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da stellantis a stallantis

27 giugno, 2018

Pirati sbarcano al Piermarini


È in arrivo alla Scala l’opera che proprio qui, nel lontano 1827, lanciò un giovane catanese di belle speranze, tale Vincenzo Bellini, nel gran mondo del melodramma: era la sua terza fatica, dopo DiMaioAdelson&Salvini e Bianca&Gernando. Opera che non si rappresenta al Piermarini da più di 60 anni (fu nel maggio 1958 con un cast - per quei tempi - stellare: Corelli, Callas e Bastianini).

Il soggetto, mutuato da un lavoro francese, a sua volta ripreso dall’originale albionico (storie del pirata Bertram) si muove in uno scenario pseudo-storico: la Sicilia del 1200 (quella, per intenderci, dei Vespri...) contesa fra gli Angiò (che avevano scacciato gli Svevi di Manfredi) e gli Aragonesi. Ma questo scenario resta del tutto sullo sfondo, essendo il libretto incentrato sulla vicenda sentimentale che coinvolge il classico triangolo tenore-soprano-baritono. Vicenda della quale l’opera presenta soltanto il tragico epilogo (tutti e tre i vertici del triangolo passano, più o meno, a miglior vita) che matura in soli due giorni separati da una notte. Per meglio orientare lo spettatore, che potrebbe capire ben poco della trama dalla semplice lettura dei versi cantati, il librettista Felice Romani li corredò di un Avvertimento, premesso in calce al testo dell’opera (pag.4) in cui vengono presentati gli antefatti (pseudo-)storici, oltre che sentimentali dell’azione.

Azione che non scarseggia di sicuro, a cominciare da un mezzo-naufragio cui assiste sgomento il coro (si anticipa qui l’incipit di Otello); il puro caso - che determina il 90% di ciò che avviene nei libretti dei melodrammi - fa sì che lo sconfitto Gualtiero approdi precisamente a casa del suo acerrimo rivale, Ernesto. Chissà come, in quella casa c’è anche la sua amata, Imogene. Che lui crede ancora illibata, e invece scopre che si è venduta proprio ad Ernesto (sotto ricatto, per la verità). Così se la prende pure con la poverina, che ancora lo ama, ma il suo assurdo atteggiamento comincia a far maturare in lei i segni della pazzia che la coglierà alla fine. Sbollita l’ira verso la donna, Gualtiero le propone di fuggire con lui, ma Imogene, per amore del figlio e rispetto del (pur non amato) consorte, rifiuta.

Così, dopo la scena del trionfo decretato per il vincitore Ernesto, ecco l’inevitabile scontro fra i due rivali, che vede soccombere il duca padrone di casa e che costa a Gualtiero una condanna a morte. La bella Imogene, perso il marito e in procinto di perdere pure l’amante, dà fuori di matto. E qui finisce, con la sua celebre aria (Col sorriso d’innocenza) l’opera come la si vedrà nei prossimi giorni.

Ma in realtà esiste un finale originario, la scena 13ma ed ultima del second’atto (vedi pag.34 del testo citato). Dopo le prime trionfali esecuzioni scaligere, Bellini si convinse ad espungerla, e così essa sparì dalle successive edizioni del libretto e dello spartito: da allora in poi l’opera termina appunto con la Scena XII e la delirante esternazione di Imogene chiusa dal verso D’orrore morrò (accompagnato dal coro femminile) seguito da 8 battute orchestrali in FA maggiore, a dir poco travolgenti, che invariabilmente portano il pubblico al delirio, lasciandolo però del tutto ignorante di come la vicenda si chiuda.

Ignoranza scongiurata invece nel finale originario, dove alla scena suddetta seguiva quella del suicidio di Gualtiero (che pure i compagni pirati erano arrivati per liberare, aprendogli quindi la prospettiva di godersi finalmente la sua - pur usata - Imogene) e il tracollo di lei fra le braccia delle sue dame. Di certo una conclusione più compiuta del dramma, ma che - dopo la spettacolare aria della protagonista - appare quasi un passo indietro, una debolezza proprio dal punto di vista musicale (e così dovette apparire allo stesso Bellini). Di tanto in tanto il finale originario viene riproposto, come in questa edizione del 2003, protagonisti Nelly Miricioiu e Stefano Secco con l’orchestra del Concertgebouw diretta da Giuliano Carella: eccolo qui, a partire dalla chiusa dell’aria di Imogene (Oh sole! Ti vela di tenebre oscure...) accolta da fragorosi applausi (sui quali normalmente cala il sipario) che tuttavia si devono spegnere per far posto (a 2’28”) ad altri 3 minuti scarsi di musica, francamente discutibili. 

