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da stellantis a stallantis

28 marzo, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°20


É la settimana di Pasqua e in Auditorium l’appuntamento ormai tradizionale è con una delle due Passioni bachiane. Negli anni pari tocca alla minore (solo perchè meno famosa ed eseguita nel mondo della Matthäus) Johannes-Passion.

Come sempre è laBarocca guidata da Ruben Jais a presentarcela, coadiuvata da 37 elementi (10-10-8-9) del coro de laVerdi di Erina Gambarini. Oltre alla spalla titolare Gianfranco Ricci, che è una delle prime parti dei secondi violini dell’orchestra principale, ieri l’ensemble è stato rinforzato dalla presenza di Gabriele Mugnai (prima viola de laVerdi) che ha anche imbracciato la viola d’amore (con Claudio Andriani) per accompagnare l’aria n°32 (Erwäge, erwäge) del tenore. Lo specialista Cristiano Contadin si è esibito, come in passato, con la viola da gamba, in particolare accompagnando l’aria n°58 del contralto (Es ist vollbracht).

Ben assortita la compagine di canto, con il tenore Bernhard Berchtold efficacissimo nella parte dell’Evangelista, che rappresenta la spina dorsale dell’intero oratorio. Ma eccellenti le prestazioni degli altri, fra i quali prendo a vessillifero il controtenore Pascal Bertin.

Auditorium affollatissimo e pubblico prodigo di applausi. Questa sera alle 19:30 si replica in un ambiente più consono a quello a cui erano destinate in origine queste composizioni.

24 marzo, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°19

                                           
Giuseppe Grazioli è il protagonista dal podio del concerto di questa settimana. O anche no... nel senso che il mattatore della serata è stato Stefan Milenkovich, che non credo di sbagliare affermando essere lui il responsabile della presa d’assalto dell’Auditorium da parte di un pubblico entusiasta. Lui è già stato due volte ospite qui negli ultimi anni: dopo i lavori di Mendelssohn e Brahms, ora  ci propone quello di Ciajkovski.

Esecuzione - manco a dirlo - superlativa (qualche libertà che mi è parso abbia preso sulla partitura nulla toglie alla sua prestazione). E così ci regala un tris-di-bis, con due capolavori del suo adorato Bach ad incastonare una trascendentale interpretazione dell’ultimo dei 24 capricci paganiniani. Un fenomeno: così adesso lo aspettiamo come minimo in Mozart, Beethoven, Paganini, Schumann, Bruch, Spohr, Lalo, Dvorak, Wieniawski, Sibelius, Prokofiev, Berg, Shostakovich...
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Si resta in Russia con la Prima (delle due) Sinfonia di Vasily Kalinnikov, composta sul finire dell’800 da questo musicista poco più che 30enne, destinato ahilui a scomparire 4 anni dopo. laVerdi ce la ripropone dopo averla eseguita per la prima volta più di 8 anni fa sotto la guida di Vedernikov.

Opera interessante anche se ancora assai acerba: ci lascia solo intravedere cosa avrebbe potuto produrre Kalinnikov se la tubercolosi non lo avesse stroncato a soli 35 anni. La sinfonia si muove chiaramente nel solco di Ciajkovski (da qui l’appropriatezza di proporla accanto al ben più famoso compositore) del quale affiorano qua e là memorie più o meno vaghe. La forma è quanto di più classico si possa immaginare, con qualche spunto velleitario  (ma nulla al confronto con ciò che si affacciava all’orizzonte con un tale Mahler...) Strano che un tipo come Toscanini, che sempre rifiutò di dirigere il rivale boemo, abbia invece inciso questo lavoro nel 1943 con la sua NBC.

Seguiamo i quattro movimenti della Sinfonia in questa (ormai storica, 1960) interpretazione del venerabile Kirill Kondrashin.

Allegro Moderato: tempo 4/4 alla breve, la tonalità (SOL minore) rievoca vagamente i sogni invernali della prima di Ciajkovski. L’impianto è strettamente in forma-sonata, con alcune libertà. Dopo che il tema principale - assai marcato e maschile, con struttura ritmica irregolare - è stato esposto dalla dominante RE, esso passa (12”) alla tonica SOL, per poi divagare (24”) a FA maggiore, quindi (28”) a SIb maggiore (relativa della tonalità d’impianto) e ancora (34”) a MI maggiore e infine (39”, poi 54”) a FA# minore, nella cui relativa LA maggiore attacca (1’07”) il secondo tema. Insomma, esercizi di... insubordinazione, tipici di un giovane di belle speranze! Questo secondo tema è, canonicamente, di natura più elegiaca, femminile, e sfocia in una transizione che introduce (2’13”) un temino secondario, derivato dal primo, in SIb Maggiore (qui si rispettano le regole!) che poi, tornando a SOL minore (2’29”) chiude l'esposizione. Esposizione da ripetersi: non tutti lo fanno, ovviamente, ma Kondrashin obbedisce (2’48”). Lo sviluppo (5’23”) è aperto dal secondo tema (LA maggiore) poi (6’02”) dal primo, in MIb minore e ancora (6’11”) in MIb maggiore. È una sezione di dimensioni considerevoli e mostra un lodevole tentativo di far confrontare e scontrare i due temi, come nella miglior tradizione beethoveniana, anche se il risultato non è proprio dei più edificanti. A 9’59” arriva la ricapitolazione, assai rispettosa delle regole; infatti al primo tema in SOL minore segue (10’57”) il secondo nella relativa SIb maggiore; esso viene più volte reiterato, finchè (11’44”) il terzo temino dell’esposizione introduce una coda assai corposa (quasi una specie di sviluppo aggiuntivo) che porta (13’05”) alla ricomparsa del primo tema, che si incarica di guidare il movimento alla severa conclusione.

