percorsi

da stellantis a stallantis

28 aprile, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°24


Jader Bignamini si riaffaccia in Auditorium per dirigere un insolito programma che accosta l’autore di sinfonie più... autorevole dell’intero ‘800 ad uno dei suoi più autorevoli interpreti del ‘900, a sua volta cimentatosi come autore di sinfonie... I due brani proposti nel concerto sono legati da un labilissimo filo: l’opera di Bernstein è sottotitolata Egloga barocca, e come tale sembrerebbe richiamare (ma solo in apparenza) scenari bucolici che sono poi al centro della Pastorale beethoveniana.

E si parte proprio da Lenny Bernstein e dalla sua sinfonia-a-programma-con-pianoforte-obbligato The age of anxiety, che ci viene riproposta qui da Emanuele Arciuli a più di 6 anni di distanza da quando lui stesso la interpretò con Marshall.

Ascolto sempre interessante, ma obiettivamente di non facile digestione, anche conoscendo dettagliatamente il programma letterario che sottende il brano. Arciuli - che forse tornava a suonare il pezzo dal 2012 - si tiene per sicurezza lo spartito sul leggio, mentre Bignamini pare che diriga la sinfonia ogni santo giorno... visto che si permette di lasciare la partitura in camerino!

Il pubblico - abbastanza folto, il che fa sempre piacere - ha mostrato di gradire assai, accogliendo la prestazione di solista e orchestra con calore e simpatia.
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Di Beethoven ecco poi l’inflazionata Pastorale, di cui Bignamini ha dato un’interpretazione assolutamente convincente, per leggerezza, brio, romanticismo, equilibrio. Evocando e ricreando mirabilmente quelle sensazioni al contatto con la natura che il genio di Bonn intendeva programmaticamente condividere con noi con la sua sesta.

L’orchestra - per l’occasione Bignamini ha disposto al proscenio i violini secondi (che hanno parti di rilievo) rimpiazzati sulle loro sedie dalle viole - a sua volta ha dato il meglio di sè, in tutti i reparti e si è meritata, con il Maestro, ovazioni a non finire. Insomma, una serata da incorniciare.

27 aprile, 2018

Terremoti al Regio



Torino in questi giorni vive ore davvero drammatiche!

La Juve dei sovrani Agnelli le ha prese (contrappasso micidiale) dal Napoli dell’ex-raccattapalle DiMaio e se la vede brutta sul fronte scudetto (si rischia di dover rinfoderare l’antico adagio: non c’è sei senza sette!)

E adesso: una che è stata messa lì da quello stesso DiMaio (o Casaleggio per lui) e ha già portato abbastanza sfiga alla Juve al costo di morti e feriti, si permette di mandare affanculo il glorioso Teatro cittadino, assurto (grazie a gente tosta come Castellani, Chiamparino e Fassino) a modello di oculata quanto sabauda gestione del patrimonio musicale del Regno d’Italia, Torino capitale!

In due giorni: se ne va sbattendo la porta il sovrintendente Vergnano (che 19 anni di pressione deretanica non hanno potuto trattenere incollato alla sedia) e poi lo segue il direttore musicale Noseda (che un paio d’anni fa poco mancava che sfidasse il detto Vergnano a duello...) e con loro se la vede brutta un extracomunitario che occupa(va) la poltrona di direttore artistico (rischia il rimpatrio forzato in Costarica, celebre culla di melomani verdiani).

E per di più a Roma non c’è Franceschini che possa opporsi alla deriva.

O tempora, o mores!

23 aprile, 2018

Crociati al Regio



Al Regio di Torino è andata in scena ieri pomeriggio la quinta delle sette recite dei verdiani Lombardi. Primo ma classico esemplare di opera degli anni-di-galera, nacque sull’onda del clamoroso successo di Nabucco, del quale ripete (purtroppo in peggio) il canovaccio: scenario (pseudo-)storico, che offre il destro per grandi affreschi epico-corali, sul quale innestare vicende private, occasione per scolpire in musica ogni sorta di sentimenti e paranoie umane. Ma mentre Nabucco ha una solida struttura drammatica, i Lombardi (ispirati al poema di Grossi, dal soggetto che definire contorto è un complimento, e così da Solera trasformato maldestramente in libretto) appaiono come un’accozzaglia di elementi eterogenei e spesso letteralmente inverosimili.

Tanto per cominciare: lo sfondo storico resta alquanto sfumato, e si materializza appena-appena solo nel secondo, terzo e quarto atto; per il resto tengono banco le prosaiche vicende di amori e vendette che maturano all’interno della famiglia del signore di Rò.

Sul fronte della ridicola plausibilità della trama basti notare che Pagano è andato una prima volta in esilio in Terrasanta dopo aver tramato contro il fratello Arvino, reo di avergli strappato l’amore di Viclinda, ed ora torna a Milano nientemeno dopo 18-20 anni (quanti ne deve avere Giselda, sua... nipote, ancora di là da venire ai tempi del misfatto). Poi pensa bene (con l’aiuto dello sbifido Pirro) di vendicarsi del fratello ammazzando lui per rapire per sè una babbiona ormai sulla soglia della menopausa (!)

E poi: la Viclinda medesima che fa a tempo a declamare giusto quattro versi smozzicati e poi a cantare un paio di concertati del primo atto, dopodichè scompare letteralmente nel nulla (sapremo della sua morte dalle parole della figlia nel second’atto...)   

