intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

29 novembre, 2015

Gran finale dell’Idomeneo in laguna

 

Ieri pomeriggio si sono concluse alla Fenice le recite dell’opera che ha inaugurato la stagione 15-16: Idomeneo. Come al solito pregevolissimo, oltre che puntuale nella disponibilità online, il programma di sala.

Dirò subito che il finale sarebbe magari stato grandissimo se l’opera fosse stata data in forma di concerto! Sì, perché la messinscena ha proprio fatto piangere (o ridere, a seconda dei gusti).
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Si descrive di solito Idomeneo come persona di gran nobiltà d’animo, ma a me pare che nel libretto di Giambattista Varesco (mutuato a sua volta da altre opere, oltre che dalla mitologia) il nostro non ci faccia propriamente una gran figura. Sarà pure un sovrano amato dal suo popolo, sarà pure un valoroso combattente, addirittura una testa di cuoio salito a bordo del cavallone-trappolone in quel di Troia, dove era sbarcato con una flotta di ben 80 navi cretesi. E – riportano le cronache – anche un gran bell’uomo, con il fascino del classico quarantenne in carriera. Insomma, un personaggio giganteggiante nel panorama mitologico dell’antica Grecia.

Però questo colosso d’acciaio mostra di avere i piedi di… cartapesta. Dico, non appena un po’ di maretta sorprende la sua nave di ritorno da Troia e ormai in vista di Creta, il colosso si ca.. sotto e per cercare misericordia dal manovratore-di-marette (tale Poseidon o Nettuno che dir si voglia) cosa gli promette? Di fargli costruire un tempio in ogni città cretese? Di fare in suo onore un pellegrinaggio a piedi fino a Cnosso e Festo e ritorno? Di fargli dono di un tridente d’oro tempestato di perle e diamanti? No, lui fa molto di più, gli promette nientemeno che un sacrificio umano (allora andava di moda). E di chi si tratta? Di se stesso, al fine di salvare i compagni? Di un figlio (stile Agamennone)? Di una nipotina? Toh, della suocera? Di un parente anche lontano? No no, gli promette di immolargli… il primo malcapitato che passa sulla spiaggia! Apperò che coraggio, che spirito di sacrificio! Pare Renzi quando proclama di mettere la mano – di Guerini – sul fuoco!

Beh, che il malcapitato si sia rivelato proprio come il suo unico figlio Idamante, lui se lo è ampiamente meritato e pochi dubbi sussistono che fosse lo stesso protettore-degli-acquari (la didascalia della Pantomima recita: Nettuno riguardandolo con occhio torvo e minaccevole) a combinargli a bella posta quel simpatico incontro (lui stesso se ne capacita imprecando: spietatissimi dei, ma è lui che se l’è voluta!) E a poco serve che, una volta in salvo, si mostri quasi pentito – a frittata fatta! - della sua promessa. E cerchi poi con maldestri sotterfugi persino di disattenderla, attirandosi così le ulteriori ire di Nettuno (sotto forma del famelico mostro). Soltanto quando finalmente accetterà tutte le conseguenze del suo gesto inconsulto e (come Abramo con Isacco) si appresterà a vibrare il colpo mortale sul figlio, solo allora potrà trovare comprensione e perdono dal dio offeso, e comunque a condizione di farsi da parte e cedere il trono.

Per insaporire la trama con un minimo di amori e gelosie assortite, ecco che su Creta convergono da lontani e opposti lidi due donne, che si contenderanno l’amore del futuro sovrano Idamante. Una arriva dal continente, in particolare da Argo-Micene, dopo aver compiuto con il fratellino una simpatica vendetta… facendo secchi la madre e l’amante di costei: trattasi di tale Elettra, figlia di Agamennone. L’altra invece è una nobile prigioniera di guerra: la troiana Ilia, figlia di Priamo, che Idomeneo ha spedito a casa in anticipo su una delle sue 80 navi; guarda caso anche lei fa naufragio, ma Idamante la porta in salvo e così… nasce l’amore, che ovviamente è per Elettra come fumo negli occhi.

Completano il cast un confidente di Idomeneo, tale Arbace e il Gran Sacerdote di Nettuno, oltre ai cori del popolo cretese, di prigionieri troiani e di marinai al seguito di Elettra. In più si ode la Voce (o meglio il porta-voce) di Nettuno che reca il perdono e consente così il lieto fine (salvo che per Elettra, che toglie il disturbo proprio un attimo prima).  
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Beh, dobbiamo ammettere che il soggetto è deboluccio assai, ma ciò non impedì al Teofilo di costruirci sopra forse il suo più bel lascito per la musica di tutti i tempi.

E questa produzione della Fenice ce lo ha riproposto – sul piano musicale – in modo davvero convincente. A partire dalla splendida prestazione dell’Orchestra, che evidentemente ha risposto al meglio alle sollecitazioni di Jeffrey Tate, praticamente perfetto nel tradurre in suoni quell’autentico scrigno di tesori che è l’immensa partitura mozartiana. E da quella del Coro di Claudio Marino Moretti, che nell’opera ha un ruolo fondamentale, di protagonista attivo, oltre che di testimone (alla greca) degli avvenimenti.

Su un livello più che soddisfacente il cast delle voci, tutte egualmente meritevoli di apprezzamento: a partire dal protagonista, un autorevole Brenden Gunnell, che pur non essendo chiamato ad acuti stratosferici (non va, la sua parte, sopra il SOL) sa ben destreggiarsi con gli impegnativi vocalizzi in cui Mozart lo impegna, culminanti nella famosa Fuor dal mar. Più che discreta la prestazione di Anicio Zorzi Giustiniani, un Arbace cui Mozart affida due arie magari non ispiratissime, ma di discreta difficoltà virtuosistica, che il nostro sa rendere al meglio: voce sottile ma penetrante e intonazione sempre corretta. Completano degnamente la parte maschile della compagnia le figure del Gran Sacerdote (Krystian Adam) e della Voce di Michail Leibundgut, che mi è parso (potrei sbagliare) arrivasse in sala diffusa da amplificatori (in uno con i suoni dei tromboni che la accompagnano).

