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da stellantis a stallantis

30 giugno, 2015

Non c’è limite al peggio


C’è modo e modo per far cazzate. Uno è quello di inventarle per primi. L’altro è quello di copiarle (in peggio) da chi le ha inventate per primo.

Ecco: è tutta qui la differenza fra Graham Vick e Damiano Michieletto.

28 giugno, 2015

Vivaldi tuttora profeta in patria

 

Ieri pomeriggio la rivoluzionaria Venezia-di-centro-destra (stra-smile!) ha ospitato (seconda recita) un altro tipo di trionfo, quello della vivaldiana Juditha.

Questi spettacoli della Fenice si inquadrano, insieme a molti altri eventi culturali, nella manifestazione Lo Spirito della Musica di Venezia 2015 (15/6-26/7) che ha come sottotitolo: Venezia porta d’Oriente: dialogo fra culture. Dialogo? Accipicchia, quello che succede in questi giorni alle porte di casa nostra pare molto peggio di ciò che si viveva ai tempi della Juditha. Però una cosa è certa: non risulta che i levantini (sultani o califfi che fossero) abbiano mai prodotto (per celebrare vittorie o sconfitte contro l’occidente) opere d’arte paragonabili a questa di Vivaldi.

E così abbiamo sistemato la coscienza: perciò tanto vale cominciare dal… sodo. Ecco qua come il Prete rosso – nel recitativo accompagnato che apre con Impii, indigni Tyranni - evoca l’attimo fatidico della decollazione di Oloferne, dopo che Giuditta ha proclamato: Nel tuo nome, o Dio, tronco la testa. (Oggi va di moda sostenere che non si può ammazzare in nome di Dio… quando a farlo sono loro e non noi.) È un furioso quanto fulminante SOL minore degli archi, che precipita per due ottave piene e in cui trova posto addirittura - ed appropriatamente, date le circostanze - il Dies-Irae!


Restiamo alla musica, cominciando con… la Sinfonia! È noto che nessun brano del genere si è mai trovato (ammesso che Vivaldi ne avesse composto uno) per la Juditha, che apre invece con il bellicoso coro degli oloferniani, in RE maggiore. Ecco, Alessandro De Marchi, seguendo le orme di altri prima di lui (ma soprattutto se sue proprie !) ha deciso di aggiungere in testa all’Oratorio una specie di Sinfonia. Ora, nella produzione di Vivaldi brani di tal genere abbondano, ma hanno tipicamente una struttura in tre movimenti (Allegro-Largo-Allegro) e ciò fa subito insorgere il problema di un evidente pleonasmo fra l’ultima parte della Sinfonia e il coro iniziale dell’Oratorio, pure in Allegro. Come ha risolto la cosa il Direttore? Riproponendo ciò che già ha immortalato in disco: ha preso il Concerto RV 562 (che è pure in RE maggiore) ma escludendo l’Allegro finale, in modo da ottenere, anteponendolo all’incipit dell’Oratorio, una specie di Sinfonia. Operazione legittima? Beh, certo non vietata da alcuna Legge, ma abbastanza gratuita e di efficacia francamente discutibile, oltretutto non essendo escluso che Vivaldi avesse avuto proprio l’intenzione di aprire l’Oratorio con il Coro, rinunciando alla Sinfonia.

Per il resto, De Marchi ha diretto con l’autorevolezza che gli deriva dalla sua lunga esperienza in questo repertorio. Personalmente giudico fin troppo sostenuti i suoi tempi, che hanno finito per aggravare i problemi legati alla congenita staticità dell’opera e al suono particolare degli strumenti, legato al diapason a 415. Comunque benissimo i Professori della Fenice, con gli strumenti d’epoca (salmoè in testa) in grande evidenza.     

La protagonista Juditha è Manuela Custer, veterana del ruolo che conosce evidentemente come le proprie tasche. E non ha tradito la sua fama con un’interpretazione intensa; l’unico appunto che personalmente le muovo riguarda il volume della sua voce, che non è dei più robusti e che ne penalizza l’ottava bassa. Potente invece la voce di Teresa Iervolino, un Holofernes tanto duro guerriero come sdolcinato amante. Vagaus è impersonato da Paola Gardina, un soprano dalla voce piuttosto corposa (lei è di fatto un mezzo…) e quindi adatta al ruolo: ha interpretato in modo efficace le sue cinque arie e in particolare l’ultima, davvero indemoniata, che richiede grandissima agilità. Discreta anche la prestazione di Francesca Ascioti nel ruolo di Ozia. Però chi, per me, ha svettato su tutte è Giulia Semenzato, una più che convincente Abra, che ha anche impreziosito con acuti da soprano (la tessitura è da mezzo…) la sua prestazione. Benissimo anche il coro di Claudio Marino Moretti.
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Vengo ora alla parte più… ostica (per chi ne è responsabile) dello spettacolo: l’allestimento registico. A differenza delle cantate (che hanno sì un soggetto, ma non hanno una storia da raccontare) gli oratori, oltre che un soggetto presentano anche una storia, una trama, e ciò spiega perché possano legittimamente aspirare ad essere allestiti in forma scenica. Per dire: come si potrebbe inscenare Ein Deutsches Requiem? In nessun modo, certamente. Mentre invece il Messiah, per dire, si presta benissimo alla rappresentazione poiché racconta una storia (e che storia, mezzo Antico testamento!)  

Orbene, la Juditha ha una storia francamente così circoscritta (l’impresa personale della vedova betuliana) e un’azione così povera (come testimonia la stringatezza dei recitativi, che dovrebbero proprio servire ad alimentarla) da rappresentare il limite inferiore della possibilità di messa in scena. Va quindi ascritto a merito dell’equipe di Elena Barbalich l’aver saputo proporre uno spettacolo intelligente e coinvolgente.

Massimo Checchetto ha ideato delle scene… vuote (!) Bella fatica, direte voi… no, perché erano sì vuote (o quasi) ma per essere occupate ora dai cori, ora da elementari suppellettili (vedi il tavolone da ultima cena del second’atto) ma soprattutto dalle luci di Fabio Barettin, che riproducevano di volta in volta delle grate, degli apparati bellici, supportando atmosfere di festa o di dolore. Il piano dell’orchestra era alzato al livello sala (come in occasione di concerti) e il palco era a sua volta rialzato di nemmeno un paio di metri; due scale assai larghe e di moderata pendenza consentivano ai cantanti di scendere fino a contatto con il pubblico. I costumi di Tommaso Lagattola erano di epoca indefinita, tranne quelli del secondo atto, che parevano ispirati da quadri rinascimentali e barocchi.

Elena Barbalich ha curato i movimenti di singoli e masse con grande equilibrio e sensibilità, trovando una giusta via di mezzo fra eccessiva ieraticità (tipo Wilson, per intenderci) ed eccessi di verismo. Insomma: una regìa, la sua, degna di encomio.

E il pubblico (non proprio oceanico e smagritosi ulteriormente all’intervallo) ha comunque mostrato di apprezzare assai questa proposta: frequenti applausi a scena aperta dopo le arie principali e calorosissima accoglienza finale. Viva Venezia, viva Vivaldi!      
  

24 giugno, 2015

Dopo Brugnaro, anche Giuditta si prepara a trionfare in laguna

 

Domani la Fenice ospita la prima della vivaldiana Juditha. Trionfatrice sullo sbifido Oloferne (il capo dell’ISIS di quei tempi) impiegando precisamente la stessa sbrigativa quanto infallibile tecnica mozza-collo dei di lui simpatici nipotini di oggi. Della serie: chi di spada ferisce… o anche: chi la fa l’aspetti… o anche: se sei dalla parte dei nostri, allora sei un eroe (o eroina) altrimenti sei un criminale.

Politica? Eh sì, perché la Juditha fu in realtà un manifesto politico/propagandistico, auspicante/celebrante una prima vittoria (dopo una serie di disfatte) di Venezia (appoggiata dal Papa e dal Sacro Romano Impero) sugli Ottomani, nell’estate del 1716 a Corfù. Non a caso l’ultimo verso dell’Oratorio recita Adria vivat, et regnet in pace. E che c’entra mai Adria con la vicenda di Giuditta e Oloferne, ambientata in Palestina, alle porte di Betulia, città ebraica (dalle parti dell’odierna Jenin, nella West-Bank) assediata dagli Assiri di Nabucodonosor? Ce lo spiega lo stesso librettista Giacomo Cassetti, che aggiunse in coda al testo musicato da Vivaldi un Carmen allegoricum in cui chiarisce gli apparentamenti dei cinque ruoli (più il luogo) dell’Oratorio: Giuditta è Adria (cioè Venezia); la sua compagna Abra è la Fede cristiana; Betulia è la Chiesa e Ozia ne è il Pontefice; Oloferne è il Sultano e Vagao il suo Generale.