Appuntamento a venerdi 29, ore 20, su Radio3, per la trasmissione in diretta della prima.

22 giugno, 2018

Un ragazzino sul podio scaligero per l’addio di Mahler


Herbert Blomstedt, 91 anni fra 20 giorni, è salito questa sera sul podio del Piermarini per dirigervi la Nona mahleriana (repliche sabato e domenica, che suggerisco ai distratti di far carte false pur di non perdersele...)

Forse nessuno può interpretare lo spirito e l’interno programma dell’ultimo lascito di Mahler meglio di chi è sopravvissuto di 40 anni (per ora... non mettiamo limiti alla provvidenza) rispetto all’età che aveva l’Autore alla sua morte. Perchè questo venerabile svedese (nato peraltro nel Massachussets poco prima della crisi del ’29) ne ha potuto metabolizzare al massimo i contenuti e i tesori nascosti: consiglio a tutti di ascoltare questa sua intervista su Mahler (con divagazioni su Bruckner e Sibelius... dove il nostro ne ha per molti, persino per uno dei suoi maestri, Lenny Bernstein) che è rivelatrice del suo approccio, oltre che delle circostanze che lo avvicinarono - proprio all’età in cui Mahler aveva da poco completato la Nona - al compositore boemo.

L’allampanato Herbert dimostra si e no due terzi della sua età, da come si muove fuori dal podio. Sopra il quale invece riduce i movimenti all’essenziale: niente bacchetta, ma le lunghissime dita fanno delle sue mani due affilate spade che fendono l’aria dettando tempo e attacchi con infallibile precisione. Il suo sarà pure un gesto antiquato, ma anche un profano capisce se ciò che si suona è in 4 o in 3, perbacco!

Quanto alla lettura di questo autentico testamento in musica (per me paragonabile ad altri testamenti, dalla bachiana Die Kunst der Fuge, passando per il Requiem mozartiano, la beethoveniana Große Fuge, la Nona di Bruckner...) essa ha la nordica freddezza di chi cerca la verità nelle note e non nella biografia dell’Autore. Ma è la stessa freddezza del ghiaccio secco che, posto repentinamente a contatto con la pelle, te la brucia più che se fosse un tizzone ardente.

Difficile descrivere o esprimere ciò che si prova di fronte a musica che è un vero distillato di suoni che paiono provenire da spazi siderali (l’aldilà?) o che torturano la tonalità fino quasi a stravolgerla, ma senza mai rinnegarla. L’addio alla vita e/o l’addio ad una musica che dopo tre secoli sembrava (apparentemente) arrivata al capolinea? Ciascuno può sentirci cose diverse e tutte plausibili, Blomstedt probabilmente si schiera con la seconda interpretazione (lui del resto ammette di nascere con Bach) ma il risultato della sua lettura si colloca sulle più alte vette dell’interpretazione musicale.

Un altro nordico, Salonen, allora ben più giovane di Blomstedt, aveva diretto qui nel Piermarini la stessa opera più di 8 anni fa, lasciandomi un ricordo indelebile, pari a quello legato alla visita di Abbado a Firenze a fine 2011. Ecco, tra le diverse ascoltate dal vivo, mi piace accomunare queste tre interpretazioni, ciascuna con le sue diversità e peculiarità, ma tutte approdate ad un unico risultato: l’indicibile emozione che si prova ascoltando questi suoni.

Inutile dire del grandioso trionfo che il pubblico ha decretato per Direttore e strumentisti. Ripeto: chi appena può, non perda una delle due prossime repliche.

Fidelio redivivo alla Scala


La produzione che aprì a SantAmbrogio la stagione 14-15 viene ripresa in questo periodo alla Scala: dove ieri è andata in scena la seconda recita di Fidelio. Immutata ovviamente la regìa della Warner, che compie 17 anni (la regìa, of course...) mentre è tutto cambiato nei protagonisti canori e nella guida musicale. Sulla messinscena mi limito quindi a link-are il mio commento di allora, non avendo nulla da aggiungere o emendare; mentre ovviamente sarà da articolare diversamente, rispetto ad allora, il giudizio sulla resa musicale.

Parto da un’osservazione riguardo la scelta dell’Ouverture: Barenboim ai tempi aveva - scelleratamente, per me - rispolverato la Leonore 2, in base a considerazioni francamente peregrine e tipiche di chi vuol entrare nel Guinness-dei-primati in fatto di bizzarrìe. Orbene, l’ascetico Chung ha deciso diversamente, rimpiazzando la Leonore 2 con la più celebre (perchè immensamente migliore!) Leonore 3. Il che però rappresenta solo un mezzo passo in avanti: pochè si tratta pur sempre di un travisamento bello e buono della definitiva volontà di Beethoven, che compose l’Ouverture Fidelio e mai più tornò sui suoi passi, anche perchè l’opera, con quell’Ouverture, è entrata a pieno titolo nella storia della musica, prima ancora che nel repertorio di tutti i teatri del pianeta. Insomma, da Chung mi sarei aspettato più... rispetto, ecco.

