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da stellantis a stallantis

27 aprile, 2015

Teste rotonde a Torino


Ieri pomeriggio, tornato l’inverno (!) il Regio torinese ha ospitato l’ultima recita (di 8) de I Puritani.



Lo spettacolo riprendeva il recente allestimento fiorentino di Fabio Ceresa (quello della… relatività allargata) sul quale avevo già a suo tempo riversato sufficienti improperi, e quindi non vi infierisco oltre.

Qui invece abbiamo avuto un apparato musicale completamente diverso (salvo il… Bruno): infatti la sezione suoni torinese era imperniata su una famigliola marchigiana (lui di Pesaro, lei immigrata russa, smile!) che di tanto in tanto riesce a ricongiungersi in qualche teatro d’opera:  


Ieri pomeriggio addirittura la famiglia si è allargata anche a mamma-e-papà-Mariotti, seduti al centro della fila 11 dell’anfiteatro torinese. 

Quanto ai contenuti… materiali dell’ultima opera di Bellini, ne esiste(va) una sola versione pubblicata, quella di Parigi (dove fu data la prima nel 1835) già fatta oggetto da Bellini in persona di tre corposi tagli rispetto al manoscritto originale. Che riguardano il Cantabile nel terzetto del primo atto (Se il destino a te m’invola); il Largo di mezzo, sezione centrale del duetto Elvira-Arturo (Mi credevi di spergiuro?) a metà del terz’atto; e infine il duetto Elvira-Arturo (Ah sento, o mio bell’angelo) che chiude l’Opera.

Sappiamo poi che Bellini lavorò ad una successiva versione (pro-Malibran) prevista per Napoli, ma mai pubblicata e mai andata in scena prima del 1985, che cambia assai le carte in tavola, e fra altre corpose innovazioni (tipo il Riccardo promosso a tenore e la cassazione della Tromba) riserva alla protagonista Elvira la cabaletta finale (Ah sento, o mio bell’angelo) invece del duetto con Arturo.

Ne consegue che in ogni allestimento o incisione dell’Opera il Direttore si diverta come un bambino con il meccano (smile!) tagliando o riaprendo tagli, e persino mescolando Parigi e Napoli, con motivazioni che vengono spacciate per artistico-estetiche, ma che in realtà spesso e volentieri nascondono semplicemente interessi di bassa lega (o di… famiglia!)

Ad esempio possiamo ascoltare una versione ibrida dell’Opera in versione Parigi col solo taglio del Cantabile nel terzetto, ma con il ripristino del Largo di mezzo e con il finale-Malibran: è quella del 1975 di un’altra famosa coppia del melodramma: Sutherland-Bonynge. Risposta alla domanda degli ingenui (perché non ripristinare anche il Cantabile?): ma perché lì non vi avrebbe comunque cantato la Joan!

All’estremo opposto (more Serafin-ico) si comportò Beltrami a Firenze (nell’allestimento trasferito qui a Torino) mantenendo tutti i tre tagli d’autore e in più accorciando qua e là…

Michele Mariotti qualche anno fa a Bologna aveva riaperto due dei tre tagli di Bellini, il primo e il terzo. Perché? Perchè lì vi cantava un tenore, che a Bologna era tale J.D.Florez! Qui a Torino ha invece riproposto dei tre tagli soltanto il duettino finale: anzi no, ha riproposto la cabaletta in versione Malibran! Perché?: ma perché la cantava sua moglie!

A parte questi aspetti piuttosto prosaici e francamente miserelli, devo dire che la direzione di Mariotti mi è parsa di livello dignitoso: qualche eccesso di decibel avrebbe potuto essere evitato, ma in complesso i suoni usciti dalla buca erano più che godibili.

Dmitry Korchak non se l’è cavata male come Arturo: devo dire che mi sembra stia continuamente migliorando, il che testimonia di serietà professionale e di duro lavoro di studio. Oltre alla voce che ha per dono di natura (senza bisogno di toccare quel FA da baraccone messo lì dal compositore per Giovanni Battista Rubini) il tenore russo ha acquisito anche una notevole sensibilità interpretativa: per me, il migliore del cast.  

Olga Mariotti (nata Peretyatko) ha mostrato alti e bassi: la voce, si sa, non è da soprano drammatico, ma per questo personaggio ci può anche stare. Però il timbro vetroso e gli acuti (e sovra-) sparati alla sperindio non le fanno onore. Poi, nella ripresa della cabaletta (Vien diletto) ha presentato degli abbellimenti (???) da obbrobrio e pure mal cantati: se glieli ha messi su il marito, peggio per lui…

Nicola Ulivieri (Valton, Sir) ai miei orecchi ha meritato assai: voce non propriamente da basso grave, come forse richiederebbe la parte, ha però mostrato grande portamento e sensibilità.

Nicola Alaimo era Riccardo: alti e bassi, con prevalenza per i… bassi (ahilui). A cui non basta un velleitario SOL acuto (sul tenero amor) per alzare la media.

Fabrizio Beggi (Valton, Lord) senza infamia e senza lode, il che significa la sufficienza.

Samantha Korbey è stata un’Enrichetta ridicola, oltre che inudibile. Per di più Mariotti ha infierito su di lei, coprendola implacabilmente (o forse l’ha fatto apposta per risparmiarcela?)

Saverio Fiore, unico superstite di Firenze, ha continuato a navigare in acque mediocri, qui sul Po come là sull’Arno…

Sempre apprezzabile il Coro di Claudio Fenoglio. 

Pubblico assai folto e ben predisposto, a giudicare dalla positiva accoglienza per tutti (leggo che quello dello stadio era invece un filino meno… accomodante).

24 aprile, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 31


Continua la sequenza dispari delle sinfonie mahleriane. Di scena questa settimana la Quinta, e sul podio torna per l’occasione John Axelrod.   