Sul fronte delle interpreti femminili, benissimo Monica Bacelli, che si districa agevolmente in una parte originariamente scritta per castrato e spesso interpretata da tenori. Bene la Elettra di Michaela Kaune (che magari sforza fin troppo il suo carattere spigoloso) e discreta anche se non trascinante la prova della Ilia di Ekaterina Sadovnikova.

Per tutti grandi applausi finali da parte di un pubblico assai numeroso (anche se non c’era l’esaurito).                 
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Ed ora le note dolenti, legate all’allestimento. Il sudafricano dal nome italico di Alessandro Talevi mette su uno spettacolo tanto velleitario quanto inconsistente e persino travisante lo spirito, oltre che la lettera, di libretto e musica. Ci troviamo riferimenti alla lotta di classe (magari non quella di Marx) fra i cretesi-bene (lascivi, dissoluti e depravati) e quelli che lavorano (i marinai, proletari); poi ai conflitti di cui soffre la nostra civiltà attuale (i migranti, che vengano dall’interno – Argo – o dalla periferia – Troia – trattati come sub-umani); infine ecco le pratiche oggi apostrofate come rottamazione, culminanti nell’ingloriosa e umiliante fine di cui viene gratificato il povero Idomeneo. In compenso, il rottamatore Idamante, ormai in età da… trono, mostra la sua preoccupazione per le sorti del padre stringendo al petto la barchetta-giocattolo avuta in regalo da bambino: ecco un bell’esempio di caratterizzazione dei personaggi! Insomma, un Konzept (come lo chiamano i crucchi) piuttosto deludente.

Le scene di Justin Arienti sono un misto di bambinesca ingenuità e di kitsch che sfiora il ridicolo. Due esempi: il mare fatto di grossolani rulli, e lo studio di Idomeneo, ingombro di statue di Nettuno, modellini di navi, volumi impolverati, fauci di squali, candelieri sullo scrittoio… Da far proprio pena.

Anche i costumi e le acconciature (Manuel Pedretti) sono in linea con tutto il resto: un put-pourri di… stili (!) davvero indecoroso: per dire, Arbace nel second’atto pare… Mefistofele, poi Elettra si prepara a partire con tanto di valigetta di metallo; insomma, trovate gratuite e ridicole. Ci sarebbero anche movimenti coreografici (Nikos Lagousakos) sui quali mi limito a sorvolare. Delle luci di Giuseppe Calabrò mi son rimaste impresse soltanto le due circostanze in cui la luce… si spegne, per far subito posto a scoppi e lampi (che alla prima avevano indotto la direzione del teatro ad emanare un preventivo avvertimento al pubblico, in senso tranquillizzante, stanti i precedenti al Bataclan…)    

Non parliamo delle scene di massa, fra le quali citerei solo quella dei festeggiamenti a fine primo atto, una pantagruelica tavolata gigante con enormi vassoi di spaghetti-allo-scoglio, aragoste, pesce spada e polipone lesso, il tutto annaffiato con abbondante prosecco (resinato?); e quella di fine del second’atto, dove compare un lombricone nero che avvolge nelle sue spire il popolo terrorizzato. Ma come dimenticare l’orripilante sfondo (a sipario chiuso, tutto avviene al proscenio) che accompagna le prime scene dell’atto terzo: tre fili per stendere biancheria, che attraversano in larghezza l’intero palcoscenico, ai quali sono appesi brandelli di indumenti lordi e macchiati di sangue, evidente risultato delle scorribande del lombricone. Mamma mia!
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Ripeto: data in forma di concerto, sarebbe stata un’edizione da incorniciare.  

28 novembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n°61


Questa settimana è Zhang Xian a dirigere i suoi ragazzi. Programma poliedrico ed interessante (che ha incontrato un discreto interesse nel pubblico, abbastanza folto) aperto dal solito Campogrande, che ormai vediamo più qui in Auditorium di quanto non ne ascoltiamo la voce suadente dalle antenne di Radio3!

Si comincia nientemeno che con il sommo Johann Sebastian e il suo Concerto per due violini (BWV1043) interpretato dalle due prime parti de laVERDI: la spalla Santaniello e la guida dei secondi, Lycia Viganò.

In mancanza dell’autografo, la partitura è stata faticosamente ricostruita impiegando materiale di fonti diverse: siamo attorno al 1720 e ci si sente il Bach certamente influenzato da Vivaldi! Qui una storica esecuzione (1958) di una coppia di autentici mostri del violino: Oistrak-Menhuin.

Ma Santaniello-Viganò non sono da meno e – dopo una falsa partenza dovuta ad un problema di… corda (del violino di lui) - ci offrono un’esecuzione di gran livello: dalle volate in imitazione del Vivace, alla lunga e languida melodia della siciliana centrale, per chiudere con il brillante Allegro. In più, ci fanno ascoltare una cadenza del primo movimento che non si trova in alcuna edizione conosciuta: poiché è stata predisposta da Gabriele Mugnai (la prima viola de laVERDI, che trova anche il tempo per comporre) come ci ha svelato Santaniello al momento del bis.      
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Un salto di mezzo secolo, e siamo a Josephus Haydn, del quale viene proposta la Sinfonia Concertante per quattro strumenti. Anche qui, come quasi 4 anni fa, salgono in mostra altre prime parti dell’Orchestra: il vice-spalla Dellingshausen, il violoncello di Tobia Scarpolini, il primo oboe di Emiliano Greci e il fagotto-principe (unico superstite della ricordata esecuzione) di Andrea Magnani.