A parte ciò, il Maestro coreano ha confermato tutta la sua classe, con una lettura ispirata, anche se non scevra (per i miei gusti) da taluni eccessi di sostenutezza che avevano caratterizzato anche quella di Barenboim. Da incorniciare comunque proprio due momenti di sospensione attonita dell’atmosfera: il quartetto del primo atto (Mir ist so wunderbar) e l’estatico passaggio del finale (O Gott! Welch’ ein Augenblick!) da far venire il magone. Ma tutto è stato degnamente proposto, dal coro dei prigionieri alla rabbrividente introduzione allo sfogo di Florestan, dalle violente esternazioni di Pizarro alle paternali di Rocco. Qualche riserva l’avrei proprio sull’Ouverture, dove il bilanciamento archi-ottoni mi è parso carente (a tutto sfavore dei primi). Per il resto l’Orchestra ha risposto bene, e come e meglio di lei ha fatto il Coro di Casoni, che è chiamato a finezze celestiali (nel primo atto) e poi a impervie scalate da sesto grado superiore nel finale, non meno impegnativo di quello dell’An die Freude.  

Note così-così sul fronte delle voci. La protagonista Leonore/Fidelio, Ricarda Merbeth, che avevo ascoltato a Torino nello stesso ruolo nel 2011, purtroppo non mi pare abbia fatto progressi da allora; e se sette anni fa era promettente, oggi, ahilei, sta cominciando a deludere: centri e gravi poco udibili e acuti sbracati, stessa impressione fattami un anno fa sempre a Torino in Isolde. Il suo marito salvato Florestan, al secolo Stuart Skelton mi ricorda (per l’origine australiana e il fisico, ma un po’ anche nella voce) tale Ian Storey che proprio a Torino aveva dignitosamente affiancato la Merbeth. Ieri si è onorevolmente guadagnato la pagnotta (quella che gli porta Leonore giù nella cisterna, perlomeno...)

Passabili i due personaggi leggeri dell’opera: la Marzelline di Eva Liebau, cui fanno difetto un po’ di decibel nell’ottava bassa, e il patetico Jaquino di Martin Piskorski, voce squillante e ben impostata. Il Rocco di Stephen Milling se la cava discretamente, facendo sempre emergere la sua voce autorevole in ogni circostanza (leggi: aria, terzetti, quartetti e concertati). Alla sua altezza anche il Pizarro di Luca Pisaroni: il basso-baritono venezuelano interpreta abbastanza efficacemente il ruolo del cattivone di turno, cui forse musicalmente fa proprio difetto un po’ di cattiveria in più...

Onesta la prestazione di Martin Gantner (il Ministro salvatore) e degne di menzione le brevi apparizioni solistiche dei due membri del Coro scaligero, il tenore Giuseppe Bellanca e il baritono Massimo Pagano

Che dire in conclusione? Qualcosa di meglio rispetto a 4 anni fa, ma niente da ricordare negli annali, ecco. Altra nota dolente: il teatro con vistosissimi vuoti. Per contro i rari-nantes non hanno fatto mancare applausi per tutti.

15 giugno, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°31

                          
Il concerto che chiude la stagione principale de laVerdi è interamente dedicato a Robert Schumann, del quale ascoltiamo un brano strumentale, un concerto solistico e una sinfonia. Protagonista sul podio e nel ruolo di solista il residente Domenico Nordio. Il quale rinuncia alla bacchetta ma (certamente per la prima volta in Auditorium, ma forse anche in assoluto) invece delle consunte partiture cartacee si serve di un tablet che sfoglia con il polpastrello di un dito della mano (quando non deve suonare) oppure con un bluetooth-remote-control (in sostanza, un mouse azionato dai piedi) quando le mani sono impegnate ad imbracciare violino e archetto. Evviva la tecnologia!

Programma che ricorda da vicino quello diretto ormai più di 7 anni fa dal compianto sir Neville Marriner, anch’esso completamente dedicato a Schumann, ma con il più famoso concerto per pianoforte al posto di quello per violino. Questa volta il percorso tonale dei tre brani retrocede curiosamente dal MI al RE per chiudere sul DO.