Come aperitivo il programma prevede la Suite dalla Mahagonny (vicissitudini di una città… dagli altari alla polvere) di Kurt Weill. Si tratta di sette brevi estratti dall’opera (circa 20’) approntati 30 anni dopo la composizione originale (che è del 29-30) da Wilhelm Brückner-Rüggeberg, direttore d’orchestra abbastanza noto a metà del ‘900 anche per avere diretto e inciso le opere della coppia Brecht-Weill con Lotte Lenya. Nel 1998 Mariss Jansons ha inciso la suite con i Berliner.

La Suite apre con l’Allegro giusto che introduce l’irresistibile ascesa della città; ci sentiamo anche la famosa Alabama song (nel Moderato assai, N°2) che poi torna anche nel finale, il Largo (senza voci, ovviamente) che certifica, a mo’ di marcia funebre, il fallimento di questa specie di LasVegas del malaffare.

Insomma, un bel bigino dell’opera e una interessante novità proposta da laVERDI, che Axelrod ha diretto in modo teso e vibrante e che il pubblico ha accolto con calore.
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La Quinta è ormai un altro dei cavalli di battaglia de laVERDI, che l’ha eseguita fin dai tempi di Delman, per passare poi a Chailly e infine alla Xian e a Caetani. Axelrod si trova quindi a beneficiare di una ricca dote di esperienza, alla quale lui aggiunge la sua personale sensibilità, che gli viene anche dall’esempio di uno dei suoi maestri, Leonard Bernstein.

Peraltro il Maestro texano si guarda bene dal prendersi tutte quelle (eccessive, francamente) libertà che il grande Lenny si poteva permettere! La sua è una direzione rigorosissima sul piano di agogica e dinamica, proprio nello spirito mahleriano: da incorniciare la prima parte, con i due movimenti funebri, ma tutta l’esecuzione è stata davvero rimarchevole e i ragazzi si sono superati (l’attacco in unisono dei 4 corni dello Scherzo ha mostrato l’unica pecca tecnica dell’intera esecuzione) meritandosi alla fine grandi ovazioni da un pubblico entusiasta.

23 aprile, 2015

Famigliastre a Bologna

 

In questi giorni è di scena a Bologna la Jenůfa di Leóš Janáček, che ieri pomeriggio è arrivata alla penultima delle sei rappresentazioni, che si concluderanno questa sera.

Opera dal soggetto cosiddetto verista, presentando uno spaccato di vita rurale di remote periferie della Moravia e trattando di vicende abbondantemente legate alla cronaca nera. Ma dove non manca il richiamo alla genuinità della vita della gente comune, capace anche di esprimere le più elevate qualità etiche.

L’intreccio del dramma (tutto sommato… a lieto fine) coinvolge prevalentemente persone appartenenti ad una stessa famiglia allargata, quella che fa capo alla vecchia, vedova ormai da tempo, nonna Buryjovka; ma dalla lettura del libretto di Janáček si fatica a comprendere l’intricata matassa dei rapporti di parentela intercorrenti fra i 5 protagonisti principali: la nonna appunto, i tre suoi nipoti (Laca, Števa e Jenůfa) e la nuora Kostelnička. Per dipanare la complicata matassa ci si deve quindi far aiutare dal testo del dramma teatrale - 1890, cui seguirà molti anni dopo un più dettagliato racconto di pari soggetto - di Gabriela Preissová, dal quale il compositore trasse ispirazione per il suo libretto; dramma dal titolo Její pastorkyna (La sua figliastra); titolo che Janáček mantenne per l’opera, anche se poi per vari motivi a quello subentrò il nome della protagonista.

Nell’albero genealogico che segue sono rappresentati appunto i 5 principali personaggi dell’opera, indicati in rosso (gli altri sono tutti ormai… defunti):


Come si deduce, siamo di fronte ad uno scenario a dir poco… incasinato: dico, di gradi di parentela diretti non ce n’è uno che è uno: fra fratellastri, figliastri e matrigne, il rapporto più diretto è quello della protagonista con il suo primo amore, cugini di primo grado.

Tanto per chiarire: i due uomini (Laca e Števa) che si contendono (almeno per un po’) l’amore di Jenůfa sono figli della stessa madre, ma di padri diversi: il primo, di tale Klemen, il secondo del primogenito di nonna Buryjovka. Laca quindi è più anziano, ma tutta l’eredità dei Buryja (il mulino e proprietà connesse) va al fratellastro, per ragioni di… sangue (residui di maggiorascato!) così a Laca viene semplicemente concesso di lavorare al mulino, come qualunque altro estraneo. Da parte sua Jenůfa è figlia del secondogenito (Tomas) di nonna Buryjovka e di una donna (Jenůfa-sr, figlia di un albergatore) morta poco dopo averla data alla luce (per questo la bimba ne prende pari-pari il nome). Tale Petrona Slomkova, che invano aveva puntato Tomas da scapolo, lo ha poi sposato da vedovo, e alla morte di costui ha trovato impiego come sacrestana (Kostelnička) presso la locale cappella: Jenůfa-jr (la sua figliastra, appunto, come dice il titolo) viene da lei allevata come una figlia.
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Ora qualche nota sulle personalità dei protagonisti, come emergono dal testo della Preissová, e poi dal libretto e dalla musica di Janáček. La figura centrale è fuor di dubbio quella della Kostelnička, poiché è lei che determina, nel bene e nel male, ogni singolo sviluppo del dramma che si consuma nella sperduta Veborany. Lo stesso titolo della fonte di Janáček (che il compositore originariamente trasferì anche all’opera) lo testimonia senza ombra di dubbio: Jenůfa vi compare implicitamente, indicata come la sua (della Kostelnička, appunto) figliastra, quindi l’enfasi è sulla titolare di quel sua!

I cui comportamenti evidenziano una chiara instabilità psichica, che un suo conterraneo e contemporaneo avrebbe potuto analizzare e magari curare applicando le sue recenti scoperte in tema di psicanalisi: peccato che Petrona Slomkova non abbia avuto la ventura di passare a Příbor per farsi visitare da tale Sigismund Shlomo Freud!