Quindi Giuditta rappresenta Venezia che sconfigge il nemico venuto dall’oriente e con ciò salva anche la Chiesa di Roma dalla minaccia islamica. E questo riferimento religioso ben si addice alla figura del reverendo Antonio Vivaldi, insegnante di violino, viola all’inglese e maestro di coro dell’Istituto veneziano (La Pietà) che mise a disposizione tutte le risorse (umane, prima ancora che materiali) per la rappresentazione dell’Oratorio.  

Oratorio che finì per quasi 200 anni nel dimenticatoio e venne riesumato solo 90 anni fa a Torino, dove la Biblioteca Nazionale aveva acquisito i manoscritti vivaldiani della collezione Foà. Da allora si sono susseguite diverse edizioni, la prima del 1940 (riveduta nel 1949) a cura di Vito Frazzi, poi quella benemerita (1970) di Alberto Zedda (stampata presso Ricordi). In questi ultimi anni (2008) abbiamo avuto ben due nuove edizioni che hanno come curatori dei musicologi anglosassoni, o yankee. La prima è di Ricordi ed è stata curata dal britannico Michael Talbot; l’altra è quella americana, curata principalmente da Eleanor Selfridge-Field e prodotta dalla CCARH, che è stata impiegata da Andrea Marcon in questa esecuzione ad Amsterdam con la Venice Baroque, dove la protagonista è la stessa che ascolteremo in questo allestimento veneziano. Per la verità la locandina della Fenice indica l’impiego di un’altra edizione, quella della Carus-Verlag, Stuttgart: dovrebbe quindi trattarsi di quella curata (nell’ormai lontano 1979) da Günter Graulich, fondatore della Carus, con il ruolo di Abra affidato ad un soprano a dispetto della sua estensione da mezzo (ma nel rispetto del manoscritto originale).

L’Oratorio è in lingua latina (magari un filino… artefatta) come imponevano le consuetudini di Venezia (città davvero internazionale) del tempo ed è interpretato da sole voci femminili (4 mezzosoprani – contralti per Talbot - e un soprano, o 3-2 come qui a Venezia, più il classico coro S-A-T-B, ma tutto di gentil sesso). In origine erano solo ed esclusivamente donne anche le strumentiste dell’orchestra, tutte ospiti dell’Antico Spedale della Pietà e dotate degli strumenti più diversi ed anche (per noi moderni) piuttosto strani, come i flauti dritti contralti, lo chalumeau (salmoè in venexiano) la viola d’amore e le viole da gamba (all’inglese) oltre alle tiorbe e al violone, violoncello e organo per l’accompagnamento. Ma ci sono anche un mandolino e due claren (clarinetti in SIb) oltre ad oboi, timpani, trombe e a violini e viola. Uno specialista, Alessandro De Marchi, cura la concertazione di queste recite veneziane.

L’Oratorio ha la struttura classica, dove si alternano recitativi e arie (più i cori) e dove la arie hanno invariabilmente la forma A-B-A, quindi con il da-capo. Essendo la struttura simile a quella delle opere del tempo, non è infrequente che se ne proponga (come qui a Venezia) una rappresentazione in forma scenica e non semplicemente concertante (come accadde alle recite originali alla Pietà, dove addirittura le cantanti erano poste dietro grate che le rendevano quasi invisibili al pubblico). Ecco come la regista Elena Barbalich spiega il suo approccio per la messinscena.

Come al solito informazioni e dotte analisi sulla Juditha sono già disponibili sul prezioso programma di sala del Teatro.

22 giugno, 2015

Debussy in visita a Firenze (3)

 

Ieri all’OF seconda recita del Pelléas dei due Danieli. Nota davvero stonata i larghissimi vuoti in sala, testimonianza fin troppo lampante, oltre che desolante, del degrado della cultura musicale del pubblico italiano, a dispetto delle risorse pubbliche impiegate per costruire strutture che diventano le classiche cattedrali nel deserto, il deserto delle sale…  

Spettacolo complessivamente di buon livello, soprattutto sul fronte dei suoni (che poi è ciò che conta di più).

Daniele Gatti è alla sua prima esperienza con Pelléas (non certo con Debussy): per essere un esordio, diciamo che è stato… promettente, ecco. Ha tenuto mediamente tempi abbastanza serrati (tipo Abbado o Karajan) che privilegiano il lato più onirico che non quello drammatico (paura e crudeltà, come ebbe a sentenziare Boulez) dell’opera. Ma il Pelléas ha tali e tante sfaccettature che un Direttore vi potrà sempre trovare qualcosa di nuovo da mettere in luce: se ci tornerà sopra, non ho dubbi che anche Gatti (come accadde proprio a Boulez, per dire) ripenserà in qualche modo l’interpretazione, quanto meno in molti dettagli. L’orchestra del Maggio mi è parsa a sua volta all’altezza del compito, avendo prodotto sempre un suono pulito e trasparente, cosa certo da accreditare anche alla consuetudine di Gatti con le opere strumentali di Debussy (il quale sprezzava il magma sonoro wagneriano, dove secondo lui un violino non si distingue più da un corno). E che fra Gatti e l’Orchestra si sia instaurato un feeling particolare lo dimostra il calore dell’accoglienza che i Professori hanno riservato al Maestro all’uscita finale, in un tripudio di archetti agitati in aria al suo indirizzo!    

Gatti ha scelto un cast tutto italiano: scelta legittima, anche se forse un po’… provocatoria, o bizzarra, come la si voglia giudicare. Ma prima di parlare delle voci, bisognerebbe ricordare come le tessiture dei protagonisti siano influenzate non solo dalle rispettive caratteristiche antropologiche (giovane, vecchio, mite, ombroso) ma anche e soprattutto dall’idiosincrasia di Debussy (in questo davvero seguace di Wagner) per gli stereotipi dell’opera tradizionale, con conseguente abbandono non solo di ogni forma chiusa, ma anche di ogni forma di affettazione, così tipica del melodramma classico, dove i personaggi mai e poi mai (né nei recitativi né tanto meno nei numeri) cantano come si parla normalmente. Per Debussy valeva la massima prima le parole, poi la musica, e la musica doveva servire il testo del dramma, non viceversa: insomma, l’antico recitar cantando di bardiana memoria. Una delle tante conseguenze di questo approccio è la relativa intercambiabilità (tenore-baritono e soprano-mezzosoprano) delle voci dei due protagonisti del titolo. 

Il personaggio di Pelléas – notato da Debussy in chiave di SOL, cioè di tenore - ha una tessitura che va dal DO sotto il rigo al LA sopra, nemmeno due ottave: certo una tessitura ardua, sugli acuti, per un baritono, ma che ha frequenti (e difficoltose, per un tenore leggero) escursioni in zona grave (penso ad esempio alla scena della grotta dell’atto II, dove si tocca eccezionalmente un SOLb sopra il rigo, ma dove per il resto la declamazione si muove tutta sull’ottava bassa). Non a caso alla prima del 1902 fu interpretato da Jean Périer, che era un bari-tenore (o baryton-Martin come usano definirlo i francesi) e Debussy stesso scrisse appositamente degli ossia sullo spartito in occasione di recite affidate a tenori, ma discusse addirittura la proposta di affidare la parte ad un mezzosoprano (alla prima del dramma di Maeterlinck Pelléas era impersonato da un’attrice, Marie Aubry). Ebbene, Paolo Fanale, tenore dalla voce brunita e robusta, si è dimostrato una scelta assai azzeccata per il ruolo, che ha diverse sfaccettature, dall’efebico all’eroico. Purtroppo proprio alla fine (la scena d’amore del quart’atto) mi è parso che la sua voce abbia perso un po’ di smalto e incisività, con la conseguenza che le bordate sonore scagliate da Gatti dalla buca lo abbiano travolto e coperto.

Quanto a Mélisande, la tessitura è ancora più corta di quella di Pelléas, andando dal DO sotto il rigo al LAb sopra (tanto per esemplificare, all’acuto è solo un tono pieno sopra quella di Geneviève): e infatti anche qui la parte può essere sostenuta da soprani (quale fu la prima interprete, Mary Garden) ma altrettanto bene da un mezzosoprano, come qui Firenze dove troviamo Monica Bacelli. Che mi è parsa ben calata nel ruolo, proponendoci una Mélisande dalla cangiante personalità, celestiale ma allo stesso tempo anche ombrosa e scabrosa. La sua voce non è delle più… pure e qualche acuto è stato un po’ maltrattato, ma in complesso si merita un’ampia sufficienza.