A proposito di Viclinda e del suo matrimonio: forse ha poca importanza stabilirlo, ma è un fatto che nè Grossi, nè quindi Solera si degnano di chiarire chi, fra Pagano e Arvino, sia il primogenito. In casi simili al più anziano viene affidata la tessitura più bassa, al giovane quella acuta. Ma nella vicenda in questione si dovrebbe pensare che Arvino sia il maggiore dei fratelli e si sia preso Viclinda solo perchè a quei tempi la primogenitura garantiva anche il diritto di prelazione sulla femmina da impalmare, indipendentemente dal piano dei sentimenti. E ciò spiegherebbe il comportamento invidioso e vendicativo di Pagano. Ergo la tessitura di basso sarebbe stata da Verdi affibbiata al fratello cattivone (e poi... santone) anche se più giovane, e quella di tenore al fratello maggiore, nato con la camicia.

Ancora: Arvino, Pagano, Giselda e Pirro che partono separatamente per la Terrasanta - il primo come capo dei Crociati lombardi; il secondo per un nuovo turno di penitenza; la terza per adempiere il voto fatto con la madre (nel frattempo scomparsa appunto non si sa come nè dove); e il quarto che per il rimorso va in Palestina a... convertirsi all’Islam! - e che però, dopo un’interminabile peregrinazione attraverso Italia, Dalmazia, Grecia e Turchia, si ritroveranno tutti insieme, miracolosamente e con cronometrica puntualità, dalle parti di Antiochia! A proposito faccio qui un’osservazione critica al regista Mazzonis: negli atti 2-3-4, ambientati in Palestina a pochi mesi dal primo di Milano, tre dei quattro succitati personaggi (Arvino, Giselda e Pirro) mantengono pienamente le loro caratteristiche somatiche; invece Pagano, trasformatosi in eremita, pare invecchiato di 50 anni almeno: da giovanottone imberbe e dalla lunga chioma corvina raccolta a coda di cavallo, ora mostra capelli bianchi sciolti e una lunghissima barba pure bianca, talchè pare diventato il bisnonno di suo fratello Arvino! Pensavo di spiegare la cosa con il desiderio del regista di rendere plausibile ciò che in Solera è ridicolo (nessuno riconosce Pagano) immaginando che il cattivone si sia dotato (stando al regista) di capelli e barba finti. Ma alla fine, quando lui si rivela, il regista non gli fa togliere i peli posticci, e così al ridicolo di Solera dobbiamo aggiungere quello di Mazzonis...

Il tema di un amore che nasce fra due individui di religione ed etnia diverse e nemiche (nel Nabucco impersonati da Ismaele e Fenena) è qui riproposto nelle figure di Oronte e Giselda: là a convertirsi è la femmina, qui - par condicio - il maschio!   

(Buona parte di queste bizzarrie verrà lodevolmente rimossa da Royer&Vaëz, autori del libretto francese di Jérusalem, derivata 5 anni dopo dai Lombardi.)

Ciò che - a dispetto dell’inconsistenza del libretto - consente all’opera di rimanere saldamente presente nei cartelloni di tutto il mondo è (manco a dirlo) la musica del giovane Verdi, quella musica sanguigna, proterva, sfrontata, proprio dissodata con la vanga, come è stato coloritamente sentenziato. Ma musica che presenta anche preziosità e raffinatezze, includendo persino una specie di romanza per violino solista, una delle dimostrazioni di cosa avrebbe potuto fare Verdi nel sinfonico, solo ne avesse avuto voglia e soprattutto... gli stessi lauti proventi che gli garantiva il melodramma.

E della musica si è occupato assai bene Michele Mariotti, del quale è da lodare soprattutto l’accuratezza della concertazione: precisione negli attacchi (con la sua maninamorta-à-la-Abbado) ed accompagnamento sempre rispettoso delle voci, mai messe in difficoltà. Forse - ma è questione davvero di gusti - il direttore pesarese ha smussato un tantino di troppo le (supposte) volgarità di questo primo Verdi, che personalmente preferirei risaltassero maggiormente, essendo proprio una delle componenti di base di opere come questa (non parlo di decibel del suono, ma di una certa rusticità di fraseggio). Ma il mio voto resta comunque alto, magari senza la lode, ecco. Alto anche il voto per l’Orchestra, guidata da Stefano Vagnarelli, esibitosi nel pezzo solistico del terz’atto (applaudito a scena aperta) e alla fine chiamato da Mariotti sul palco.

Trionfatori del pomeriggio i due innamorati Angela Meade e Francesco Meli. Lui non ha bisogno di conferme, essendo in Italia il top. Lei invece è una piacevole conferma: voce di invidiabile corposità, acuti pulitissimi (un paio in pianissimo davvero pregevoli; su un paio di forzature si può sorvolare) e agilità brillanti. Ottima anche la sua espressività e la capacità di passare (come nel quart’atto) dal religioso raccoglimento alla gioia più sfrenata. (Qualcuno storcerà il naso per le sue ehm... dimensioni, ma meglio una sfera che canta così che una top-model gallinacea.)

Alex Esposito è andato un po’ a corrente alternata: stranamente apatico all’inizio, è cresciuto verso la fine, ma ai miei occhi (e orecchi, soprattutto) gli è mancata l’autorevolezza e la drammaticità del ruolo. Insomma, mi aspettavo di più, ecco.

L’Arvino di Gipali e il Pirro di Di Matteo non mi hanno francamente entusiasmato: voci modeste e poco penetranti, senza infamia e senza lode.

Gli altri 4 comprimari hanno dato il loro onesto contributo, del quale vanno ringraziati.

Discorso a parte merita il coro di Andrea Secchi, davvero all’altezza in quest’opera che lo mette duramente alla prova. Peraltro ne hanno fatto le spese Esposito e Gipali soprattutto, che nei concertati sono stati letteralmente ingluviati da quella debordante massa sonora.