Anche loro, dopo l’applauditissima performance, si esibiscono in un bis confezionato ad-hoc, una rivisitazione della Passacaglia di Halvorsen-Händel.
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Chiusura in… Grande (ma non troppo) con Schubert. La Xian vi si era già cimentata con buoni risultati quasi due anni orsono, ma devo dire che ieri non mi ha pienamente convinto: partitura fin troppo prosciugata (l’unico da-capo eseguito è stato il primo – inamovibile – dello scherzo) e piuttosto, come dire, tirata via e con qualche eccessiva libertà in fatto di agogiche (scarti di tempo) e dinamiche (fracassi sopra... i righi). Insomma, non c'erano le celebri lungaggini, e nemmeno erano celestiali. Forse l’attenzione riservata ai due brani che coinvolgevano le prime parti è andata a scapito della preparazione della sinfonia, fatto sta che anche in orchestra non sono mancati alcuni intoppi e persino i tromboni, di solito impeccabili, in un passaggio del finale mi son parsi (spero di sbagliarmi) assai calanti.

Insomma, una serata con molte luci e qualche ombra (capita…)
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Allego uno scritto su Schubert dell’indimenticabile Sergio Sablich, comparso su Musica&Dossier del lontano Dicembre 1987.

23 novembre, 2015

Blomstedt alla Scala

 

La stagione concertistica della Scala ha ospitato negli scorsi tre giorni il venerabile Herbert Blomstedt, che ha diretto un programma tanto classico quanto impegnativo: non una, ma ben due sinfonie incompiute.    


Dapprima l’Incompiuta per antonomasia (qui il venerabile con la Staatskapelle Dresden) che a seconda dei criteri di censimento delle opere schubertiane viene catalogata come settima oppure ottava. Blomstedt si tiene sul leggio la pocket-score Philharmonia, ma ben chiusa, quasi fosse una sacra reliquia da cui trarre ispirazione. La tocca solo a cose fatte quando, rispondendo agli scroscianti applausi, la prende con la sinistra e con la destra… l’applaude!

Che dire: una lettura magistrale, della quale non saprei cosa lodare di più… tranne forse l’esposizione del tema in SOL (poi in RE) dell’Allegro moderato, che il venerabile pareva proprio… succhiare fuori dai violoncelli che aveva di fronte a lui (orchestra in configurazione alto-tedesca, naturalmente): una cosa invero emozionante.   
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Ecco poi la Nona di Bruckner (qui sempre lui ai PROMS con la GustavMahlerJugend). Sulla possibile ispirazione della sinfonia, oltre che sui suoi contenuti… tecnici, ho scritto tempo fa le mie personali fisime, in occasione di una performance de laVERDI.

L’orchestra si rimpingua, in particolare nei fiati: tutti a-tre, esclusi i corni (9, di cui i 4 posti dietro prendono le tubette wagneriane nell’Adagio finale) e le tube (2 con un esecutore). Anche qui partitura (non identificabile perché ricoperta in pelle nera) sul leggio, rigorosamente chiusa.

Splendida la prestazione dell’orchestra, che evidentemente con guide… venerabili si ricorda del suo valore! Blomstedt ne cava dei pianissimo mirabili e – quando ce vo’ ce vo’ – delle sonorità al limite della barbarie (alludo al forsennato tema dello Scherzo). Dopo che gli ottoni, sui tre pizzicato degli archi, hanno esalato l’ultimo respiro, il venerabile tiene (e ottiene, miracolo!) almeno 15 secondi di religioso silenzio. Poi si scatena un autentico diluvio di applausi.

Serata di quelle che ti fanno dire, nonostante tutto: la vita è bella!
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Allego con l’occasione uno studio su Bruckner di Sergio Martinotti apparso su Musica&Dossier del Novembre 1990.

Purcell a Torino

 

Ieri pomeriggio il Regio torinese ha ospitato la seconda recita (delle 5) di Dido and Aeneas di Henry Purcell.

Il cognome Purcell deriva – ma che strano! – proprio da porcello: colpa dei francesi che fin dal 1066 (Hastings) avevano imbastardito linguisticamente (oltre che biologicamente, ça va sans dire) i puri albionici. Lo stemma della famiglia recava precisamente tre teste di porco (da lì forse si ispirò Disney per i tre porcellini, chissà…)

Il libretto di tale Nahum Tate è ovviamente ispirato all’Eneide, rispetto alla quale presenta però una serie di scostamenti, il più marchiano dei quali è il personaggio di Enea, che qui ci viene presentato come un povero vanaglorioso, senza spina dorsale e in balìa di ogni circostanza (Purcell non gli dedica manco un’aria, che dico… un arioso, solo recitativi!) Per dire, quando alla fine si presenta a Didone per notificarle l’abbandono, al solo vederla ci ripensa, manda a quel paese Giove e l’incarico da lui ricevuto e implorante le promette di stare accanto a lei. Ma a questo punto – e anche qui Virgilio viene smentito alla grande - è lei che lo caccia senza misericordia, quasi a viva forza, offesa dal solo fatto che lui abbia potuto pensare di lasciarla.

E il motivo stesso dell’abbandono è assai diverso da quello, nobile e soprannaturale (in Virgilio) della chiamata divina a compiere un’impresa a dir poco storica (la rifondazione di Troia come… Roma). Qui è una volgarissima fattucchiera, che ha in odio tutte le coppie felici, ad organizzare, con i suoi accoliti, nubifragi e travestimenti (incluso un falso Mercurio che annuncia ad Enea il volere di Giove) per convincere il pusillanime troiano ad abbandonare l’amata, provocandone così il suicidio.