Su Golaud non ci son dubbi che debba essere un baritono, ma un baritono di voce abbastanza chiara, poiché il personaggio sarà pure sbifido, ma non è certo uno Scarpia. Ecco, Roberto Frontali se l’è cavata assai bene, proponendoci un personaggio divorato dai dubbi, ma mai sopra le righe: convincenti soprattutto le due scene-madre con Mélisande (quarto e quinto atto).

Roberto Scandiuzzi ha ben meritato, nel difficile ruolo di Arkël: sempre autorevole e mai macchiettistico come a volte viene presentato questo personaggio.

Geneviève è l’inossidabile Sonia Ganassi: una parte limitata (al solo primo atto) quasi esclusivamente declamata recto-tono, che lei ha però sostenuto con  appropriata sensibilità.

Il personaggio del piccolo Yniold è affidato ad un soprano (devo dire che personalmente gradirei di più, anche dal punto di vista attoriale, una voce bianca, pur riconoscendo che per un fanciullo la parte è davvero ostica…): qui ad impersonarlo è Silvia Frigato, che ha effettivamente un fisico da fanciullo. Il canto però mi è parso eccessivamente forzato, proprio a simulare una voce bianca, con risultati francamente non eccelsi. 

Andrea Mastroni si è ben disimpegnato, sdoppiandosi nei ruoli del pastore e del medico.

Il coro (A-T-B) ha qui una parte limitatissima verso la fine del prim’atto (mutuata dal Tristan e poi… miscroscopizzata) che la compagine di Lorenzo Fratini ha svolto con diligenza.

In complesso questo cast autarchico (e… sciovinista alla rovescia) non ha affatto demeritato e anche la pronuncia (bisognerebbe però verificare con un francofono autentico) mi è parsa sufficientemente credibile.
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La messinscena do Daniele Abbado mi è parsa invece eccessivamente fredda: della Natura, che pure è presente, e come, nel testo di Maeterlinck, qui proprio non v’è traccia. Per carità, nessuno pretende i boschi finti e lo stormire di foglie di cartavelina, ma nemmeno convince l’argomento secondo cui basta la musica di Debussy ad evocare la Natura: perché se la musica evoca fiori e prati ma ciò che si vede è un’impalcatura di tubi-Innocenti, il rischio che si corre è che pure la musica ne venga penalizzata. La scenografia di Giovanni Carluccio prevede, alla base, due grandi semi-ellissi (a volte raddoppiate) che possono apparire in combinazioni diverse: una sola, concava verso l’alto, che fa da unico ambiente in alcune scene; oppure due contrapposte e separate (contenenti all’interno strutture orizzontali in cui si muovono i personaggi); oppure ancora congiunte, a formare una specie di occhio o il bordo di un pozzo (la fontana dei ciechi). Oltre a queste abbiamo una passerella (scena 3 dell’atto I e scena 1 dell’atto IV) e poi dei ponteggi con scale, impiegati in particolare nelle prime tre scene dell’atto III. La scena finale è invece totalmente spoglia e bianca, il letto di Mélisande è un tavolaccio posto quasi in verticale (il che di sicuro aiuta l’interprete a cantare in posizione quasi eretta).

Abbado ha poi inventato (anzi… copiato da altri) qualche gratuito particolare, come ad esempio il fendente che Golaud si auto-infligge con la spada dopo aver infilzato il fratellastro: ciò si desume solo dalla parte del testo di Maeterlinck che Debussy ha soppresso (!) e la cosa avviene oltretutto in tempi successivi alla chiusura dell’atto IV, dove Golaud si dovrebbe limitare a seguire Mélisande che scappa via inorridita. Pure gratuita, anche se consente all’interprete di rifarsi viva dopo la fine del primo atto, è la presenza di Geneviève nella scena finale, a recare la neonata al capezzale della mamma. Il testo ci parla per l’ultima volta, e indirettamente, di Geneviève nell’atto IV, quando Pelléas riferisce a Mélisande della gioia della madre per la guarigione del padre. Ma cosa sia stato di lei dopo il fattaccio intercorso fra i suoi due figli non ci è dato sapere: potrebbe pure esser morta di crepacuore!

Quanto ai movimenti dei personaggi e alla recitazione, si sa che la staticità del testo offre al regista pochissimi spunti per sbizzarrire la propria fantasia: Abbado non è andato al di là di un onesto lavoro di scavo psicologico. Da questo punto di vista mi son sembrati ben centrati i personaggi di Golaud e dei due vecchi (Arkël e Geneviève). Pelléas è personaggio indecifrabile di per sé, e Abbado come tale ce lo mostra, senza prendere decisamente posizione (a mio avviso) né per un giovane debole e complessato, né per un amante fiero e deciso a tutto.

Quanto a Mélisande, mi pare che il regista ne abbia voluto enfatizzare il lato schizofrenico: alludo in particolare alla scena dove lei mente spudoratamente a Golaud (a proposito dell’anello) dove ci viene mostrata una donna in atteggiamento propriamente carognesco.

Insomma, un allestimento dignitoso, ecco. Il pubblico selezionato ha comunque mostrato di apprezzare assai, a giudicare dal calore dell’accoglienza riservata indistintamente a tutti i protagonisti.

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Allego per l’occasione un’interessante monografia su Debussy, a cura di François Lesure, con particolari riferimenti al Pelléas, apparsa su Musica&Dossier nel maggio 1989. 

17 giugno, 2015

Debussy in visita a Firenze (2)

 

Dopo aver preso in considerazione il testo del dramma di Maeterlinck così come adattato da Debussy per la sua opera, proviamo a farci un’idea di quest’ultima, che il Maggio fiorentino ospiterà a partire da domani.


Debussy, primi anni ’90 del secolo XIX, aveva alcuni possibili modelli cui ispirarsi per un’opera teatrale: Wagner in-primis, di cui lui (prima di distaccarsene al seguito di Nietzsche) era stato ammiratore tanto incondizionato da fare innumerevoli pellegrinaggi a Bayreuth, per il Ring, Tristan e Parsifal; all’opposto (quanto a notorietà acquisita, oltre che ad approccio al dramma musicale) Musorgski, di cui aveva ammirato le spericolate innovazioni del Boris; o magari, perché no, Mascagni, che in quegli anni era venuto alla ribalta con Cavalleria, un soggetto che, al di là delle incrostazioni simboliste, lì del tutto assenti, era però nella sostanza un parente del Pelléas, basta sostituire questi con Turiddu, Golaud con Alfio, Mélisande con Lola e Geneviéve con Lucia (smile!)

Certo un tipo con la puzza al naso come Debussy mica poteva abbassarsi al livello di un Mascagni qualunque… mentre non potè evitare di tener buona almeno in parte la lezione di Wagner e di far proprie alcune soluzioni dell’ubriacone russo. E così, anche se si offendeva a morte a sentirli definire come Leitmotive, pure lui si servì, e come, di motivi conduttori (Maurice Emmanuel ne ha catalogati non meno di 13) anche se li impiegò in modo e in quantità non paragonabili a quelli di Wagner.

Poi: si era a fine ‘800, e sempre più si metteva in discussione la tonalità: e anche chi ci si dichiarava fedele (un Mahler, tanto per dire…) faceva poi di tutto per insidiarne il predominio, scarnificandola di continuo e aprendo la strada a chi (meno riverente della tradizione) ne predicava e praticava il seppellimento (Schönberg in primis).

Debussy, che da colto sciovinista non si voleva mescolare ai rozzi crucchi, si differenziò da costoro rimanendo formalmente ancorato alla tonalità (tutte le sue partiture recano i classici accidenti in chiave) ma surrogandola con il frequente ricorso a scale esotiche: tanto per dire, nelle prime sole sei (!) battute del brevissimo Preludio del Pelléas ne vengono impiegate due, che poi giocheranno un ruolo di primo piano, anche se non esclusivo, in tutta l’opera: la scala pentatonica (DO-RE-MI-SOL-LA) e la scala a toni interi (DO-RE-MI-FA#-SOL#-SIb). Entrambe le scale mancano della sensibile (il SI nella tonalità di DO) e non comprendono semitoni (quindi impediscono ogni disegno cromatico). Ora, bisogna sapere che l’orientamento alla sensibile è stato il motore di tutta la musica occidentale da prima di Bach fino ad… Allevi! E quindi, levare di mezzo quella nota, alle nostre orecchie fa lo stesso effetto che farebbe alle nostre papille gustative il bandire il sale dai nostri manicaretti. Insomma, la musica senza sensibile, per noi (e sottolineo: noi) diventa inSIpida (smile!) Per questo, almeno di primo acchito, il Pelléas non coinvolge ed entusiasma come una Cavalleria! Peccato perché invece è opera che ha tutto il diritto di essere apprezzata, proprio come va apprezzato qualcosa di unico nel suo genere (nemmeno il suo autore riuscì più a ripetere nulla di simile).