Alla fine successo enorme per tutti, con ovazioni alle singole e ripetute chiamate al proscenio.
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La regìa di Mazzonis (viene dalla sua Liegi ed è mutuata da quella di Jérusalem) è precisamente ciò che si definisce tradizionale. Cioè ci si vedono (sullo sfondo) dapprima SantAmbrogio, un palazzo (di Folco) e poi ambienti orientaleggianti (Antiochia) e infine la Città Santa. Poco altro in scena. Costumi presunti degli anni attorno al 1100.

Unica concezione al modernismo è il filmato che scorre sulle note della battaglia fra crociati e musulmani: sono immagini del Nevsky di Eisenstein e ci si può domandare la ragione di tale accostamento. Mah, di certo c’è che nel Nevsky i crociati (cavalieri teutonici) vengono sconfitti! E Mazzonis in effetti chiude con una visione ecumenica, un abbraccio generale fra gli opposti combattenti.

Certo però che il soggetto sarebbe davvero allettante per farci delle geniali de-strutturazioni. Ad esempio, trasformandolo in un caso clinico di sapore freudiano... che so, Pagano che è affetto da complessi di inferiorità e da sete di vendetta a causa di uno sgarbo bullistico inflittogli da piccolo dal fratello maggiore, reo di avergli rubato e dato alle fiamme un’automobilina a pedali, o di averlo battuto con un imbroglio alla play-station. Oppure proponendo un’attualizzazione politica che ambienti la vicenda nella Siria di oggi, con Arvino(-Trump) che riempie di missili il povero Pagano (-Assad) reo di aver messo dei dazi sull’importazione di Coca-Cola.

Sì, perchè Verdi mica componeva opere, come questa, con cori e bande, per farci trascorrere un paio d’ore di sano svago musicale... no no, lui si proponeva di darci dei gran pugni nello stomaco, di costringerci a pensare e a macerarci sui massimi sistemi!

Peccato che il pubblico di Torino (quantomeno quello di ieri) sia apparso assai contento di non aver preso pugni, almeno a giudicare dall’accoglienza trionfale riservata a questa produzione. Amen.

20 aprile, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°23

                         
Claus Peter Flor si sposta a Vienna per un programma (di fine ‘700 - inizio ‘800) dall’impaginazione classica.

Si parte con Egmont, la beethoveniana Ouverture delle musiche di scena per il dramma di Goethe, composte nel 1809. Il Conte di Egmont fu un nobile fiammingo che a metà del ‘500, dopo aver militato al servizio di Carlo V ed essersi distinto per le sue imprese militari, si oppose fieramente all’occupazione delle Fiandre da parte del Conte d’Alba, fino a venire da costui condannato alla decapitazione, affrontata con virile fermezza.

L’Ouverture, strettamente in forma-sonata (un autentico gioiello nel suo genere) è costruita su temi che evocano la vicenda umana di Egmont, e in particolare la sua eroica fine in difesa della libertà. Un soggetto assai caro, come sappiamo, a Beethoven, che in più sentiva come proprio l’eroismo del Conte delle Fiandre, paladino di una terra dalla quale provenivano anche i suoi antenati, come del resto testimonia scopertamente il suo stesso cognome.
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Seguiamone lo sviluppo attraverso un‘interpretazione di Claudio Abbado con i Berliner.    

Introduzione - Sostenuto ma non troppo, 3/2 FA minore. Possiamo plausibilmente vederci evocata la triste condizione di Egmont, perseguitato dall’invasore e condannato a morte, compianto dai suoi cari (moglie e... 11 figli!) Apre (2”) un poderoso unisono generale di FA, seguito (8”) da tre battute dei soli archi che compiono due salite: una terza maggiore armonizzata (15”) in LAb (relativa della tonalità d’impianto) e una terza minore che si appoggia (19”) a DO minore, poi ribadito (22”) in quinta vuota. Oboe e poi clarinetto e fagotto (24”) rispondono con una melodia lamentosa, in DO minore, che dalla tonica scende alla sensibile per poi salire alla sesta minore e scendere alla mediante MIb. Gli archi (36”) la riprendono chiudendola però sul MI naturale, sensibile del FA di impianto che torna (45”) ancora in unisono a piena orchestra. Si ripete la figura precedente, che sale (56”) al LAb maggiore, ma qui si interrompe, seguita (1’00”) dal tema lamentoso esposto da clarinetto, fagotto, oboe e flauto in REb maggiore, tonalità nella quale (1’15”) i violini primi espongono un grazioso e languido motivo (Ti) che dalla dominante LAb sale alla sesta per poi scendere per gradi congiunti alla mediante FA, subito ripetuto anche dal clarinetto, per terze. Un motivo che si può ricondurre agli affetti personali di Egmont (Famiglia e Patria) e che viene ripetuto ancora per ben otto volte, abbassandosi progressivamente (dalla sopratonica MIb, a 1’24”, due volte, in violini e flauto) poi dalla tonica REb (1’33”, violini-flauto); quindi dalla sesta SIb (1’37”, violini, oboe); ancora dalla quarta SOL (1’41”, violini, oboe); dalla seconda aumentata MI (1’46”, oboe e clarinetti); dalla sesta SIb (1’51”, violoncelli) e infine, a lunghezze raddoppiate, nei violini dalla sesta aumentata SI naturale (1’56”). Queste reiterazioni hanno di fatto riportato la tonalità all’originario FA minore, sul quale attacca ora...