Andante commodamente: in tempo 3/4, principia (13’40”) con arpa e violini che, in MIb maggiore, preparano l'entrata (14’10”) del corno inglese, una triste melopea doppiata dalle viole, poi ripresa (14’29”) da clarinetto e violoncelli. Si passa ora (15’04”) alla sezione centrale e più movimentata, inizialmente in SOL# minore, poi (15’23”) nella relativa SI maggiore, dove l’atmosfera si ravviva parecchio, per poi tornare a calmarsi (16’17”) con l’intervento del corno e (16’32”) del clarinetto che insieme ripropongono il tema principale, qui in LA maggiore, seguiti (16’54”) dai violini, con i flauti a contrappuntare con veloci figurazioni. Si torna (17’31”) a SOL# minore, l’atmosfera diviene più rarefatta, si ode il corno in lontananza, e poi  (18’18”) ecco la calma del MIb e (18’51”) il corno inglese che espone la sua triste melopea, portando quindi alla chiusa in ppp. È probabilmente questo il momento migliore della sinfonia, una specie di notturno con qualche lontano lampo boreale.

Scherzo, Allegro non troppo: melodie e armonie di stampo ciajkovskiano, con qualche spruzzata di Borodin, impiantate su un canovaccio bruckneriano. In DO maggiore ecco (20’09”) un primo tema (3/4) poi uno secondario (20’52”) più enfatico, che vengono ripetuti divagando (21’53”, tema secondario) a SOL maggiore, per tornare subito alla tonalità principale. Il corno solo (22’23”) introduce il trio (2/4) nella relativa LA minore, anch'esso in due sezioni, la seconda (in DO maggiore) a 23’07”, cui segue ancora la prima in LA minore. Una nuova melodia,sempre in LA minore (24’19”) chiude il trio e porta (25’12”) al ritorno dello scherzo, con i due temi che sconfinano in tonalità diverse, prima di tornare al DO maggiore che chiude il movimento. 

Allegro moderato – risoluto: in 4/4, inizia (27’34”) con il riciclo del tema iniziale del primo movimento (SOL minore) poi passa subito ad introdurre (27’52”) in SOL maggiore il tema principale di questa specie di rondò, cui segue (28’10”) nel clarinetto un nuovo motivo, più riflessivo, in RE maggiore, reiterato (28’23”) da flauto e violini. Ritorna dopo una transizione veloce (28’42”) il tema principale, poi il secondo (29’02”) dapprima in MI minore, che modula subito a SOL maggiore, quindi (29’16”) a RE maggiore, a SOL minore, per due volte. Ecco poi una rievocazione (29’48”) in clarinetto e corni del secondo tema del movimento iniziale, anche qui in SIb maggiore. Essa porta rapidamente (30’07”) ad una nuova esplosione del tema principale, in SOL maggiore. Dopo una rarefazione del suono, riecco in violini e legni (30’31”) il secondo tema, questa volta in MI maggiore. A 30’51” prende piede un gran crescendo, basato sul primo tema, che porta (31’15”) ad un clossale tutti orchestrale, che sfuma però all’improvviso. Il secondo tema, in SIb maggiore (31’36”) ritorna, dapprima magniloquente, poi quasi scherzando, quindi sfumando nel nulla... A 32’24” l’oboe introduce i violini ad una ripresa variata del primo tema, in SOL maggiore, che sfocia (32’52”) in una nuova enfatica perorazione dello stesso tema finchè (33’21”, 3/2) ecco tornare - dilatato enormemente - il tema dell’Andante, in MIb maggiore. Altra presa di respiro, e poi arriva (34’16”) la retorica coda, in SOL maggiore, che è un'autentica apoteosi del fracasso, dove l'orchestra deve sputare persino l’anima.
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Posto che non è un capolavoro (nè si potrebbe pretenderlo, francamente) se suonata come si deve anche questa Sinfonia qualcosa di positivo ti lascia (replico il concetto applicato al Respighi della Drammatica). Grazioli l’ha interpretata con assoluta rigorosità (incluso il da-capo dell’esposizione dell’iniziale Allegro moderato) e l’Orchestra ha risposto in modo strepitoso, a dimostrazione di aver raggiunto livelli di eccellenza nel panorama non solo nostrano, ma internazionale (come dimostra il recente successo a Lucerna). A lei e al Direttore il pubblico non ha mancato di manifestare tutto il suo apprezzamento.

16 marzo, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°18


John Neschling torna dopo un paio d’anni in Auditorium portando (un po’ come l’altra volta) un programma inconsueto, il che ogni tanto è un bene, per evitare di adagiarsi - chi suona e chi ascolta - sui facili oltre che comodi cavalli di battaglia... Così il 71enne maestro brasiliano (ma il cognome tradisce le origini austriache, cui si deve aggiungere persino una parentela con Schönberg) accosta il classico Mozart al nostrano Respighi (uno dei suoi autori preferiti, va detto).