Si diceva dei motivi conduttori: due di essi – fondamentali – compaiono subito all’inizio del Preludio:


Le prime 4 battute presentano un primo tema costruito ed armonizzato con la scala pentatonica, caratteristica di certa musica orientaleggiante, arcaicizzante e naif, che rappresenta tradizionalmente l’innocenza, il mondo celeste, la pace della natura (qui abbiamo il bosco, ma l’atmosfera ricorda anche quella immobile del preludio del Rheingold) mentre il secondo (nel seguito associato alla personalità di Golaud) è costruito ed armonizzato con la scala a toni interi, che ha un che di istintivamente repellente, innaturale (vi mancano la quinta e la quarta giuste) e diabolico (come attesta il tritono RE-LAb nei bassi).

Ecco, nel Pelléas ritroveremo spesso motivi e atmosfere creati con queste due scale, a rappresentare rispettivamente momenti (o personalità, o stati d’animo, o ambienti naturali) caratterizzati da serenità, poesia, cielo, sole, luce e soprattutto amore; oppure da violenza, oscurità, barbarie, cattivi sentimenti. E anche l’impiego degli strumenti dell’orchestra e dei relativi colori sarà conseguente: chiarezza e trasparenza nel primo caso (archi, strumentini, arpe); colori cupi e opachi nel secondo. A queste due scale particolari Debussy affianca poi modi gregoriani e scale più tradizionali, come la maggiore, la minore e il cromatismo, laddove lo richiedono le atmosfere da ricreare.

Altro aspetto peculiare della scrittura di Debussy (e lo si osserva in queste primissime battute) è la giustapposizione di temi costruiti con scale diverse, e quindi lontani e addirittura in conflitto fra loro: e ciò è propriamente la traduzione in musica della tecnica di Maeterlinck consistente nell’affiancare o sovrapporre nella sua prosa elementi (materiali e soprattutto psicologici) fra loro contrastanti, facce opposte e confliggenti di una realtà inafferrabile. (Su scala più macroscopica, è ciò che Wagner fece con Parsifal, dove si fronteggiano il diatonismo del Gral e il cromatismo di Klingsor.)   

Un chiaro esempio di natura bifronte è costituito dal tema di Arkël, esposto nella prima scena, quando Golaud si identifica come suo nipote: motivo che sembra nascere da quello nobile della Natura (scala pentatonica nelle prime tre note) perché il vecchio Re incarna il bel tempo antico; tuttavia l’impennata finale (che rappresenta il suo anelito verso il bene) parte con un tritono e si muove poi sulla scala a toni interi, come a gettare un’ombra su tanto ottimismo:
Anche il tema di Mélisande, che pure compare già dal Preludio, è costruito con questa tecnica di giustapposizione di elementi contrastanti, essendo formato da due sezioni, di cui la prima (prevalente nel prosieguo dell’opera, peraltro) più serena ed elegiaca e la seconda più aspra ed agitata, a rappresentare la duplice personalità della donna:
Quanto a Pelléas, il suo tema viene esposto nella seconda scena, al momento per lui di presentarsi con la lettera di Marcellus:

È un tema meno scolpito rispetto a quelli di Golaud e Mélisande, quasi a tratteggiare una personalità evanescente e incerta (si notino le sincopi nelle viole).

Anche il piccolo Yniold ha un suo tema, esposto per primo dall’oboe (su una scala di DO# minore) al termine dell’Interludio fra la terza e la quarta scena dell’atto III:


Va osservato che i temi associati ai personaggi sono quasi esclusivamente relegati in orchestra: servono quindi ad evocarne la presenza o il ricordo, più che ad incarnarne le esternazioni. 

Oltre a quelli elencati troviamo ovviamente i motivi che evocano luoghi od oggetti, o sensazioni; in ordine di apparizione: l’acqua, l’anello, la malattia, i rumori della grotta, la povertà, i capelli, la caduta da cavallo, la minaccia i Golaud, il sospetto, le lacrime, il gregge, la trappola, l’ombra, la dichiarazione d’amore, il risveglio, la neonata, il calar del sole.  

Come detto, non tutta l’opera è ostinatamente ancorata alle scale prive di sensibile e semitoni, come dimostra ad esempio questo motivo che ascoltiamo dalla bocca di Re Arkël nella sua prima esternazione, costruito sulla scala pentatonica, ma incorporante un FA che la impreziosisce; ecco come lo raddoppia il clarinetto:
Non per nulla c’è chi l’ha vista come un omaggio al vecchio buon Gounod… e a proposito di Arkël, il Re viene gratificato (atto I, scena II e atto IV, scena II) di due autentiche arie, da far invidia all’opera italiana. 

Poi tutto l’armamentario del cromatismo viene impiegato nelle scene-madri dell’opera, come nella violenta tirata che Golaud fa alla moglie, nella seconda scena del quart’atto, o nell’ultima scena dello stesso atto (incontro amoroso di Pelléas e Mélisande) dove troviamo una pagina come questa, degna di… Massenet o Puccini:

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A proposito invece di… reminiscenze, soprattutto wagneriane, l’Interludio fra le due prime scene inizia con una specie di Waldweben, ma contemporaneamente presenta anche una rassomiglianza impressionante con l’accompagnamento al racconto di Pimen, nel primo atto del Boris; (poi Mahler se ne ricorderà nel secondo canto del Lied von der Erde…)


L’Interludio culmina poi in una citazione tanto chiara quanto appropriata alla circostanza (il faticoso cammino di Golaud e Mélisande per uscire dalla foresta) del cambiamento di scena del prim’atto di Parsifal:


Un altro Interludio, quello che porta alla terza scena del second’atto (quella della grotta dove si reca Mélisande con Pelléas) è aperto da una figurazione degli archi che ricorda chiaramente l’incipit del terzo Preludio del Tristan, con la snervante dissonanza (SI-LA in Debussy e SOL-FA in Wagner) che li caratterizza:


Nella seconda scena dell’atto IV (incontro fra il Re e Mélisande) nel mezzo di quella che è un’autentica e strepitosa aria di Arkël (tipo Re-Marke, per intenderci) subito prima di Viens ici; pourquoi restes-tu là sans répondre et sans lever les yeux?, la viola suona, un tono sotto, il leggendario tema che apre il Tristan!


Invece richiama ancora Parsifal la chiusa dell’atto IV, con la caduta di seconda maggiore (SOL-FA) che ricorda quella (DO#-SI) che conclude l’atto di Klingsor.
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Per chi volesse approfondire nei dettagli l’esplorazione di quest’opera tanto interessante quanto ostica, è disponibile in rete la storica analisi (1907) fattane da Lawrence Gilman. Magari da accompagnare con il video di una altrettanto (ormai) storica produzione del 1992 di Peter Stein, diretta da uno dei maestri che più ha studiato e sviscerato (fin dal 1969) il Pelléas: il venerabile Pierre Boulez, qui con la WNO.

Vedremo come se la caveranno i due Danieli a Firenze, dove purtroppo la proposta pare venga (finora almeno) apprezzata da pochi intimi, a giudicare dal mucchio di biglietti ancora disponibili in internet per tutte e 4 le rappresentazioni.
  

13 giugno, 2015

Debussy in visita a Firenze

 

Nella settimana dal 18 al 25 giugno l’OF (nome che sa tanto di magia…) ospiterà 4 recite di Pelléas et Mélisande diretta, in buca e sul palco, da due Danieli nazionali: Gatti&Abbado.

Quest’opera di Debussy, la sua prima e (praticamente) unica, resta anche un unicum (forse affiancata dal solo Boris, che Debussy conosceva assai bene) nel panorama del teatro musicale di tutti i tempi, al contrario della produzione non-teatrale del compositore parigino, che ha letteralmente fatto epoca.

Debussy, cosa anche questa assai singolare, impiegò direttamente come libretto – e proprio alla lettera - il testo teatrale simbolista (in prosa) di Maurice Maeterlinck, limitandosi ad apportarvi poche variazioni, in sostanza costituite da qualche taglio più o meno corposo (anche se non proprio insignificante, come vedremo): incontrando il drammaturgo a Gent nell’autunno del 1893, Debussy ne ottenne l’approvazione (ed addirittura alcuni consigli) per tutte le modifiche da lui proposte.