L’Esposizione, Allegro 3/4. Qui (2’01”) si evoca lo spirito battagliero di Egmont, che affronta eroicamente le brutaità dell’invasore. Dopo 4 battute in cui il tema Ti svolazza in violini e violoncelli, ecco apparire (2’05”) proprio in questi ultimi il primo tema (T1) che è chiaramente mutuato dal Ti, quanto meno nell’inicpit: come a dire che Egmont lotta anche per la propria famiglia e la propria patria. La prima parte del tema (piano, sforzato) si adagia sulla sensibile (2’08”); la seconda lo riprende appoggiandosi sulla tonica (2’12”) dalla quale si dipartono tre reiterazioni di un motivo discendente - sulla scala minore - da tonica a dominante. Dopo questo temporaneo ripegamento riflessivo, effetto forse delle vessazioni dell’invasore, ecco una lunga transizione (2’18”) caratterizzata da una figura (Tr) di tre crome + semiminima, reiterata ben 16 volte dai violini, che evoca verosimilmente la faticosa e ansimante ripresa di fiato dell’eroe, il cui tema T1 si ripresenta ora (2’35”) in fortissimo, nei violini supportati dall’intera orchestra. Segue il ritorno di una variante della figura Tr che sfocia (2’49”) in una modulazione alla relativa LAb maggiore sulla quale si dipana un ponte di 8 battute che porta (2’58”) all’esposizione del secondo tema (T2) che è una riformulazione veloce del motivo che nell’Introduzione seguiva il FA di attacco e sale da dominante a sesta (MIb-FA). Esso è esposto dagli archi ai quali rispondono i legni (3’01”) con un inciso elegiaco. La cosa si ripete due volte, poi sulla terza il tema T2 sfocia (3’08”) sulla sesta abbassata (FAb, enarmonicamene MI naturale) e i legni rispondono immediatamente con una salita dal MI al LA maggiore, ripetuta, e poi culminante (3’15”) in un FA naturale sul quale i violini, con un salto SIb-MIb innescano il ritorno a LAb maggiore. Qui (3’22”) tre scale ascendenti dei violini seguite da sei cadute dalla dominante MIb chiudono l’esposizione.

Lo Sviluppo è assai breve: presenta (3’35”) il tema T1 in modo maggiore (LAb) e poi lo reitera più volte (3’44”) in minore, ogni volta chiudendolo con strappi di due semiminime in forte. Il ritorno (4’06”) sommesso e variato della figura Tr conclude lo sviluppo.         

La Ricapitolazione (4’21”) ripropone il tema T1 in FA minore, poi (4’35”) la transizione Tr e ancora (4’51”) T1 in modo enfatico.  A 5’05” si modula a REb maggiore in vista della canonica riproposizione del tema T2 (5’24”) in questa tonalità, cui segue il passaggio un semitono più alto (quindi qui in RE maggiore, 5’34”). Ritorno a REb maggiore (5’44”) con le tre salite dei violini e le sei cadute dalla dominante LAb. A 6’00” rientra il secondo tema T2, negli ottoni, che si alterna tre volte con cadute nei violini, mentre la tonalità vira a DO minore. Ora  (6’20”) i soli violini espongono una spettrale caduta DO-SOL (sarà per caso la bipenne che scende sul collo dell’eroe?) dopodichè subentra quasi un silenzio religioso seguito (6’25”) da 8 battute meditabonde dei legni, chiuse scendendo da REb a DO. È il prologo alla travolgente...

Coda - Allegro con brio, 4/4 FA maggiore. Siamo all’apoteosi di Egmont. Una figurazione ascendente si ripete (6’42”) 4 volte in pianissimo, poi (6’46”) altre 6 volte a frequenza doppia e in crescendo. Ancora una battuta di velocissima ascesa fino alla mediante LA, ed ecco esplodere (6’52”) il trionfale motivo della vittoria morale dell’eroe sui suoi carnefici. Sono 6 reiterate salite dalla tonica FA alla mediante LA, ripetute (a 7’00”) e seguite (7’08”) da ben 6 ricomparse, sempre più cariche di suono, di un nuovo motivo di due battute che dal FA scende alla sesta RE, sale alla sopratonica SOL, scende ancora alla dominante DO per risalire alla tonica. I violini (7’11”) contrappuntano la seconda e terza apparizione con festosi svolazzi, poi (7’21”) ecco l’imperiosa salita da tonica FA a dominante DO, nota che viene ribadita enfaticamente. Il passaggio si ripete (7’29”) e finalmente (7’38”) arriva la trionfale fanfara delle trombe che porta, con ripetute scalate alla dominante, alla spettacolare conclusione. 
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Esecuzione trascinante, però a Flor mi sentirei di rimproverare uno scarso equilibrio delle dinamiche nei passaggi più enfatici, dove il suono dell’orchestra tende a divenire un magma che finisce per inghiottire (e quindi coprire) le linee melodiche.   
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La Concertante di Haydn è da anni impiegata come vetrina dove esporre quattro delle prime parti dell’Orchestra (violino, cello, oboe e fagotto) impegnati come solisti in questo brano che nel catalogo Hoboken è denominato abbastanza impropriamente Sinfonia (lo stesso accade per Mozart ai titoli K297b e K364).

Per restare solo agli anni più recenti e alla stagione principale, a gennaio 2012 i solisti furono Santaniello, Shirai, Stocco e Magnani; a novembre del 2015 Dellingshausen, Scarpolini, Greci e Magnani. Questa volta tocca a Dellingshausen, Shirai, Stocco e Magnani (quest’ultimo è davvero... inamovibile). I 4 moschettieri si sono ben distinti e il successo è stato caloroso (con tanto di omaggi floreali) così ci hanno regalato come bis una simpatica trascrizione del Chorale St.Antoni.
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Si chiude nel nome di Mozart con la sua ultima sinfonia, la celeberrima Jupiter. Qui Flor si riscatta, facendo emergere ogni particolare della partitura mozartiana e inoltre proponendocela con (parafrasando Schumann su Schubert) le sue celestiali lungaggini: che sarebbero poi tutti i ritornelli, nessuno escluso.

