In questi
giorni è di scena a Bologna la Jenůfa di Leóš Janáček, che ieri pomeriggio è arrivata alla
penultima delle sei rappresentazioni, che si concluderanno questa sera.
Opera dal
soggetto cosiddetto verista, presentando
uno spaccato di vita rurale di remote periferie della Moravia e trattando di
vicende abbondantemente legate alla cronaca nera. Ma dove non manca il richiamo
alla genuinità della vita della gente comune, capace anche di esprimere le più
elevate qualità etiche.
L’intreccio
del dramma (tutto sommato… a lieto fine) coinvolge prevalentemente persone
appartenenti ad una stessa famiglia allargata, quella che fa capo alla vecchia,
vedova ormai da tempo, nonna Buryjovka;
ma dalla lettura del libretto di Janáček si fatica a comprendere l’intricata matassa
dei rapporti di parentela intercorrenti fra i 5 protagonisti principali: la
nonna appunto, i tre suoi nipoti (Laca,
Števa e Jenůfa) e
la nuora Kostelnička. Per dipanare la complicata matassa ci si
deve quindi far aiutare dal testo del dramma teatrale - 1890, cui seguirà molti
anni dopo un più dettagliato racconto di pari soggetto - di Gabriela
Preissová, dal quale il compositore
trasse ispirazione per il suo libretto; dramma dal titolo Její pastorkyna (La sua
figliastra); titolo che Janáček mantenne per l’opera, anche se poi per vari motivi a quello
subentrò il nome della protagonista.
Nell’albero
genealogico che segue sono rappresentati appunto i 5 principali personaggi
dell’opera, indicati in rosso (gli altri sono tutti ormai… defunti):
Come si
deduce, siamo di fronte ad uno scenario a dir poco… incasinato: dico, di gradi
di parentela diretti non ce n’è uno che è uno: fra fratellastri, figliastri e
matrigne, il rapporto più diretto è quello della protagonista con il suo primo
amore, cugini di primo grado.
Tanto per
chiarire: i due uomini (Laca e Števa) che si contendono (almeno per un po’)
l’amore di Jenůfa
sono figli della stessa madre, ma di padri diversi: il primo, di tale Klemen,
il secondo del primogenito di nonna Buryjovka. Laca quindi è più anziano, ma
tutta l’eredità dei Buryja (il mulino e proprietà connesse) va al fratellastro,
per ragioni di… sangue (residui di maggiorascato!) così a Laca viene
semplicemente concesso di lavorare al mulino, come qualunque altro estraneo. Da
parte sua Jenůfa è figlia del secondogenito (Tomas) di
nonna Buryjovka e di una donna (Jenůfa-sr, figlia di un
albergatore) morta poco dopo averla data alla luce (per questo la bimba ne
prende pari-pari il nome). Tale Petrona Slomkova, che invano aveva puntato
Tomas da scapolo, lo ha poi sposato da vedovo, e alla morte di costui ha trovato
impiego come sacrestana (Kostelnička) presso la locale cappella: Jenůfa-jr
(la sua figliastra, appunto, come dice il titolo) viene da lei allevata come
una figlia.
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Ora qualche
nota sulle personalità dei protagonisti, come emergono dal testo della Preissová, e poi dal
libretto e dalla musica di Janáček. La figura centrale è fuor di dubbio quella della Kostelnička, poiché è lei che determina, nel bene e nel
male, ogni singolo sviluppo del dramma che si consuma nella sperduta Veborany.
Lo stesso titolo della fonte di Janáček
(che il compositore originariamente trasferì anche all’opera) lo testimonia
senza ombra di dubbio: Jenůfa vi compare implicitamente, indicata come la sua
(della Kostelnička, appunto) figliastra, quindi l’enfasi è sulla titolare di
quel sua!
I cui comportamenti evidenziano una chiara
instabilità psichica, che un suo conterraneo e contemporaneo avrebbe potuto
analizzare e magari curare applicando le sue recenti scoperte in tema di
psicanalisi: peccato che Petrona Slomkova non abbia avuto la ventura di passare
a Příbor per farsi visitare da tale Sigismund
Shlomo Freud!
Certo, il suo equilibrio psichico doveva
essere stato turbato da tutta una serie di circostanze esistenziali particolarmente
avverse. Dunque, vediamo: Petrona riceve un’educazione assai severa dal padre
(para-medico molto rispettato in paese) e alla morte di lui deve accudire la
madre (donna pia e in perenne ansia che qualche uomo le porti via la figlia). A
27 anni – quindi non più una ragazzina – conosce Toma Buryja (bello e pure
ricco!) e se ne innamora. Ma lui sposa un’altra (Jenůfa-sr) che muore
partorendo una bimba (Jenůfa-jr).