Si apre con Ouverture, Scherzo e Finale, una specie di Sinfonia dei primordi (à la Schubert, in 3 movimenti) che tuttavia non manca di ispirazione moderna e di una solida struttura formale. Nell’Ouverture Nordio fa emergere i contrasti fra l’introduzione lenta e i due temi principali; nello Scherzo tiene un tempo non troppo agitato e poi lascia correre il Finale (senza risparmiarci la ripetizione dell’esposizione dei due temi) fino alla stentorea chiusura in MI maggiore. Davvero un’esecuzione pregevole che mette in mostra i pregi di questa partitura (per Schumann sperimentale) ancor oggi poco valorizzata.
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Ecco quindi il Concerto per violino, opera postuma, e di fatto un concerto maledetto, anche a causa dell’eccesso di invenzioni romanzate che si sono diffuse relativamente alla sua composizione e poi alla sua riscoperta. Creazione che avvenne quando Schumann era in piena attività professionale e quando ancora la malattia mentale che lo avrebbe portato alla fine non era entrata nella fase critica, pur essendo latente ormai da almeno 10 anni. Ma la leggenda metropolitana si è inventata di tutto, compresa l’individuazione della presunta causa della pazzia del compositore e così qualcuno si spinge addirittura a scrivere di suono sifilitico a proposito della musica del concerto. Che lo stesso dedicatario Joachim si rifiutò di eseguire in pubblico ed anzi del quale tenne nascosta la partitura fino alla sua morte. (Del resto non si sente spesso dire che anche gli ultimi quartetti di Beethoven sono opere di un pazzo?)

Poi nel 1933 Schumann sarebbe comparso nel bel mezzo di una seduta spiritica (!) a reclamare la pubblica esecuzione del suo concerto, che nel 1937 fu aspramente contesa fra USA e Germania (no, non credete a chi vi racconta che questa fu la causa scatenante della WWII...) Sta di fatto che i nazisti ne fecero una questione di Stato e imposero che la prima avvenisse in Germania, così fu Georg Kulenkampff a suonare e poi incidere per primo il concerto, seguito a distanza da Yehudi Menhuin.

Nordio è uno dei pochissimi violinisti italiani a cimentarsi con quest’opera derelitta: prima di lui Uto Ughi e prima ancora (ne fui testimone ocu/aurico-lare) la leggendaria Pina Carmirelli. Un collega di Nordio (ha 10 anni più di lui) che come lui alterna e/o coniuga il podio allo strumento solista, Thomas Zehetmair, circa 30 anni fa ha operato una revisione del Concerto che ha eseguito anche di recente con la radio finlandese. In Auditorium il pezzo è alla sua quarta presenza (la precedente con un altro versatile musicista, Kolja Blacher) il che testimonia dell’attenzione che laVerdi gli dedica da sempre.

Devo dire che Nordio, rispettando in pieno le indicazioni agogiche in partitura (che sono quelle che rendono il concerto indigeribile, secondo molti) ha invece pienamente valorizzato (ovviamente è una mia opinione) i tesori nascosti di questo brano: per dire, la sostenutezza del tempo della polacca del terzo movimento, notoriamente irrisa dai puristi con la puzza al naso, che ne reclamano la trasformazione in carica dei bersaglieri, ieri sera - grazie all’equilibrio mirabile creatosi fra solista e orchestra - ha mostrato tutta la sua accativante bellezza, che il pubblico non oceanico dell’Auditorium ha accolto con grande calore.
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Si chiude con la Seconda Sinfonia, e qui entriamo in clima di festa di fine anno scolastico. Lo dico in senso assolutamente buono, per carità, e nulla di scandaloso è accaduto. Parlo però di certi effetti plateali (strappi all’agogica e alla dinamica) che servono ad eccitare gli animi e a suscitare entusiasmi. Encomiabile ovviamente la prestazione dei ragazzi che (dopo le prossime due repliche del concerto e la presenza al Castello sforzesco in luglio) ritroveremo insieme alla Scala il prossimo 16 settembre, per la partenza della stagione 18-19.

13 giugno, 2018

Alla Scala un Fierrabras così-così


Ieri sera è arrivata alla terza recita la semi-sconosciuta Fierrabras di Franz Schubert. Piermarini con ampi spazi vuoti e lungi dal manifestare entusiasmi durante la recita, salvo applausetti ai cambi scena e ovviamente alla fine.

La mia generale impressione è che l’opera si possa al meglio valorizzare con un’esecuzione in forma di concerto, stante il suo contenuto musicale, di assoluto valore ma di scarsa teatralità, che si accompagna per di più ad una totale insensatezza drammaturgica. E dico subito che la regìa di Peter Stein tutto sommato serve a limitare i danni, mostrandoci ciò che più o meno verosimilmente si vedeva sui palchi viennesi del primo ottocento: fondali e quinte di cartapesta dipinti, costumi ricchi, sfarzosi ed esageratamente didascalici (bianchi e neri a vestire le due fazioni in campo) e masse corali disciplinatamente marcianti o ben piantate di fronte al pubblico. Un approccio da storia romanzata (di fatto inventata) come si potrebbe raccontare ai bambini: prendere un soggetto come questo sul serio, magari con facili attualizzazioni, credo determinerebbe il totale collasso dello spettacolo.

