluca Capuano (esordiente sul podio romano, ma che gli appassionati de laVerdi conoscono bene per le comparse in Auditorium con il suo ensemble vocale nel repertorio barocco). Al direttore mi sentirei di muovere un solo modesto rimprovero: qualche eccesso di... foga riguardo ai tempi. Senza pecche l’orchestra, con un plauso all’oboe per il suo intervento che anticipa il wagneriano venerdi santo.

Nonostante la durata dell’opera originale sia già abbastanza contenuta (circa 90’ netti) qui alcuni tagli (un paio relativamente piccoli, nel second’atto: da-capo omessi nei balli e nel coro finale; uno invece assai corposo: l’intero ballo, nel finale ultimo) la riducono a circa 75’: a parte la citata speditezza dei tempi di Capuano, c’è da esser certi che questo esito sia legato alle scelte estetiche e interpretative di Carsen (riprendo l’argomento più avanti). Un altro modesto (e quasi irrilevante) intervento sulla partitura riguarda il ballo degli eroi (in SIb) del second’atto: spostato - anche qui direi per esigenze sceniche (lo svestimento di Euridice nell'Eliso) - da prima a dopo il recitativo di Orfeo.

In definitiva, una prestazione musicale di cui ci si può accontentare, ecco. E anche il pubblico romano ha mostrato di gradirla, riservando applausi (non da stadio, peraltro...) per tutti quanti.
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Come noto, la messinscena di Carsen è una rivisitazione di suoi precedenti lavori (2006 e 2011) quindi di essa già si conoscevano pregi e difetti. Le scene di Tobias Hoheisel sono ispirate a severo minimalismo (tipo Wieland Wagner, per intenderci) in modo da concentrare l’attenzione dello spettatore sul canto e sulla recitazione dei protagonisti: uno spoglio e scuro terreno sabbioso circondato da un cyclorama bianco sul quale a volte si stagliano le silhouette dei personaggi. Costumi (pure di Hoheisel) di foggia moderna quanto anonima. Luci (Carsen e Peter van Praet) gestite con la proverbiale abilità del regista: illuminazione laterale, obliqua, retrostante.

Carsen, perseguendo l’obiettivo di enfatizzare gli aspetti più esistenzialisti del dramma, abolisce poi ogni sovrastruttura accessoria (non certo per fare della spending-review...) Quindi, oltre al minimalismo con cui caratterizza le scene, minimalizza o cancella tutto ciò che striderebbe con la sua concezione dell’opera: come i balli e le conseguenti coreografie. Che peraltro furono concepiti da Gluck-Calzabigi come parti integranti e non certo accessorie dell’opera, come ci conferma Giovanni Bietti nel suo intervento sul programma di sala. Sul quale è però sorprendente leggere un’affermazione del regista - nell’intervista rilasciata a Leonetta Bentivoglio - secondo il quale nella versione originale viennese del 1762 non ci sono danze! Beh, come spiegazione dei suoi barbari tagli, non c’è male...

In definitiva - a parte lo scippo consumato ai danni dell’ascoltatore, che si perde parecchia musica di ottima fattura - lo spettacolo rischia di diventare fin troppo serio se non monocorde. Se osserviamo la macro-struttura dei tre atti dell’opera, la potremmo (usando un termine musicale) definire come un semplice rondò: A-B-A-B-A. Dove le sezioni A sono caratterizzate da: giorno, luce e natura idilliaca; le B da notte, oscurità e natura orrida e infernale. Orbene, Carsen ci presenta invece solo uno scenario di tipo B, se si esclude il finale (Trionfi amore) peraltro abbastanza slavato. E meno male che il regista non ha ripetuto l’operazione perpetrata all’Alcina, dove aveva tagliato di netto il lieto-fine!

Parliamo adesso di Natura e Poesia. Se prendiamo ad esempio la prima scena, nell’originale ci troviamo una cerimonia funebre che avviene in un luogo incantevole, in mezzo ad alberi e fiori di ogni specie: il che accentua il contrasto lancinante con il dolore insostenibile di Orfeo - evocato dalla mirabile musica di Gluck - che in quegli elementi naturali riconosce i compagni dei suoi giorni felici passati con Euridice (In ogni tronco scrisse il misero Orfeo, Orfeo infelice: «Euridice, idol mio, cara Euridice»). Ebbene, se le parole hanno un senso, esso è totalmente tradito dalla scena proposta da Carsen, dove non c’è la minima traccia di Natura. Quanto alla Poesia, ditemi dove la si può trovare in una distesa di sabbia scura e in un corteo di popolani vestiti come becchini!  

