Al Regio di Torino è andata in scena ieri
pomeriggio la quinta delle sette recite dei verdiani Lombardi. Primo ma
classico esemplare di opera degli anni-di-galera,
nacque sull’onda del clamoroso successo di Nabucco,
del quale ripete (purtroppo in peggio) il canovaccio: scenario
(pseudo-)storico, che offre il destro per grandi affreschi epico-corali, sul
quale innestare vicende private, occasione per scolpire in musica ogni sorta di
sentimenti e paranoie umane. Ma mentre Nabucco ha una solida struttura
drammatica, i Lombardi (ispirati al poema di Grossi, dal soggetto che definire contorto è un complimento, e così
da Solera trasformato maldestramente in libretto) appaiono come un’accozzaglia
di elementi eterogenei e spesso letteralmente inverosimili.
Tanto per cominciare: lo sfondo storico
resta alquanto sfumato, e si materializza appena-appena solo nel secondo, terzo
e quarto atto; per il resto tengono banco le prosaiche vicende di amori e
vendette che maturano all’interno della famiglia del signore di Rò.
Sul fronte della ridicola plausibilità
della trama basti notare che Pagano è andato una prima volta in esilio in
Terrasanta dopo aver tramato contro il fratello Arvino, reo di avergli
strappato l’amore di Viclinda, ed ora torna a Milano nientemeno dopo 18-20 anni
(quanti ne deve avere Giselda, sua... nipote, ancora di là da venire ai tempi
del misfatto). Poi pensa bene (con l’aiuto dello sbifido Pirro) di vendicarsi
del fratello ammazzando lui per rapire per sè una babbiona ormai sulla soglia
della menopausa (!)
E poi: la Viclinda medesima che fa a
tempo a declamare giusto quattro versi smozzicati e poi a cantare un paio di
concertati del primo atto, dopodichè scompare letteralmente nel nulla (sapremo
della sua morte dalle parole della figlia nel second’atto...)
A proposito di Viclinda e del suo
matrimonio: forse ha poca importanza stabilirlo, ma è un fatto che nè Grossi,
nè quindi Solera si degnano di chiarire chi, fra Pagano e Arvino, sia il
primogenito. In casi simili al più anziano viene affidata la tessitura più
bassa, al giovane quella acuta. Ma nella vicenda in questione si dovrebbe
pensare che Arvino sia il maggiore dei fratelli e si sia preso Viclinda solo
perchè a quei tempi la primogenitura garantiva anche il diritto di prelazione
sulla femmina da impalmare, indipendentemente dal piano dei sentimenti. E ciò
spiegherebbe il comportamento invidioso e vendicativo di Pagano. Ergo la
tessitura di basso sarebbe stata da Verdi affibbiata al fratello cattivone (e poi... santone) anche se più giovane, e quella di tenore al fratello
maggiore, nato con la camicia.
Ancora: Arvino, Pagano, Giselda e Pirro
che partono separatamente per la Terrasanta - il primo come capo dei Crociati
lombardi; il secondo per un nuovo turno di penitenza; la terza per adempiere il
voto fatto con la madre (nel frattempo scomparsa appunto non si sa come nè
dove); e il quarto che per il rimorso va in Palestina a... convertirsi
all’Islam! - e che però, dopo un’interminabile peregrinazione attraverso
Italia, Dalmazia, Grecia e Turchia, si ritroveranno tutti insieme, miracolosamente
e con cronometrica puntualità, dalle parti di Antiochia! A proposito faccio qui
un’osservazione critica al regista Mazzonis:
negli atti 2-3-4, ambientati in Palestina a pochi mesi dal
primo di Milano, tre dei quattro succitati personaggi (Arvino, Giselda e Pirro)
mantengono pienamente le loro caratteristiche somatiche; invece Pagano,
trasformatosi in eremita, pare invecchiato di 50 anni almeno: da giovanottone
imberbe e dalla lunga chioma corvina raccolta a coda di cavallo, ora mostra
capelli bianchi sciolti e una lunghissima barba pure bianca, talchè pare
diventato il bisnonno di suo fratello Arvino! Pensavo di spiegare la cosa con
il desiderio del regista di rendere plausibile ciò che in Solera è ridicolo
(nessuno riconosce Pagano) immaginando che il cattivone si sia dotato (stando
al regista) di capelli e barba finti. Ma alla fine, quando lui si rivela, il
regista non gli fa togliere i peli posticci, e così al ridicolo di Solera dobbiamo
aggiungere quello di Mazzonis...
Il tema di un amore che nasce fra due
individui di religione ed etnia diverse e nemiche (nel Nabucco impersonati da
Ismaele e Fenena) è qui riproposto nelle figure di Oronte e Giselda: là a
convertirsi è la femmina, qui - par
condicio - il maschio!
(Buona parte di queste bizzarrie verrà lodevolmente
rimossa da Royer&Vaëz, autori
del libretto francese di Jérusalem,
derivata 5 anni dopo dai Lombardi.)