Certo, il suo equilibrio psichico doveva essere stato turbato da tutta una serie di circostanze esistenziali particolarmente avverse. Dunque, vediamo: Petrona riceve un’educazione assai severa dal padre (para-medico molto rispettato in paese) e alla morte di lui deve accudire la madre (donna pia e in perenne ansia che qualche uomo le porti via la figlia). A 27 anni – quindi non più una ragazzina – conosce Toma Buryja (bello e pure ricco!) e se ne innamora. Ma lui sposa un’altra (Jenůfa-sr) che muore partorendo una bimba (Jenůfa-jr).

Allora è Toma a cercare Petrona, la quale decide di sposarlo, attirandosi così mille maledizioni dalla madre, che non può vedere quel poco di buono (la suocera Buryjovka invece è ben felice che una donna proba tenga a bada il figlio scapestrato). La stessa Petrona deve presto pentirsi del matrimonio, viste le abitudini del marito, che beve e perde tutte le sue sostanze al gioco e a lei riserva solo maltrattamenti. Per di più lei ha scoperto di non poter avere figli, e da questa frustrazione nasce un amore possessivo per la piccola Jenůfa, che è l’unica cosa che le rimane alla morte del marito, ucciso accidentalmente dalla fucilata di un cacciatore.

La sua rettitudine e moralità le fanno ottenere il posto di sacrestana (Kostelnička). Quando i due fratellastri Števa e Laca cominciano a frequentare Jenůfa, ormai adolescente, le simpatie di Petrona vanno istintivamente a Laca: primo perché lui è (precisamente come lei stessa) estraneo alla famiglia Buryja e quindi penalizzato (tutta l’eredità va a Števa) e secondo perché è un ragazzo con la testa a posto, al contrario del fratellastro che assomiglia – quanto a cattive abitudini – allo zio Toma.  

Naturale quindi che lei sia contraria alla relazione della figliastra con Števa, ma quando fra i due sopravviene il fatto compiuto tutta la sua esistenza è volta al perseguimento del bene (o del… minor male) di Jenůfa: così la nasconde fino al parto e contemporaneamente comincia a sperare che il bimbo (del peccato, quindi sbagliato) non veda la luce; e quando la vede, dice direttamente in faccia alla figliastra di augurarsi che Dio le tolga quel figlio dalle mani. Per rispetto delle convenzioni di cui è impregnata, cerca comunque di convincere il padre ad addivenire alle classiche nozze riparatrici. Mancato questo obiettivo, la sua decisione è ormai presa: sopprimere il bimbo (qui non è da escludere un inconscio senso di invidia per la figliastra, che un figlio lo ha avuto, mentre a lei era stato negato…)

Ma arriva inaspettatamente Laca, nonostante tutto ancora e sempre innamorato di Jenůfa, e la donna è costretta a rivelargli il segreto. Però prima che lui possa pensare a mente fredda all’eventualità di prendersi la figliastra sua con annesso pargolo del fratellastro suo (al quale l'infante già somiglia come una goccia d’acqua!) lei lo previene con la menzogna della morte del piccolo, tanto è convinta dell’assurdità di una simile soluzione: ma come, Laca dovrebbe sposare Jenůfa e riconoscere come suo il figlio del fratellastro che gli ha violato anche la moglie, dopo essersi preso tutta l’eredità della famiglia? No, l’unica soluzione buona (o meritata) per tutti - e persino benedetta dal suo Dio - è la soppressione del neonato: ciò farà il bene della figliastra e di Laca (che infatti, alla fine, vivranno felici e contenti!); risparmierà al piccolo innocente una vita di umiliazioni, facendogli raggiungere immediatamente il Paradiso; e infine caricherà sulle spalle del fedifrago Števa un meritato, pesante ed eterno rimorso.

Accipicchia, il Dottor Freud avrebbe avuto materia per scriverci più di un tomo di psicanalisi!

Quanto alla povera protagonista, lei è una donna sfortunata fin dalla nascita, per la perdita della madre e più tardi del padre: rimane quindi alla mercè di una matrigna tanto possessiva quanto amorevole, che di fatto cerca di sequestrarle ogni libertà di pensiero e di movimento, e successivamente di indirizzare a modo suo la spinosa gestione della nascita e del futuro del nipotino. La stessa conclusione della vicenda ce ne mostra l’intrinseca debolezza di carattere e la subalternità di fronte ad eventi che appaiono decisamente più grandi di lei.

Il personaggio di Laca, come detto, ha qualche punto di contatto con quello della Kostelnička: è figlio della stessa madre di Števa, del quale però non condivide la fortuna, né quella economica, né quella sentimentale, sempre preceduto sul traguardo dal più giovane e privilegiato fratellastro. Naturale che provi risentimento verso quest’ultimo, ma anche verso Jenůfa, rea di preferire il bello e ricco (ma anche vuoto e inaffidabile) Števa a lui che è buono e fedele, ma povero. E così la sua frustrazione sfocia nell’atto violento di sfregiare una guancia della ragazza che gli si nega. Da notare al proposito che sono proprio lui e la matrigna di Jenůfa a rendersi responsabili dei due crimini che caratterizzano la vicenda.

Števa è il classico figlio-di-papà, già nato con la camicia e al quale vanno (fino a un certo punto!) tutte bene: si prende l’eredità, è il prediletto della cugina, ha fortuna con le donne, antepone la bella vita ai doveri familiari, riesce ad evitare il servizio militare e infine può scegliersi in moglie la figlia della massima autorità locale! La fine ingloriosa che gli viene riservata sembra quasi una giusta punizione divina per il suo comportamento irresponsabile.