L’altro protagonista della serata è il trentenne rampante Federico Colli, che esordisce qui con il K491 di Mozart. Che avevamo ascoltato precisamente or son 3 anni dalle dita magiche di un altro giovane virgulto del nostro pianismo, Gabriele Carcano. Il brano rappresenta una pietra miliare nella produzione pianistica mozartiana e la sua struttura è quanto di più innovativo (non solo per i suoi tempi) sia stato composto per la tastiera.

Approccio assai sostenuto (nell’agogica) esteso a tutti i tre movimenti, evidentemente deciso dalla coppia direttore-solista: personalmente avrei gradito un filino di vivacità in più, ma nell’insieme il tutto ha mantenuto un’assoluta coerenza. La cadenza dell’Allegro è di Orazio Sciortino, le altre due sono dello stesso Colli. Il quale ha mostrato le ormai acclarate qualità di grande protagonista del pianismo contemporaneo, ribadite da un mirabile bis. Sarò un po’ campanilista ma, essendo in origine suo concittadino, penso di non esagerare nel definire Colli - ieri applaudito anche da uno dei suoi maestri, Boris Petrushansky, pure lui di casa in Auditorium - il degno erede di un altro sommo bresciano: Arturo Benedetti Michelangeli.
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La seconda parte del concerto è dedicata ad un titolo del tutto desueto, la respighiana Sinfonia Drammatica (completata nel 1914) che il Direttore ha di recente riproposto all’attenzione dei musicomani, incidendola lassù in terra di Vallonia.

È fin troppo facile affibbiare a quest’opera epiteti poco edificanti: velleitaria, anacronistica, fumo-senza-arrosto, effetti-senza-cause e così via denigrando... Ed è innegabile che la sua fortuna non abbia nemmeno lontanamente avvicinato quella di simili composizioni coeve, che pur non si annoverano fra i capolavori assoluti: il Prométée di Scriabin (1910), la Decima di Mahler (1911), la Quinta di Sibelius (1915), la Alpensinfonie di Strauss (1915) o la Classica di Prokofiev (1917).

E dire che l’analisi approfondita (si veda ad esempio questa, proveniente dagli USA) della sua struttura (tematica, tonale e armonica) e del corposo materiale (appunti e schizzi) che il compositore bolognese ha lasciato, danno l’evidenza di un lavoro profondamente serio e meditato, non certo di una cosa buttata lì con superficialità e supponenza. Forse è stata proprio la smania di strafare dell'autore a nuocere a quest’opera, che continua ad apparire sovrabbondante, contorta, inestricabile e criptica.

Neschling ne ha esaltato i contrasti fra le pulsioni drammatiche (da cui il titolo) e le sezioni più dimesse ed elegiache e l’Orchestra, che credo fosse alla prima lettura del brano, si è meritata calorosi applausi da un pubblico piuttosto scarseggiante (complice forse il clima da... autunno inoltrato). Volendo ragionare in termini bassamente economici (e di spending review) si dovrebbe adesso ammortizzare l’investimento programmando la sinfonia come minimo nelle prossime 3-4 stagioni (!) Del resto, non vedo perchè non riservare a questo Respighi lo stesso trattamento che si garantisce al sinfonista Rachmaninov, per dire...

15 marzo, 2018

Dialoghi di convento a Bologna


Il Comunale di Bologna ha in cartellone in questi giorni (ultima recita domani) la più famosa opera di Francis Poulenc, i Dialogues, una produzione franco-belga del 2013 ripresa poche settimane fa anche a Parigi.
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Antoine Quentin Fouquier-Tinville. Chi era costui? Beh, senza volerlo è un personaggio (materialmente in scena o... appostato dietro le quinte) implicato in ben due diverse opere liriche ambientate negli ultimi giorni del terrore rivoluzionario del 1794. Precisamente gli otto giorni che vanno da giovedi 17 luglio (ghigliottinamento delle 16 carmelitane) a venerdi 25 luglio, quando la testa fu separata dal corpo di tale André Chénier.

Il nostro era il Procuratore del Tribunale Rivoluzionario, che in pochi mesi spedì al patibolo qualche migliaio (un’inezia...) di francesi - privati dei diritti di difesa! - fra i quali le 16 carmelitane di Compiègne (esaltate da Bernanos e poi da Poulenc) e subito dopo il poeta immortalato dalla coppia Giordano-Illica.

Per la cronaca già lunedi 28 luglio (tre giorni dopo la sentenza Chénier) la spietata legge del contrappasso reclamò i suoi diritti dal ghigliottinatore Maximilien-François-Marie-Isidore de Robespierre. Ma non molto dopo il contrappasso colpì anche il solerte magistrato, poichè giovedi 7 maggio 1795 toccò alla sua testa rotolare ai piedi dell’affilata lama del dottor Guillotin.