Lo schema che segue serve a riassumere la trama del dramma e nello stesso tempo a mettere in rilievo le differenze fra il testo di Maeterlinck e il libretto di Debussy. (Le parti evidenziate in giallo non sono nel libretto dell’opera; su quella in verde del terzo atto c’è da fare un discorso complicato, come vedremo.)
    
Maeterlinck
Debussy
PERSONAGGI principali
ARKEL, Re di Allemonde.
GENEVIÈVE, madre di Pelléas e di Golaud.
PELLÉAS, GOLAUD,  nipoti di Arkël.
MÉLISANDE.
Il piccolo YNIOLD, figlio di Golaud (di primo letto).
Un medico.
Un Pastore.
Voci di marinai.
Un portinaio.
Serve.
Atto I
Scena I
Alcune inservienti si accalcano presso il portone principale del castello del Re di Allemonde: sono state incaricate di pulirne l’ingresso, in occasione di una grande festa. Il portiere prima esita, poiché quel portone è rimasto chiuso da tempo immemorabile, poi si convince ad aprirlo e ci riesce, ma con grande fatica e solo con l’aiuto dealle inservienti; una comincia a pulire, un’altra afferma che è impossibile farlo, altre domandano acqua, ma il portiere predice che nemmeno con un diluvio si potrà mai pulire quella soglia.
Scena II
Scena I
Il principe Golaud, nipote del Re Arkël, durante una battuta di caccia si è perduto nel bosco, rincorrendo un cinghiale da lui ferito, e lì incontra, vicino ad una fonte, una giovane donna che si dispera. La interroga, senza avere risposte precise. Lei ha perduto una corona, caduta sul fondo della fonte, ma impedisce a Golaud di recuperarla. Finalmente dice il suo nome: Mélisande, ma rifiuta ogni aiuto e vorrebbe rimanere lì anche la notte. Alla fine se ne va con Golaud.
Scena III
Scena II
Geneviève legge a Re Arkël una lettera scritta da suo figlio Golaud al fratellastro Pélleas, dove racconta come ha incontrato Mélisande – presso una fonte, piangente e con la veste strappata dai rovi - e l’ha poi sposata, pur ignorandone origini e storia. Teme che il nonno Arkël disapprovi la scelta: in caso contrario, chiede che una torcia accesa su una torre gli indichi la possibilità di far ritorno a casa. Arkël invece accetta la decisione del nipote, anche se lo avrebbe preferito sposo alla principessa Ursula, che avrebbe potuto consolarlo della morte della prima moglie. Geneviève avanza dubbi su questa nuova sposa sconosciuta, ricordando che Golaud, dopo essere rimasto vedovo, non viveva che per il figlio Yniold e si sarebbe risposato solo dietro precisa volontà del nonno. Arriva ora Pelléas, fratellastro di Golaud, che comunica di aver ricevuto un’altra lettera, dall’amico Marcellus, morente, che lo prega di recarsi al suo capezzale per poterlo salutare per l’ultima volta. Il nonno però lo prega di rimandare la visita: prima deve attendere il ritorno di Golaud, e poi c’è da assistere il padre malato.
Scena IV
Scena III
Geneviève e Mèlisande passeggiano nei boschi fuori dal castello, scambiandosi impressioni sul luogo strano e buio che le circonda; Pélleas le raggiunge arrivando dal mare, secondo sua madre stava aspettando ansiosamente Mélisande; si fa sera e una nave esce dal porto: Mélisande la riconosce in quella che l’ha portata lì. Pélleas prevede tempesta per la notte, poi annuncia a Mélisande che l’indomani partirà: la donna gli domanda perché, senza avere risposta.
Atto II
Scena I
Pelléas e Mélisande si intrattengono presso una fontana nel parco. In passato si diceva che quell’acqua curasse i ciechi, ma ora che il Re è quasi cieco, nessuno ci viene più. L’acqua è assai profonda, Mélisande vorrebbe immergervi le mani, ma sono i suoi lunghissimi capelli a finirci dentro. Pelléas le chiede se Golaud l’ha incontrata vicino ad una fonte simile e la interroga sui particolari di quell’incontro. Lei cambia discorso e si mette a giocare con la fede nuziale donatale da Golaud, lanciandola in aria, finchè essa non cade nella fontana, perdendovisi proprio mentre la campana suona il mezzogiorno. Pelléas vorrebbe minimizzare l’accaduto, ma Mélisande è preoccupata per come reagirà Golaud alla notizia. Pelléas le consiglia di dire semplicemente la verità.
Scena II
Golaud è a letto per una caduta da cavallo: al dodicesimo rintocco del mezzogiorno il destriero è inspiegabilmente imbizzarrito e lo ha disarcionato, procurandogli lievi ferite. Mélisande è al capezzale del marito e gli confessa la sua infelicità: non riesce a vivere in quel posto, vorrebbe andarsene con lui altrove. Alle domande di Golaud sulle cause di questa infelicità (forse Pelléas?) risponde che la opprime l’oscurità del luogo, non la compagnia di Pelléas. Golaud le stringe le mani e si accorge della mancanza dell’anello, così le chiede spiegazioni e lei inventa che deve esserle caduto in una grotta marina dove cercava conchiglie per il piccolo Yniold. Il marito la spinge a tornare subito sul posto, nonostante faccia notte, alla ricerca dell’anello, facendosi aiutare da Pelléas.  
Scena III
Pelléas e Mélisande sono in una grotta marina, che visitano al solo scopo di permettere a Mélisande di descriverla con precisione a Golaud, in caso costui facesse domande precise sul luogo dove Mélisande gli ha detto aver perso l’anello. Addentratisi nella grotta, vi scorgono tre vecchi addormentati e Mélisande, impaurita, decide di abbandonare subito quel luogo.
Scena IV
Re Arkël ribadisce a Pelléas che è opportuno lui rimanga al castello: suo padre è ammalato e la situazione del reame non è delle migliori, con la fame che imperversa. Non è il caso quindi di intraprendere viaggi per almeno qualche giorno o settimana: Pelléas acconsente a rimanere.
Atto III
Scena I
Pelléas e Mélisande sono in una sala del castello, è notte, pare che Golaud ormai non tornerà dalla caccia. Pelléas chiede alla donna se ancora riesce a lavorare al filatoio essendosi fatto buio, ma Mélisande afferma di poter lavorare anche meglio con l’oscurità. Arriva Yniold che mostra la sua preoccupazione per la prossima partenza del padre e di Mélisande, che crede di dedurre da discorsi fatti dalla matrigna e dallo zio. Pelléas cerca di distrarlo mostrandogli cani e cigni che baruffano, ma inutilmente. Mèlisande riprende a filare cantando una canzoncina che cita tre santi. Alla fine Yniold sente arrivare suo padre: Golaud in effetti arriva, mentre il figlio, alzando la lampada sui volti di Pelléas e Mélisande, li scopre in lacrime.
Scena II
Mélisande, alla finestra, pettinandosi i capelli per la notte, canta una specie di filastrocca: Les trois sœurs aveugles (Le tre sorelle cieche).