Per ultima, nonna Buryjovka: è un personaggio opaco, privo ormai di qualunque iniziativa; una vecchia che non riesce a comprendere che il mondo sta cambiando e che subisce passivamente gli avvenimenti che accadono attorno a lei; non a caso è l’unica persona della famiglia ad essere assente dal secondo atto, dove si sviluppa tutto il dramma dei Buryja. Fuori dalla cui cerchia si muove il microcosmo della gente di Veborany, tipica comunità rurale arretrata e un po’ bigotta, ma proprio per questo anche naïf e perfettamente strumentale all’obiettivo di Janáček di circondare il cuore del dramma con squarci di musica che raccontano l’innocente ingenuità della sua gente.
   
I tre atti dell’opera (come del dramma originario) coprono un arco di tempo di alcuni mesi: un’estate (o inizio autunno) dove scopriamo il segreto legame fra Števa e Jenůfa, già incinta; l’inverno che fa da sfondo alla nascita – e alla tragica morte prematura! – del piccolo Števa-jr; e la successiva primavera – a un anno di distanza dal concepimento del figlio di Jenůfa - dove assistiamo al ritrovamento del cadaverino, al dramma della Kostelnička, alla punizione morale di Števa e al lieto fine fra Laca e Jenůfa.

Conseguentemente i tre atti si configurano come un’alternanza di due scenari caldi e sereni (ma all’interno dei quali si materializzano colpi di scena drammatici) e di uno cupo, tragico e gelido, proprio come l’inverno.
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La musica di Janáček ha qualcosa di inafferrabile, ne veniamo colpiti per la sua indifferenza a canoni o stereotipi consolidati (a fine ‘800): non ci sono ovviamente arie o romanze in senso tradizionale, ma nemmeno un organico intreccio di motivi conduttori sul modello wagneriano, se si esclude l’insistente ritornare del martellante inciso dello xilofono, che pare segnare l’implacabile scorrere del tempo, precisamente come l’incessante ruotare delle pale del mulino dei Buryja.

La strettissima aderenza, scientificamente studiata e perseguita in tutte le opere di Janáček, ai fonemi della sua lingua, anzi del dialetto moravo-slovacco, ci rendono questa musica – anche a causa dell’estraneità di quegli idiomi rispetto alle nostre consuetudini - piuttosto bizzarra, pur se istintivamente accattivante. Ci sentiamo qua e là echi mahleriani, ma anche pucciniani e una continua mutevolezza di tonalità e modalità; il tutto intrecciato a motivi di (apparente) origine folklorica, che il compositore raccoglieva meticolosamente dalle strade e poi ricostruiva secondo la propria sensibilità.

L’opera ebbe un’esistenza piuttosto travagliata, fin dalle prime apparizioni ad inizio ‘900, e solo negli ultimi decenni ha ritrovato uno spazio relativamente stabile nei repertori dei teatri, soprattutto grazie alla dedizione del compianto Charles Mackerras, che oltre a dirigerla più volte ed inciderla su CD ne ha avviato la ricostruzione della versione originale (portata a termine anni fa dal musicologo inglese Mark Audus).

Non esiste – e difficilmente potrà mai esistere – una versione critica ed autorevole della partitura, a causa dei mille interventi operati su di essa, a partire dalla prima esecuzione a Brno del 1904, dallo stesso Autore (che ne distrusse ogni schizzo o manoscritto) e da altri, primo dei quali il direttore Karel Kovařovic, che dopo un iniziale categorico rifiuto a prendere in considerazione l’opera si convertì ad una profonda stima per essa e per il fino allora disprezzato Janáček, insieme al quale curò una profonda revisione e riorchestrazione della partitura in vista della prima a Praga nel 1916.
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Questa produzione di Bologna viene dalla Monnaie di Bruxelles dove è già stata collaudata lo scorso anno. La messinscena è firmata da Alvis Hermanis (già visto all’opera pochi mesi orsono con la scaligera Die Soldaten) che ha creato uno spettacolo di indubbio fascino, pur con alcuni aspetti decisamente opinabili.

A cominciare dalla radicale differenziazione fra gli ambienti solari e quasi operettistici degli atti esterni e quello iper-verista dell’atto secondo: tutti rigonfi di colore e di arte floreale i primi, con bellissimi costumi (Anna Watkins) esageratamente modellati sul folklore moravo; calato in una realtà da comunismo reale il secondo, in una lurida stamberga immersa nel disordine più totale. Contrasto – per me – eccessivo, poiché distorce, ingigantendone arbitrariamente le distanze, le reali proporzioni fra le tre sezioni del dramma. Che anche nel primo atto ha la sua bella componente cruda e verista, con la sfregiante coltellata di Laca, che qui proprio non si vede, o quasi.

In compenso nel secondo atto tutto viene caricato di eccessiva crudezza, e persino si falsificano particolari importanti. Ne cito uno abbastanza macroscopico: nell’originale, Števa, pur invitato più volte dalla Kostelnička, non ha il coraggio di entrare nella camera dove dormono Jenůfa e suo figlio, e se ne va senza vederli. La matrigna subito dopo esterna il desiderio di gettare il piccolo ai piedi del padre, per convincerlo ad accettarlo. Bene, Hermanis ci mostra invece proprio il desiderio irrealizzato della matrigna, che prende il neonato e lo scaraventa in braccio al padre, che a sua volta si commuove cullandolo e sembrerebbe sul punto di tenerlo con sé… Guarda caso, nel finale dell’opera, il corpo del piccolo (contrariamente al testo originale) ricomparirà in braccio a Jenůfa che lo consegnerà alla matrigna nel momento in cui questa viene arrestata: cosa magari di grande effetto, ma credo proprio estranea allo scenario psicologico della conclusione della vicenda. Non parliamo poi della brutale crudezza della chiusura dell’atto secondo, dove vediamo la Kostelnička, in preda ad un’autentica crisi epilettica, stipare nel freezer i panni del piccolo che lei ha appena sepolto nel ghiaccio vicino alla roggia. Insomma, per me troppi contrasti: eccessivamente zuccherosi e stereotipati il primo e il terzo atto, truce assai più del dovuto il secondo.