Piccoli dettagli che nulla tolgono alla gloria di quella Rivoluzione che ci ha regalato le meravigliose istituzioni che ancora reggono la nostra convivenza civile, oggi così degnamente illustrate da tipi come Renzi, Berlusconi, Salvini e DiMaio... Evabbè.
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Fra l’ispiratore Bernanos (il suo dramma teatrale è del 1947, rappresentato postumo nel ‘52) e il compositore Poulenc (l’opera venne composta fra il ’53 e il ’57) c’erano differenze quasi abissali sul piano, diciamo così, ideologico-filosofico-politico: il drammaturgo fu un monarchico conservatore (per non dire tout-court un reazionario, ma di quelli di sani principii, che gli impedirono di schierarsi con le dittature) mentre il musicista era un repubblicano sincero democratico. Forse l’unico comun denominatore fra i due era la fede cattolica, il che plausibilmente può spiegare l’innamoramento di Poulenc per il soggetto di Bernanos.

Peraltro l’opera - ancor più che il dramma teatrale - si concentra prevalentemente sugli aspetti controversi e problematici della personalità della protagonista Blanche, che portano in secondo piano quelli legati allo scenario politico in cui è ambientato il soggetto. Blanche è - si può ben dire - figlia della paura, quella che attanagliò sua madre e ne provocò il parto prematuro e fatale. La paura che la rende diffidente della realtà che la circonda e le consiglia il (sicuro?) rifugio in convento. La paura che la coglie di fronte al cadavere della Superiora che è spirata sotto i suoi occhi. La paura che le fa prillare fra le mani il piccolo Re, che cade in frantumi. La paura che la coglie dopo aver pronunciato (ma ne siamo proprio sicuri?) il voto del martirio, e che la fa fuggire verso la vecchia dimora, pur diventata per lei un luogo di schiavitù e non di agiatezza e sicurezza. La paura che alla fine sarà vinta (forse) da una paura ancor più insopportabile: quella di dover continuare a vivere!

Al proposito sono nate scuole di pensiero sulla definizione da dare del sacrificio di Blanche: un eroico gesto di martirio, di professione di fede, di compassione e comunità con le consorelle; oppure un suicidio in piena regola, proprio per sfuggire le proprie responsabilità, e come tale da condannare e non da santificare.

E immancabilmente anche le regìe teatrali non si sono lasciate sfuggire l’occasione. Il colmo è stato raggiunto quando il genio Cherniakov (Monaco 2010) si inventò, ma proprio nel vero senso della parola, un racconto invero strampalato (rispetto al soggetto originale): mostrando le suore come adepte di una sorta di setta satanica che alla fine decide un suicidio collettivo e Blanche che arriva ad impedirlo, per poi morire lei stessa. Per la prima (e credo unica) volta nella storia, organi di giustizia (primo, secondo grado e Cassazione francesi) sono stati chiamati a pronunciarsi sulla legittimità dei contenuti di una regìa di teatro (musicale). L’accusa (degli eredi di Bernanos e Poulenc) era di contraffazione dell’originale, e la pena richiesta era la proibizione della vendita del DVD. Primo grado a favore di Cherniakov (in realtà della BelAir, casa distributrice del DVD). Il secondo grado ribalta la sentenza, dando ragione ai ricorrenti e bandendo la vendita del DVD. La Cassazione (giugno 2017) ripristina la sentenza di primo grado. (Cosa che deve aver fatto felici gli adulteratori di Rolex e Lacoste e i madonnari che spacciano per autentici i loro vanGogh!)
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Il povero Olivier Py non ebbe e non avrà la soddisfazione - e la pubblicità - di subire un triplice grado di giudizio per vilipendio dell’abito monacale e falsificazione di soggetti teatrali, così impara a mettere in scena precisamente ciò che il librettista-musicista ha pensato, scritto e composto (peggio per lui...)

L’allestimento è in effetti quanto di più calato nello spirito (la lettera qui conta davvero poco...) del testo di Bernanos e della musica di Poulenc. Dei quali restituisce la profonda riflessione sulla vita, la morte, l’ossessione esistenziale, il distacco fra l’individuo e il mondo circostante, la fede e la disperazione: semplicemente rendendo visibili quei concetti che il testo e la musica così mirabilmente evocano.

Gli ambienti spogli e prevalentemente bui, illuminati da lame di luce taglienti come le spade che trafiggono i cuori (e mozzano... le teste); la gestualità dei personaggi, la mancanza di cromatismo di scene e costumi: tutto congiura nel portare lo spettatore ad immergersi in quest’atmosfera da esercizi spirituali, senza peraltro aggiungere alcunchè di estraneo o di surrogato al soggetto originale.

Lodevole anche la parte tecnica dell’allestimento, che impiega mezzi apparentemente semplici, ma manovrati con grande sapienza, e sfrutta anche un paio di palchi di proscenio (nel terzo atto) per rendere fluido il procedere del dramma, senza dover ricorrere a complicati cambi di scena.