Scena I
Mélisande, alla finestra, pettinandosi i capelli per la notte, canta una specie di serenata al contrario (Mes longs cheveux) che cita tre santi: lei è nata una domenica a mezzodì.
Pelléas arriva sotto la finestra e chiama Mélisande, che informa della sua partenza per l’indomani. Mélisande fa scendere i suoi lunghissimi capelli fino a lui, che ne rimane inondato e li accarezza e li bacia. Poi le dichiara tutto il suo desiderio di lei, mentre alcune colombe svolazzano via dalla torre. Golaud sopraggiunge e li sorprende, ma si limita a rimproverarli per queste bambinate, poi si porta via Pelléas.
Scena III
Scena II
Golaud guida Pelléas nei sotterranei del castello, facendogli notare il tanfo da cimitero che vi si respira, che Golaud pensa provenga da un lago sotterraneo. Pelléas rischia di cadere nella voragine e Golaud lo trattiene in tempo. I muri sono pieni di crepe e lui teme che il castello possa crollare su queste grotte, se non si fa nulla per metterlo in sicurezza. Poi mostra cautamente al fratellastro il lago che emana un fetore di morto. Pelléas si sporge da una roccia per guardare la voragine, poi chiede a Golaud di uscire al più presto da lì.
Scena IV
Scena III
Pelléas finalmente respira, uscito da quei puzzolenti sotterranei. Tutto intorno la natura è un paradiso, con la fresca brezza marina e le rose in fiore. Suonano le campane, i bimbi stanno scendendo al mare per il bagno, sarà quasi mezzogiorno: non gli pareva fosse passato tanto tempo. Golaud precisa che sono entrati nella caverna alle 11. Pelléas giura fossero le 10 e mezza, il fratellastro propende per le 11 meno un quarto. La madre dei due fratellastri e Mélisande appaiono alla finestra e Golaud ne approfitta per tornare sulla scena della sera precedente, pregando Pelléas di astenersi in futuro da simili ragazzate: Mélisande è incinta! Poi Golaud sente dei rumori, e Pelléas gli spiega che sono greggi in marcia verso la città. Golaud li sente piangere, come già aspettassero il macello, ma subito si compiace per la  bellissima giornata che farà bene al raccolto.
Scena V
Scena IV
Golaud è seduto con il figlio Yniold ai piedi della stanza dove si trovano Mélisande e Pelléas. Il padre comincia a porre al figlio, che sta spesso con loro, domande sempre più insistenti sui rapporti fra la moglie e il fratellastro. Yniold racconta fatti di scarso rilievo ma anche cose più preoccupanti, come le discussioni sulla porta da chiudere o meno, o un abbraccio e bacio che i due si sono scambiati in un giorno di pioggia. Golaud cambia discorso con un paio di diversivi (gente povera che accende fuochi nel bosco e il giardiniere che non può spostare un pesante tronco caduto) poi accusa Pelléas di essere matto. Yniold lo contraddice, poi suo padre lo issa sulle proprie spalle per fargli spiare il comportamento dei due all’interno della stanza. Ma il bambino non scopre nulla di compromettente, poi comincia a lamentarsi e induce il padre a deporlo a terra e ad andarsene via.
Atto IV
Scena I
Pelléas e Mélisande si incontrano in un corridoio del castello. Lui le chiede un appuntamento. Ultimamente suo padre è molto migliorato, il medico dice che è fuori pericolo. I cupi presentimenti che assalivano Pelléas sono ora scomparsi, tutte le finestre di suo padre sono aperte, lui parla quasi come un uomo normale. Lo ha riconosciuto e lo ha invitato a fare dei viaggi, prima che sia troppo tardi. Mélisande sembra sconvolta da questa notizia, poi fissa l’appuntamento con Pelléas per la sera stessa, vicino alla fontana dei ciechi.
Scena II
Re Arkël incontra Mélisande e la mette a parte della sua gioia per la guarigione del padre di Pelléas. Adesso tutto potrà cambiare e anche lei, che era arrivata in una casa inospitale, colpita da disgrazie, potrà invece guidarne un futuro radioso. Ma ecco entrare Golaud che annuncia la partenza di Pelléas per la sera stessa. Ha una piccola ferita in testa e la moglie vorrebbe medicargliela, ma lui la scaccia ed anzi le ordina di portargli la sua spada. Poi comincia ad offendere la moglie, indicando al nonno i suoi occhi apparentemente innocenti. Alla fine la prende per le lunghe chiome e la trascina a destra e a manca, avanti e indietro (la croce!) costringendola ad inginocchiarsi davanti a lui. Ma per ora non le farà nulla, solo aspetterà il momento giusto per agire. Mélisande scoppia in lacrime, confessando al Re che il marito ormai non l’ama più.
Scena III
Il piccolo Yniold sta cercando invano di sollevare una pesante pietra, per recuperare la sua pallina d’oro. Improvvisamente sente un gregge di montoni avvicinarsi e gli pare piangano. Vorrebbero andare a destra, ma il pastore li manda a sinistra. Il piccolo chiede al pastore perché ora non belano più: perché non stanno andando verso la stalla…
Scena IV
Alla fontana dei ciechi Pelléas aspetta ansiosamente l’arrivo di Mélisande, intenzionato ad aprirle il suo cuore, finalmente. Quando lei arriva – con la veste strappata dai chiodi della porta della sua camera - lui l’abbraccia e le dichiara il suo amore. Lei risponde di amarlo, al che Pelléas sembra impazzire di gioia: non crede alle sue orecchie, ma lei gli risponde che non sta mentendo, lei mente solo a suo fratello! Lui vede tristezza negli occhi di lei, ma lo spiega con l’amore, che fa piangere di gioia. Lei è così bella che sembra prossima a morire! I due confessano di non essersi innamorati al primo incontro, lui dice che avrebbe voluto andarsene senza vederla, lei che aveva deciso di non venire all’appuntamento. Mélisande ode ora dei rumori sospetti, ma Pelléas non le dà retta e continua le sue effusioni. Finalmente si accorgono di Golaud, nascosto lì nei pressi. Ma lo sfidano abbracciandosi ancora appassionatamente. Golaud esce dall’ombra e colpisce con la spada Pelléas, che cade accasciandosi sul bordo della fontana. Mélisande fugge inorridita, mentre il marito la segue in silenzio.
Atto V
Scena I
Le donne della servitù sono riunite in una sala del castello e si scambiano notizie e pareri sui recenti avvenimenti. Nel castello c’è silenzio, rotto solo dalle grida dei bambini. Su nella camera di lei ci sono delle persone, ma nessuno può entrare. Una vecchia serva afferma di aver trovato, un mattino presto, Mélisande e Golaud stesi per terra, quasi abbracciati, proprio davanti al portone principale del castello: lei leggermente ferita al petto, lui con la sua spada conficcata nel fianco, non essendo riuscito a colpirsi a morte; ma c’era sangue ovunque. Golaud ora sta meglio, mentre Mélisande, che nel frattempo ha dato alla luce una piccola creatura, sembra prossima a morire. Di Pelléas non si hanno notizie ufficiali, ma qualcuno ha visto il suo corpo in fondo alla fontana. Sul castello si è abbattuta la malasorte, nessuno vuol più parlare, tutti sembrano complici del misfatto. Alla fine le inservienti si avviano verso la camera al piano superiore.
Scena II
Scena unica
Mélisande è a letto, vegliata dal medico, dal Re e da Golaud. Sembra lasciarsi morire. Golaud si incolpa di averla uccisa lui: in fondo i due giovani, che lui aveva sorpreso presso la fontana, si erano soltanto abbracciati, come due fratelli… Mélisande si risveglia, chiede che si apra la finestra, domanda chi è presente vicino a lei. Arkël le dice che lì c’è anche suo marito, e lei lo fa avvicinare. Golaud chiede di rimanere solo con lei, implora perdono per tutto il male che le ha fatto, ma vuol sapere la verità, riguardo ai rapporti di lei con Pelléas. Non ottenendo risposte soddisfacenti rinuncia, sconfortato. Mélisande chiede se stia arrivando l’inverno, poi Arkël le annuncia la sua avvenuta maternità e le consegna la piccola, che lei non riesce nemmeno a reggere in braccio. Entrano ora tutte le donne della servitù, in tempo per assistere silenziosamente al trapasso di Mélisande. Golaud è affranto, e Arkël lo invita ad allontanarsi: ora sarà la piccola neonata a dover prendere il posto della madre.

Come si può notare, i principali tagli operati da Debussy - con il pieno consenso di Maeterlinck - riguardano innanzitutto le scene di apertura dei due atti estremi, che richiederebbero di fatto la presenza di un coro femminile. In questo modo viene perso l’effetto (sul modello greco) del coro che osserva e commenta dall’esterno gli avvenimenti. Ma c’è molto di più. In Maeterlinck le inservienti (e il portinaio) che occupano la prima scena agiscono – anche se lo spettatore lo realizzerà compiutamente solo alla fine - a cose fatte: sono lì per pulire la soglia del castello da qualcosa che si saprà poi essere il sangue di Golaud! E poco conta che la conclusione non sia, come loro immaginano all’inizio, una festa ma un funerale (…ma siamo proprio sicuri sia davvero un funerale?) Così il dramma di Maeterlinck, a partire dalla comparsa di Golaud nel bosco e fino all’ultima scena dell’atto IV (assassinio di Pelléas) è tutto un lungo flash-back che si chiude all’inizio del quinto atto, quando si torna in diretta con l’assemblea delle donne, che ora conoscono tutta la verità. (Nella scena finale dell’opera di Debussy le inservienti compaiono comunque, ma rimanendo completamente silenziose, come del resto in Maeterlinck.)

Beh, si deve ammettere che questo taglio operato dal compositore non è propriamente trascurabile, anche perché cancella dal libretto uno dei quattro riferimenti (e forse il più importante) ad un simbolo presente nel dramma: il sangue! Del quale simbolo troviamo nell’opera soltanto i primi tre riferimenti: quello del sangue del cinghiale cacciato da Golaud (scena iniziale); e i due che riguardano le piccole ferite procuratesi da Golaud con la caduta da cavallo e con l’attraversamento di un roveto. Manca quindi il riferimento al sangue fuoriuscito dalla ferita che Golaud si è inferto cercando di suicidarsi dopo la scena dell’assassinio di Pelléas, e con esso l’informazione stessa del tentativo di suicidio.

