apparentamenti

consulta e zecche rosse

27 ottobre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°5


Altro simpatico ritorno in Auditorium (ieri peraltro assai poco frequentato): è quello di Wayne Marshall (e poi dicono che a Malta non vogliono gente di colore...) che ci presenta un programma fluvial-marino snodantesi fra ‘800 e ‘900, ma sempre saldamente in acque territoriali tonali amiche.

Subito una considerazione che si applica a tutti e tre i brani in programma: Marshall ha tenuto tempi non stretti, ma strettissimi, trasformando i fiumi in rapide e mandando i mari in burrasca! Ma - dato che l’Orchestra non è... annegata - il risultato deve considerarsi più che accettabile.  
  
Si parte quindi con Vltava, il secondo dei sei poemi sinfonici che Smetana dedicò alla sua patria (ciclo Má vlast). La Moldava è in effetti il fiume simbolo della Boemia, che attraversa da sud-ovest a nord-est, sfociando nella più piccola Elbe poco sopra Praga. In poco più di 150 Km in linea d’aria (fra sorgente e foce) compie un percorso di ben 430 Km, il che rende bene l’idea della sua importanza per quei territori.

Seguiamo un’esecuzione patriottica della Filarmonica ceca diretta da Jiri Belohlavek: dopo che flauti e clarinetti (Allegro commodo non agitato, 6/8) hanno evocato le due sorgenti del fiume, ecco negli archi (1’31”) il famoso tema principale in MI minore (che viene dall’Italia e compare anche nell’inno nazionale d’Israele) che poi (3’15”) ci porta in DO e FA maggiore attraverso una caccia nei boschi, poi (4’13”, L’istesso tempo, ma moderato, 2/4, SOL maggiore) ad una festa di nozze di contadini; quindi, modulando a LAb maggiore (5’48”) ad una danza notturna di ninfe, in 4/4; dopo un passaggio in MI maggiore, a 8’26” ritorna in MI minore, 6/8, il tema principale del fiume, che poi (9’15”) si getta - con diverse modulazioni di tonalità - nei gorghi e nelle rapide di SanGiovanni; riecco (10’29”, Più moto) la Moldava nel poderoso procedere delle acque (ritorno del tema principale in MI maggiore) e poi si sale su fino a passare (10’57”) ai piedi del mitico castello di Vyšehrad, che riconosciamo musicalmente dalla comparsa del suo tema, protagonista dell’omonimo primo poema del ciclo, che ci accompagna... alla foce.

A proposito, non sarebbe male se laVerdi mettesse in cantiere l’esecuzione integrale del ciclo, che meriterebbe un concerto tutto per sè...

Encomiabile la prestazione di tutti, ma come non segnalare flauti e clarinetti per la magistrale esposizione delle sorgenti del fiume.
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Ecco poi Benjamin Britten, con i Four sea interludes dal Peter Grimes. La sequenza dei quattro brani non rispetta quella dell’opera (come si può dedurre dallo specchietto sottostante):


Nell’opera gli interludi sono in effetti sei, equamente distribuiti nelle sue tre parti (prologo incluso) e non sono titolati. Il primo serve come preludio - dopo il Prologo al tribunale - al primo atto, ed evoca un mattino grigio al borgo affacciato sul mare. La tonalità è (appropriatamente) LA minore, il tempo Lento e tranquillo. Il secondo evoca la tempesta che si abbatte sul borgo alla sera (Presto, con fuoco) ed è in MIb minore, con diverse modulazioni. Il terzo (Allegro spiritoso) è in LA maggiore ed apre il second’atto accompagnando la serena atmosfera del villaggio in un giorno di festa. Il quarto è una Passacaglia (Andante moderato) che precede l’arrivo di Grimes e del suo giovane aiutante verso la baita del marinaio, dove il ragazzo troverà la morte. Il quinto (Andante comodo e rubato) è in MIb maggiore, apre il terzo atto ed introduce la scena di una notturna festa danzante. Il sesto (Lento) fa da preludio alla conclusione dell’opera, riprendendo l’atmosfera del primo interludio.

Nella suite Britten ha invece impiegato quattro dei sei interludi (la Passacaglia l’ha isolata in un brano ad-hoc) disponendoli secondo un principio di opposizione luce-tenebre (o giorno-notte). Dapprima la coppia di brani diurni (LA minore e maggiore) e poi quella di brani notturni (MIb maggiore e minore). Significativo il fatto che le due tonalità (LA-MIb) siano separate da un inquietante tritono, figura musicale assai appropriata a rappresentare l’insanabile dissociazione fra la personalità ribelle e misantropa di Grimes e il perbenismo un po’ bigotto della società nella quale il protagonista vorrebbe integrarsi, essendone viceversa ripetutamente emarginato.