Meritati gli applausi che alla fine hanno accolto, primi ad uscire, i tecnici protagonisti della parte scenica.
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Poulenc dichiarò pubblicamente di rifarsi a Debussy, Monteverdi, Verdi e Musorgski (più Mozart, non nominato per... rispetto) mentre si tenne sempre alla larga dal modello wagneriano. Tuttavia (proprio come Debussy nel suo Pelléas) anche Poulenc nei Dialogues fa ampio uso dei Leit-motive, temi ricorrenti associabili a personaggi e soprattutto ad atmosfere e stati d’animo. Come ad esempio i temi della paura, dell’ansietà e del timore, che evocano principalmente le pulsioni della psiche di Blanche; alla cui personalità viene peraltro riservato un motivo delicato e dolcemente mosso; e poi il tema della pacificazione (o della rinuncia, o del conforto divino) che chiude il primo quadro e che significativamente ricompare proprio nelle battute finali dell’opera. E così via, una rete di motivi che sottolineano i caratteri dei personaggi e le situazioni che si dipanano sotto i loro (e i nostri) occhi.

Davvero memorabile la scena conclusiva, con uno dei Salve Regina più strazianti che si ricordino in musica. Poulenc altera la sequenza delle esecuzioni rispetto alla storia, invertendo le posizioni di Constance e della Priora: nell’opera è quest’ultima la prima ad essere ghigliottinata, Constance l’ultima, dovendo incontrare Blanche e vedere compiuto così il suo sogno di morire con lei.

Le 15 suore (Marie è fuggita) sono divise in due gruppi: primo gruppo (soprani): Priora, Constance e 6 Suore; secondo gruppo (mezzosoprani): Jeanne, Mathilde e 5 Suore. Blanche arriverà poi, cantando la giaculatoria conclusiva dal Veni Creator. I due gruppi di suore cantano praticamente in unisono (le sole eccezioni essendo rappresentate da poche note che sono abbassate di un’ottava per i mezzosoprani). In sottofondo il coro completo (SATB) che rappresenta la folla, commenta a bocca chiusa o con semplici vocali (oi-a-o-u) le esecuzioni. Qui sotto ho inserito nel testo sacro cantato i 16 sordi tonfi della lama e (a fianco; suora-gruppo) la vittima di ciascuna calata:

Salve, Regina, Mater misericordiae,
vita, dulcedo et spes nostra, salve.
et spes nostra, salve.<1>                                                (Priora)
Salve, Regina, Mater misericordiae,   
vita, dul<2>cedo et spes nostra, salve.                            (S1 g2)
Salve, Regina, Mater misericordiae,
vita, dulcedo et <3>spes nostra, salve.                            (S1 g1)
Ad te clamamus, ex<4>sules filii Hevae.<5>                    (S2 g2) - (S2 g1)
Ad te suspira<6>mus, gementes et flentes                       (S3 g2)
Ad<7> te suspiramus, gemen<8>tes et flentes                 (S3 g1) - (S4 g2)
in hac lacrimarum, lacrimarum valle.
E<9>ia ergo, advocata nostra, illos tuos                          (S4 g1)
misericor<10>des oculos ad nos converte.                      (S5 g2)
Et<11> Jesum, benedictum fructum ven<12>tris tui,      (S5 g1) - (S6 g1)
nobis, post hoc exilium, osten<13>de.                            (Mathilde)
O clemens, o pia, o dulcis Virgo Maria.                     
O dulcis Virgo Mari<14>a.                                              (Jeanne)
O clemens, o pia, o dulcis Virgo M<15>...                       (Constance)

Deo Patri sit gloria
Et Filio qui a mortuis surrexit Paraclito
In saeculorum saecula. In saeculorum<16>...                  (Blanche)

I colpi di ghigliottina arrivano a intervalli irregolari, talvolta nel bel mezzo di una parola: un tocco questo di macabro realismo.
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Il giovane Jérémie Rhorer ha guidato l’Orchestra del Comunale (cui non possono andare che elogi) con forse eccessiva foga: con il risultato di mettere sì in risalto tutte le preziosità della partitura, ma al prezzo di non valorizzare al meglio le voci, spesso coperte allorquando chiamate a declamare e quasi a parlare.

A proposito di voce, lo stesso Poulenc indicò persino dei modelli di vocalità per le sue 5 protagoniste, mutuati dai suoi modelli di compositore: Thaïs (Blanche), Amneris (Croissy), Desdemona (Lidoine), Kundry (Marie) e Zerlina (Constance). E devo dire che la compagnia (tutta francofona) di carmelitane ha degnamente risposto all’appello. Su tutte metto personalmente la Lidoine di Marie Adeline Henry, che ha sciorinato una gran voce, in potenza ed espressività (il suo arioso è stato davvero travolgente). Ma anche la Croissy di Sylvie Brunet e la Marie di Sophie Koch sono state assolutamente all’altezza. Benissimo anche la Constance di Sandrine Piau, efficacissima con la sua voce acuta e impertinente; appena un filino sotto la pur brava protagonista, Hélène Guilmette, un poco in difficoltà sui centri e sui gravi (ma complice, come detto, il Direttore).

Splendido lo Chevalier di Stanislas de Barbeyrac, una gran voce da tenore lirico-eroico che penso farà sempre più parlare di sè. Da elogiare in blocco tutti/e gli/le altri/e, incluso il coro di Faidutti che arriva solo alla fine, fuori scena e senza profferire parole articolate, ma contribuisce a creare quella mirabile atmosfera del Salve Regina.

Successo davvero strepitoso, salutato da un pubblico non proprio foltissimo ma entusiasta.