Vengo ora ad Orfeo. Secondo Carsen è un poveraccio (everyman) come tutti noi, vittima di un destino avverso che gli ha tolto la persona più cara. Cosicchè, già al funerale, tira fuori un serramanico e cerca il suicidio... anticipato (rispetto a Gluck-Calzabigi). Sì, anticipato, perchè libretto e musica ci dicono che l’istinto suicida insorge in Orfeo soltanto dopo la seconda morte di Euridice, della quale lui si sente (ed è) unico responsabile, a causa della sua debolezza. Al funerale invece il suo atteggiamento è di temeraria sfida (Ho core anch’io...) ai numi di Acheronte e Averno che gli hanno sottratto la sposa, che lui si ripromette di recuperare alla vita prima ancora che Amore arrivi a supportarlo nell’impresa.  

Poi, per giustificare l’idea che si è fatto di Orfeo (un uomo qualunque, come tutti noi) ecco che Carsen (sempre nella citata intervista) afferma che nel testo di Calzabigi e nella musica di Gluck non ci sarebbe alcun riferimento allo status di artista (poeta e cantore) di Orfeo! Quando invece basta leggere il libretto e ascoltare gli interventi dell’arpa per convincersi del contrario. Insomma, il buon Carsen non ce la racconta giusta! 

Per lui i compagni di Orfeo, le Furie dell’Averno e gli Eroi dell’Eliso sono sempre le stesse persone: prima vive, poi morte e infagottate in bianchi sudari, poi rinate nell’Eliso e infine tornate vive ad accogliere i due amanti restituiti alla vita. Beh, a me pare una banalizzazione eccessiva del soggetto, conseguenza della sua totale smitizzazione perpetrata dal regista. Che poi ignora del tutto le precise modalità con le quali il mito pretende si realizzi la riconquista (e la seconda perdita) di Euridice. Le prime due scene dell’atto terzo (quella dove avviene il fattaccio e l’altra dove arriva provvidenzialmente Amore) dovrebbero essere ambientate ancora nell’aldilà infernale, poichè solo lì vale il divieto di sguardo. Invece Carsen già all’inizio dell’atto ci mostra Orfeo che trascina Euridice nell’aldiqua, rientrandovi precisamente dallo stesso passaggio impiegato per inoltrarsi nell’oltretomba (la fossa in cui la fanciulla era stata inumata) e ritrovandoci la giacca abbandonata a fine del primo atto, con annesso serramanico da usarsi per il secondo (per Carsen, non per Gluck) tentato suicidio. Ma se i due sono già riemersi nel mondo reale, non si capisce perchè lo sguardo debba esservi ancora vietato... 

Insomma, una serie di forzature (per me) francamente eccessive e giustificabili solo a fronte della scelta interpretativa di fondo compiuta dal regista. 

Ecco, come posso sintetizzare il tutto? Dicendo che: se ci si dimentica totalmente dei contenuti del soggetto originale e si fa propria la vision del regista, allora si può godere lo spettacolo e magari anche emozionarsi, poichè la suggestione che suscita questa messinscena è innegabile. 

Viceversa, è difficile andar oltre il rispetto e l’ammirazione per la professionalità con la quale l’allestimento è stato realizzato.

16 marzo, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°21


La seconda delle tre apparizioni stagionali del Direttore residente de laVerdi ha per oggetto un concerto di musiche nate a cavallo fra ‘800 e ‘900 (1888 - 1897 - 1911). Si tratta di tre lavori che traggono ispirazione da opere letterarie di diversa natura ed origine, tutte però con qualche riferimento a maghi e magie assortite.

Auditorium ancora pieno come un uovo, con folta rappresentanza di... minorenni, il che non può non salutarsi con grande piacere. E Bignamini&C hanno fatto del loro meglio per accontentare questo loro pubblico di ammiratori.      

L’apertura del concerto è riservata a Paul Dukas e al suo Apprenti Sorcier, composto nel 1897 e ispiratogli da una simpatica poesiola di Goethe. Solo un paio d’anni prima Richard Strauss aveva sfornato il suo Till, nel quale pare di scorgere (in grande, effettivamente, e non solo per la durata quasi doppia) il modello di questo poemetto sinfonico (scherzo lo battezzò l’autore) che a noi nati nel ‘900 fu reso famoso dalla sua presenza (arrangiamento di Stokowski) nel celeberrimo Fantasia di Disney (credo di averlo visto, al cinema dell’oratorio parrocchiale, alla tenera età di 6 anni, quando DeGasperi aveva da poco vinto le elezioni del ’48!)