Allora è Toma a cercare Petrona, la quale
decide di sposarlo, attirandosi così mille maledizioni dalla madre, che non può
vedere quel poco di buono (la suocera Buryjovka invece è ben felice che una donna
proba tenga a bada il figlio scapestrato). La stessa Petrona deve presto
pentirsi del matrimonio, viste le abitudini del marito, che beve e perde tutte
le sue sostanze al gioco e a lei riserva solo maltrattamenti. Per di più lei ha
scoperto di non poter avere figli, e da questa frustrazione nasce un amore
possessivo per la piccola Jenůfa, che è l’unica cosa che le rimane alla morte
del marito, ucciso accidentalmente dalla fucilata di un cacciatore.
La sua rettitudine e moralità le fanno
ottenere il posto di sacrestana (Kostelnička). Quando i due fratellastri
Števa
e Laca cominciano a frequentare Jenůfa, ormai adolescente, le simpatie di
Petrona vanno istintivamente a Laca: primo perché lui è (precisamente come lei
stessa) estraneo alla famiglia Buryja e quindi penalizzato (tutta l’eredità va
a Števa)
e secondo perché è un ragazzo con la testa a posto, al contrario del
fratellastro che assomiglia – quanto a cattive abitudini – allo zio Toma.
Naturale quindi che lei sia contraria alla
relazione della figliastra con Števa, ma quando fra i due sopravviene il fatto
compiuto tutta la sua esistenza è volta al perseguimento del bene (o del…
minor male) di Jenůfa:
così la nasconde fino al parto e contemporaneamente comincia a sperare che il
bimbo (del peccato, quindi sbagliato) non veda la luce; e quando la
vede, dice direttamente in faccia alla figliastra di augurarsi che Dio le tolga
quel figlio dalle mani. Per rispetto
delle convenzioni di cui è impregnata, cerca comunque di convincere il padre ad
addivenire alle classiche nozze riparatrici. Mancato questo obiettivo, la sua
decisione è ormai presa: sopprimere il bimbo (qui non è da escludere un
inconscio senso di invidia per la figliastra, che un figlio lo ha avuto, mentre
a lei era stato negato…)
Ma arriva inaspettatamente Laca, nonostante
tutto ancora e sempre innamorato di Jenůfa, e la donna è costretta a rivelargli
il segreto. Però prima che lui possa pensare a mente fredda all’eventualità di prendersi
la figliastra sua con annesso pargolo del fratellastro suo (al quale l'infante già somiglia come una goccia d’acqua!) lei lo previene con la menzogna della
morte del piccolo, tanto è convinta dell’assurdità di una simile soluzione: ma
come, Laca dovrebbe sposare Jenůfa e riconoscere come suo il figlio del
fratellastro che gli ha violato anche la moglie, dopo essersi preso tutta
l’eredità della famiglia? No, l’unica soluzione buona (o meritata) per tutti -
e persino benedetta dal suo Dio - è la soppressione del neonato: ciò
farà il bene della figliastra e di Laca (che infatti, alla fine, vivranno
felici e contenti!); risparmierà al piccolo innocente una vita di umiliazioni,
facendogli raggiungere immediatamente il Paradiso; e infine caricherà sulle
spalle del fedifrago Števa
un meritato, pesante ed eterno rimorso.
Accipicchia, il Dottor Freud avrebbe avuto
materia per scriverci più di un tomo di psicanalisi!
Quanto alla povera protagonista, lei è una
donna sfortunata fin dalla nascita, per la perdita della madre e più tardi del
padre: rimane quindi alla mercè di una matrigna tanto possessiva quanto
amorevole, che di fatto cerca di sequestrarle ogni libertà di pensiero e di
movimento, e successivamente di indirizzare a modo suo la spinosa gestione
della nascita e del futuro del nipotino. La stessa conclusione della vicenda ce
ne mostra l’intrinseca debolezza di carattere e la subalternità di fronte ad
eventi che appaiono decisamente più grandi di lei.