10 marzo, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°17



Il padrone di casa Claus Peter Flor risale sul podio dell’Auditorium per proporci una strana coppia: l’ultimo (o quasi) lavoro di un grande sconfitto e il pianto di chi sarà vincitore ma pagando un prezzo insopportabile per la vittoria (non sto parlando di musica, ovviamente, ma di guerre!)

Il ciclo dei Vier letzte Lieder (la penultima, se non ultima, fatica compositiva di Richard Strauss) fu composto nel corso del 1948 in Svizzera, tra Montreux e Pontresina, dove l’84enne bavarese (morirà di lì a un anno senza poterlo ascoltare) era esiliato dopo la caduta del nazismo, al quale lui mai si era opposto con fermezza, pur mantenendo con esso rapporti non certo di plateale connivenza. Un mondo fatto di notorietà, ricchezza e predominio culturale gli era letteralmente crollato addosso, con tutte le croci uncinate di cui quel mondo si era stoltamente fregiato per più di un decennio. Ebbene, in condizioni di autentica indigenza, quasi costretto a chiedere elemosine per strada, il grande Richard trovò modo di sfornare questo incredibile capolavoro. Poco più di 20 minuti di musica ottocentesca che esteticamente - per me - valgono più di tutta quanta la produzione di musica novecentesca messa insieme.

Il ciclo peraltro non fu concepito come tale (Strauss accettò quasi di malavoglia di comporlo solo per soddisfare una richiesta dei suoi famiiari) e l’Autore nemmeno indicò con precisione un titolo nè una sequenza esecutiva dei 4 brani. Titolo e sequenza che furono opera dell’editore Bosey (Ernest Roth) al momento di pubblicarli per la prima esecuzione, che avvenne nella sterminata Royal Albert Hall lunedi 22 maggio 1950, interpreti Flagstadt e Furtwängler). Da allora viene eseguito ed inciso in quella fatta.

La sequenza di esecuzione - pur non essendo verosimilmente farina del sacco di Strauss - segue un canovaccio che si potrebbe liberamente definire Le quattro stagioni dell’esistenza. Le prime tre sono su testi di Hesse e la quarta su testo di von Eichendorff. È probabilmente casuale che la durata dei quattro Lieder sia continuamente crescente, ma mi piace vedere in questo la percezione (di progressiva decelerazione, o di aumento di entropia) che del suo ciclo vitale ha chi si sente consapevolmente vicino alla meta.
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Qualche nota sui contenuti, seguendo questa apprezzabile interpretazione della grande Lucia Popp con il grande Klaus Tennstedt. 

- Frühling è una Primavera che l’anima vive nella sua aspettativa, nel buio invernale di grotte e sepolcri, prima di vederla esplodere davanti a sé in tutta la sua magnificenza. Tempo Allegretto, 6/8. Dopo la breve e concitata introduzione strumentale (tonalità appropriatamente di DO minore) nella prima delle tre strofe (8”, In dämmrigen Grüften) il poeta ricorda i sogni d’inverno, fatti in ambienti freddi e cupi. Sogni però che (20”, von deinen Bäumen, con la tonalità che modula arditamente a SI maggiore) sono popolati da alberi in fiore, azzurre brezze primaverili e (32”, von deinen Duft, mentre la tonalità ancora modula faticosamente a MIb maggiore, la Natura!) da profumi e uccellini cinguettanti.

Un breve interludio strumentale porta verso il DO maggiore (altra tonalità classicamente legata alla Natura) per l’attacco della seconda strofa (1’12”, Nun liegt du erschlossen) dove si canta l’arrivo della Primavera, come un prodigio.

Una nuova modulazione ci ha portati, passando dal MI, al LA maggiore e il tempo muta a 9/8, più tranquillo, per la terza strofa (2’02”, Du kennst mich wieder): è l’estasi da godimento della stagione che fa vibrare nuovamente tutte le membra del poeta, accompagnandone lo stupore di fronte allo spettacolo del creato. Sei battute strumentali in LA maggiore chiudono languidamente il Lied.  

- In September (3’51”) è l’Estate che giunge alla fine, ma che ancora sorride stupenda e languida, splendida nel suo crepuscolo. Tempo Andante, 4/4. Dopo quattro battute strumentali, la prima strofa (4’09”, Der Garten trauert) è in RE maggiore come l’introduzione, ma degrada subito (4’14”) a RE minore all’evocazione delle gocce di pioggia che cadono sui fiori. I versi 3-4 (4’33”, Der Sommer schauert) si spostano sulla sottodominante SOL maggiore per poi modulare a SIb: è l‘Estate che lentamente e tranquillamente si avvia a concludersi.

La seconda strofa (4’59”, Golden tropft Blatt um Blatt) degrada dolcemente a SOLb maggiore, evocando la caduta delle dorate foglie dell’acacia; chiude però il secondo verso ancora sul SOL naturale, che permane per i due restanti versi (5’30”, Sommer lächelt). Essi però chiudono modulando (6’06”, 4 battute strumentali) a MI maggiore.

Degradando di un semitono (MIb) si apre la terza strofa (6’22”, Lange noch bei der Rosen) dove poi (6‘54“) la tonalità si adagia ulteriormente al RE maggiore per chiudere (7‘50“) con 9 battute aperte da una cadenza del corno, a dir nulla stupefacente.