Marshall sta abbastanza... calmo per i primi tre brani, poi si scatena nell’ultimo, che non a caso evoca una tempesta, suscitando l’entusiasmo dei fedelissimi.
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Chiude il programma Die Seejungfrau di Alexander von Zemlinsky. La sua ispirazione alla novella di Andersen (La Sirenetta) è tanto dichiarata quanto labile, non avendo il compositore indicato precisi e dettagliati riferimenti sulla partitura (ne esistono però in appunti stesi durante la composizione). Antony Beaumont, che ha curato l’edizione critica della partitura (data per persa un secolo fa e poi fortunosamente ritrovata a pezzi qua e là e rimessa insieme) scrive nella prefazione all’edizione Universal che Zemlinsky avrebbe cominciato a comporre questa musica dopo la cocente delusione provata in seguito al fallimento della sua vicenda sentimentale con la giovane e bella Alma Schindlersua allieva che aveva stravisto per lui, sognando nientemeno che di dargli un figlio (!) ma che poi di punto in bianco lo piantò in asso per accasarsi con tale Gustav Mahler...  Mah, forse lui si sentiva come la sirenetta respinta dal principe (!?)    

A proposito di Principe, il grande Quirino, in un sapiente saggio pubblicato sul programma di sala (che mi permetto di riprodurre qui, sperando che nessuno chieda la mia testa per aver violato diritti) propone una plausibile associazione fra le note di Zemlinsky e il testo di Andersen.

L’opera, che reca l’attributo Fantasia in tre movimenti per orchestra da una novella di Andersen, è appunto tripartita (quasi fosse una sinfonia) e ci si sente tutta l’influenza della musica contemporanea (siamo a cavallo del secolo) a Zemlinsky, che in sostanza si rifà ad un nome ben preciso e conosciuto: Richard Wagner (cui ovviamente si accodano Strauss e Mahler) e più remotamente a Liszt e Berlioz.

Grazie al lavoro di Beaumont si possono oggi ascoltare due versioni dell’opera, che differiscono sostanzialmente nel secondo movimento: del quale era stata in un primo tempo ritrovata una versione riveduta dall’Autore, che ne aveva tagliato una parte (79 battute, 4-5 minuti di musica); parte scoperta successivamente fra le sue carte. Riccardo Chailly ha eseguito e inciso più volte la versione riveduta (qui con la Radio di Berlino); quella originale si può ascoltare in questa bella esecuzione finlandese di Storgårds (il taglio riaperto va da 22’45” a 27’15”).

A questo punto diviene spontanea la domanda: ma laVerdi quale versione ha suonato? Ebbene, ha suonato quella originale (con le 79 battute reintrodotte); ma, grazie ai tempi forsennati di Marshall, la durata ha eguagliato quella (ad esempio) di Chailly che invece taglia quelle battute.

Successo clamoroso e applausi ritmati: Marshall ringrazia facendo chiari cenni verso i ragazzi, come a dire: merito loro!

Sarà una pura combinazione, ma questa Seejungfrau è anche nel programma del prossimo concerto dell’OSN (su Radio3 sabato 3 novembre, 20:30).

22 ottobre, 2018

Semiramide rinasce in laguna


È tornata nella sua casa natale la più grande opera (escludendo magari il Tell) di Rossini. Dopo la prima di venerdi scorso (trasmessa da Radio3) ieri pomeriggio(-sera...) è andata in scena la seconda recita, in un teatro non propriamente esaurito.

Prima dell’inizio ho fatto un giretto nella Sala Ammannati per dare un’occhiata a quell’autentico cimelio ivi esposto in questi giorni: la partitura autografa dell’opera. E si prova una certa emozione nel contemplare da vicino quelle carte da musica sulle quali il genio pesarese vergò le strabilianti note del suo capolavoro. Note che hanno ancora riempito gli spazi della Fenice, proprio come accadde per la prima volta quel lunedì 3 febbraio del 1823.   