Aggiungo infine di aver poco digerito la presenza delle 16 (pur bravissime!) danzatrici che accompagnano tutta l’azione nei due atti esterni (ma con una fugace apparizione anche nel secondo): sono a mio avviso elementi che finiscono col togliere, invece che aggiungere, valore alla messinscena. Che ha ovviamente tanti lati interessanti ed intelligenti: cito fra tutti la suddivisione orizzontale della scena, nella cui parte superiore prendono posto i cori del primo e terzo atto.
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Benissimo sono andate le cose sul piano musicale: Juraj Valčuha ha diretto con grande cura del dettaglio e sobrietà di gesto, valorizzando in pieno le doti dell’orchestra (lo xilofono era intelligentemente posto nel palco di barcaccia di sinistra) e soprattutto concertando alla perfezione le voci.

Fra le quali è emersa, per imponenza, piglio da grande soprano drammatico e impeccabile tecnica, quella di Angeles Blancas Gulìn, una stupefacente Kostelnička!

Alla sua altezza il Laca di Jan Vacik (tenore di stampo eroico) e la protagonista Ira Bertman, a suo agio in questa parte che ha caratteri solo apparentemente dimessi, ma comporta anche squarci di canto drammatico.

Ma tutti hanno contribuito al successo dello spettacolo, incluso ovviamente il coro di Andrea Faidutti, e così tutti alla fine hanno meritato lunghi applausi dal pubblico felsineo, accorso al Bibbiena in falangi non proprio foltissime ma evidentemente soddisfatte.

20 aprile, 2015

Un Billy per pochi intimi

 

Ieri pomeriggio una Genova non propriamente primaverile ha accolto la terza recita di Billy Budd, in un Carlo Felice evidentemente disertato da molti genovesi e ulteriormente svuotatosi nell’intervallo. Della serie: a dare perle ai porci succede che questi o non si avvicinino nemmeno alla mangiatoia, o l’abbandonino dopo un’annusatina, andandosene schifati a ingollare qualche lavatura di piatti. Eccola là.

Comunque, peggio per gli assenti, dico subito, chè lo spettacolo, pur con qualche veniale ombra che descriverò, è di alto livello e valorizza pienamente (tanto in scena quanto in buca) tutti i pregi di questo splendido prodotto del teatro musicale di lingua inglese del ‘900.

La regìa di questa edizione, ripresa dall’allestimento torinese del 2004, è di Davide Livermore, che oggi è particolarmente di casa al Carlo Felice, essendone regista residente.

Costretto a suo tempo (Torino) dalle circostanze (si dice) a fare praticamente a meno delle scene, Livermore, con il fido Tiziano Santi, ha deciso di mettere a dura prova i martinetti che sollevano ed abbassano le sezioni del pavimento del palco, divenute così altrettanti ponti dell’Indomitable che accolgono di volta in volta le masse dei marinai o gli ambienti chiusi della cabina del capitano o delle stive. Per la scena finale del primo atto addirittura si è simulato il rollìo del vascello! Costumi moderni: cappottoni e berretti DDR al posto di settecentesche palandrane e cappelli a tre punte, tanto fanno sorridere entrambi; jeans e magliette per i vessati marinai. Mentre tutti sono vestiti di roba scurissima, arriva Billy tutto in bianco accecante: la didascalia (libera traduzione italiana) mette in bocca a Claggart l’espressione mosca bianca… ecco, abbiamo capito!

Finisco con gli aspetti più goliardici o grossolani della messinscena ricordando la fila di riflettori che sparano luce accecante negli occhi del pubblico in contemporanea alla salva di cannonate a vuoto comandata da Vere e i cannocchiali e binocoli degli ufficiali che, dovendo esplorare il mare immerso nella nebbia, si trasformano in potenti torce elettriche.

Ma tutto il resto - che è la parte più importante – è davvero da incorniciare. Intanto Livermore non ci fa perdere nessuno degli aspetti peculiari del soggetto: la violenza e i ricatti del potere sugli indifesi e diseredati, l’ottusità dell’autorità costituita, il fanatismo militarista degli ufficiali che si trasmette anche alla ciurma, e soprattutto i malsani rapporti di natura omosessuale tra le due autorità (quella maligna di Claggart e quella benigna di Vere) con l’innocente e ingenuo Billy. Ma anche i sani rapporti (pure chiaramente omosessuali) fra il Novizio e il suo inseparabile Amico. Citerò solo due momenti al riguardo: il primo è il ritorno in scena del Novizio dopo le frustate ricevute (per una colpa veniale): ciò che ci appare improvvisamente è un’immagine che richiama alla mente certi dipinti della deposizione del Cristo, con l’Amico inginocchiato che sorregge il corpo nudo del Novizio, immagine di grandissima poesia che mirabilmente asseconda la musica di Britten (col sax contralto in evidenza). Sull’altro versante, straordinaria la scena del diabolico credo di Claggart, che canta tutto il male che alberga nella sua anima e il suo odio (da frustrazione sessuale) per Billy stringendo nervosamente tra le mani il fazzoletto rosso strappato al ragazzo poco prima, e con la sua vittima dichiarata che dorme sul ponte inferiore, proprio sotto di lui.

Di grande impatto anche la scena dell’impiccagione, che vediamo in diretta (il libretto ce la lascia solo immaginare) ma che mette in grande risalto il mugugnar cantando della ciurma. A proposito di questa scena, Livermore fa eseguire la musica che accompagna l’arrivo dell’equipaggio sul ponte a sipario abbassato (come gli altri interludi): scelta arbitraria ma non del tutto censurabile, dato che queste entrate successive dei vari corpi di marinai e ufficiali scimmiottano un po’ troppo quelle delle quattro bande nel finale del Lohengrin…

Chiudo lasciando in sospeso il giudizio sulle modalità con cui ci viene presentato il Capitano Vere in Prologo ed Epilogo: lui si erge su un obelisco tipo Trafalgar Square, nemmeno fosse Nelson. La cosa non è del tutto campata in aria, dato che nella novella di Melville (non nel libretto) c’è un accenno a Vere come potenziale Nelson, se non fosse… morto anzitempo; però questa presentazione rischia di apparire come parodistica, e non sono certo che Vere se la meriti.