A chi fosse interessato a conoscere i segreti del brano, solo apparentemente leggero e superficiale, consiglio la lettura di questo saggio del valente Christian Frattima, oltre a suggerire una pregevole esecuzione del 1961 di Pierre Monteaux con la London Symphony.

Bignamini, che mette tutto a memoria (provate a fare il conto di quante pagine di partitura d’orchestra si è immagazzinato nel cervello per questo concerto... vien da pensare che il suo sia un hard-disk nel quale a lui basta fare il download di qualche pdf dal computer!) ha condotto i suoi ex-compagni con una calma e una sicurezza che testimoniano del perfetto affiatamento che ancora ha con loro. E ciò vale per tutti i tre brani in programma.
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Ecco poi la versione tarda (1947) delle musiche del balletto Petruska che Igor Stravinski compose originariamente nel 1911 e del quale il citato Pierre Monteaux diresse la prima parigina. Va detto che la versione proposta da Bignamini si differenzia dall’originale quasi esclusivamente per l’orchestrazione più leggera (e la compagine ridotta) ma ne conserva intatta la struttura, oltre che la freschezza e la verve. Il Direttore sceglie per il finale la forma abbreviata, prevista da Stravinski per le esecuzioni concertistiche, quella che chiude l’opera sulla festa di popolo, tagliando la morte di Petruska e la vergognosa uscita di scena del Mago. 

Reitero qui una segnalazione già fatta parecchi anni fa di una benemerita iniziativa tedesca che ha avuto come oggetto il lavoro di Stravinski: una vera miniera d’oro per chi abbia voglia (e tempo...) di approfondire la conoscenza di Petruska e del suo autore. 

Propongo poi in appendice al post un bigino dell’opera, appoggiandomi a questa interpretazione di Jansons con l’Orchestra del Concertgebouw.

Tornando a ieri, strepitosa prestazione di tutti, salutata da ovazioni per Direttore e strumentisti, molti di loro chiamati a interventi squisitamente solistici e perciò ancor più apprezzabili.
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Dopo l’intervallo e a chiudere il concerto, un altro pezzo forte del repertorio dell’Orchestra, la Shéhérazade di Nicolai Rimski-Korsakov, del 1888. Questa volta il ruolo della principessa che incanta il sultano cattivone, spegnendone gli istinti omicidi, è affidato ad un altro Nicolai (Freiherr von Dellingshausen) che siede sulla sedia della spalla e deve quindi suonare le diverse parti solistiche che evocano i racconti della bella quanto astuta Shéherazade. Devo dire che non ha per nulla fatto rimpiangere Luca Santaniello (ieri seduto alle sue spalle) che fino ad oggi aveva di diritto impersonato quel ruolo.

Dopo un rigorosissimo Stravinski, Bignamini si è scatenato con un’interpretazione personalissima del lavoro di Rimski, non risparmiandosi rubati, cambi di tempo e di dinamica, magari al limite del... regolamento, ma di un’efficacia straordinaria. Memorabile, all’interno di una lettura da incorniciare, l’Andantino quasi allegretto, diretto senza bacchetta (appoggiata sul leggio di... Scarpolini): un vero diamante in un vaso di perle!

Alla fine pubblico entusiasta e trionfo per tutti.   
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Petruska

I passaggi descritti corrispondono alle indicazioni didascaliche sulla partitura.

Quadro I - La fiera di Shrovetide a Pietroburgo.

Siamo nella settimana grassa e la fiera è affollata da gente di ogni tipo: il flauto imita le grida dei venditori e l’orchestra il tumulto generale.

55” Ecco passare un gruppo di festaioli già ubriachi che ballano in modo sgangherato.

1’26” Il maestro di cerimonie attira l’attenzione dei passanti da sopra il suo banchetto; poi torna il tumulto della festa.

1’46” Un suonatore d’organetto arriva con una danzatrice.

2’08” L’organetto comincia a suonare.

2’26” la danzatrice balla accompagnandosi con il triangolo (canzonetta francese Elle avait une jambe de bois) mentre il suonatore d’organetto con una mano gira la manovella e con l’altra suona la trombetta.

2’50” Poco distante da lì un’altra ballerina danza sulla musica che esce da un carillon.

3’17” Tornano la prima danzatrice con il triangolo e il suonatore d’organetto con la trombetta.

3’33” Organetto e carillon tacciono improvvisamente: è il maestro di cerimonie che riprende il centro dell’attenzione con la sua parlantina, poi si riode il tumulto della piazza.

3’56” Ripassano gli allegri buontemponi; quindi ancora il chiasso della festa.

5’24” Due tamburini si piantano davanti al teatrino, attirando l’attenzione dei passanti con il rullo dei loro strumenti. All’interno del teatrino appare il vecchio mago.