Sulle diverse bizzarrie del libretto, che il Rossi ricavò da Voltaire (peggiorandolo assai) ho già scritto la mia un paio d’anni orsono, in occasione di una produzione del Maggio, quando ho anche sintetizzato la struttura dell’opera, appoggiandomi ad un’esecuzione in terra vallone del padreterno Zedda (che insieme al co-padreterno Gossett approntò l’edizione critica per la Fondazione Rossini). E ciò che viene presentato oggi è la versione praticamente integrale del lavoro, come testimoniano ampiamente le quasi 4 ore di durata netta della rappresentazione, che eguaglia praticamente al minuto secondo (anche nei singoli atti) quella della citata edizione di Zedda. 
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Segnalo subito la recensione di Amfortas, che mi sento di condividere largamente nella sostanza. 

Di Riccardo Frizza - da bresciano tifo per lui - non posso dir che bene: non che non lo conoscessi, ma qui passava dal cockpit di un chessna a quello di un A380! Che ha guidato con grande sicurezza e padronanza della... materia. E l’Orchestra della Fenice lo ha pienamente assecondato, reagendo sempre con precisione e compattezza ai suoi comandi.

Ottima anche la prestazione del coro di Claudio Marino Moretti, che è impegnato (maschi e femmine) in misura quantitativamente (nulla è tagliato) e qualitativamente massiccia. 

Jessica Pratt è ormai una beniamina della Fenice ed ha ottenuto un gran trionfo. Personalmente, riconosciuta la sua strabiliante forma, torno a manifestare le mie perplessità sull’aderenza vocale del soprano anglo-australiano al ruolo di Semiramide. Qui non si tratta di fare impropri e impossibili paragoni con una tale Isabella, però ci son pochi dubbi che Rossini abbia scelto il personaggio proprio per il profilo chiaramente drammatico, che richiederebbe una voce diversa da quella adatta ad una Astrifiammante, per dire. E così la voce spiccatamente lirica e i MI naturali e MIb sovracuti che la Jessica ha splendidamente sciorinato fanno restare il pubblico a bocca aperta, ma non sono - sempre a parer mio - perfettamente appropriati alla personalità del ruolo-titolo: una femmina che - contrariamente a ciò che certa tradizione tramanda, di ninfomane incallita - per Voltaire e Rossi-Rossini è una fredda creatura avida di potere, e quasi di null’altro. Gli uomini sembrano interessarla solo come marionette da impiegare ai suoi fini: Assur per farsi aiutare da lui a far secco il marito che la stava ripudiando... adesso Arsace (che lei crede un proletario fedelissimo e pronto a tutto per lei) da nominare Re (travicello) solo per garantire a se stessa la perpetuazione del suo potere. 

Chi invece mi ha abbastanza impressionato è la Teresa Iervolino, un Arsace dalla voce morbida ed intonata, cui manca (ancora?) un po’ più di profondità e di robustezza. Purtroppo di Podles non ne nascono tutti i giorni, ma il contralto romano (non ancora 30enne) è sulla buona strada per emergere nel panorama musicale. 

Alex Esposito è un Assur sufficientemente autorevole: la sua voce è forse un filino troppo chiara (sempre per i miei gusti) ma lui compensa con la sua proverbiale presenza scenica. A proposito: la regista lo presenta dapprima con problemi di deambulazione (bastone da passeggio perennemente imbracciato) poi nel finale il nostro mostra doti addirittura da acrobata (?!) 

Il ragusano (trapiantato per l’occasione in India) Enea Scala se la cava discretamente come Idreno, parte affatto facile, sia detto, anche se gli acuti (fino al RE, peraltro) sembrano un po’ ghermiti... alla sperindio. La sua partner... poco convinta, Azema, è una Marta Mari ben dotata di mezzi naturali, che deve (come il tenore) mettere meglio a partito. 

Rimarchevole, soprattutto per presenza (un filino meno per portamento vocale, stante qualche berciata di troppo) l’Oroe di Simon Lim

Completano degnamente il cast il Mitrane di Enrico Iviglia e (invisibile ma... ampiamente controfigurato) Francesco Milanese che dà voce alla spaventevole ombra di Nino, che si aggira minacciosa a partire dalla fine del prim’atto. 
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L’allestimento della giovane Cecilia Ligorio è essenziale nella scenografia (di Nicolas Bovey) che nel primo atto si riduce a uno scorcio di banlieu di Babilonia, che funge da tempio di Belo e poi da reggia di Semiramide, con ampio sfoggio di ori e piante... pensili; e nel secondo si riduce ad una piattaforma circolare all’interno di una scena totalmente buia e nera, direi appropriata allo scenario generale, che vede il compiersi della tragedia. Che anche l’intermezzo (teoricamente) idilliaco della definitiva unione (e conseguente... scomparsa) di Azema e Idreno sia ambientato in questa specie di girone infernale non è poi del tutto fuori luogo: credo che da buona femminista la Ligorio abbia voluto sottolineare come per una donna il dover seguire un uomo controvoglia sia, appunto, un inferno (qui però la regista ha dato retta più a Voltaire che a Rossi-Rossini, per i quali la fanciulla parrebbe accontentarsi anche di uno che fa l’indiano). 