Tirate le somme, ripeto che giudico questa di Livermore come una proposta assolutamente di eccellenza.
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E di ottima fattura è stata anche la parte musicale, a cominciare dalle prove dei tre interpreti principali (Philip Addis, Billy – Graeme Broadbent, Claggart – Alan Oke, Vere) seguite da quelle degli altri comprimari: i tre ufficiali Christopher Robertson, Mansoo Kim e Simon Lim; poi John Paul Huckle, un ottimo Dansker e il Novizio Alessandro Fantoni. Ma tutti ii singoli hanno contribuito egregiamente al livello della recita. Con loro i due cori adulti: quello di casa di Pablo Assante e quello del Teatro Nacional São Carlos di Lisbona di  Giovanni Andreoli (che guidò anni fa proprio il coro genovese) tornato ancora come nel 2005; e i piccoli/e di Gino Tanasini.

Una bella conferma è venuta da Andrea Battistoni (che finalmente ho visto sorridere alle uscite!) a cui imputerò soltanto un paio di eccessi di volume nelle scene più movimentate, ma che ha guidato con autorevolezza un’orchestra a sua volta in gran spolvero.

Alla fine i pochi fortunati rimasti in sala hanno applaudito e gridato anche per gli assenti, tributando a tutti un meritatissimo trionfo. Domani e mercoledì gli scettici hanno ancora due prove d’appello per ricredersi.

18 aprile, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 30


Seconda puntata del ciclo dispari delle sinfonie di Mahler: tocca a Claus Peter Flor dirigere l’ipertrofica Terza del boemo.

Che il direttore tedesco, reduce dalla… vacanza in Malesia, rende ancor più iper di quanto già non sia, tanto da decidere – cosa assai rara – di introdurre un regolare intervallo di 25 minuti dopo il movimento iniziale (vien persino da pensare che Flor abbia preso una stecca dal gestore del bar, giga-smile!) Che una pausa fosse necessaria lo si era intuito già prima dell’inizio, dall’assenza del coro in scena (il contralto di norma entra in tempo per il suo intervento, o se ne sta seduta buona buona ad aspettare). Però un intervallo in piena regola avrebbe dovuto essere annunciato in locandina, o sul programma di sala (come avvenne anni fa per un Requiem verdiano che Ceccato spezzò in due, ma giustificato dallo stesso… Verdi).

Invece la cosa ieri sera ha assunto aspetti tragicomici: dopo lo schianto di FA maggiore che chiude lo sterminato movimento iniziale, qualcuno del pubblico ha applaudito (capita spesso anche questo) ma Flor se n’è rimasto lì, senza girarsi né far alzare l’orchestra; così si è rifatto silenzio in sala e a questo punto il direttore… se n’è andato via, col broncio, girandosi poi per chiamare con sé un impacciato Santaniello, mentre gli orchestrali si alzavano a loro volta per andarsene. Insomma, una scenetta piuttosto indecorosa!       
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Ciò che avevo da segnalare in merito a questa adorabile mappazza lo avevo scritto un paio d’anni fa, in occasione dell’ultima (ora penultima) esecuzione de laVERDI, con la cinesina sul podio.

Quanto a ieri sera, se si escludono alcune perdonabili e isolate pecche (inevitabili, in un’opera di tal fatta!) i ragazzi, così come le signore di Erina Gambarini e i ragazzini/e di Maria Teresa Tramontin si sono ben distinti e portare in porto una fatica simile è già un grande risultato. Maria José Montiel si è fatta apprezzare nel notturno nietzschiano.

Ecco, a parte le modalità piuttosto bizzarre impiegate per introdurre l’intervallo, devo dire che Flor non mi è poi dispiaciuto, avendoci accompagnato in questo lungo viaggio - che parte dal prosaico per raggiungere… l’eternità – con appropriatezza di accenti, fino al mirabile Adagio conclusivo.

Ovazioni per tutti, con il pacchetto dei corni di Giuseppe Amatulli e quello dei tromboni di Rizzotto in testa, e passerella anche per il remoto Caruana che ci ha incantato da dietro le quinte con la sua cornetta (non proprio da postiglione…)

Insomma, laVERDI ha dato un’altra bella dimostrazione di forza e di maturità.

17 aprile, 2015

L'Indomitable fa scalo a Genova


Questa sera al Carlo Felice va in scena la prima rappresentazione di Billy Budd, in un allestimento del Regio di Torino del 2004, firmato da Davide Livermore. Sarà meritoriamente diffusa in streaming dall’apposito sito del Teatro.


L’opera, il cui libretto Edward Morgan Forster ed Eric Crozier trassero dalla novella di Herman Melville (quello di Moby Dick) andò per la prima volta in scena, diretta dall’Autore, alla Royal Opera House – Covent Garden sabato 1° dicembre del 1951, suddivisa in quattro atti (più Prologo ed Epilogo).


Nel 1960 venne eseguita per la prima volta la nuova versione in 2 atti (qui la registrazione, commentata, della BBC) che fece il suo debutto teatrale giovedi 9 gennaio del 1964, sempre al Covent Garden e venne poi registrata in video nel 1966, ancora dalla BBC. Oggi questa è la versione quasi universalmente rappresentata e di scena a Genova, anche se proprio il Carlo Felice 10 anni fa ospitò quella originale (ne è rimasta traccia in un… refuso sulla pagina di presentazione dello streaming). Le differenze fra la versione del 1960 e quella del 1951 non si limitano alla semplice ristrutturazione (per accorpamento di scene) da 4 a 2 atti, ma constano anche di novità di contenuto, riguardanti in particolare, ma non solo, il primo atto.