Un altro taglio riguarda l’ultima scena dell’atto II, nella quale il Re invita Pelléas a rimandare i suoi viaggi di qualche settimana, o almeno di qualche giorno; e poi la scena immediatamente successiva (la prima dell’atto III) dove il piccolo Yniold manifesta il suo dolore credendo che il padre e la matrigna stiano per abbandonarlo, per poi accogliere Golaud, tornato più tardi del solito dalla caccia.     

Debussy poi accorcia la seconda e terza scena (terza e quarta in Maeterlinck) dell’atto III, eliminando dettagli della visita di Golaud e Pelléas al lago sotterraneo e del successivo ritorno all’esterno. Un piccolo taglio anche nella scena successiva (Golaud con Yniold) che elimina il diversivo introdotto dal padre. Abbreviata poi la prima scena dell’atto IV, con la soppressione di alcuni particolari citati da Pelléas. Infine nello stesso atto, ultima scena, accorciato il colloquio amoroso fra Pelléas e Mélisande, e proprio nella parte dove a lui lei pare tanto bella da esser sul punto di morire.

C’è infine una storia abbastanza complicata che attiene a ciò che Mélisande canta all’inizio dell’atto III dell’opera (la canzone dei capelli). Lo specchietto sottostante riporta, a sinistra, il testo di Maeterlinck come si trova oggi nelle pubblicazioni del dramma teatrale; e a destra il testo presente nel libretto musicato da Debussy.

dramma (dal 1893, versione definitiva)
Les trois sœurs aveugles, (Espérons encore). 
Les trois sœurs aveugles, Ont leurs lampes d’or. 
Montent à la tour, (Elles, vous et nous). 
Montent à la tour, Attendent sept jours. 
Ah ! dit la première, (Espérons encore), 
Ah ! dit la première, J’entends nos lumières. 
Ah ! dit la seconde, (Elles, vous et nous). 
Ah ! dit la seconde, C’est le roi qui monte. 
Non, dit la plus sainte, (Espérons encore). 
Non, dit la plus sainte, Elles se sont éteintes…
opera (dramma, versione 1892)
Mes longs cheveux descendent
jusqu’au seuil de la tour;
Mes cheveux vous attendent
tout le long de la tour,
Et tout le long du jour,
Et tout le long du jour.
Saint Daniel et Saint Michel,
Saint Michel et Saint Raphaël,
Je suis née un dimanche
Un dimanche à midi...

Come si deduce però dalle date, il testo di Debussy è in realtà quello originariamente scritto da Maeterlinck nel 1892. Successe poi che per la prima parigina del dramma teatrale (di mercoledì 17 maggio 1893, presente lo stesso compositore) lo scrittore belga preparò per l’interprete Eugénie Meuris diverse altre canzoni, fra le quali la primadonna scelse Les trois sœurs aveugles, stracolma di gratuito simbolismo, che fu per l’occasione musicata da tale Gabriel Fabre (da non confondersi con Fauré) e che più tardi Maeterlinck incluse anche in una sua collana di (prima 12, poi) 15 canti, dopodichè la tenne buona come testo definitivo per il suo dramma. È anche possibile che la decisione di Maeterlinck di sostituire il testo originario sia dipesa dal fatto che nella scena immediatamente precedente (la prima dell’atto III, cassata da Debussy) Mélisande canticchia un’altra canzoncina che richiama precisamente i tre santi (Daniel, Michel e Raphaël) che tornano poi nella canzone dei capelli, creando una stucchevole ripetizione. Ripetizione nella quale invece non incorreva Debussy, che aveva appunto tagliato la precedente scena: di qui la decisione del musicista (approvata dal drammaturgo) di conservare nell’opera il testo originale, il che lo metteva anche al riparo da fastidiosi confronti con la musica composta da Fabre per Le tre sorelle cieche.    
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Oltre al dichiarato simbolismo, il dramma di Maeterlinck (e di conseguenza il libretto di Debussy) è anche caratterizzato da una buona dose di indeterminatezza, a partire dalla collocazione geo-temporale del racconto. Non sappiamo dove si trovi Allemonde, né in quale epoca si svolga la vicenda. Per la verità sull’epoca qualche indizio più o meno preciso l’abbiamo, come il castello a più piani, con possenti fondamenta e un grande e pesantissimo portone; come grandi velieri, porti e relativi fari; le uniche armi che incontriamo sono la spada di Golaud e le frecce che lo stesso promette al figlio; esiste un servizio postale e ci sono torri campanarie che scandiscono le ore; Mélisande lavora ad un filatoio e nelle stanze del castello ci sono degli inginocchiatoi; Golaud accenna ad angeli e al battesimo.  

Da tutto ciò si potrebbe vagamente desumere che il periodo storico sia il Medioevo e che di conseguenza il luogo si trovi da qualche parte in Europa, magari – considerati anche i nomi dei personaggi – non lontano dai paraggi di Artù… o di Parsifal (il cui figlio arrivò un giorno alla foce del fiume che bagna anche la città di Maeterlinck). Ma di certo l’ambientazione ha poco o nulla a che fare con la sostanza simbolista del dramma, tutto intriso di psicologia e spiritualismo.         

Non sono del tutto chiari addirittura gli stessi gradi di parentela che legano i principali personaggi: i dati che ci vengono forniti, o che possiamo plausibilmente desumere dal testo, non ci consentono di costruire un mosaico perfettamente definito, lasciando aperte alcune alternative, o portando a smentire qualche presupposto. Vediamo un po’.

Ci viene detto fin dalla locandina che Golaud e Pelléas sono nipoti di Re Arkël; e che sono entrambi figli di Geneviève. Da ciò che Geneviève stessa racconta a Mélisande, si dovrebbe dedurre che lei (arrivata al castello 40 anni prima e non venutavi al mondo) non sia figlia di Arkël, ma sua nuora. Poi veniamo a sapere da Golaud che Pellèas non è suo fratello, ma fratellastro, e più giovane di lui: evidentemente Geneviève li ha messi al mondo con mariti diversi, di cui il secondo, padre di Pelléas, è tuttora vivo (non vegeto, peraltro…) e ospite al castello. E qui finiscono i dati certi o desumibili dal contesto, il che lascia aperte un sacco di domande e possibilità: perché Golaud e Pelléas si possano dire entrambi nipoti diretti di Arkël è necessario che i rispettivi padri fossero fratelli (figli del Re) che Geneviève ha sposato in sequenza; e quindi il padre di Pelléas sarebbe anche zio di Golaud, ma ciò non trapela mai dal testo, nè mai Golaud parla di lui! In caso contrario, uno dei due fratellastri non sarebbe discendente diretto del Re, e quindi degraderebbe da nipote a suo nipotastro (il che non gli impedirebbe comunque di chiamare familiarmente nonno il Re)!  

La domanda che sorge qui è: questa ambiguità è voluta - e quindi in qualche modo può influenzare, orientare (o disorientare) la comprensione e l’interpretazione dell’intera o di parte della vicenda - oppure è soltanto casuale e involontaria, o comunque ininfluente e come tale da ignorare? Evabbè, possiamo dormirci sopra?

A proposito dei rapporti fra Golaud e Pelléas, il testo ci presenta un altro enigma: perché nella lettera - quella che la loro madre Geneviève legge al Re all’inizio - Golaud si rivolge a Pelléas dandogli familiarmente ed affettuosamente del tu, come ben si conviene fra figli della stessa madre, mentre poi (terza scena dell’atto III, nei sotterranei e nella successiva quarta, all’aperto) gli si rivolge dandogli sempre del voi? Qui per la verità una spiegazione plausibile del repentino mutamento dei rapporti fra i due si può individuare nel sospetto insorto in Golaud di una tresca della moglie con il fratellastro: sospetto divenuto quasi certezza proprio la sera precedente la visita nei sotterranei, nel momento in cui lui era stato testimone della scena dei lunghi capelli che Mélisande aveva lasciato cadere in testa a Pelléas…  

Domanda capitale: chi è o cosa rappresenta Mélisande? (Debussy arrivò a definirla un nulla e lo stesso Maeterlinck ne parlava come di una persona normale, che apre bocca solo per dire banalità, mai per esprimere un concetto che è uno…) Come mai le tracce di sangue della preda ferita da Golaud conducono a lei, piangente e prostrata, proprio come fosse ferita? Com’è maturato il rapporto fra lei e Golaud? Cosa è accaduto fra loro dopo il primo incontro nel bosco? Come ha potuto lui sposarla senza conoscere nulla di lei? E lei, lo ha sposato convintamente, o perché costretta? Golaud dice al fratellastro che lei è prossima alla maternità: è rimasta incinta prima o dopo il matrimonio, consenziente o forzata? Lei perde dapprima una corona (mentre piange, da sola nel bosco) consegnatale da non si sa chi (un consorte, il padre, un amante?) e poi la fede nuziale di Golaud (mentre scherza allegramente con Pelléas) e in entrambi i casi i preziosi oggetti finiscono in fondo a fontane o pozzi per i quali lei sembra avere una particolare attrazione: sono fatti accidentali, o in qualche modo da lei deliberatamente provocati? Come mai lei, ignorando l’esortazione di Pelléas, mente a Golaud (e solo a lui)? E non mente soltanto riguardo la perdita dell’anello nuziale, ma soprattutto riguardo a Pelléas: perché lui le parla e come, l’ha invitata lui alla fontana dei ciechi. E poi: perché fra le tre possibili cause del suo disagio prospettatele da Golaud (il Re, Geneviève, Pelléas) lei risponde alludendo subito, per negarla contro ogni evidenza, alla terza? Perché non chiude mai gli occhi, se non di notte? Cosa rappresentano le sue kilometriche chiome? E le sue piccole mani, che Golaud prima e Pelléas poi vogliono stringere e che lei sospetta essere malate?