Il personaggio di Laca, come detto, ha qualche
punto di contatto con quello della Kostelnička: è figlio della stessa madre di Števa, del quale però non condivide la fortuna, né quella economica, né quella sentimentale, sempre
preceduto sul traguardo dal più giovane e privilegiato fratellastro. Naturale
che provi risentimento verso quest’ultimo, ma anche verso Jenůfa, rea di preferire
il bello e ricco (ma anche vuoto e inaffidabile) Števa a lui che è buono e
fedele, ma povero. E così la sua frustrazione sfocia nell’atto violento di
sfregiare una guancia della ragazza che gli si nega. Da notare al proposito che
sono proprio lui e la matrigna di Jenůfa a rendersi responsabili dei due
crimini che caratterizzano la vicenda.
Števa è il classico figlio-di-papà, già nato
con la camicia e al quale vanno (fino a un certo punto!) tutte bene: si prende
l’eredità, è il prediletto della cugina, ha fortuna con le donne, antepone la
bella vita ai doveri familiari, riesce ad evitare il servizio militare e infine
può scegliersi in moglie la figlia della massima autorità locale! La fine
ingloriosa che gli viene riservata sembra quasi una giusta punizione divina per
il suo comportamento irresponsabile.
Per ultima, nonna Buryjovka: è un personaggio
opaco, privo ormai di qualunque iniziativa; una vecchia che non riesce a
comprendere che il mondo sta cambiando e che subisce passivamente gli
avvenimenti che accadono attorno a lei; non a caso è l’unica persona della famiglia
ad essere assente dal secondo atto, dove si sviluppa tutto il dramma dei
Buryja. Fuori dalla cui cerchia si muove il microcosmo della gente di Veborany,
tipica comunità rurale arretrata e un po’ bigotta, ma proprio per questo anche naïf e perfettamente strumentale all’obiettivo di Janáček di circondare il cuore del dramma
con squarci di musica che raccontano l’innocente ingenuità della sua gente.
I tre atti dell’opera (come del dramma
originario) coprono un arco di tempo di alcuni mesi: un’estate (o inizio
autunno) dove scopriamo il segreto legame fra Števa e Jenůfa, già incinta; l’inverno che fa da
sfondo alla nascita – e alla tragica morte prematura! – del piccolo Števa-jr; e
la successiva primavera – a un anno di distanza dal concepimento del figlio di Jenůfa - dove assistiamo al
ritrovamento del cadaverino, al dramma della Kostelnička, alla punizione morale di Števa e al lieto fine
fra Laca e Jenůfa.
Conseguentemente i tre atti si configurano
come un’alternanza di due scenari caldi e sereni (ma all’interno dei quali si
materializzano colpi di scena drammatici) e di uno cupo, tragico e gelido,
proprio come l’inverno.
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La musica di Janáček ha qualcosa di inafferrabile, ne veniamo
colpiti per la sua indifferenza a canoni o stereotipi consolidati (a fine
‘800): non ci sono ovviamente arie o romanze in senso tradizionale, ma nemmeno
un organico intreccio di motivi conduttori sul modello wagneriano, se si
esclude l’insistente ritornare del martellante inciso dello xilofono, che pare segnare l’implacabile
scorrere del tempo, precisamente come l’incessante ruotare delle pale del
mulino dei Buryja.
La strettissima aderenza, scientificamente studiata e
perseguita in tutte le opere di Janáček,
ai fonemi della sua lingua, anzi del dialetto moravo-slovacco, ci rendono
questa musica – anche a causa dell’estraneità di quegli idiomi rispetto alle
nostre consuetudini - piuttosto bizzarra, pur se istintivamente accattivante.
Ci sentiamo qua e là echi mahleriani, ma anche pucciniani e una continua
mutevolezza di tonalità e modalità; il tutto intrecciato a motivi di
(apparente) origine folklorica, che il compositore raccoglieva meticolosamente
dalle strade e poi ricostruiva secondo la propria sensibilità.
L’opera ebbe un’esistenza
piuttosto travagliata, fin dalle prime apparizioni ad inizio ‘900, e solo negli
ultimi decenni ha ritrovato uno spazio relativamente stabile nei repertori dei
teatri, soprattutto grazie alla dedizione del compianto Charles Mackerras, che oltre a dirigerla più volte ed inciderla su
CD ne ha avviato la ricostruzione della versione originale (portata a termine
anni fa dal musicologo inglese Mark Audus).