Ciò che - a dispetto dell’inconsistenza
del libretto - consente all’opera di rimanere saldamente presente nei
cartelloni di tutto il mondo è (manco a dirlo) la musica del giovane Verdi, quella musica sanguigna, proterva,
sfrontata, proprio dissodata con la vanga,
come è stato coloritamente sentenziato. Ma musica che presenta anche preziosità
e raffinatezze, includendo persino una specie di romanza per violino solista, una delle dimostrazioni di cosa
avrebbe potuto fare Verdi nel sinfonico,
solo ne avesse avuto voglia e soprattutto... gli stessi lauti proventi che gli
garantiva il melodramma.
E della musica si è occupato assai bene Michele Mariotti, del quale è da lodare
soprattutto l’accuratezza della concertazione: precisione negli attacchi (con
la sua maninamorta-à-la-Abbado) ed
accompagnamento sempre rispettoso delle voci, mai messe in difficoltà. Forse -
ma è questione davvero di gusti - il direttore pesarese ha smussato un tantino
di troppo le (supposte) volgarità di questo primo Verdi, che personalmente
preferirei risaltassero maggiormente, essendo proprio una delle componenti di
base di opere come questa (non parlo di decibel
del suono, ma di una certa rusticità
di fraseggio). Ma il mio voto resta comunque alto, magari senza la lode, ecco. Alto
anche il voto per l’Orchestra, guidata da Stefano
Vagnarelli, esibitosi nel pezzo solistico del terz’atto (applaudito a scena
aperta) e alla fine chiamato da Mariotti sul palco.
Trionfatori del pomeriggio i due innamorati
Angela Meade e Francesco Meli. Lui non ha bisogno di conferme, essendo in Italia
il top. Lei invece è una piacevole conferma: voce di invidiabile corposità,
acuti pulitissimi (un paio in pianissimo
davvero pregevoli; su un paio di forzature si può sorvolare) e agilità
brillanti. Ottima anche la sua espressività e la capacità di passare (come nel quart’atto)
dal religioso raccoglimento alla gioia più sfrenata. (Qualcuno storcerà il naso
per le sue ehm... dimensioni, ma meglio una sfera
che canta così che una top-model gallinacea.)
Alex
Esposito
è andato un po’ a corrente alternata: stranamente apatico all’inizio, è
cresciuto verso la fine, ma ai miei occhi (e orecchi, soprattutto) gli è
mancata l’autorevolezza e la drammaticità del ruolo. Insomma, mi aspettavo di
più, ecco.
L’Arvino di Gipali e il Pirro di Di Matteo
non mi hanno francamente entusiasmato: voci modeste e poco penetranti, senza
infamia e senza lode.
Gli altri 4 comprimari hanno dato il
loro onesto contributo, del quale vanno ringraziati.
Discorso a parte merita il coro di Andrea Secchi, davvero all’altezza in
quest’opera che lo mette duramente alla prova. Peraltro ne hanno fatto le spese
Esposito e Gipali soprattutto, che nei concertati sono stati letteralmente ingluviati da quella debordante massa sonora.
Alla fine successo enorme per tutti, con
ovazioni alle singole e ripetute
chiamate al proscenio.
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La regìa di Mazzonis (viene dalla sua
Liegi ed è mutuata da quella di Jérusalem)
è precisamente ciò che si definisce tradizionale.
Cioè ci si vedono (sullo sfondo) dapprima SantAmbrogio, un palazzo (di Folco) e
poi ambienti orientaleggianti (Antiochia) e infine la Città Santa. Poco altro
in scena. Costumi presunti degli anni attorno al 1100.
Unica concezione al modernismo è il
filmato che scorre sulle note della battaglia fra crociati e musulmani: sono
immagini del Nevsky di Eisenstein e ci si può domandare la
ragione di tale accostamento. Mah, di certo c’è che nel Nevsky i crociati (cavalieri
teutonici) vengono sconfitti! E Mazzonis in effetti chiude con una visione
ecumenica, un abbraccio generale fra gli opposti combattenti.
Certo però che il soggetto sarebbe
davvero allettante per farci delle geniali de-strutturazioni. Ad esempio,
trasformandolo in un caso clinico di sapore freudiano... che so, Pagano che è affetto
da complessi di inferiorità e da sete di vendetta a causa di uno sgarbo
bullistico inflittogli da piccolo dal fratello maggiore, reo di avergli rubato
e dato alle fiamme un’automobilina a pedali, o di averlo battuto con un
imbroglio alla play-station. Oppure proponendo un’attualizzazione politica che
ambienti la vicenda nella Siria di oggi, con Arvino(-Trump) che riempie di
missili il povero Pagano (-Assad) reo di aver messo dei dazi sull’importazione
di Coca-Cola.
Sì, perchè Verdi mica componeva opere,
come questa, con cori e bande, per farci trascorrere un paio d’ore di sano
svago musicale... no no, lui si proponeva di darci dei gran pugni nello stomaco,
di costringerci a pensare e a macerarci sui massimi sistemi!
Peccato che il pubblico di Torino
(quantomeno quello di ieri) sia apparso assai contento di non aver preso pugni,
almeno a giudicare dall’accoglienza trionfale riservata a questa produzione.
Amen.