Cominciamo con l’osservare che in origine ciascun atto era suddiviso in 2 scene, per un totale di 8, quindi con un perfetto equilibrio strutturale. In particolare, la seconda scena del primo atto conteneva il saluto del Capitano Edward Fairfax Vere all’equipaggio del veliero (Officers and men of the Indomitable, I greet you!) e l’atto si chiudeva enfaticamente con le acclamazioni della ciurma al Capitano, dopodiché il successivo era aperto ancora dal Capitano, ma nel chiuso della sua cabina. Orbene, quella scena è stata quasi del tutto soppressa nella versione definitiva, e in particolare è stato fatto sparire proprio l’indirizzo del Capitano, e ciò che rimane (accorpato alla prima scena) sono semplicemente gli apprezzamenti (Starry Vere!) a lui diretti da Billy e dalla ciurma, che poi viene fatta rientrare sottocoperta dal Nostromo, con l’orchestra che sfuma i suoni e mentre il sipario cala per un breve momento, per alzarsi poi su Vere nella sua cabina.

Il risultato è che l’Atto I della versione definitiva comprende soltanto 3 scene invece di 4, accorpando alla prima scena le due dell’Atto II originale. Il nuovo Atto II accorpa le 4 scene degli atti III e IV originali, ma anche qui con qualche modifica, come il taglio - nella prima scena, dopo la mancata battaglia con la fregata francese - della prima parte del colloquio Vere-Claggart e quello delle ultime battute orchestrali della seconda scena, dove gli archi chiudevano – dopo i famosi 34 accordi consecutivi dell’orchestra (Vere che comunica a Billy il verdetto di condanna) - l’atto III originale; battute che poi venivano riprese all’inizio del successivo atto, ma che diventavano adesso superflue, in assenza dell’intervallo.

Domanda: cosa convinse Britten ad espungere la scena con l’aria di Vere dalla versione definitiva dell’opera? Pare che due siano state le ragioni principali: la prima fu il disagio manifestato dall’interprete (Peter Pears, che evidentemente aveva una certa… influenza su Britten) di fronte al carattere eroico (e anche… imperialista, pur nell’austero patriottismo) di quell’aria, che mal si addiceva alle sue caratteristiche vocali; la seconda fu un’acuta quanto perfida osservazione del famoso critico musicale Ernest Newman, che senza mezzi termini accusò quella scena di essere una scopiazzatura (sia pure in chiave nobile e seriosa) di quella parodistica e da avanspettacolo del primo atto dell’operetta HMS (Her Majesty’s Ship) Pinafore (1878) della premiata coppia Gilbert&Sullivan, dove il Capitano Corcoran canta My gallant crew, good morning!, contrappuntato dagli sculettamenti della ciurma (qui da 15’36”).
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Anche la definizione dei ruoli e l’assegnazione delle tessiture delle voci degli interpreti ai personaggi fu quasi certamente influenzata dai particolari rapporti che intercorrevano tra il compositore e Peter Pears: non altrimenti si spiegano un paio di circostanze assai sospette, fra loro probabilmente legate da uno stretto nesso causa-effetto.

La prima è rappresentata dalla centralità assunta nell’opera dal personaggio del Capitano Vere, che nel racconto di Melville ha sì un ruolo importante, ma non quanto quelli di Billy e del cattivone Claggart; e poi là muore in battaglia, mentre qui nell’opera lo ritroviamo, vecchio ma vivo e vegeto, in Prologo ed Epilogo, quindi a dare un’impronta di sé all’intera vicenda, che ci viene di fatto presentata dal suo personale punto di osservazione.

La seconda è rappresentata dalla (solo apparentemente?) strampalata assegnazione della voce acuta di tenore ad un uomo maturo (Vere, appunto, ben sopra i 40) e di quella più grave di baritono al personaggio del titolo, un giovane poco più che ragazzo (avrà sì e no 20 anni) che potrebbe benissimo essere figlio del Capitano.

Ecco quindi la più verosimile catena causa-effetto: Vere è il personaggio che (assai più di Billy) si attaglia alle caratteristiche di Pears, e allora a) deve assumere un ruolo centrale nell’opera, e b) deve essere un tenore! (Tutto il resto consegue…)
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Il soggetto del Billy è immancabilmente di quelli prediletti da Britten: la violenza delle Istituzioni della Società sugli individui più deboli e indifesi, oltre che innocenti. E uno dei tanti risvolti di questa violenza ha – altro Leit-motif squisitamente britteniano, ma pienamente supportato e condiviso dal librettista Forster e in qualche modo rintracciabile anche nella novella di Melville - i connotati della repressione dell’omosessualità: non tanto quella materiale e plebea, fatalmente indotta dalla mancanza di gentil sesso a bordo di una nave da guerra (questa è un’opera di soli uomini!) ma quella di natura psichica, che si manifesta in forma maligna (Claggart-Billy) ma anche benigna (Vere-Billy) portando però ad una drammatica convergenza Claggart-Vere sul comune obiettivo (conscio o inconscio) consistente nell’eliminazione dell’oggetto del loro peccaminoso desiderio.

Trattandosi poi di un soggetto a sfondo bellico (1797, UK vs France) esso si presta anche a qualche frecciatina pacifista. E comportando l’esecuzione sommaria di un poveraccio che oltretutto ha attenuanti in quantità per il suo omicidio (come minimo, preterintenzionale) consente a Britten di farci venire a nausea la pena di morte. Ma non vi manca neppure l’antinomia bene-male, Cristo-Satana (Billy-Claggart) e addirittura un’allegoria Abramo-Isacco (Vere-Billy). Michele Girardi, in occasione di una rappresentazione alla Fenice nel 2000, è arrivato a proporre un parallelo con l’Otello di Verdi, e non solo per la chiara e universalmente riconosciuta parentela Claggart-Jago, ma anche per la prossimità del rapporto Vere-Billy con quello Otello-Desdemona!    