Qualcuno sostiene che queste libertà del librettista fossero legate a ragioni vagamente politiche: Enea potrebbe essere l’allegorica rappresentazione del meschino sovrano Charles II (targato Stuart) o magari di suo fratello nonchè successore James II, succubi di sbifidi consiglieri cattolici (correligionari del loro cugino Luigi XIV di Francia) nemici della protestante Albione(=Didone) e rappresentati nel libretto dalla figura della fattucchiera. Tutto ciò sarebbe plausibile nell’ipotesi (tuttora non certificata) che l’opera sia stata concepita e composta dopo la cacciata del suddetto James II e lo sbarco del nipote-genero arancione, il protestante-anglicano William III, sposatosi con Mary, figlia del deposto.

In compenso c’è una frase, cantata dal coro proprio all’inizio dell’opera, che parrebbe invece inneggiare allo straniero (Enea=William?) arrivato in Albione dopo averne impalmato la principessa (Didone=Mary) per la felicità del popolo: Quando i sovrani si alleano, qual felicità per i loro stati. Ciò andrebbe d’accordo con la supposta discendenza da Enea dei reali albionici, ma farebbe a pugni poi con la non commendevole figura del troiano come dipinta dalla coppia Tate-Purcell…

Mah, insomma, tutti questi pretesi riferimenti politici lasciano un po’ il tempo che trovano: ciò che rimane è la musica sopraffina di Purcell, erede spirituale dei Monteverdi, ma anche degli Charpentier e dei Lully.

Purtroppo del testo e della musica di Dido&Aeneas ci sono rimaste soltanto frammentarie reliquie, nella forma di un libretto di dubbia datazione (circa 1688-89) e di una partitura assai discordante da tale libretto (per difetto: tanto per dire vi manca l’intero Prologo, che chiama in causa Febo, Flora, ninfe e pastori per celebrare Venere e i piaceri della seduzione…) copiata da un anonimo attorno al 1750, quindi più di 60 anni dopo la presunta data delle prime rappresentazioni.

Per avere un‘idea delle dimensioni dell’opera, basterà dire che l’esecuzione (tempi medi) della sola partitura del 1750 occupa assai meno di un’ora (sono tre atti di circa 18 minuti ciascuno, come si può ad esempio constatare in questa edizione). Ragion per cui in occasione di rappresentazioni singole (cioè dove l’opera non è abbinata ad altre) come questa del Regio, si tende a rimpinguare il contenuto della partitura del 1750 con altra musica di Purcell o anche di altri autori o dello stesso concertatore, ma dello stesso stile-periodo. Così ha fatto anche il bravissimo Federico Maria Sardelli (una vera autorità in campo barocco) protagonista di questa produzione torinese, che occupa all’incirca 80 minuti, incluso un breve intervallo per cambio-scena fra le due parti del second’atto.

L’orchestra ha un organico ridotto agli archi più flauti a becco e percussioni (per le scene di tempesta) e basso continuo (cembalo, tiorba, chitarra, viola da gamba e arpa). Il pavimento della buca è opportunamente rialzato di circa un metro per ovvie ragioni di diffusione del suono negli ampi spazi del Regio. Il coro di Claudio Fenoglio (6+6+6+6) che ha funzioni di commento all’azione, proprio da coro greco, è pure dislocato sul fondo della buca, dietro gli strumenti.  

La messinscena (regìa, scene, costumi e coreografie) è curata da Cécile Roussat e Julien Lubek (con le luci di Marc Gingold) e proviene originariamente da Rouen. È proprio teatro totale, che integra le classiche parti testuali e musicali con interventi di danzatori, mimi e acrobati. Efficaci alcune scelte sull’interpretazione, evidentemente concordate con il concertatore, che prevedono di assegnare la parte della fattucchiera (qui una… piovra!) non ad un mezzosoprano ma ad un tenore e di appaiarla a quella del marinaio che all’inizio del second’atto sprona i troiani alla partenza, vanamente dissimulando i suoi tentacoli nella stiva della nave. Uno sdoppiamento ci mostra invece Cupido (un mimo che sottolinea con la sua presenza le scene principali) trasformato all’occorrenza nel controtenore impersonante il falso Mercurio che ordina ad Enea di salpare; lo vedremo poi alla fine allontanarsi in cielo… perdendo le sue piume!

Belle e semplici le scene, dominate dalla presenza del mare (fatto da onde di soffici velari) sul quale si erge una semplice struttura rocciosa (anch’essa sdoppiantesi o ricongiungentesi) dove si muovono i personaggi. C’è anche un piccolo effetto di magia barocca nel mostro (marino) che Enea infilza, facendone schizzare fumo e faville, per farne trofeo per Didone (second’atto, scena II). Ed è il mare (il velo stesso di Didone) che ingluvia (per dirla con DaPonte) la Regina dopo il suo sacrificio!

Belli ed appropriati i costumi, a colori vivaci che contrastano con l’azzurro degli sfondi. Efficaci le luci che ricreano le diverse atmosfere del dramma.

Insomma, uno spettacolo godibilissimo, illustrato da interpreti all’altezza, sia in buca (strumenti e coro, davvero tutti da encomiare) che sulla scena. Roberta Invernizzi impersona efficacemente la Didone fatalisticamente pessimista e languida che diventa però una furia (Away! Away!) al momento di scacciare Enea. L’altra Roberta (Mameli) è forse (per me) la migliore del cast, grazie anche alla parte che ne esalta la voce squillante e sempre ben intonata.

Benedict Nelson veste i panni del poco eroico eroe troiano: ha solo (si fa per dire) da declamare dei recitativi accompagnati e lo fa con sufficiente portamento. Bravo Carlo Vistoli ad impersonare il falso Mercurio che buggera Enea dando inizio al patatrac finale.

Assai efficace, vocalmente e come presenza scenica, Carlo Allemano, l’octopus nei doppi panni della sbifida fattucchiera che si trasforma poi in marinaio aizzante i troiani a riprendere il mare. Un encomio anche per le altre interpreti (Kate Fruchterman, Sofia Koberidze e Loriana Castellano) che completano egregiamente il cast.