- In Beim Schlafengeh’n (9’09”) siamo davanti all’Autunno dei sensi che si assopiscono, mentre l’anima in liberi voli si librerà. Tempo Andante, 4/8. L’attacco strumentale è in LAb maggiore (FA minore) e così pure quello della voce (9’36”, Nun der Tag mich müd gemacht): il poeta è stanco e si prepara al riposo.

La prima strofa si chiude modulando a MI maggiore e sulla relativa DO# minore si apre la seconda (10’24”, Hände lasst von allem Tun). Dopo un fugace passaggio in RE maggiore, sulle parole che esprimono il desiderio dei sensi di sprofondare, ecco che la musica se ne fa interprete, degradando dal RE (attraverso relazione enarmonica della sua sensibile DO#) al REb maggiore!

Qui (11’08”) ecco uno sbudellante assolo del violino - una delle cose più sublimi mai uscite dalla penna di un compositore (a qualcuno di Darmstadt dovettero fischiare le orecchie!)  - che introduce la voce per la strofa finale del Lied (12’20”, Und die Seele unbewacht): è l’anima che si libra nel magico cerchio della notte per vivere... mille volte ancora. 10 battute strumentali di estatica contemplazione suggellano questo autentico gioiello.

Nell’epilogo di Im Abendrot (15’31”, questo Lied di von Eichendorff ha quattro invece di tre strofe) arriviamo (ciclicamente...) all’Inverno della vita, quello della vasta e silenziosa pace. Uno sguardo sereno (sì, ma con un magone così…) al tramonto dell’esistenza, ma insieme a quello del grande, glorioso, indimenticabile e irripetibile ‘800 romantico. Tempo Andante, 4/4 e 3/2, tonalità di attacco - della lunga introduzione strumentale - MIb maggiore (con sfumature di DO minore) e sulla stessa tonalità (16’41”, Wir sind durch Not und Freude) entra la voce: il poeta invita la sua musa a riposare con lui su una terra tranquilla, dopo che insieme sono passati - mano nella mano - attraverso i dolori e le gioie della vita.

La strofa si chiude sulla dominante SIb, che nella seconda strofa (17’42”, Rings sich die Täler neigen) porta al SOLb maggiore, anche qui con sfumature di minore: è l’oscurità della sera che comincia ad incombere e solo due allodole (evocate da trilli dei flauti) svolazzano nell’aria. La tonalità sfiora ora, innalzadosi, il LA maggiore (18’10”, zwei Lerchen).  

Nella terza strofa (18’34”, Tritt her und lass sie schwirren) si torna a MIb maggiore: il poeta invita la sua musa a dormire con lui. Si modula ancora alla dominante SIb, sempre alternando maggiore e minore.

La strofa conclusiva (19’31”, O weiter, stiller Friede!) ci riporta dal SIb al MIb maggiore (20’04”, So tief im Abendrot): il poeta manifesta la sua stanchezza per il lungo vagare e si domanda se è quello, per caso, l’annuncio della morte. Un SOLb (20’51”, ist dies) è diventato enarmonicamente la mediante di RE maggiore, sulla quale tonalità (20’56”) il corno presenta un motivo che viene dal remoto ‘800, motivo reiterato dopo l’ultima parola (21’29” Tod, appunto).

Si tratta di un frammento del tema dell’ideale, da Tod und Verklärung, scritto appena sessant’anni prima: là concludeva – la trasfigurazione! – in un affermativo DO maggiore… qui c’è ancora grande serenità, ma dal 1889 i tempi sono cambiati, ciò che là si era descritto dal di fuori adesso lo si vive dal di dentro, ma soprattutto tante illusioni e tanti ideali (appunto!) sono annegati in un diluvio di sangue, quindi bisogna... abbassare i toni; precisamente di un semitono, a DO bemolle. Per poi chiudere (23’07”) citando l’adagio della settima bruckneriana – già di per sé carico di simboli, essendo l’estremo omaggio al maestro Wagner, compromesso a sua insaputa nella catastrofe - anche qui abbassato di un semitono, a MIb, con i flauti a seguire ancora gli svolazzi delle allodole. Ecco: rimandi, significati, segnali, allusioni, ammiccamenti e ripensamenti che soltanto la musica consente di esprimere in modo così stupefacente!
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Ieri devo dire che sono rimasto un po’ deluso dalla prestazione complessiva: la cicciottella Gal James ha mostrato una voce ben tornita negli acuti, pur con vibrato poco gradevole; ma decisamente carente nei centri e nei gravi (il REb non è proprio uscito...); all’inizio ho avuto l’impressione anche di qualche problema di intonazione. Flor da parte sua mi è parso un po’ troppo uniforme, con una tavolozza di colori piuttosto sbiaditi; ha anche talvolta coperto la voce del soprano. Insomma, è pur sempre musica sublime, ma... si poteva sperare di meglio, ecco.
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Per fortuna il meglio è arrivato con l’Ottava di Shostakovich, che tornava a risuonare in Auditorium (Caetani) dopo più di quattro anni. Sinfonia assai difficile e complessa (non dirò contorta) che non è certo di facile digestione. Ma l’esecuzione dei ragazzi (autentici esperti di questo repertorio) è stata davvero encomiabile. Meritati i lunghissimi (e anche ritmati) applausi che il folto, pur non oceanico, pubblico ha riservato a tutti.

