Ieri pomeriggio
si sono concluse alla Fenice le
recite dell’opera che ha inaugurato la stagione 15-16: Idomeneo. Come al solito pregevolissimo, oltre che puntuale nella disponibilità
online, il programma
di sala.
Dirò subito che
il finale sarebbe magari stato grandissimo se l’opera fosse stata data in forma
di concerto! Sì, perché la messinscena ha proprio fatto piangere (o ridere, a
seconda dei gusti).
___
Si descrive di
solito Idomeneo come persona di gran nobiltà d’animo, ma a me pare che nel
libretto di Giambattista Varesco
(mutuato a sua volta da altre opere, oltre che dalla mitologia) il nostro non
ci faccia propriamente una gran figura. Sarà pure un sovrano amato dal suo
popolo, sarà pure un valoroso combattente, addirittura una testa di cuoio salito a bordo del cavallone-trappolone in quel di
Troia, dove era sbarcato con una flotta di ben 80 navi cretesi. E – riportano
le cronache – anche un gran bell’uomo, con il fascino del classico quarantenne
in carriera. Insomma, un personaggio giganteggiante nel panorama mitologico
dell’antica Grecia.
Però questo
colosso d’acciaio mostra di avere i piedi di… cartapesta. Dico, non appena un
po’ di maretta sorprende la sua nave di ritorno da Troia e ormai in vista di
Creta, il colosso si ca.. sotto e per cercare misericordia dal manovratore-di-marette
(tale Poseidon o Nettuno che dir si voglia) cosa gli promette? Di fargli costruire
un tempio in ogni città cretese? Di fare in suo onore un pellegrinaggio a piedi
fino a Cnosso e Festo e ritorno? Di fargli dono di un tridente d’oro tempestato
di perle e diamanti? No, lui fa molto di più, gli promette nientemeno che un
sacrificio umano (allora andava di moda). E di chi si tratta? Di se stesso, al fine di salvare i compagni? Di un figlio
(stile Agamennone)? Di una nipotina? Toh, della suocera? Di un parente anche
lontano? No no, gli promette di immolargli… il
primo malcapitato che passa sulla spiaggia! Apperò che coraggio, che
spirito di sacrificio! Pare Renzi quando proclama di mettere la mano – di
Guerini – sul fuoco!
Beh, che il malcapitato si sia rivelato proprio come
il suo unico figlio Idamante, lui se
lo è ampiamente meritato e pochi dubbi sussistono che fosse lo stesso protettore-degli-acquari
(la didascalia della Pantomima
recita: Nettuno
riguardandolo con occhio torvo e minaccevole…) a
combinargli a bella posta quel simpatico incontro (lui stesso se ne capacita
imprecando: spietatissimi
dei, ma è lui che se l’è voluta!) E a poco serve che, una volta in
salvo, si mostri quasi pentito – a frittata fatta! - della sua promessa. E
cerchi poi con maldestri sotterfugi persino di disattenderla, attirandosi così le
ulteriori ire di Nettuno (sotto forma del famelico mostro). Soltanto quando finalmente
accetterà tutte le conseguenze del suo gesto inconsulto e (come Abramo con
Isacco) si appresterà a vibrare il colpo mortale sul figlio, solo allora potrà
trovare comprensione e perdono dal dio offeso, e comunque a condizione di farsi
da parte e cedere il trono.
Per insaporire la trama con un minimo di amori e
gelosie assortite, ecco che su Creta convergono da lontani e opposti lidi due
donne, che si contenderanno l’amore del futuro sovrano Idamante. Una arriva dal
continente, in particolare da Argo-Micene, dopo aver compiuto con il fratellino
una simpatica vendetta… facendo secchi la madre e l’amante di costei: trattasi
di tale Elettra, figlia di
Agamennone. L’altra invece è una nobile prigioniera di guerra: la troiana Ilia, figlia di Priamo, che Idomeneo ha
spedito a casa in anticipo su una delle sue 80 navi; guarda caso anche lei fa
naufragio, ma Idamante la porta in salvo e così… nasce l’amore, che ovviamente
è per Elettra come fumo negli occhi.
Completano il cast
un confidente di Idomeneo, tale Arbace
e il Gran Sacerdote di Nettuno, oltre
ai cori del popolo cretese, di prigionieri troiani e di marinai al seguito di
Elettra. In più si ode la Voce (o
meglio il porta-voce) di Nettuno che
reca il perdono e consente così il lieto
fine (salvo che per Elettra, che toglie il disturbo proprio un attimo
prima).
___
Beh, dobbiamo ammettere che il soggetto è deboluccio
assai, ma ciò non impedì al Teofilo
di costruirci sopra forse il suo più bel lascito per la musica di tutti i tempi.