Alla fine lunghi e meritati applausi per tutta la compagnia, da una sala piacevolmente gremita (non proprio come per l’Aida, ma quasi!) il che testimonia dell’interesse dei torinesi (e amici) per le diverse facce della proposta artistica del loro Teatro. Fuori poi, c’è da risollevarsi il morale (pensando al deserto in cui è trasformata Bruxelles negli stessi momenti) di fronte all’affollamento incredibile del centro cittadino, complici la fredda ma bellissima giornata e il… cioccolato che scorre a fiumi e ti risolleva anche il fisico!  

22 novembre, 2015

Dopo mezzo secolo a Bologna una “solita” Elektra

 

Ieri pomeriggio la sala del Bibiena (con parecchie poltrone vuote…) ha ospitato la penultima recita di Elektra, un allestimento originale ispano-belga firmato da Guy Joosten, già passato – con altri cast - da Barcelona (2009) e Bruxelles (2010). Ecco (finchè ci resta…) una registrazione di assai mediocre qualità della rappresentazione del 17 con il cast (le due sorelle) alternativo.


Domanda: ma perché definirla solita? Semplice, perché chi ha avuto la responsabilità della parte musicale si è solitamente (e pure stolidamente, aggiungo io) attenuto alla poco onorevole tradizione che contempla di inferire alla partitura alcuni barbari tagli. E che ciò sia divenuto ormai uno standard universale è soltanto segno di incultura, perché qui non si tratta di saltare la ripetizione di una strofa in una cabaletta di Rossini o – nel sinfonico – di ignorare i due punti posti al termine di un’esposizione. No no, qui i tagli (che ho già in precedenza elencato, analizzato e stigmatizzato) costituiscono vere e proprie ferite al corpus dell’opera, ai suoi contenuti musicali e soprattutto alla caratterizzazione dei personaggi (in particolare della protagonista, ma non solo) che a fronte di questi tagli perdono buona parte delle peculiarità di cui proprio Hofmannsthal e Strauss li avevano arricchiti, rispetto al testo ispiratore di Sofocle.

Lo scarso rispetto per l’opera e per il pubblico è certificato dal fatto che il programma di sala (che contiene peraltro due pregevoli saggi di Franco Serpa e Guido Paduano) riporta il libretto in versione integrale senza però avvertire in alcun modo dei 6 tagli praticati nell’esecuzione. (Per fare un esempio, nel programma della Scala per l’edizione dello scorso anno erano chiaramente indicati i 5 tagli operati in quella produzione.)  

Le interpreti di Elektra - e i loro premurosi direttori - regolarmente adducono a giustificazione di quei tagli la pretesa sovrumanità degli sforzi che sarebbero richiesti per cantare l’opera nella sua interezza (per cui non si peritano nemmeno di studiarli, i passi incriminati, condizionando così già a-priori l’esecuzione). Al che non posso non ricordare quanto disse e fece il solido e coraggioso Gustav Kuhn che, anni fa - con un cast tutt’altro che da star-system e con la sua Haydn – portò con gran successo l’integrale in giro per il norditalia! 
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Lothar Zagrosek è un vecchio marpione che probabilmente applica il comodo adagio il meglio è nemico del bene, e così la sfanga (per me) con una risicata sufficienza. Lui sembra dar credito a quanto si dice di Strauss che durante una prova dell’opera avrebbe gridato agli ottoni di suonare ancor più forte, poiché continuava a sentire la voce di Elektra (!) Così chiede all’orchestra di darci dentro a più non posso e spesso e volentieri copre alla grande le voci.

Viene il sospetto che lo faccia di proposito, per coprirne anche le manchevolezze. E a proposito di voci e di tagli: Elena Nebera, la protagonista, è la dimostrazione lampante che non basta accorciare la parte per uscirne indenne! Anche tagliando altri 10 minuti di musica, il risultato sarebbe stato comunque deludente, poiché il difetto – ahilei – sta proprio nel… manico: ottava bassa inudibile, zona centrale dal timbro sgradevolmente vetroso, acuti spesso urlati (Elektra sarà pure nevrastenica, ma dovrebbe pur sempre cantare).

Anna Gabler è la sorellina per bene, ma è solo di pochissimo meno peggio di Elektra: anche lei soffre di afonia in basso e quando sale agli acuti la voce perde di rotondità.   

Natascha Petrinsky veste i panni della madre assassina-adultera e – pur senza toccare vette eccelse - per lo meno sa cantare con proprietà e discreto portamento.    

I due maschi hanno parti decisamente secondarie e se la cavano allabellemeglio, meglio comunque il vendicatore Thomas Hall (voce profonda e ben impostata) dell’usurpatore-assassino, impersonato da un vociferante Jan Vacik.

Tutti gli altri interpreti fanno il loro dovere come da contratto sindacale, a partire dalle cinque ancelle che devono aprire l’opera con i loro cicalecci. Il coro di Andrea Faidutti si fa udire nel finale schiamazzando come da partitura per portare Orest in trionfo.

Insomma, una prestazione musicale che fatica (sempre secondo me) a guadagnarsi la sufficienza. Non così per il pubblico, che applaude indistintamente tutti (non saprei dire se un paio di ululati verso la Nebera fossero di disapprovazione).
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Il regista Joosten non manca di impiegare triti e ritriti stereotipi del Regietheater, cominciando dalla trasposizione dell’azione negli anni di Hitler, con le ancelle trasformate in secondine armate di mitraglietta e Aegisth travestito da dittatore ubriacone.

Alcune invenzioni di Joosten sono del tutto perdonabili, come il far ricomparire due volte – ovviamente senza aprir bocca! - la quinta ancella (l’ammiratrice di Elektra): dapprima durante lo scontro fra Elektra e la madre e poi a felicitarsi con lei dopo il compimento della vendetta. O come nel mostrarci Orest che arriva (visto solo dal… pubblico) proprio durante la scena madre fra le due donne. O ancora la smaccata ostensione dell’ascia, che mai e poi mai si dovrebbe vedere, secondo il libretto.