Una delle conseguenze della scelta di rappresentazione scenica è che - per cercare di garantire un minimo di coerenza, non dico di plausibilità, al guazzabuglio della trama - si ricorre doverosamente all’impiego di numerosi parlati (tipici del Singspiel) col che però si introducono - per lo spettatore non germanofono - elementi di disagio e di disturbo, non esclusa la necessità (complici le corporative esigenze sindacali) di fare un secondo intervallo.

Insomma, torno a ripetere: di Fierrabras si deve godere al meglio la musica, che è la musica di Schubert, non di Beethoven, non di Rossini, non del futuro Wagner. Musica irrimediabilmente non teatrale, come dimostra il fallimento di tutte le opere del nostro (e l’oblio in cui sono inevitabilmente cadute, trascinandovi anche parecchi tesori musicali). Il problema del teatro di Schubert non sono soltanto i libretti strampalati (quanti capolavori immortali hanno alla base testi ridicoli!) ma anche e precisamente il dna della sua musica, che paradossalmente diventa teatrale non nelle opere, ma nelle sonate, come spiegò inoppugnabilmente Piero Rattalino in questo saggio comparso nel 1989 su Musica&Dossier.

Daniel Harding ha diretto, secondo me, con diligenza più che con passione: bene i passaggi più intimistici e liederistici, mentre quelli marziali e corali (e sono tanti!) mi sono parsi meno curati e approfonditi. L’Orchestra ha risposto bene, e meglio ha fatto il Coro di Casoni, chiamato ad un vero superlavoro.

Degli interpreti mi hanno convinto pienamente il Roland di Werba e l’Eginhard di Sonn. Bene anche il Karl di Konieczny (quando canta, non quando parla...) e la Florinda della Röschmann (a parte i gravi poco udibili). La Fritsch è stata un’Emma discreta, salvo sbracare nei rari acuti, mentre Richter ha onorevolmente sostenuto la parte del protagonista, ma senza (personalmente) incantare, così come suo... padre Vasar (Boland). Oneste le prestazioni degli altri.

In conclusione: una proposta francamente discutibile, roba da festival (con tutto il rispetto per Salzburg da dove proviene).

09 giugno, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°30


É il Direttore ospite Patrick Fournillier a dirigere il penultimo concerto stagionale, con un programma comprensibilmente (per lui) patriottico: Camille Saint-Saëns che incastona un desueto Gounod. Programma peraltro dalla struttura tradizionale: pezzo breve di apertura, concerto solistico e sinfonia.

Si parte quindi con la Danse macabre, un breve Poema sinfonico (come lo definisce lo stesso Autore) che Saint-Saëns derivò da un suo precedente Lied su testo di Henri Cazalis (di cui aveva musicato tre delle sette quartine) ambientato in un cimitero dove a mezzanotte spettri e fantasmi si sbizzarriscono in danze più comiche che spaventevoli, per la verità, sulle note di un violino scordato suonato dalla Morte in persona:



Il brano è sostanzialmente bitematico: dopo l’introduzione dell’arpa che scandisce la mezzanotte e del violino solista che accorda significativamente sul tritono LA-MIb (la prima corda è calante, al posto del MI naturale) ecco un primo tema agitato e macabro (esposto inizialmente dal flauto e dai primi violini) e il secondo, assai più cantabile, esposto poco dopo dal violino solista. I due temi vengono via via riproposti con sottili variazioni e vengono anche (come in uno sviluppo di forma-sonata) messi contrappuntisticamente in confronto, con l’apparizione, nella tromba, anche del Dies Irae.

Al posto della voce (protagonista del Lied originale) qui è ovviamente il primo violino che ha la parte del leone (anche Mahler nella sua Quarta evocherà la Morte che suona proprio un violino scordato) e così è Nicolai Freiherr von Dellingshausen a mettere in mostra le sue doti, trascinando l’Orchestra in un’esecuzione accolta da ovazioni.
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Ecco poi l’eclettico Roberto Prosseda arrivare per proporci il Concerto per piano pédalier di Charles Gounod.