Non esiste – e
difficilmente potrà mai esistere – una versione critica ed autorevole della
partitura, a causa dei mille interventi operati su di essa, a partire dalla
prima esecuzione a Brno del 1904, dallo stesso Autore (che ne distrusse ogni
schizzo o manoscritto) e da altri, primo dei quali il direttore Karel Kovařovic, che dopo un
iniziale categorico rifiuto a prendere in considerazione l’opera si convertì ad
una profonda stima per essa e per il fino allora disprezzato Janáček, insieme al quale curò una profonda
revisione e riorchestrazione della partitura in vista della prima a Praga nel 1916.
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Questa
produzione di Bologna viene dalla Monnaie
di Bruxelles dove è già stata collaudata lo scorso anno. La messinscena è
firmata da Alvis Hermanis (già visto all’opera
pochi mesi orsono con la scaligera Die Soldaten)
che ha creato uno spettacolo di indubbio fascino, pur con alcuni aspetti
decisamente opinabili.
A cominciare dalla radicale differenziazione fra gli
ambienti solari e quasi operettistici
degli atti esterni e quello iper-verista
dell’atto secondo: tutti rigonfi di colore e di arte floreale i primi, con
bellissimi costumi (Anna Watkins)
esageratamente modellati sul folklore moravo; calato in una realtà da comunismo
reale il secondo, in una lurida stamberga immersa nel disordine più totale.
Contrasto – per me – eccessivo, poiché distorce, ingigantendone arbitrariamente
le distanze, le reali proporzioni fra le tre sezioni del dramma. Che anche nel
primo atto ha la sua bella componente cruda e verista, con la sfregiante
coltellata di Laca, che qui proprio non si vede, o quasi.
In compenso nel secondo atto tutto viene caricato
di eccessiva crudezza, e persino si falsificano particolari importanti. Ne cito
uno abbastanza macroscopico: nell’originale, Števa, pur invitato più volte dalla Kostelnička, non ha il
coraggio di entrare nella camera dove dormono Jenůfa e suo figlio, e se ne va senza vederli. La matrigna subito
dopo esterna il desiderio di gettare il piccolo ai piedi del padre, per
convincerlo ad accettarlo. Bene, Hermanis ci mostra invece proprio il desiderio
irrealizzato della matrigna, che prende il neonato e lo scaraventa in braccio
al padre, che a sua volta si commuove cullandolo e sembrerebbe sul punto di
tenerlo con sé… Guarda caso, nel finale dell’opera, il corpo del piccolo
(contrariamente al testo originale) ricomparirà in braccio a Jenůfa che lo consegnerà
alla matrigna nel momento in cui questa viene arrestata: cosa magari di grande
effetto, ma credo proprio estranea allo scenario psicologico della conclusione
della vicenda. Non parliamo poi della brutale crudezza della chiusura dell’atto
secondo, dove vediamo la Kostelnička,
in preda ad un’autentica crisi epilettica, stipare nel freezer i panni
del piccolo che lei ha appena sepolto nel ghiaccio vicino alla roggia. Insomma,
per me troppi contrasti: eccessivamente zuccherosi e stereotipati il primo e il
terzo atto, truce assai più del dovuto il secondo.
Aggiungo infine di aver poco digerito la
presenza delle 16 (pur bravissime!) danzatrici che accompagnano tutta l’azione
nei due atti esterni (ma con una fugace apparizione anche nel secondo): sono a
mio avviso elementi che finiscono col togliere, invece che aggiungere, valore
alla messinscena. Che ha ovviamente tanti lati interessanti ed intelligenti:
cito fra tutti la suddivisione orizzontale della scena, nella cui parte
superiore prendono posto i cori del primo e terzo atto.
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Benissimo sono andate le cose sul piano
musicale: Juraj Valčuha ha diretto con grande cura del dettaglio e
sobrietà di gesto, valorizzando in pieno le doti dell’orchestra (lo xilofono
era intelligentemente posto nel palco di barcaccia di sinistra) e soprattutto
concertando alla perfezione le voci.
Fra le quali è emersa, per imponenza, piglio da
grande soprano drammatico e impeccabile tecnica, quella di Angeles Blancas Gulìn,
una stupefacente Kostelnička!
Alla sua altezza il Laca di Jan Vacik (tenore
di stampo eroico) e la protagonista Ira Bertman, a suo agio in questa parte
che ha caratteri solo apparentemente dimessi, ma comporta anche squarci di canto
drammatico.
Ma tutti hanno contribuito
al successo dello spettacolo, incluso ovviamente il coro di Andrea Faidutti,
e così tutti alla fine hanno meritato lunghi applausi dal pubblico felsineo, accorso
al Bibbiena in falangi non proprio foltissime ma evidentemente soddisfatte.