Ma l’invenzione più strampalata riguarda la scena che fa seguito all’agnizione Elektra-Orest. Manco a farlo apposta, proprio laddove viene praticato il taglio dei versi sui quali Elektra ricorda il suo equivoco rapporto con il padre, ecco che il regista ce la mostra in rapporto equivoco (stile Maddalena-Cristo) con il fratellino!

Tuttavia l’impostazione generale di Joosten (grazie anche alle scene e ai costumi di Patrick Kinmonth e alle luci di Manfred Voss) non fa eccessivi danni, anzi direi che la guida degli interpreti sul piano attoriale sia senz’altro da apprezzare. Con qualche riserva sugli eccessi riservati all’usurpatore, trasformato in macchietta da avanspettacolo, mentre assai centrata (perché equilibrata) mi è parsa la resa della figura (spesso eccessivamente bistrattata o indebitamente nobilitata) di Klytämnestra.

Alla fine, che dire: ascoltare quest’opera ti dà sempre una grande emozione (grazie a Strauss) a dispetto delle mutilazioni di cui è vittima e delle mende degli interpreti.

20 novembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n°60


Riecco Jader Bignamini in Auditorium per dirigervi un programma assolutamente classico, Campogrande a parte (…ma ormai sta diventando un classico pure lui!) Sala quasi stracolma, evidentemente questa offerta super-tradizionale paga…  

Un programma tutto in… RE maggiore, aperto dal 29enne fiammingo - con nome russo - Yossif Ivanov, che fa ritorno qui dopo un lustro esatto per proporci un monumento del repertorio classico: il Concerto Op.61 di Beethoven. Il lunghissimo Allegro ma non troppo iniziale è affrontato d Ivanov con una certa qual spigolosità, poi la sua invidiabile tecnica e il bellissimo suono del suo Stradivari vengon fuori alla grande nella cadenza (la celebre di Kreisler). Convincente la resa del centrale, sognante Larghetto, dove il solista dialoga a più riprese con le eccellenti prime parti dei fiati (clarinetto, corno e fagotto) e spigliato e brillante il Rondò finale, il cui ritornello viene dal solista esposto a distanza di ben due ottave.

Bignamini tiene benissimo a bada un’orchestra in organico di archi… mahleriano, lasciandola sfogare solo nei tutti del finale. Successo pieno e bis con l’ennesimo Dies Irae, chissà se indirizzato agli autori dei massacri parigini, la mente dei quali veniva proprio dalla patria di Ivanov…      
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Chiude la serata una sinfonia pastorale, ma non quella per eccellenza (Beethoven) bensì la Seconda di Brahms, del quale sono invece state cassate (rispetto al programma originario) le Variazioni su un tema di Haydn.

Qui Bignamini non risparmia più nulla (nemmeno l’iniziale ripetizione dell’esposizione) e mette in risalto tutti i chiaroscuri (dinamici ed agocici) della partitura: delizioso in particolare l’Allegretto, con i suoi improvvisi scarti di tempo, e strepitoso davvero il conclusivo Allegro con spirito, chiuso da una (fin troppo!) forsennata coda, con gli archi prima chiamati a due autentici salti mortali (seguiti dalle due pause di minima) e poi con gli ottoni e gli altri fiati a sparare l’abbacinante raffica di crome che sigilla la sinfonia. Trionfo assicurato. 

13 novembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 59


C’è ancora molta Russia in Auditorium. Il concerto di questa settimana, diretto da John Axelrod, dopo le divagazioni di Campogrande sull’Inno dell’Oman, e una novità assoluta di Boccadoro, presenta due lavori del primo ’900, che per diverse ragioni hanno lasciato il segno nella storia della musica. 
   
Lavoro commissionato da laVERDI, Orbis tertius si struttura in cinque aforismi, dichiaratamente ispirati al modello di Webern. Ma, certifica l’Autore, completamente diversi (e ‘tte credo!) Devo dire che… si lasciano ascoltare volentieri, ecco. Quando capiterà di ascoltarli ancora, altra questione è.
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La parte russa del concerto inizia con Scriabin e il suo Prométhée, o Poema del Fuoco, o 5a Sinfonia, del 1909-11. Un lavoro impregnato di simbolismo e teosofismo, come ben lascia capire la stessa illustrazione pubblicata a fronte della partitura, commissionata al simbolista belga Jean Delville:


Vi compaiono: la lira, che nasce da un fiore di loto (la vagina o mente dell’Asia); poi i due triangoli intrecciati (materia e spirito, ma anche la stella di Davide, simbolizzante Lucifero); al centro il volto di Prometeo, con i penetrantissimi occhi, contornato dalle fiamme e con la fiamma grande centrale al posto del terzo occhio e in corrispondenza della quarta corda della lira; all’esterno l’intero Universo, con stelle e galassie; in alto i raggi promananti dal trascendente.

Un lavoro tanto ambizioso quanto ambiguo, in tutti i sensi: non è propriamente una Sinfonia (ha un solo movimento e rispetta in modo assai vago e contorto la forma-sonata); non è un Concerto (a dispetto della presenza del solista al pianoforte); e non è una Cantata, anche se prevede (ma non sempre viene impiegato) un coro.