Il pianoforte con pedaliera è un’invenzione assai antica, che apparenta lo strumento all’organo, consentendo all’esecutore di aggiungere alle 10 dita delle mani (che operano sulle corde dello strumento principale) anche i due piedi, che consentono di percuotere delle corde supplementari (tipicamente su un’estensione di due o tre ottave gravi). Usato come pianoforte consente ad un singolo esecutore di produrre un volume di suono che altrimenti richiederebbe la presenza di un secondo pianista (pianoforte a 4 mani) o anche di un secondo strumento (due pianoforti). Lo strumento è poi in grado - dal punto di vista della tecnica esecutiva - di surrogare l’organo senza richiedere sistemi (automatici o manuali, vedi i mantici) di produzione del flusso d’aria. Compositori famosi hanno scritto brani per il pedal-piano, a partire da Mozart, per passare a Schumann e su fino a Gounod, appunto, e allo stesso Saint-Saëns.

Roberto Prosseda da parecchi anni è diventato, si può dire, il profeta dello strumento, tanto da riproporne l’impiego attraverso numerosi recital e registrazioni, ma addirittura diventando protagonista attivo nello sviluppo tecnologico di questa specie di mostro che pareva ormai destinato alla totale estinzione. Dapprima valorizzando lo strumento (unico esemplare) prodotto dal vicentino Luigi Borgato, il Doppio Borgato, costituito da un pianoforte tradizionale cui è collegato (sistemato al di sotto) uno speciale pianoforte senza tasti a 37 corde (le prime tre ottave gravi, LA0-LA3, della tastiera standard) colpite da martelletti azionati direttamente dalla pedaliera. Successivamente ideando, insieme al costruttore Fratelli Pinchi, un sistema di pedaliera e registri (relativamente leggero e poco ingombrante, quindi più facilmente trasportabile) collegabile a qualunque coppia di pianoforti standard (i 37 pedali azionano delle dita meccaniche che percuotono i normali tasti del pianoforte inferiore) e con un’estensione di ben 5 ottave, impiegabili a gruppi di tre (LA0-LA3, LA1-LA4, LA2-LA5) attraverso registri che comandano la connessione pedale - dita meccaniche, consentendo anche raddoppi all’8va e alla 15ma.

Chi volesse approfondire i dettagli tecnici e storici può leggere due articoli di Prosseda, relativi al Doppio Borgato e al Pinchi. E proprio il PinchiPedalpianoSystem è stato installato in Auditorium per la bisogna, collegandolo a due strumenti Yamaha.

Bene, fatte queste pedanti premesse extra-musicali, veniamo all’oggetto specifico, intanto segnalando che su youtube è possibile apprezzare la prima esecuzione in tempi moderni del concerto, avvenuta a settembre 2011 a Forlì, dove Prosseda suonava sul Doppio Borgato, accompagnato dalla Toscanini diretta da Jan Latham Koenig: Allegro moderato, in MIb maggiore, dal piglio e dal sapore vagamente mendelssohniano, Scherzo, in SOL minore-maggiore, per la verità piuttosto blando rispetto agli stilemi tradizionali, Adagio ma non troppo, una mesta marcia funebre dalla caratteristica struttura a due sezioni in minore che ne incastonano una in maggiore (sempre DO) e infine l’Allegretto pomposo, ancora in MIb, dall’incedere davvero enfatico, ma dove il solista ha modo di esibirsi anche in qualche volata appariscente. Qui invece il primo movimento del concerto suonato da Prosseda con il nuovissimo Pinchi a Pordenone nel 2012.

Parliamoci chiaro, non si tratta certo di un capolavoro, e la sua scomparsa per più di un secolo dagli auditorium e dalle sale di registrazione non si spiega solamente con la difficoltà di reperire il complicato strumento... Rispetto alla cui resa sonora, pur dando atto al sistema Pinchi di consentire ampie varietà timbriche, resta il dubbio che un risultato apprezzabile si potrebbe ottenere eseguendo il brano a quattro mani su unica tastiera o al massimo impiegando due pianoforti per i quali trascriverlo appositamente. Ieri sera francamente la sonorità del pianoforte basso lasciava a desiderare tanto che spesso veniva coperto bellamente dall’orchestra (cui forse Fournillier ha lasciato troppa briglia sciolta).

In ogni caso la proposta di Prosseda e de laVerdi va accolta con interesse, e il pubblico di ieri ha lungamente applaudito orchestra, direttore e solista, che ha concesso ben due encore, dove effettivamente gli strumenti hanno offerto una resa migliore: Alkan e Schumann.  
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L’intervallo ha presentato alla parte del pubblico rimasta in sala un fuori-programma... logistico: lo smontaggio e successivo inabissamento nel sotterraneo sottostante al palco dei due pianoforti e della pedaliera. Il tutto avvenuto in meno di mezz’ora, e vi assicuro che è impresa non da poco.