Auditorium a... scartamento ridotto, ma pubblico convinto e prodigo di applausi.

16 aprile, 2018

La furia di Orlando in Laguna


Ieri pomeriggio il piccolo ma glorioso Malibran ha ospitato la seconda recita di Orlando furioso di Antonio Vivaldi. Si tratta di un allestimento che fu presentato con gran successo la scorsa estate al Festival di Martina Franca, e di cui è ascoltabile in rete l’audio (pessimo, ahinoi, poichè piratescamente ripreso con mezzi di fortuna) grazie ai peripatetici melomani de L’impiccione viaggiatore.

Ultima delle tre opere dedicate da Vivaldi al soggetto ariostesco, si inserisce in pieno nella tradizione del barocco, sia dal punto di vista della grandiosità dello spettacolo, che da quello della struttura della parte musicale. Questa produzione di basa sull’edizione critica dello specialista Federico Maria Sardelli, che la coppia regista-concertatore (Fabio Ceresa - Diego Fasolis) ha poi liberamente rimaneggiato, attraverso qualche taglio (doloroso per la soppressione di alcune arie; meno critico, ma sempre dannoso per la coerenza del tutto, per quella di robusta parte dei recitativi) accompagnato a diversi arbitrari spostamenti di numeri all’interno della struttura del dramma. Lo spettacolo si riduce (per così dire...) a meno di tre ore lorde (20‘ di intervallo) rispetto alle più di 3 ore nette di un’esecuzione completa (come questa francese). In appendice un elenco dei principali numeri e della relativa ristrutturazione compiuta per questo allestimento: tra spostamenti di arie ed espunzioni (di arie e recitativi) sono il secondo ed il terzo atto ad essere pesantemente manipolati rispetto all’originale.   

La trama dovuta a Grazio Braccioli - da Ariosto, ma estremamente contorta - serviva (ai tempi) più che altro a giustificare le mirabolanti trovate sceniche (ippogrifi, mostri, naufragi, viaggi spaziali...) e le innumerevoli arie che consentivano agli interpreti di mettere in mostra le loro qualità di gorgheggiatori, oltre che di attori. Vi troviamo un quadrilatero e un triangolo sentimentali, rispettivamente rappresentati dai diversamente assortiti legami affettivi che a cascata collegano, da un lato, Bradamante<>Ruggiero<>Alcina<>Astolfo; e dall’altro Medoro<>Angelica<>Orlando.   

L’allestimento è piacevole e intelligente: non si perde alcunchè del classico clima dell’opera barocca, grazie alle scene di Massimo Checchetto, assai efficaci pur nella relativa essenzialità: la luna di Orlando, il mondo incantato e sexy di Alcina, l’ippogrifo di Ruggiero e il naufragio di Medoro... Insomma, un simpatico revival delle atmosfere che nel primo ‘700 caratterizzavano i teatri musicali. Il tutto impreziosito dai coloratissimi e raffinati costumi di Giuseppe Palella e ravvivato dalle luci di Fabio Barettin. Essenziali anche le coreografie di Riccardo Olivier.
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Sul piano musicale, doverose lodi a Diego Fasolis, che ha fatto valere la sua indiscussa esperienza in questo repertorio, accompagnando personalmente ad uno dei due cembali e trascinando strumentisti e coristi della Fenice a confermare a loro volta la dimestichezza con il barocco, raggiunta anche grazie alle esecuzioni monteverdiane di questi ultimi anni.

Le voci si sono dimostrate tutte all’altezza del compito. A partire dall’Alcina di Lucia Cirillo e dall’Angelica di Francesca Aspromonte. Subito dietro collocherei la Bradamante di Loredana Castellano e la protagonista Sonia Prina, che ho personalmemte apprezzato spesso in Auditorium a Milano con laBarocca di Jais, ma che ieri non mi è parsa al meglio (incassando anche un eccessivamente severo buh nel second’atto).  

Apprezzabili il Medoro di Raffaele Pe, il Ruggiero di Carlo Vistoli e autorevole l’Astolfo di Riccardo Novaro.

Pubblico non oceanico e freddino negli applausi a scena aperta dopo le arie (ha fatto eccezione Sol per te, grazie soprattutto all’accompagnamento del magico traversiere, collocato in un palchetto). Anche alla fine applausi calorosi ma... centellinati.

Comunque uno spettacolo sicuramente da consigliare.
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Struttura dell’opera in questa edizione-produzione

I
Ang Un raggio di speme
Alc Alza in quegli occhi
Ast Costanza tu m’insegni
Bra Asconderò il mio sdegno
Orl Sorge l’irato nembo (da atto II) sostituisce Nel profondo, cieco mondo, spostato in atto II
Ang Tu sei degli occhi miei
Orl Troppo è fiero il nume arciero (espunto)
Med Rompo i ceppi (Nel libretto originale: Se tacendo, se soffrendo)
Rug Sol per te mio dolce amore (flauto traverso)
Alc Amorose ai rai del sole

II
Alc Vorresti amor da me?
Ast Benchè nasconda la serpe in seno
Bra Taci, non ti lagnar
Rug Piangerò sinchè l’onda del pianto (assente nel libretto originale)
(Orl Sorge l’irato nembo, spostato in atto I)
Med Qual candido fiore
Ang Chiara al pari di lucida stella (spostata poco avanti)
Orl Nel profondo, cieco mondo (da atto I)
Rug Come l’onda (da atto III) sostituisce Che bel morirti in sen, espunto
Bra Io son ne’ lacci tuoi (da atto III) sostituisce Se cresce un torrente, espunto
Cor Al fragor de’ corni audaci
Cor Gran madre Venere
Cor Diva dell’Espero
Ang-Med Belle pianticelle (espunto)
Ang-Med Sei mia fiamma - Sei mia gioia
Alc Così potessi anch’io (spostato qui da prima del duetto Ang-Med)
Orl Ah sleale, ah spergiura