Le luci di Fabio Barettin si adeguano perfettamente alla duplicità dello scenario: abbaglianti per rendere al meglio lo sfarzo della sfolgorante Babilonia e poi... assenti o quasi nel second’atto. 

I costumi di Marco Piemontese sono un pot-pourri di stili, mode ed epoche, una maniera come un’altra per rappresentare degli archètipi, senza dare precisi riferimenti: si va da abbigliamenti più o meno plausibilmente babilonesi (il popolo del primo atto) a uniformi militari austro-ungariche (Idreno) ad acconciature da barbie (Semiramide, Azema) e Rasputin (Assur); al bizzarro vestimento guerresco di Arsace, per finire ai completi neri (cappelli inclusi) degli scagnozzi di Assur, un autentico branco di pipistrelloni. 

Non particolarmente eccitante la recitazione: salvo Esposito che ci mette del suo, gli altri paiono lasciati un po’ a se stessi e non è che brillino particolarmente. Brava la coreografa-ballerina Daisy Ransom Phillips con le quattro danzatrici che fungono da ancelle del gran sacerdote. 

In conclusione, uno spettacolo più che dignitoso, che il pubblico ha accolto con grande favore gratificando tutti e ciascuno di applausi e di bravi! Per me, una trasferta tutto sommato piacevole.

19 ottobre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°4


Sul podio dell’Auditorium (ieri assai poco... frequentato, a dir il vero) fa il suo gradito ritorno Kolja Blacher, come spesso nella duplice veste di direttore e solista in un concerto assolutamente classico, ma con un intermezzo... famigliare: fra Beethoven e Mozart compare infatti il papà del musicista tedesco.

Il quale, dopo averci suonato quelli di Schumann (2011) Brahms (2016) e Mendelssohn (febbraio scorso) ci ri-propone (a distanza di 18 anni!) il monumentale Concerto per violino di Beethoven.

Come di consueto, l’approccio di Blacher è caratterizzato da teutonica rigorosità: quindi totale rispetto della lettera, oltre che dello spirito, del brano, e nessun cedimento a facili quanto discutibili gigionerie. Insomma, è proprio tutto Beethoven! Salvo che nelle cadenze, soprattutto la prima, dove il nostro si scatena in un fantastico duetto con i timpani della Viviana, una cosa invero memorabile.   
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Arriva ora la parentesi domestica: la prima esecuzione italiana di Pentagramm, una specie di sinfonia da camera (16 archi previsti in organico) composta nel 1974 dal padre di Kolja, Boris, in omaggio alla berlinese Philharmonie, dove fu eseguita per la prima volta dai Berliner nell’ormai lontano 1975.



Ecco come il figlio descrive l’opera del padre:

Boris Blacher compose Pentagramm nel 1974 (un anno prima della sua morte) appositamente per i Berliner Philarmoniker. L’ispirazione gli fu data, idealmente, dalla
Philaharmonie, la sala da concerto dei berlinesi, un edificio molto particolare che fin dalla sua inaugurazione (1963) è diventato uno dei simboli della capitale tedesca. Nota
anche come “Circus Karajani”, il suo interno è stato progettato dall’architetto Hans Scharoun, amico del compositore, a forma pentagonale e mantenendo il palco come elemento centrale. Da qui l’idea del titolo Pentagramm. Il brano fu eseguito per la prima volta nell’aprile del 1975 dai Berliner Philharmoniker, tre mesi dopo la morte del
compositore. 

Oggigiorno questa composizione, per molti aspetti estremamente interessante, viene eseguita - purtroppo - molto raramente, soprattutto rispetto al piu noto, e per certi versi somigliante, brano per 12 violoncelli (Blues, Espagnola & Rumba, ndr) composto un paio di anni prima. Elaborata per un organico strumentale che prevede il solo impiego di 16 archi, e caratterizzata da una scrittura che si ispira ad uno stile musicale tardo, molto asciutto, in cui ritroviamo l’utilizzo sia della tecnica del canone inverso “a specchio” sia del canone retrogrado

Nel primo movimento il compositore fa suonare gli archi come fossero delle percussioni
(Blacher fu pioniere in questa tecnica), tamburellando sul corpo dello strumento.