Ha chiuso la serata la Terza Sinfonia, nella quale Saint-Saëns prevede una parte concertante per l’organo. A proposito, laVerdi ha lanciato un’iniziativa per dotare l’Auditorium di un organo in piena regola (oggi vengono usati strumenti elettronici amplificati). É quindi in corso il processo di reperimento delle risorse finanziarie che servono a raggiungere questo importante obiettivo. 

La Sinfonia è suddivisa formalmente in due sole parti, ma al suo interno in effetti è quadripartita, come nella tradizione classica. É famosa (anche) perchè vi compare un motto che richiama il Dies Irae, presentato fin dall’inizio, e poi protagonista - portato trionfalisticamente in modo maggiore! - nel finale. È stato peraltro osservato come questo tema del finale sia in realtà derivato dall’Ave Maria di Arcadelt (16° secolo) trascritta nell’800 da Pierre-Louis Dietsch e poi ri-arrangiata da Franz Liszt, di cui Saint-Saëns era devotissimo e al quale dedicò la sinfonia.


Sinfonia francamente pretenziosa e piuttosto velleitaria, per la quale (per me) vale la classica definizione di interessante, ma non bella, ecco. Certo Fournillier, che la dirige a memoria, e i ragazzi, han fatto del loro meglio per farcela apparire anche bella... beh, se il bello si rapporta al fracasso del finale, allora ci siamo in pieno!

04 giugno, 2018

Alla Scala arriva Fierrabras


Questa per la Scala è la stagione delle primizie: dopo Fledermaus e Orphée - e in attesa della super-primizia, Fin de partie - ecco arrivare per la prima volta al Piermarini il Fierrabras di Franz Schubert. (La produzione è del 2014 a Salzburg - Pereira regnante - ed è disponibile in DVD).

Opera che l’Autore non potè mai ascoltare e che per la verità in pochi hanno potuto ascoltare in teatro da quasi 200 anni a questa parte. Dopo le prime spurie rappresentazioni di fine ‘800 si dovette arrivare praticamente al 1988 (Vienna) per assistere alla riproposta di quest’opera, grazie alla dedizione di tale Claudio Abbado, la cui interpretazione si può oggi seguire anche su youtube, in questa registrazione audio.

Il genere è apparentabile a quello del Singspiel, comprendendo diversi dialoghi parlati, ma oltre alle arie, concertati e cori, include anche diversi Melodramen, in pratica dei parlati accompagnati. In ciò si differenzia, ad esempio, dal beethoveniano Fidelio (che ne prevede uno solo, nel sotterraneo) dal quale per il resto mutua alcune inconfondibili atmosfere.

Il libretto di Josef Kupelwieser è un farraginoso insieme di vicende che definire astruso e indigeribile è fargli un complimento: di certo è in buona parte responsabile della miserevole considerazione di cui l’opera ha goduto e gode tutt’oggi, a dispetto della qualità della musica di Schubert.

Il soggetto è derivato - per discutibile mescolanza - da almeno due racconti medievali, e presenta, sullo sfondo della guerra fra Carlomagno e i Mori, due vicende amorose che coinvolgono individui delle due diverse e contrapposte etnie e religioni: da una parte il cristiano Roland (eroico paladino carolingio) e la saracena Florinda (figlia dell’Ammiraglio Boland, capo dei mori); e dall’altra il protagonista Fierrabras (figlio di Boland e quindi fratello di Florinda) e la figlia di Carlomagno, Emma, che però è innamorata (e ricambiata) da un altro fedelissimo di suo padre, Eginhard, peraltro privo di titoli nobiliari. Per una di quelle gratuite e ridicole combinazioni che si verificano solo nei libretti d’opera, Roland-Florinda e Fierrabras-Emma si sono incontrati tempo addietro a Roma (dove Boland aveva trafugato reliquie preziose) e poi perduti di vista, ritrovandosi miracolosamente quattro anni dopo sulla scena dello scontro armato ai confini fra il territorio cristiano e quello saraceno. Dopo una serie di vicende improbabili e ai limiti dell’assurdo, le due coppie Roland-Florinda ed Emma-Eginhard possono finalmente coronare i rispettivi sogni d’amore, mentre al povero Fierrabras non resta che convertirsi al cristianesimo, benedire la felicità altrui ed entrare orgogliosamente nel novero dei paladini di Carlomagno...

Con i Singspiel di solito si procede a pesanti sforbiciamenti di grande parte dei parlati (come nell’edizione citata di Abbado) con il risultato di aumentare esponenzialmente il grado di incomprensibilità del soggetto e di lasciare allo spettatore solo il godimento della mirabile musica di Schubert. In questa edizione della Scala pare che invece buona parte dei parlati venga conservata (pur con modifiche all’originale); la regìa di Stein dovrebbe fare il resto per consentirci di apprezzare al meglio quest’opera.