III
Ast Dove il valor combatte
Alc L’arco vuò frangerti
Alc Che dolce più (espunto)
Ang Poveri affetti miei (espunto)
 (Bra Io son ne’ lacci tuoi, spostato in atto II)
Alc Non è felice un’alma (espunto)
(Rug Come l’onda, spostato in atto II)
Med Vorrebbe amando il cor (espunto)
Orl No no ti dico no
Alc Infelice, ove fuggo
Alc Anderò, chiamerò
Cor Con mirti e fiori (Nel libretto originale: Vien dal cielo in noi l’Amore)

13 aprile, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°22


                                           
Claus Peter Flor si fa russo per il concerto di questa settimana. Programma che percorre a ritroso la prima metà del ‘900, nel nome di tre dei principali compositori russi di quel periodo.

Si comincia da Shostakovich e dalla sua Ouverture festiva, composta nel 1947 in occasione dei 30 anni della Rivoluzione.


Il fatto che un brano come questo - abbastanza carico di facile retorica e di ingenuo entusiasmo - sia stato ideato da Shostakovich per iniziativa personale e non per compiacere all’establishment del PCUS (lo testimoniano la pubblicazione e la prima esecuzione, avvenute soltanto parecchi anni dopo la composizione) è l’ennesima prova della sincerità dei sentimenti rivoluzionari del compositore, a dispetto di tutte le angherie che aveva dovuto (e ancora avrebbe dovuto) sopportare da parte dei bidelli (nonchè aguzzini) di quello stesso establishment.   

L’Ouverture ha una struttura assai semplice, essendo in forma-sonata priva di sviluppo. Seguiamola per sommi capi in questa travolgente esecuzione di Temirkanov a Stoccolma nel 2009 (cerimonia del Nobel).

Introduzione (Allegretto 3/4 LA maggiore);

Esposizione (Presto, 4/4 alla breve).  
44” Primo tema in LA maggiore;   
1’59” Secondo tema nella dominante MI maggiore;   

Ricapitolazione
2’51” Primo tema in LA maggiore;  
3’45”  Secondo tema ripreso nella tonica LA maggiore;

Coda
4’45” (Poco meno mosso, 3/2, Tema dell’Introduzione);

Stretta finale
5’16” (Presto, 4/4 alla breve, Tema B accelerato).

Gagliarda l’esecuzione de laVerdi, che serve a riscaldare gli animi (ma anche i corpi) raffreddati da questo inverno... precoce.
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Ecco poi il giovane Luca Buratto cimentarsi per la terza volta con laVerdi, e dopo due Rach (2-3) interpretare il ben più ostico Secondo Concerto di Prokofiev, del quale è ancora vivo il ricordo dell’ultima esecuzione qui in Auditorium, dovuta a Valentina Lisitsa nel 2014.

Il 26enne milanese non tradisce le aspettative e strapazza come si deve (a... Prokofiev) il prezioso strumento, senza farsi intimidire dalla colossale cadenza che occupa buona parte del primo movimento, superata con fredda determinazione. Certo non è strano che il pubblico che udì per la prima volta quest’opera ne fosse rimasto in prevalenza orripilato... ma il tempo è galantuomo, se a più (o meno) di un secolo di distanza ancora il brano occupa le locandine dei concerti in tutto il mondo. Per contrappasso Luca ci offre un celestiale bis monteverdiano, apprezzato ed applaudito (anche dal suo maestro Davide Cabassi...)
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Ha chiuso la serata la celebre Suite dall’Uccello di Fuoco di Stravinski, uno dei tanti cavalli di battaglia dell’Orchestra. Che anche stavolta non si smentisce. Farei un unico appunto a Flor: aver fatto annegare il tema principale del Maestoso finale nell’incandescente ma indistinto magma orchestrale. Ma il pubblico ha apprezzato assai.

12 aprile, 2018

Un modesto Don Pasquale è tornato alla Scala


Ieri sera la Scala (innumerevoli i posti vuoti) ha ospitato la terza recita del nuovo Don Pasquale, allestito da Davide Livermore e diretto da Riccardo Chailly.

Per introdurre il mio telegrafico commento allo spettacolo mi faccio aiutare da Riccardo Muti, che - nei primi 4 minuti e mezzo di questa registrazione del 2017 -  inquadra l’opera nel contesto storico in cui venne composta e ne sintetizza le principali qualità: dramma buffo che si rifà a Mozart (e all’opera napoletana); opera che mirabilmente amalgama il comico al patetico (quindi buffa e non buffonesca). Tradotto in termini di approccio di Direttore e Regista, sarebbe a dire: leggerezza di concertazione e raffinatezza di ambientazione.

Ecco, poco di tutto ciò si riscontra in questa produzione, caratterizzata - sul piano musicale - da eccessi bandistici e sonorità grevi (si salva solo il terzo atto); su quello registico, da volgarotte goliardate da avanspettacolo anni-60.

Quando Chailly è già sul podio Alex Pereira si affaccia al proscenio, bucando il sipario: annuncia che non ci sono malati o defezioni... ma che l’Orchestra scaligera ha ricevuto a Londra il prestigioso award che la colloca sul piedistallo del mondo. Forse così si spiega l’eccessiva foga di strumentisti e direttore, che per i primi due atti hanno voluto far sentire solo il loro suono, coprendo regolarmente le voci. Persino Maestri si faticava a udire come si deve. Non parliamo di Rosa Feola che, se non è male sugli acuti, scompare nei centri e nei gravi. Pessimo l’inizio di Mattia Olivieri, intonazione periclitante e più rumori che suoni. Si salva per fortuna René Barbera, che almeno si riesce ad udire distintamente. E insieme a lui il coro, che nessun fracasso orchestrale sarebbe in grado di coprire.