6’00” Il mago suona il suo flauto magico.

6’41” Si apre il sipario del teatrino e compaiono tre marionette: Petruska, il Moro e la Ballerina.

7’11 Il mago anima le tre marionette toccandole col suo flauto magico. E loro si mettono a danzare la lunga e variata Danza russa, lasciando stupefatta la folla circostante.

10’02 Buio improvviso, cala il sipario. Lungo rullo di tamburo.

Quadro II - Nella stanza di Petruska.

Dal mondo reale si passa ora a quello virtuale: questo e il successivo quadro sono infatti incentrati sul rapporto fra le tre marionette, un triangolo che ricorda quello dei pagliacci del teatro dell’arte (Arlecchino t’invola Colombina... canta Canio, protagonista del triangolo con Nedda e Silvio) a sua volta mutuato però da tutti i triangoli che si materializzano nel mondo reale.

10’17 Petruska viene scaraventato in scena con un calcio.

11’21 Petruska esterna tutta la sua rabbia.

13’00 Arriva la Ballerina.

13’27 La Ballerina se ne va arrabbiata con Petruska.

14’16 Petruska resta solo e disperato. Un gran rullare di tamburi introduce il quadro successivo.

Quadro III - Nella stanza del Moro.

14’48 Atmosfera minacciosa.

15’45Il Moro comincia a ballare, sempre in uno scenario lugubre.

17’43 Arriva la Ballerina. Gran rullo di tamburi.

17’50 La Ballerina danza allegramente per il Moro, accompagnata da una trombetta. Poi si prepara a ballare con lui.

18’29 La Ballerina e il Moro danzano un walzer in due sezioni, tratte da lavori di Josef Lanner. Prima parte Lento cantabile, accompagnata da trombetta e flauto, con sottofondo del fagotto (da Steyrische tänze, qui a 1’27”). Poi (19’12) Allegretto (da Die Schönbrunner, qui a 5’22”). Da 20’05” riprende il tempo lento.

20’40” Moro e Ballerina rizzano le orecchie: sta arrivando Petruska!

21’01” Moro e Petruska si azzuffano. La Ballerina sviene.

21’33” il Moro sbatte fuori Petruska. Buio.

Quadro IV - La fiera di Shrovetide al tramonto.

21’41” Siamo tornati nel mondo degli uomini: la festa continua ormai da ore e ore. Introduzione con lungo rullo di tamburo e poi la solita animazione nella piazza.

22’47” Arrivano le balie e si mettono a ballare una lunga danza, con diversi motivi popolari.

25’24” Irrompe sulla scena anche un contadino con un orso. Fuggi-fuggi generale. Il contadino suona il suo piffero e l’orso balla sulle zampe posteriori. Poco dopo contadino ed orso se ne vanno e torna l’animazione nella piazza.

26’56” Ora un mercante festaiolo arriva con due zingare. Si diverte gettando banconote alla folla.

27’11” Le zingare ballano mentre il mercante suona la fisarmonica.

28’01” Mercante e zingare se ne vanno, sostituiti (28’07”) dal sopraggiungere di cocchieri e stallieri che cominciano a ballare.

29’09” Le balie (sul loro tema di poco prima) ballano con cocchieri e stallieri.

30’12” Arrivano anche i mimi. Quello che incarna la morte (30’32”) spinge la folla a danzare con lui.

30’46” Ecco ora una buffonata dei mimi (protagonisti capra e maiale).

31’11” Mimi e maschere danzano insieme. Tutta la gente (31’22”) si unisce alle loro danze. (Qui finisce - opzionalmente - la versione per concerto.)

31’48” Tutti continuano a ballare, mentre si odono grida dal teatrino delle marionette.

31’56” I balli cessano. Petruska corre fuori dal teatrino, inseguito dal Moro, che la Ballerina cerca di trattenere

32’16” Il Moro inferocito acchiappa Petruska e lo colpisce con la sua sciabola. Petruska cade con la testa fracassata e una folla si assiepa attorno alla marionetta.

32’48” Petruska muore, fra gemiti e lamenti. Una guardia va a rintracciare il mago. Il quale (33’26”) arriva, raccoglie e scuote la salma di Petruska.

34’10” La folla si disperde e il mago, restato solo in scena, trascina Petruska verso il teatrino.

34’39” Sopra il teatrino appare lo spettro di Petruska, minaccioso, che sporge il suo naso verso il mago. Il quale, terrorizzato, lascia cadere il fantoccio e se ne va rapidamente, gettando occhiate impaurite dietro le spalle.
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