E questa produzione della Fenice ce lo ha riproposto –
sul piano musicale – in modo davvero convincente. A partire dalla splendida
prestazione dell’Orchestra, che evidentemente ha risposto al meglio alle
sollecitazioni di Jeffrey Tate, praticamente
perfetto nel tradurre in suoni quell’autentico scrigno di tesori che è l’immensa
partitura mozartiana. E da quella del Coro di Claudio Marino Moretti, che nell’opera ha un ruolo fondamentale, di
protagonista attivo, oltre che di testimone (alla greca) degli avvenimenti.
Su un livello più che soddisfacente il cast delle voci, tutte egualmente meritevoli
di apprezzamento: a partire dal protagonista, un autorevole Brenden Gunnell, che pur non essendo
chiamato ad acuti stratosferici (non va, la sua parte, sopra il SOL) sa ben
destreggiarsi con gli impegnativi vocalizzi in cui Mozart lo impegna, culminanti
nella famosa Fuor
dal mar. Più che discreta la prestazione di Anicio Zorzi Giustiniani, un Arbace cui Mozart affida due arie
magari non ispiratissime, ma di discreta difficoltà virtuosistica, che il
nostro sa rendere al meglio: voce sottile ma penetrante e intonazione sempre
corretta. Completano degnamente la parte maschile della compagnia le figure del
Gran Sacerdote (Krystian Adam) e
della Voce di Michail Leibundgut, che mi è parso (potrei
sbagliare) arrivasse in sala diffusa da amplificatori (in uno con i suoni dei
tromboni che la accompagnano).
Sul fronte delle interpreti femminili, benissimo Monica Bacelli, che si districa agevolmente
in una parte originariamente scritta per castrato
e spesso interpretata da tenori. Bene la Elettra di Michaela Kaune (che magari sforza fin troppo il suo carattere
spigoloso) e discreta anche se non trascinante la prova della Ilia di Ekaterina Sadovnikova.
Per tutti grandi applausi finali da parte di un
pubblico assai numeroso (anche se non c’era l’esaurito).
___
Ed ora le note dolenti, legate all’allestimento. Il
sudafricano dal nome italico di Alessandro
Talevi mette su uno spettacolo tanto velleitario quanto inconsistente e
persino travisante lo spirito, oltre che la lettera, di libretto e musica. Ci
troviamo riferimenti alla lotta di classe (magari non quella di Marx) fra i
cretesi-bene (lascivi, dissoluti e depravati) e quelli che lavorano (i marinai,
proletari); poi ai conflitti di cui soffre la nostra civiltà attuale (i
migranti, che vengano dall’interno – Argo – o dalla periferia – Troia –
trattati come sub-umani); infine ecco le pratiche oggi apostrofate come rottamazione, culminanti nell’ingloriosa
e umiliante fine di cui viene gratificato il povero Idomeneo. In compenso, il
rottamatore Idamante, ormai in età da… trono, mostra la sua preoccupazione per
le sorti del padre stringendo al petto la barchetta-giocattolo avuta in regalo
da bambino: ecco un bell’esempio di caratterizzazione dei personaggi! Insomma, un
Konzept (come lo chiamano i crucchi)
piuttosto deludente.
Le scene di Justin
Arienti sono un misto di bambinesca ingenuità e di kitsch che sfiora il ridicolo. Due esempi: il mare fatto di grossolani
rulli, e lo studio di Idomeneo, ingombro di statue di Nettuno, modellini di
navi, volumi impolverati, fauci di squali, candelieri sullo scrittoio… Da far
proprio pena.
Anche i costumi e le acconciature (Manuel Pedretti) sono in linea con tutto
il resto: un put-pourri di… stili (!) davvero indecoroso: per dire, Arbace nel
second’atto pare… Mefistofele, poi Elettra si prepara a partire con tanto di valigetta
di metallo; insomma, trovate gratuite e ridicole. Ci sarebbero anche movimenti
coreografici (Nikos Lagousakos) sui quali
mi limito a sorvolare. Delle luci di Giuseppe
Calabrò mi son rimaste impresse soltanto le due circostanze in cui la luce…
si spegne, per far subito posto a scoppi e lampi (che alla prima avevano indotto la direzione del teatro ad emanare un preventivo
avvertimento al pubblico, in senso tranquillizzante, stanti i precedenti al Bataclan…)
Non parliamo delle scene di massa, fra le quali citerei
solo quella dei festeggiamenti a fine primo atto, una pantagruelica tavolata
gigante con enormi vassoi di spaghetti-allo-scoglio,
aragoste, pesce spada e polipone lesso, il tutto annaffiato con abbondante prosecco
(resinato?); e quella di fine del second’atto, dove compare un lombricone nero
che avvolge nelle sue spire il popolo terrorizzato. Ma come dimenticare l’orripilante
sfondo (a sipario chiuso, tutto avviene al proscenio) che accompagna le prime
scene dell’atto terzo: tre fili per stendere biancheria, che attraversano in
larghezza l’intero palcoscenico, ai quali sono appesi brandelli di indumenti
lordi e macchiati di sangue, evidente risultato delle scorribande del
lombricone. Mamma mia!
___
Ripeto: data in forma di concerto, sarebbe stata un’edizione
da incorniciare.