Prossimamente esprimerò qualche considerazione dopo visione diretta.  

01 giugno, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°29

                                           
Il terz’ultimo concerto della stagione principale ci porta in America attraverso un programma incentrato su due dei massimi compositori del ‘900 statunitense: George Gershwin e uno dei suoi più titolati interpreti, Lenny Bernstein. A proporcelo è una premiata coppia di (ancor) giovani ma già collaudatissimi musicisti italici: Jader Bignamini sul podio e Roberto Cominati alla tastiera. Auditorium piacevolmente affollato.

Si apre con il Divertimento for Orchestra, commissionato per celebrare il centenario della Boston Symphony (1980) a Bernstein, che era proprio di casa a Tanglewood, dove sorge il Music Center della BSO. Ora, la sigla BC (Boston Centenary) in musica (anglosassone) sta per SI-DO, e queste due note diventano la sigla dell’opera, suddivisa in 8 brani, infarciti di citazioni più o meno scoperte di musiche famose e/o dello stesso Autore.

I - Sennets & Tuckets sono due termini coniati in Albione ai tempi di Shakespeare, traducendo onomatopeicamente (e maccheronicamente) Sonata e Toccata. Bernstein ci mette ritmi sincopati e grande uso di percussioni e batteria, oltre ad una reminiscenza straussiana (il Till).

II – Waltz dovrebbe essere un walzer, ma è una cosa dall’andamento assai bizzarro, irregolare, anche se delicatissimo. Perché è scritto in 7/8, tempo invero inconsueto (ma anche Ciajkovski nella Patetica aveva usato lo sghembo 5/4).

III – Mazurka, contrariamente a ciò che si può immaginare, è in tempo lento, affidata soprattutto agli strumentini. Vi sentiamo l’oboe suonare un inciso della quinta beethoveniana.

IV – Samba: qui ci siamo proprio, rispetto al titolo, e si scatenano tromba, trombone e caraibiche percussioni, mentre reminiscenze di musical dell’Autore si fanno distintamente riconoscere.

V – Turkey Trot, una divertente parodia del fox-trot, richiama abbastanza scopertamente America da West Side Story.

VI – Sphinxes, sfingi è un breve movimento lento, oscuro, impenetrabile, che rimanda allo schumanniano Carnaval.

VII – Blues prolunga l’atmosfera pensosa del brano precedente, su stilemi chiaramente jazzistici.

VIII – In Memoriam; March “The BSO forever”. Dopo un doveroso omaggio ai padri fondatori della BSO, ecco il panegirico che ricorda parodisticamente... Radetzky, ma sembra anche portarci – con Nino Rota - al circo felliniano!

LaVerdi ha ripreso questo brano dopo più di otto anni (allora con l’apprezzato Marshall) e Bignamini ce lo ha riproposto con immutata verve e totale coinvolgimento.  
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Ora è la volta di Roberto Cominati a cimentarsi con il Concerto in FA di Gershwin. Tenendo prudentemente lo spartito nella cassa del pianoforte (ne girerà le pagine tre volte in tutto) il nostro pianista volante ne dà una lettura asciutta, forse poco appariscente, ma il risultato alla fine è sempre di tutto rispetto, come certificano le ripetute chiamate del pubblico per solista e direttore.
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Dopo la pausa Cominati (sempre con spartito a portata d’occhio) è ancora protagonista con la celebre Rhapsody in Blue, che è dichiaratamente un pot-pourri di motivi sapientemente accostati e variati, dove il jazz la fa da padrone, ma dove (Andantino moderato) emerge anche un cantabile che sarebbe stato bene in bocca a Sinatra.

Strepitosa l’esecuzione di solista e orchestra (forse Bignamini ha esagerato con i decibel, coprendo talvolta il suono della tastiera) che trascina il pubblico all’entusiasmo.
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Entusiasmo che sfocia quasi in delirio dopo l’esecuzione della Suite da Porgy and Bess, predisposta da Robert Russell Bennett. È un brano puramente strumentale, mentre tempo fa avevamo ascoltato l’altra Suite, quella più corposa, che include anche le voci (solisti e coro).

I più celebri motivi dell’opera - dall’iniziale Summertime al conclusivo Oh Lawd, I’m on my way - sono qui sapientemente impacchettati in un mirabile bigino che Bignamini (ha diretto tutto il concerto a memoria!) ha valorizzato al massimo, con sincopati e rubati mozzafiato.

Cosa pretendere di più... visto che nel frattempo a Roma qualcuno si degnava di darci un Governo, per il quale proporrei proprio la rassegnata filosofia dello sfigato Porgy: I got plenty o' nuttin', an' nuttin's plenty fo' me.