Il secondo movimento è invece tipico del suo modo di sentire la musica: introverso ma allo stesso tempo molto espressivo. Reminiscenze dei suoi primi anni in Cina, in Manciuria, e della Siberia vengono interpretate dagli “a solo” dei violini e dei violoncelli.

Il terzo movimento è anch’esso peculiare dello stile di Blacher, poichè influenzato da un ritmo di 7/8 in continua progressione tipico della musica jazz.

Il quarto movimento è di nuovo un “lento”. Inizia con un ostinato-pizzicato che crea un
effetto di sospensione e dà la sensazione che “il tempo si sia fermato”.
  
Subito abbiamo una conferma alla descrizione di Blacher: a dispetto della presenza sul palco di soli archi (4+4+3+3+2) il brano inizia - e poi proseguirà e si concluderà - con interventi di... percussioni, presenti in incognito nella forma delle casse acustiche, sulle quali si abbattono i polpastrelli degli strumentisti. Brano che ha un andamento curvilineo, dal lento si muove verso il veloce, che culmina nel terzo movimento, per poi tornare a calmarsi. Le quattro prime parti hanno anche modo di esibirsi in difficili passaggi solistici.

Che dire: sono 24 minuti di musica a tratti ostica, in altri più digeribile, che il pubblico accoglie come si suole in casi simili: applausi di cortesia.
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Mozart chiude la serata con la Sinfonia Haffner. Già il collocarla a chiusura del concerto fa capire quanta importanza le dia Blacher, al contrario di ciò che fanno altri Direttori, che magari la impiegano come antipasto. Effettivamente è una sinfonietta (derivata infatti da una precedente Serenata) ma già contiene i germi dei lavori della maturità.

Blacher, come fa spesso in questi casi, si siede al posto del Konzertmeister (spingendo Santaniello alla sedia di concertino) e dà gli attacchi con il... corpo. L’esecuzione è leggera, ma non leziosa, vibrante ed effervescente, con il languido intermezzo dell’Adagio.

Accoglienza calorosa per una proposta che merita più... attenzione (ma gli assenti di ieri hanno ancora due giorni per rimediare).

17 ottobre, 2018

Mozart acerbo in salsa barocca


Dopo averci proposto un’opera di un compositore ormai andato troppo in là con la maturazione (Cherubini, AlìBabà) ecco che la Scala, per riequilibrare la situazione, ce ne ha offerta una di un compositore ancora assai lontano dalla maturità (Mozart, La finta giardiniera): così la media è ristabilita, ma il risultato è che ci siamo dovuti sorbire due lavori non propriamente entusiasmanti... cose da festival, come infatti succede per questo spettacolo importato da Glyndebourne e approdato ieri sera alla terza delle sette recite in programma, non privo di qualche manipolazione, tipo spostamenti di arie e tagli ai recitativi.

Aspetti decisamente problematici sono la piattezza (appunto) dei recitativi e la prolissità di buona parte dei numeri, criticità che fanno quasi annegare le parti pur mirabilmente ispirate della partitura (dove si prefigura il Mozart che tutti... conosciamo). Mi permetto di aggiungere come l’approccio barocchista di Diego Fasolis (magari filologicamente corretto) forse non sia il più adatto a mettere in risalto le qualità dell’opera. Poi ci si è messa pure la sfiga che ha costretto la protagonista Hanna-Elisabeth Müller a mimare il suo ruolo alla prima di lunedi scorso, mentre la voce (della Martin du Theil) veniva dalle quinte; e poi a disertare la seconda, per cantare finalmente ieri sera.

E direi che non abbia cantato male, così come la travestita Lucia Cirillo e il convincente Mattia Olivieri. Gli altri su discreti standard, con qualche bercio di troppo da parte di Kresimir Spicer.

Frederic Wake-Walker (di cui avevamo apprezzato... con riserve le sue Nozze di un paio d’anni fa) propone una messinscena brillante e spiritosa (ne è testimone il finale davvero azzeccato) ma sa anche ben rendere le atmosfere da tregenda del second’atto.
    
Pubblco abbastanza folto, ma piuttosto parco di entusiasmi, salvo l’accoglienza divertita alla calata del sipario. Qualche minuto, non di più, di applausi per tutti.