04 marzo, 2018

In musica tutto ritorna



É nota l’influenza che su Béla Bartók ebbero i rappresentanti della Scuola di Vienna, oltre a Debussy, Stravinski ed altri innovatori in musica del ‘900.

Ascoltando il Quartetto op.3 di Alban Berg, all’inizio del secondo movimento (Mäßige Viertel) la mia attenzione era sempre stata attirata da un breve motivo, esposto da viola e cello, al quale non avevo in precedenza dato troppo peso, ma che mi ricordava qualcosa di già udito da qualche altra parte, che non riuscivo però a mettere a fuoco.

Poi, all’improvviso, ecco il lampo che ha illuminato lo scenario: quel motivo del giovane Berg (1910) è stato citato, non proprio alla lettera (cadute di quarte anzichè quinte) ma in modo - almeno secondo me - consapevole, dal tardo Bartók (1945) nel primo movimento del suo Concerto per Orchestra. Dove il motivo appare tre volte, le prime due come ponte fra i temi principali, la terza come cadenza conclusiva.


Ecco i reperti: per Berg a 10’30”; per Bartók a 9’53”.

02 marzo, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°16



É Kolja Blacher, gran virtuoso di violino e pure direttore, a tornare dopo poco più di un anno sul podio dell’Auditorium per dirigervi questa settimana un programma inconsueto, che accosta il fanciullesco, ottimistico Mendelssohn al disincantato e problematico Bartók. Sul palco una formazione sparuta, così per par-condicio anche il pubblico si adegua e lascia in sala un gran numero di poltrone vuote (poi ci sono gelo e neve a sconsigliare uscite temerarie...)

Come suo costume, Blacher si siede al posto della spalla (Dellingshausen trasla al concertino... poi recupera il posto nel Concerto, dove Blacher ovviamente se ne sta in piedi) e da lì dirige l’Orchestra: insomma, una sintesi Kapellmeister-Konzertmeister di antica memoria.

Mendelssohn era poco più di un ragazzino quando compose l’Ouverture del Sogno (anni e anni più tardi ci aggiungerà altre musiche di scena): una cosa geniale, degna di Mozart. Ascoltarla è sempre un balsamo contro ogni malattia, comprese quelle trasmesse dalla campagna elettorale (che per fortuna è in vista della chiusura). Splendida l’esecuzione, con i quattro accordi dei fiati a chiudere nel celestiale MI maggiore.

Si resta in MI (dapprima minore, ma alla fine maggiore) per il più celebre dei Concerti per violino. Blacher ci dà dentro con energia, ne dà una lettura eroica, senza troppe concessioni a leziosità settecentesche, anche il tenero Andante viene approcciato quasi come un Allegro moderato e non si risparmiano forti tinte nei ripieni orchestrali. Insomma, un’interpretazione maschia e un po’ lontana da certi stereotipi troppo apollinei.

Pubblico entusiasta ed applausi ritmati, con speranza di bis, che però (comprensibilmente) non arriva.
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Dopo l’intervallo ecco il Divertimento per archi di Bartók, composto nel ’39, alla vigiia dell’esilio americano del compositore, che non potè sopportare oltre l’avvento del nazismo anche a casa sua.

L’organico previsto è di 22 escutori (6+6-4-4-2). Per pura curiosità le straussiane Metamorphosen, di pochi anni posteriori, prevedono 23 esecutori (10-5-5-3) con un organico quindi di baricentro più spostato verso i bassi. Blacher comunque non ci fa caso e aumenta il pacchetto di un buon 50% (a occhio) il che può giudicarsi un bene o un male a seconda dei gusti di ciascuno.

Interessante notare come sulla partitura di Bosey siano indicati i tempi di esecuzione addirittura di singole sezioni del brano (forse non precisamente corrispondenti ai classici segmenti delle forme classiche); un dato tecnico (diciamo così) che certamente proviene dal compositore, o da lui è stato espressamente accettato, e che ci può aiutare a decifrare la struttura dei tre movimenti e la loro teorica durata: 8’16”+7’24”+6’33 = 22’13”.

Non ho impugnato il cronometro, ma a orecchio direi che Blacher abbia allungato un po’ i tempi, anche se mai tanto quanto fa qui il grande Boulez con la CSO, che sfora i 26’.

L’Allegro non troppo iniziale presenta una struttura assai articolata (c’è chi ci vede una forma-sonata piuttosto eterodossa) con almeno tre temi principali, che creano contrasti sonori legati all’alternarsi di interventi solistici al tutti orchestrale.

Mirabile l’attacco in pianissimo del Molto adagio, nel quale si possono distinguere tre sezioni, la prima delle quali torna in chiusura, seguita da una coda in cui il suono va letteralmente a morire.

Gagliardo il conclusivo Allegro assai, un rondò impreziosito nella sezione centrale da un breve ma accattivante assolo del violino. La chiusura è esilarante, a dispetto delle non certo serene condizioni psicologiche che l’Autore viveva mentre ne vergava le note.

Successo caloroso per questa che pare essere stata la prima esecuzione del pezzo qui a laVerdi. Adesso lo si potrà mettere in repertorio, perchè se lo merita proprio.