Effettivamente di simbolismo ce n’è in grande quantità, e ci si potrebbero scrivere interi trattati. Oltre a ciò che è stato già elencato sopra, solo qualche spunto. Due volte (in Maeterlinck, una sola però in Debussy) incontriamo greggi che vanno al macello: cosa ci rappresentano, insieme al cinghiale cacciato e ferito da Golaud? Perché Geneviève, parlando con Mélisande appena arrivata, afferma che Pelléas è stanco per averla attesa così a lungo? E il vascello che ha condotto Golaud e Mélisande, e che riparte in una notte che promette burrasca? A proposito, Golaud era uscito per una battuta di caccia, con la sua muta di cani: perché è poi rimasto via sei mesi ed è tornato a casa a bordo di una nave? E i fari che si vedono, intravedono, o non si vedono? E cosa significa la contemporaneità – sul dodicesimo rintocco della campana a mezzogiorno (ora in cui Mélisande venne al mondo!) – fra la caduta della fede di Mélisande nel pozzo e la caduta di Golaud da cavallo? Perché Golaud attribuisce un’importanza smisurata all’anello perduto da Mélisande, al punto da spedirla a cercarlo, con Pelléas, in una grotta nel cuore della notte? E che significato hanno le grotte marine e i sotterranei maleodoranti del castello? E i tre poveri vecchi che dormono nella grotta? E la lotta fra cani e cigni? E gli inutili tentativi di Yniold di recuperare la sua pallina d’oro finita sotto una pietra? Perché Geneviève scompare quasi del tutto dopo il primo atto (ne sentiamo soltanto parlare dal figlio all’inizio dell’atto IV)? Cosa ci dice il fatto che Pelléas da morto finisce in fondo a un pozzo, come i gioielli di Mélisande? 

Infine c’è un piccolo (a prima vista) particolare che getta una luce davvero inquietante sull’intero significato dell’opera, poiché chiude il cerchio fra la scena iniziale (Mélisande raggiunta, presso la fonte dove ha perso la corona, da Golaud che ha ferito a morte un cinghiale) e quella che chiude l’atto IV (Mélisande raggiunta, presso la fonte dove lei aveva perso la fede nuziale, da Golaud che ferisce a morte Pelléas). In entrambi i casi Mélisande sta fuggendo da qualcosa o qualcuno e il suo abito si strappa (nel primo caso impigliandosi nei rovi, nel secondo nei chiodi della porta della camera). Ma nel secondo caso noi sappiamo per certo da chi lei sta fuggendo: Golaud! 

E proprio Golaud è figura ambivalente e controversa: vedovo addolorato e attaccato al figlioletto, ma in seguito marito che trascura totalmente la nuova moglie per poi ingelosirsi a vederla, o sospettarla, corteggiata dal fratellastro; gelosia che lo porta persino a strumentalizzare il rapporto con il figlio; e infine a commettere addirittura un fratricidio. E lo stesso perdono che nell’ultima scena chiede e offre a Mélisande è ancora inquinato – pare Otello - dalla condizione posta e dettata dalla gelosia: la verità… Lui è l’unico personaggio del dramma a manifestare un carattere con risvolti negativi, quasi a rappresentare la parte impura, meno nobile, dell’umanità. Non per nulla vive più nel buio della fitta boscaglia e dei sotterranei del castello, che non in piena luce.

Degli altri tre personaggi principali, Pelléas sembra collocarsi agli antipodi del fratellastro: questi si sposta quasi esclusivamente per cacciare prede nei boschi, lui invece desidera viaggiare per scopi umanitari (assistere l’amico Marcellus in fin di vita) o per esplorare e conoscere il mondo, come gli suggerisce suo padre. Lui ama anche visitare le caverne marine, dove basta poca luce a disegnare firmamenti sulle pareti, e ci conduce Mélisande; invece mostra di non sopportare i sotterranei del castello in cui l’ha condotto il fratellastro. Il suo rapporto con Mélisande è tanto sincero e genuino da sembrare addirittura preesistente all’arrivo della donna (come ha notato sua madre nel primo atto!) Forse per questo, allorquando Mélisande fa cadere la fede nel pozzo, lui le suggerisce di dire al marito la verità

Geneviève è una figura che passa come una meteora (canta solo nella seconda e terza scena del prim’atto) e appare come il contraltare di Mélisande: al contrario della giovane, che non riesce proprio a sopportare l’ambiente (soltanto quello materiale?) di Allemonde dal quale vorrebbe fuggire, lei invece ci si è adattata negli anni e ormai lo ha accettato anche negli aspetti meno… gradevoli. Veniamo a sapere della sua gioia per l’inaspettata guarigione del marito, mentre nulla ci vien detto di come abbia preso l’assassinio del figlio minore per mano del maggiore!

Il vecchio Re Arkël pare aver fama di sovrano severissimo, ma in realtà scopriamo che è pronto ad accettare come positivi anche fatti che vanno in direzione opposta (vedi proprio il matrimonio di Golaud con Mélisande) ai suoi desideri. L’unico caso in cui si oppone con una certa fermezza ad una richiesta è quello che riguarda Pelléas (che vorrebbe correre al capezzale dell’amico): ma guarda caso è proprio questo diniego che rende possibile l’incontro fra il giovane e Mélisande! Alla fine del dramma ancora una volta cerca di trovare ciò che vi è di positivo (la nuova creatura che dovrà occuparsi del futuro) in mezzo a tante disgrazie e lutti.

Quanto al piccolo Yniold, incarna la figura del figlio di papà che dal papà è bellamente trascurato; sembra messo lì soltanto per servire da spalla (oltre che salirgli sulle spalle) al padre che conduce le indagini sulla fedeltà della giovane moglie (la scena finale del terz’atto è una delle più lunghe dell’intero dramma). E anche a lui è ovviamente riservata una congrua dose di simbolismo…
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Basta leggere il testo di Maeterlinck per notare alcuni accorgimenti tecnici che il drammaturgo belga impiega per caratterizzarne la forma: continue e sciocche ripetizioni di parole o di incisi verbali, improvvisi salti di-palo-in-frasca nei dialoghi fra i personaggi, domande poste nella scena n dell’atto x e a cui viene data indirettamente risposta nella scena m dell’atto y, e così via: il tutto rischia di creare solo confusione e di disorientare lo spettatore. Invece è proprio la musica, con le sue specifiche peculiarità, che può efficacemente supportare queste bizzarrie del testo.

E infatti, se a qualcuno il dramma di Maeterlinck fa l’effetto della leggendaria corazzata fantozziana, costui non sarà il primo, né l’ultimo! Ecco cosa ne scriveva, a pochissimi giorni di distanza dall’unica rappresentazione parigina – la stessa quindi cui aveva assistito anche Debussy - Francisque Sarcey, famoso e temuto critico teatrale dell’epoca (ha lasciato ben otto tomi di sue recensioni che coprono quasi mezzo secolo di teatro). Il quale però concludeva la sua requisitoria sullo spettacolo avvertendo che la lettura del testo (magari fatta a letto, ndr!) avrebbe invece potuto rendere la pièce più soporifera digeribile. Il buon Sarcey morì tre anni prima della rappresentazione del Pelléas di Debussy, e quindi non possiamo sapere se il suo giudizio sulla versione musicale del dramma sarebbe stato diverso.

E allora a noi non resta che prepararci ad ascoltarla.