13 ottobre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°3


Anche laVerdi non poteva trascurare la ricorrenza dei 150 anni dalla morte di Rossini, così questo terzo concerto della stagione è incentrato su una delle opere non teatrali del genio pesarese, il grandioso Stabat Mater. E per l’occasione si è stabilito anche un sodalizio fra l’Orchestra e il Rossini Opera Festival, precisamente con l’Accademia Rossiniana “Alberto Zedda”, la fucina di voci rossiniane creata e diretta (fino all’ultimo suo respiro!) dal venerabile maestro milanese che a Rossini ha dedicato l’intera sua esistenza. Della quale Accademia sono qui rappresentanti le voci soliste che - insieme al Coro di casa di Erina Gambarini (che festeggia i suoi primi vent’anni) e agli strumentisti guidati da Claus Peter Flor - danno vita alla serata.
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In un Auditorium preso d’assalto la serata è stata aperta dalla Trauer Symphonie (la n°44) dell’imparruccato - ma innovatore - Josephus Haydn, il quale tolse il disturbo proprio mentre un 17enne Gioachino stava per spiccare il volo verso la stratosfera... non prima però di aver approfondito gli studi delle opere di Mozart e, appunto, di Haydn, autore a sua volta di un sommo Stabat Mater (da qui l’appellativo di tedeschino affibbiato al ragazzo). A proposito di influenza di Mozart e Haydn su Rossini mi permetto di segnalare un acuto studio (una tesi di dottorato di laurea) di Federico Gon, che pochi mesi fa è stato ospite in Auditorium in veste di compositore... tardoromantico. 

L’accostamento di questa sinfonia con lo Stabat rossiniano ha quindi una valenza squisitamente musicale e non è certo da intendersi come omaggio funebre al grande Gioachino, cosa che si potrebbe arguire essendo stata la Sinfonia coloritamente quanto apocrifamente definita funebre... ma senza altro appiglio che il desiderio - espresso in tarda età dal compositore - di farne eseguire l’Adagio ai suoi funerali. Poichè per il resto poco o nulla si incontra nell’opera che richiami un mortorio, e la tonalità minore non basta a definire funebre un brano musicale (a nessuno viene in mente di affibbiare questo appellativo alla K550 di Mozart, per dire). Lo stesso Adagio è in tonalità maggiore, ed esprime serenità e pace, atmosfere che il vecchio Haydn si augurava evidentemente di trovare all’aldilà... ma a 35 anni di distanza dalla composizione di quella musica, partorita quando era 40enne nell’accogliente bambagia di Esterháza! 

Sinfonia, come detto, che contiene germi di innovazione rispetto agli standard classici settecenteschi, oltre a scelte piuttosto coraggiose, come il piano tonale che rimane costante per l’intera sinfonia, gravitando sempre sul MI minore e sulle due relative maggiori: MI e SOL. Tutti i movimenti sono sostanzialmente monotematici; il Menuetto è anticipato in seconda posizione, spostando quindi l’Adagio in terza. La compagine orchestrale è assai ridotta, al tempo Haydn faticava ad avere 20 strumentisti, quindi si tratta quasi di musica da camera
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Proviamo a seguire il brano come interpretato da Christopher Hogwood con la sua Academy of Ancient Music (diapason a 415 o giù di lì). 

L’Allegro con Brio è in MI minore (4/4) e si apre con l’esposizione del tema, che è costituito da due sezioni: la prima di carattere stentoreo, una sorta di motto di sole 4 battute e la seconda (8”) più cantabile, di 8 battute, che chiude sulla dominante SI. Il tema viene ripetuto (22”) ma in forma variata: alle 2 prime battute del motto segue (26”) una progressiva transizione di 5 battute verso la tonalità relativa di SOL maggiore, dove il motto (35”) è esposto dagli archi bassi, mentre il resto degli archi e gli oboi si sbizzariscono in veloci figurazioni di crome e semicrome. L’esposizione rimane in SOL maggiore, con riapparizione del tema (1’12”) seguita da una lunga cadenza che si chiude sul SI, dominante del MI con cui viene ripetuta (col canonico da-capo) l’esposizione (1’47”). 