Come detto, il terzo atto è stato abbastanza accettabile, anche perchè la partitura proibisce... escandescenze.
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Livermore si inventa per il protagonista il complesso materno, che ci viene esposto mentre l’Orchestra suona la Sinfonia: Pasquale, ormai vecchio decrepito, si può finalmente sposare solo perchè la madre-padrona-matusa s’è decisa una buona volta a togliere il disturbo... Poi il regista si appella al cinema italiano anni-60 (idea da lui già applicata altre volte, cito il Turco in Italia al ROF-2016) per ambientare colà il soggetto di Giovanni Ruffini.

Trattandosi di un dramma sì, ma buffo, è quasi impossibile stravolgerne il soggetto o farne una parodia, così ciò a cui assistiamo è una commedia agrodolce che si può anche digerire senza troppo sforzo. E il pubblico ha mostrato di gradire.
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Ma devo dire che la produzione dell’Accademia del 2012 mi aveva convinto di più, ecco.

09 aprile, 2018

Gioconda ha chiuso il tour a Reggio E.



Ieri pomeriggio al Valli di Reggio E. (piacevolmente affollato in ogni ordine di posti) si è chiuso il tour emiliano de La Gioconda, già transitata a marzo da Piacenza e Modena (teatri co-produttori dello spettacolo). Rendo subito merito alla provincia (emiliana, nella fattispecie) che ancora una volta mostra di saper proporre e allestire opere importanti e difficili come questa, raggiungendo allo stesso tempo risultati di tutto rispetto.

È noto che le difficoltà di allestire Gioconda risiedono principalmente nella necessità di mettere insieme un cast vocale di quantità (oltre che qualità) assai robusta: si tratta di sei protagonisti e deuteragonisti che coprono altrettante (quindi tutte le) diverse tessiture vocali. E il cast che ha sostenuto per intero la prova si è dimostrato mediamente all’altezza del compito.

A partire dal Barnaba di Sebastian Catana, davvero convincente sia sul piano vocale (ottima impostazione e timbro bronzeo) che su quello scenico, perfettamente calato nel truce personaggio.

Francesco Meli conferma le sue doti di fine lirico, sfoggiando difficili acuti a mezza voce e timbro cristallino. Il suo cielo&mar è stato lunghissimamente applaudito da un pubblico in delirio, che in pratica lo ha costretto ad un bis che taglierebbe la... gola a chiunque.

Bene la Cieca di Agostina Smimmero, voce corposa e passante, accompagnata ad un’efficace presenza scenica.

Giacomo Prestia è stato un Alvise corretto, ma i decibel cominciano a scarseggiare e - forse involontariamente - Callegari lo ha un paio di volte coperto con eccessivo volume dell’orchestra.
   
Note discrete, non di più, per le due donne principali: Saioa Hernández ha un vocione invidiabile, ma assai poco... disciplinato, dall’emissione periclitante e con acuti spesso tendenti alla vociferazione. Si è salvata con il... suicidio (!) che essendo l’aria più impegnativa dell’opera è stata probabilmente studiata e messa a punto meglio del resto. Anna Maria Chiuri ha mostrato discreta padronanza del ruolo di Laura, ma negli acuti ha manifestato analogie con la Gioconda: il loro duetto-scontro del second’atto è stato un po’ un festival dello schiamazzo, ecco...

Oneste le prestazioni dei comprimari Dellavalle, Donini, Izzo e Tansini. Un encomio al Coro piacentino di Corrado Casati e ai piccoli del Farnesiano guidati da Mario Pigazzini (tutti applauditissimi alla fine).

Ottime cose ha fatto il concertatore Daniele Callegari, che ha saputo estrarre e soprattutto valorizzare le tante raffinatezze dell’orchestrazione di Ponchielli, mantenendo (quasi) sempre un buon equilibrio nel sostegno delle voci. Onori ovviamente all’Orchestra ORER, sia come complesso che come singoli, spesso chiamati da Ponchielli a difficili passaggi solistici.

In definitiva, un bel successo sul piano musicale.
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Successo condiviso dall’equipe responsabile dell’allestimento. Federico Bertolani ha rispettato in pieno lo spirito ed anche la lettera del soggetto di Boito-Ponchielli, mettendo in risalto gli aspetti peculiari delle personalità dei diversi protagonisti del dramma. Una volta tanto è stata apprezzabile l’esecuzione del Preludio a sipario alzato: un tableau-vivant dove - sottolineati dai temi del Rosario e di Barnaba - il pubblico ha potuto far conoscenza con i principali protagonisti del dramma.

Il regista si è avvalso di scene (Andrea Belli) di assoluto ma essenziale ed efficace minimalismo: cielo e mar, verrebbe da dire, che sono onnipresenti nell’opera, e che si materializzano nell’acqua vera che allaga il palco (e riverbera le sue increspature fin sul soffitto del teatro...) e sul cielo dalle sfumature tenui, che fa da sfondo e si confonde con l’acqua, proprio come accade normalmente in laguna. Fa eccezione l’ambientazione del terzo atto, dove l’interno della Ca’ d’Oro è rappresentato come un enorme crogiolo tutto rosso porpora: il sangue che viene versato da ciò che si trama in quell’ambiente. Ambiente abitato invece - e qui siamo al nero più nero - da autentici pipistrelli (quali appaiono tutti i dignitari - e rispettive consorti - della Repubblica colà riuniti).