Il lavoro prevede(rebbe) piuttosto l’impiego (ma anche qui è raro che ciò avvenga) di un particolarissimo strumento, notato sul rigo più alto della partitura col nome Luce:


Uno strumento che – unico fra tutti – non smette mai di suonare per tutte le 606 battute dell’opera! In realtà i suoi suoni sono appunto… luci colorate: nella mente fervida e mistica del sinestetico Scriabin suono e luci vanno insieme e ad ogni suono si associa un colore, secondo questa tabella di corrispondenza, che segue il circolo delle quinte:

nota
colore


DO
rosso
SOL
arancione
RE
giallo
LA
verde
MI
azzurro verdastro
SI
blu
FA# - SOLb
blu scuro
DO# - REb
violetto
SOL# - LAb
lilla
RE# - MIb
blu metallico
LA# - SIb
grigio metallico
FA
rosso scuro

Uno speciale strumento a tastiera (tipo organo) si dovrebbe incaricare di illuminare uno schermo, o meglio ancora di avvolgere tutto l’ambiente, con la luce del colore indicato dalla nota in partitura. Come si può osservare dall’esempio riportato sopra, lo strumento Luce può suonare contemporaneamente due note, permettendo con ciò di realizzare combinazioni diverse di colori. Ad esempio l’incipit (FA#-LA) deve produrre una luce blu con riflessi verdi. Ecco come si può presentare il tutto in questa esecuzione (successivamente montata in film) della premiata coppia Abbado-Argerich, con i Berliner nella Philharmonie.

Sul fronte musicale, il brano ha fatto assurgere a fama imperitura (quasi quanto quella del Tristanakkord) il cosiddetto accordo mistico, formato da sei note che (nella forma poggiante sul DO) sarebbero DO-FA#-SIb-MI-LA-RE:


Le sei note sarebbero (liberamente) ricavate dalla serie degli armonici naturali (dall’ottavo in su): come si vede si tratta di una successione di quarte di tre specie: aumentata (=tritono), diminuita (=terza maggiore) e giusta. Ora, che un accordo definito mistico comprenda non uno ma ben due tritoni (il diabolus!) sembrerebbe a prima vista una presa in giro bella e buona, se non proprio una bestemmia in piena regola, ma in realtà la cosa si spiega filosoficamente, e pure religiosamente, con le credenze che attribuiscono pari dignità a Dio e a Lucifero, ecco.

Abbassando il LA a LAb si avrebbero note della scala a toni interi. Per i patiti del metodo di analisi di Allen Forte, si tratta dell’insieme di suoni 6-34 che può essere visto come un sottoinsieme spurio della scala ottotonica. Nelle prime battute assume la forma LA-RE#-SOL-DO#-FA#-SI (il colore verdognolo…) Ecco qui, sempre percorrendo il famigerato circolo delle quinte, le sue 12 trasposizioni - con i relativi colori della nota-base:

    
Scriabin parlò del suo accordo mistico come di accordo del pleroma (occhio, da non confondersi con perizoma, perchè sappiamo che la musica del nostro è assai infarcita di… sesso): un accordo che ci dovrebbe far intravedere (anzi… intrasentire!) ciò che i nostri comuni sensi non ci permettono di afferrare: date voi i connotati che preferite a quest’oggetto misterioso. In effetti la parentela con le scale a toni interi e ottotonica toglie alla musica basata (verticalmente ed orizzontalmente) su quelle note gran parte dell’attrazione tonale, conferendole un che di arcano e… metafisico. Insomma, anche Scriabin si era inventato – come i tre viennesi e Debussy - una sua personale via verso l’atonalità.

Si diceva della struttura del brano in relazione alla forma-sonata: gli analisti sono abbastanza concordi nell’individuare (ma non in modo unanime) le classiche sezioni di esposizione-sviluppo-ricapitolazione-coda (più magari un‘introduzione). Che hanno a che fare con la comparsa e i ritorni dei motivi principali e magari rispecchiano vagamente la struttura del programma filosofico dell’opera: i sette passi del cammino involutivo-evolutivo della razza umana, mutuato da La dottrina segreta di Helena Blavatsky (vedi qui a pag. 300)


Come si vede, le note del rigo Luce sono quelle della scala a toni interi, mentre le sezioni della (spuria) forma-sonata più o meno corrispondono alle macro-fasi evolutive della Blavatsky.

Invece la concatenazione tonale è del tutto avulsa dai principi classici, proprio in forza dell’atonalità di fatto del brano. È il FA# che apre con l’accordo mistico e chiude con una imperiosa quanto inaspettata triade perfetta: insomma, parrebbe che il FA# (che sta precisamente al centro, o al culmine, della nostra scala cromatica) rappresenti, per l’Uomo ancora acerbo (all’inizio del poema) la placenta, il brodo di coltura per la sua successiva evoluzione; e poi, alla fine, si ripresenti (con la triade perfetta maggiore, dove il SI# dell’accordo mistico, il diabolus, sale al consonantissimo e dominante DO#) come manifestazione sensibile del pleroma.
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Esploriamo ora nei tratti principali la citata esecuzione di Abbado-Argerich, seguendone il percorso filosofico-cromatico.

I - Luce: blu-verde (FA#-LA). A 33” l’accordo mistico introduce l’universo al tempo dell’alba dell’Uomo, dove (52” e poi 1’10”) arriva Prometeo (corni) ad innescare la miccia che porta poco dopo all’affermazione (nelle trombe) dell’Io (2’01”, i tritoni) e poi della volontà (2’03”, la scala ascendente). A 2’15” è la ragione (o la consapevolezza) a presentarsi nei flauti prima che esploda (2’29”) l’Uomo (tema mutuato da quello della volontà) le cui gesta sono affidate al pianoforte, sempre contrappuntate dal motivo della ragione. A 3’04” ecco un motivo gioioso, ancora seguito da quello della ragione. Il solista (Uomo) continua la sua opera (3’58”) ora in modo scintillante, fino a raggiungere…

II - Luce: lilla con sfumature rosso scuro (LAb-FA). (4’19”) la voluttà, poi la delizia (riferimento erotico, 4’38”) e infine il desiderio (4’45”, violino solo).