Esposizione che si chiude (3’33”) per dar spazio allo sviluppo. Che si apre con il motto esposto dapprima in SI minore e poi (3’41”) in LA minore, seguito dalla sezione cantabile che sfocia in una modulazione (3’56”) a DO maggiore dove ricompaiono le veloci quartine di crome e semicrome degli archi, che modulano dapprima (4’14”) a RE maggiore e poi (4’22”) al SOL maggiore, per tornare infine al MI minore per la ripresa

Che inizia allorquando riudiamo (4’41”) il tema, motto più sezione cantabile che si amplia quasi fosse un nuovo sviluppo, ed è seguita (5’07”) dalle 5 battute di transizione e poi (5’16”) dalle folate dei violini. Le quali portano (5’28”) ad una ricomparsa del motto, cui segue un cadenza che sfuma sorprendentemente (5’50”) in un accordo di settima diminuita negli archi (RE#-FA#-LA-DO) con tanto di corona puntata

Inizia ora (5’54”) la coda, con il motto in MI minore negli archi bassi e viole, sommessamente contrappuntato in canone alla dominante dai violini. A 6’06” sono ancora le veloci figurazioni dei violini a portare il movimento alla conclusione (6’24”) Ma Haydn qui ci fa un bello scherzetto: mette il da-capo anche all’intera sezione sviluppo-ripresa-coda! Se lo si rispetta - come fa Hogwood - il primo tempo chiude a 9’16”

Il Menuetto (3/4, Allegretto) rimane nella tonalità di MI minore. Il suo tema (9’22”) occupa 16 battute ed è esposto a canone (ritardo di una battuta) da violini, poi celli-bassi (un’ottava sotto, da cui l’indicazione Canone in Diapason) e quindi viole, sfociando nella relativa SOL maggiore. Viene canonicamente ripetuto (9’40”). La seconda sezione (9’58”) ripropone il tema in SOL maggiore, ma subito torna a MI minore. Per spegnersi sulla dominante SI (10’15”). Ora troviamo un nuovo soggetto, variante del tema, che chiude la sezione (10’45”) da ripetersi.come la prima. Il Menuetto si conclude quindi a 11’33” 

Ecco il Trio in MI maggiore, con la sua prima sezione che chiude sulla dominante SI (11’46”). Sezione ripetuta e seguita poi (11’59”) dalla seconda, sempre in MI maggiore, fino a 12’17”, anch’essa ripetuta: il trio chiude quindi a 12’34”. Qui riprende il Menuetto, dove Hogwood (contrariamente alla prassi moderna) esegue le ripetizioni di entrambe le sezioni. Menuetto che chiude quindi a 14’42”

Passiamo ora (14’49”) al mirabile Adagio, 2/4 in MI maggiore, strutturato su due sezioni (entrambe da ripetersi). La prima inizia con un dolcissimo tema esposto dai violini con sordina, seguito (15’13”) da una sua variante tutta puntata, chiusa (15’34”) da un crescendo che porta la tonalità (15’46”) alla dominante SI maggiore, con il ritmo dettato da continue terzine, che chiudono questa sezione (16’45”) poi ripetuta fino a 18’38”

Ecco poi la seconda parte, che rimane inizialmente in SI maggiore per poi tornare perentoriamente (19’26”, intervento del corno) al MI maggiore, con il persistere delle terzine che portano (protagonista ancora il corno) alla chiusura della sezione (20’44”) che viene ripetuta fino a 22’53”

Il Finale (Presto, 4/4 alla breve, MI minore) è suddiviso in due sezioni e si apre (22’58”) con il tema principale, tutto in staccato e con ritmo concitato. Il tema viene ripreso subito (23’04”) un’ottava sopra, fino a raggiungere (23’12”) in forte la relativa SOL maggiore. A 23’50” il suono si dirada assai per il ritorno a MI minore, che conduce alla chiusa (23’56”) della prima sezione, che viene ripetuta (fino a 24’52”). 

La seconda sezione sviluppa il tema principale, in MI minore, con escursioni a SOL e MI maggiore (si fa notare il corno). Dopo una teatrale cadenza (26’03”) si arriva rapidamente alla conclusione (26’19”). Anche la seconda sezione prevede il da-capo
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laVerdi non eseguiva questa sinfonia da più di 11 anni. Flor è più ricco di Haydn e così, anche per meglio riempire lo spazio sonoro dell'Auditorium che dev'essere ben più vasto di quello delle sale di Esterháza, rimpolpa assai gli archi, disposti alla tedesca, con i violini secondi al proscenio.