Efficaci e raffinati i costumi di  Valeria Donata Bettella, così come i giochi di luce di Fiammetta Baldisserri.

Gioconda è un grand-opéra infarcito di danze e balletti. La Compagnia Artemis Danza di Monica Casadei si fa carico di questa non marginale componente dello spettacolo, valorizzandola al meglio, pur con risorse ridottissime (6 danzatori per Le ore!)

In complesso: una prova encomiabile da parte di tutti, che il pubblico ha gratificato di lunghi e calorosi applausi. Viva la provincia!

07 aprile, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°21

                               
Il 30enne orsacchiotto uzbeko Aziz Shokhakimov onora finalmente la sua posizione di Direttore Principale Ospite de laVerdi tornando dopo 18 mesi sul podio dell’Auditorium per dirigervi un concerto dall’impaginazione ancora una volta piuttosto inconsueta. Dopo la respighiana Sinfonia Drammatica e la Prima di Kalinnikov, ascoltiamo un’altra quasi-primizia per l’Orchestra (che non la eseguiva da 20 anni): la Quarta Sinfonia di Carl August Nielsen.

Il quale, a dispetto delle reiterate dichiarazioni di voler comporre musica assoluta e non a programma, pose sottotitoli a 4 delle sue 6 sinfonie, etichette che sembrano rivaleggiare con quelle di Scriabin: i 4 temperamenti (no, non musicali, ma psicologici); sinfonia espansiva; l’inestinguibile; sinfonia semplice. Ed è appunto quella denominata Inestinguibile (per la quale è l’attributo di Sinfonia ad essere posto come sottotitolo!) che ascoltiamo questa settimana, composta nei primi anni della Grande Guerra. A fronte della quale l’Autore lasciò un programma (a proposito!) assai dettagliato, quanto ambiguo e contraddittorio, ma riassunto dal concetto: così come la vita, anche la musica è inestinguibile! (messa così, la definizione si attaglia al 99,9% di ogni composizione, almeno nelle intenzioni dei compositori...)

La partitura non indica alcuna suddivisione classica in movimenti, ma solo alcune notazioni agogiche (accompagnate da cambi di chiave) che possono interpretarsi come confini fra 4 pseudo-parti (ma per il resto, manca ogni soluzione di continuità): l’Allegro iniziale, poi il Poco allegretto, quindi il Poco adagio, quasi andante e infine l’Allegro che chiude il brano. La forma ha risvolti ciclici, poichè il tema principale (glorioso) che monopolizza l’Allegro iniziale torna a farsi udire nel finale: ma siamo più alla fantasia che alla sinfonia, a dir il vero. A proposito del citato tema principale, ne è già stata notata (Ludvig Dolleris, 1949) la stretta rassomiglianza con quello che evoca l’alba nella straussiana Alpensinfonie (composta subito prima del lavoro di Nielsen): l’andamento degradante e la tonalità di LA maggiore ne sono testimoni:


E in effetti, avesse Nielsen messo dei sottotitoli ad alcune sezioni della sua opera, l’avrebbe potuta tranquillamente far passare come una risposta alla gita in montagna di Strauss! 

L’orchestra è assai nutrita, ma vi mancano le percussioni a suono indeterminato; in compenso un secondo timpanista è prescritto per intervenire nel finale. Sì, poichè verso la conclusione della sinfonia esplode una vera e propria battaglia di timpani (artiglierie contrapposte nella Grande Guerra, a proposito di musica a programma...) che si chiude con i due esecutori impegnati (per terze!) in una folle salita cromatica (10 delle 12 note della scala) in glissando, il che richiede l’uso esperto dei piedi, oltre che delle braccia:


Altra curiosità riguarda l’impegno del Controfagotto (parlo dello strumento): in più di mezz’ora di musica, viene suonato (dallo strumentista del Fagotto III) per sole 18 battute, proprio all’inizio della citata battaglia di timpani, e per emettere una sola nota (SI).  

In definitiva, un lavoro che merita rispetto più che ammirazione, ecco. Shokhakimov ci ha sguazzato dentro, nulla lesinando delle brutalità sonore che lo costellano, e cercando poi di far emergere - nelle sezioni centrali - qualche squarcio lirico e contemplativo. E l’Orchestra ha dato il massimo per renderci digeribile il tutto. Un appunto che mi sento di fare riguarda la disposizione della coppia di timpani: Nielsen prescrive che i due esecutori siano dislocati ai lati opposti dell’orchestra, evidentemente per creare un effetto di contrapposizione-a-distanza fre due agenti... bellici. Invece le otto caldaie erano poste una adiacente all’altra, col che si è perso totalmente l’effetto-stereo, ottenendo per contro un sesquipedale fracasso indistinto e monocorde.
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Chiudono la serata i Quadri di Musorgski nella celebre strumentazione di Ravel. Quasi esattamente 6 anni orsono erano risuonati qui in Auditorium sotto la bacchetta di un (allora) giovane rampante: Jader Bignamini. Riapparsi nell’autunno 2013 con un altro giovane, D’Espinosa, tornano oggi con Shokhakimov, anche lui (ancora) giovane e a suo modo rampante:



Non so se si capisce, ma l’orso qui raffigurato brandisce la clava proprio come Aziz la bacchetta (!!!) A parte le battute (e poi il Direttore, per i Quadri, la bacchetta l’ha proprio abbandonata...) mi sento di riconoscere a Shokhakimov di essere assai cresciuto, rispetto alle precedenti apparizioni da queste parti: meno atteggiamenti gigioneschi e lodevole sobrietà di gesto e precisione di attacchi. Insomma, l’orso si sta addomesticando!