III - Luce: grigio (SIb). Dopo un colpo di timpano, ancora la volontà in evidenza (4’56”) nella tromba, seguita da momenti di emozione e rapimento (nei legni) alternata a squarci di abbandono nel violino solo (il primo a 5’22”). Ora il pianoforte (maestoso, a 5’33”) espone il motivo della creatività (derivato da quello di Prometeo) in un lungo passaggio che si chiude a 6’17”, dopo un tonfo minaccioso nel timpano, cui segue un nuovo intervento sognante del violino. Si continua per un po’ in un clima languido, ancora con il pianoforte e i legni protagonisti, con riapparizioni del motivo della ragione, finchè un nuovo, secco colpo di timpano (8’11”) che fa seguito a tre rintocchi dell’arpa, interrompe questo idillio.

IV - Luce: rosso (DO). Si passa infatti alla fase conflittuale e dopo due richiami in quarta giusta (MI-LA) di tromba e corno, la nuova entrata del pianoforte (8’36”) segna di fatto la fine dell’esposizione e l’inizio dello sviluppo. Vi troviamo la riproposta del tema della volontà in forma quasi tonalmente armonizzata, che anticipa ciò che udremo nelle trombe proprio in chiusura d’opera. Lo sviluppo è assai lungo e articolato, persino bellicoso (sic) e caratterizzato a frequenti ritorni del richiamo della volontà: a 9’18” lo udiamo nei corni e poi nella tromba; quindi più avanti ancora (dopo comparse del tema della ragione) nei tromboni, poi (da 11’02”) per quattro volte, sempre più in alto, nella tromba; quindi ancora (11’23”) colossale, nei corni, poi nuovamente in tromba e corni, con un poderoso crescendo che si smorza (11’54”) lentamente, seguito da un nuovo languido intervento del violino solo.

V - Luce: giallo (RE). Inizia qui (12’05”) la fase ascendente dell’evoluzione umana. È un passaggio pieno di mistero, affidato ai legni, poi ancora al violino, languidamente, a 12’28”. Si riode i tema della ragione, il pianoforte interviene per ora molto discretamente, ancora il violino, quindi ecco iniziare un crescendo di tutta l’orchestra che conduce alla fine dello sviluppo e all’inizio della ricapitolazione (14’40”) con il tema della ragione, esposto ora con grande enfasi dai corni. È il pianoforte a riproporre i motivi già uditi nell’esposizione: il primo che richiama la volontà (14’55”); poi quello danzante (15’29”).

VI - Luce: azzurro verdastro (MI). A 15’45” procede ancora, proprio a passo di danza, il cammino verso la trascendenza che vede l’irruzione improvvisa (16’31”) del coro: qui sono contralti (metà a bocca chiusa) e bassi (tutti a bocca chiusa) che emettono per ora vocali apparentemente inarticolate ispiranti beatitudine.  

VII - Luce: blu scuro (FA#). Ancora il richiamo della volontà (16’49”) esposto dalla tromba sottolinea l’ingresso dell’Uomo nella trascendenza. A 17’03” rientra il coro al completo che questa volta espone un testo apparentemente bizzarro, precisamente Eaohoaoho, che probabilmente deriva da Oeaohoo, l’eterna unità vivente secondo la Blavatsky. L’orchestra ora ribolle in un crescendo (tema di Prometeo) che si interrompe (17’47”) per far spazio al violino solo, prima che un prestissimo (18’05”) dia inizio alla sezione di coda, dove pianoforte e orchestra dialogano spasmodicamente.

E veniamo così alla conclusione, davvero bizzarra, date le circostanze: perchè (19’00”) assistiamo all’insediamento di un retorico LA#(=SIb) maggiore, con le trombe in particolare a riproporre il tema tonalizzato della volontà, scalando in arpeggio quasi due ottave: DO-FA-SIb-RE-FA-SIb (quarte giuste e terze). Che succede? Si sta per caso chiudendo sul grigio di LA#?! Non sia mai detto, ed allora (19’11”) ecco che nelle ultime 5 battute – fermo restando il LA#(=SIb) di quelle principali – le voci interne si muovono, da FA e RE, su FA# e DO#: un’incredibile, pacchiana e melodrammatica cadenza ottocentesca (un tale Bruckner, al culmine dell’Adagio della sua Ottava, aveva fatto precisamente la stessa cosa: grande arpeggio di MIb sfociato in un colossale DOb!) che chiude, come da copione, sul blu scuro del FA# maggiore.
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Inutile dire che chi ascolta questa musica senza nulla conoscere dei retroscena filosofici rischia di sopportarla a malapena come si fa con un’insipida brodaglia, che solo negli ultimi 20 secondi (su 20 minuti!) si trasforma in un (peraltro stomachevole) cacao meravigliao!   

Bene, adesso (dopo tutto ‘sto pedantesco tormentone…) chiederete: ma com’è andata qui in Auditorium? Ecco: niente coro (forse costava troppo scomodare i discepoli della Gambarini per così poco?) ma soprattutto niente luci: ora, ammesso che con le luci ci si possa forse divertire (mah…) se restano in ballo solo i suoni non ci si diverte per nulla, almeno questo è il mio schietto parere.

Certo: l’Orchestra, Axelrod e Maria Perrotta han fatto di tutto per… indorarci a pillola, tanto che il pubblico qui accorso in modica quantità ha mostrato di gradire: meglio così!
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Dal misticismo di contrabbando di Scriabin (seghe mentali, perdonate la definizione aulica…) alla straordinaria barbarie del Sacre di Stravinski! Tra le due opere e i due autori non ho personalmente dubbi sul come assegnare le palme di modernità e di rivoluzionario.

Axelrod, che deve averla imparata direttamente da Lenny Bernstein (uno che la conosceva come le sue tasche) rinuncia alla bacchetta e sfodera gesti secchi da vigile urbano che dirige il traffico in un incrocio caotico. Il risultato (grazie ovviamene ai ragazzi) è superlativo e… peggio per gli assenti, che però hanno ancora due possibilità per rimediare.