Approccio del Direttore assai rispettoso della lettera della partitura (rigorosamente rispettati ed eseguiti tutti i da-capo!) e piuttosto lezioso, con qualche gigioneria corporea (mossette, ammiccamenti vari) esibita proprio nell’Adagio che il vecchio Haydn desiderava suonato al suo funerale! Ma va bene così, e il pubblico non ha lesinato applausi convinti.
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Ed eccoci allo Stabat, che è alla sua settima comparsa in stagioni de laVerdi (l’ultima meno di tre anni fa sempre con Flor sul podio in un Audiorium meno affollato). Invece al ROF è stato eseguito in ben 13 edizioni, a partire dal 1981, l’ultima nel 2017 (qui da me commentata) quando cantò Salome Jicia, originariamente scritturata per questo concerto, ma poi rimpiazzata da Aleksandra Sennikova.

Flor non ha cambiato una virgola rispetto alla precedente esecuzione per ciò che riguarda la disposizione degli strumenti e delle voci, con trombe e tromboni all’estrema destra, legni all’estrema sinistra e solisti a sinistra del podio.

Mentre il coro della Gambarini ha sciorinato le sue ottime qualità, i 4 solisti non hanno particolarmente brillato. Discreti il basso Roberto Lorenzi (cui manca però un pizzico in più di profondità) e il mezzo Valeria Girardello, buona intonazione e voce abbastanza corposa. Shanul Sharma ha una voce proprio piccola, anche se bene impostata; non ha però avuto difficoltà sul REb acuto del Cujus animam. La Sennikova, oltre alla vocina pigolante, mostra la corda negli acuti, dove il timbro diviene francamente sgradevole.

Ma a dispetto di ciò il successo è stato grande per tutti e il pubblico se n’è uscito in questa notte ancora tiepida con il sorriso sulle labbra.

04 ottobre, 2018

Il futuro del teatro musicale italiano, secondo Isolde


No, Tristan non c’entra (o c’entra da lontanissimo...) ma è Paolo Isotta il soggetto di questo post.

Il nostro ha scritto ieri sul benemerito (complimento mio personale) Il Fatto Quotidiano un autentico libello contro la situazione attuale del teatro musicale in Italia.

Già il titolo la dice lunga:

Abbassiamo subito tutti i sipari. Per 5 anni


La premessa è lapidaria:

Attorno a me non vedo che desolazione, rovine, e un livello artistico e culturale così abietto da toglierti per sempre la voglia di andare all’Opera. 

Poi ci fa sapere a cosa, secondo lui, dovrebbero servire le Fondazioni lirico-sinfoniche:

...Come i musei, le gallerie, i monumenti. Ma questi sono tenuti in vita per preservare e offrire al pubblico il più ricco patrimonio artistico mondiale, quello della civiltà italiana. L’essenziale fisionomia di questo patrimonio d’arte e di cultura si completa solo con la musica. La sola ratio per la quale le Fondazioni ricevano le centinaia di milioni di euro loro destinati sarebbe che fossero i musei della civiltà musicale, italiana in primis, mondiale poi.

E invece, ecco come siamo messi (sempre selon Isolde):

I teatri servono in gran parte per le demenziali masturbazioni dei registi (Michieletto, De Rosa, etc), lodati da quei marchettisti dei cosiddetti critici musicali che nessuno legge più e hanno a disposizione spazi irrisori su giornali che nessuno legge più.

E chi va a teatro? e chi li governa, i teatri?

A teatro vanno solo sfaccendati, pensionati, vedove benestanti, che non capiscono nulla e applaudono sempre; o turisti ancor più ignari. Non conosco un sol soprintendente che abbia un minimo di cultura e persino di intelligenza: sono solo furbastri, capaci di galleggiare e animati da cupiditas serviendi persino quando non ne ricavano utile.

Ci sono anche nomi e cognomi di buoni e cattivi:

In tutti i teatri italiani esistono solo tre direttori artistici competenti e colti (posso fare i nomi: Meli, Nicolosi, Vlad) ma sovente sono costretti a fungere da segretari artistici a sovrintendenti che o preferiscono farsi preparare le compagnie dalle agenzie o fanno lavorare i raccomandati di Nastasi – o, adesso, il figlio della Casellati. 

Ora le proposte radicali:

Paghiamo i dipendenti lasciandoli a casa fino alla pensione. Si risparmierebbe su tutto il resto.

e infine:

Ma chiuderli tutti (i teatri, ndr) e subito. Per cinque anni. Poi, scrivere una nuova legge che li consideri musei, non circhi equestri, impedendo che diventino il ricettacolo di Nino D’Angelo, Alessandro Siani, Maradona, Bellavista…. Musei con lo scopo di far conoscere il patrimonio della cultura musicale.

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Beh, la terapia sarà pure contestabile, ma - secondo me - la diagnosi non è proprio così sballata...