Insomma, un soggetto che si presta a mille (beh… a diverse) chiavi di lettura, tutte legittime, purchè nessuna diventi totalizzante ed esclusiva, chè altrimenti si viene a perdere proprio la complessità e la poliedricità che dell’opera sono i principali pregi.   
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Sul piano strettamente musicale Britten si mantiene fedele alla tonalità, limitandosi ad arricchirla con qualche scala pentatonica e qualche politonalità (vedi il contrasto maggiore-minore fra SIb e SI naturale, che ritorna più volte) mentre approfondisce l’impiego dei Leit-motive con i quali caratterizzare situazioni, concetti e/o personalità.

Il più significativo dei quali (un semplice inciso costituito da una quinta ascendente seguita da una seconda minore, altre volte maggiore, pure ascendente) compare già nel Prologo in bocca al Capitano Vere, che si chiede: cosa ho fatto? ricordando quelle vicende di cui fu protagonista e testimone sul suo vascello Indomitable nell’estate del 1797 in acque francesi:


Motivo che viene catalogato come dell’Ammutinamento, poichè ritorna nel canto dei marinai sottoposti alla disumana disciplina di bordo:


Accompagna poi i riferimenti espliciti ai gravissimi casi di ammutinamento (Spithead e Nore) ricordati nell’opera:


Ma il motivo è anche intonato da Billy sul suo saluto di addio alla nave mercantile (Rights o’ Man) dalla quale è stato prelevato a forza:


Questa sembrerebbe a tutta prima una circostanza gratuita - dato che l’ammutinamento è proprio l’ultima cosa che passa per la testa al ragazzo - ma spiegabilissima sul lato psicologico: è ciò che i presenti (ufficiali di bordo) associano al nome del mercantile, che in bocca a Billy diviene, per loro e ossessivamente, un simbolo di ribellione!

Oltre che in innumerevoli altre circostanze, il tema (o sue manipolazioni alla fiamminga, tipo il moto retrogrado) compare anche ad accompagnare esternazioni di Claggart e di Vere (vedasi Prologo ed Epilogo); ciò si spiega benissimo sul fronte della problematica omosessuale: per i due la sola presenza a bordo del bellissimo giovane rappresenta una minaccia, il rischio di ammutinamento delle loro stesse coscienze contro le oppressive ed oscurantiste regole della società in cui occupano posizioni di rilievo. Non a caso Claggart pianificherà scientificamente la distruzione di Billy, di cui successivamente Vere avallerà (pur potendola impedire) la condanna capitale.  

Quanto ai personaggi principali, essi si caratterizzano - più che con veri e propri temi che li identificano ad ogni apparizione - con motivi o atmosfere sonore che ne richiamano la personalità: Billy è accompagnato da figurazioni brillanti degli strumentini, o da tremoli delle trombe, strepiti delle tavolette di legno e singhiozzi dei legni (la sua balbuzie) o dal malefico tritono (DO#-SOL, al momento dell’uccisione di Claggart); la tonalità che spesso lo contraddistingue è LA maggiore (serenità, innocenza). Claggart si caratterizza per motivi di quarte discendenti seguite da seconde minori-maggiori ascendenti; la tonalità prevalente è FA minore. Vere fin dall’inizio si distingue per l’ambiguità dei suoi comportamenti, evocata dall’instabilità tonale (SIb-SI) mentre è il DO maggiore a rappresentare la sua autorità e la sua ascendenza sulla ciurma (che in quella tonalità ne esalta le virtù).

Spesso e volentieri i motivi si intersecano o vanno ad aggredire territori altrui: ad esempio Vere è a volte inquinato dalle quarte discendenti di Claggart, a testimonianza dell’influenza che il cattivone ha su di lui. Altri motivi ricorrenti evocano atmosfere particolari, come la ferrea e proterva disciplina militare, un motivo marziale che ritorna a sottolineare gli interventi autoritari degli ufficiali; o il motivo cupo e deprimente che segue la ridiscesa della nebbia che rende impossibile l’ingaggio con la nave nemica, motivo che poi pervade l’Interludio che precede la seconda scena dell’Atto II, dove si evoca un’altra e ben più pericolosa nebbia: quella che occupa la mente di Vere!    

A proposito, come nelle altre sue opere, Britten ha corredato il Billy di alcuni Interludi orchestrali, uno dei quali in realtà si costituisce come una vera e propria scena, ma priva di parole e di… immagini. Sono le 34 battute – fra la seconda e la terza scena dell’Atto II - che accompagnano Vere che entra nella cabina dove è rinchiuso Billy, cui il Capitano deve comunicare la sentenza di condanna all’impiccagione comminatagli dalla Corte marziale per avere ammazzato Claggart. Noi – come già volle Melville - non vediamo, né sentiamo alcunchè di quest’ultimo colloquio a quattr’occhi, possiamo solo congetturarci sopra, e i 34 accordi di questa particolarissima frase musicale (tutte triadi, una semibreve per battuta) ci lasciano immaginare del suo contenuto… ciò che meglio preferiamo:     

1
FA M
f
ottoni
18
FA M
pp
legni-oboi-sax-cfagotto
2
LA M
ff
tutti
19
DO M
pp
corni
3
REb M
mf
legni
20
FA M
pp
legni-oboi-sax-cfagotto
4
DO M
p
archi
21
RE M
pp
trombe+tromboni
5
RE m
mf
legni+corni
22
FA M
pp
legni-oboi-sax-cfagotto
6
LAb M
ff
tutti
23
DO M
pp
corni
7
RE M
mf
archi
24
FA# m
p
sax+trombe+tromboni
8
SIb m
p
legni
25
FA M
pp
legni-oboi-sax-cfagotto
9
LA m
pp
trombe+tromboni
26
LAb M
pp
archi
10
SIb M
pp
corni
27
FA M
pp
legni-oboi-sax-cfagotto
11
LAb M
p
legni
28
DO M
pp
corni
12
FA m
pp
corni
29
REb M
ppp
archi
13
DO M
p
archi
30
FA M
pp
legni-oboi-sax-cfagotto
14
FA# m
f
flauti+trombe+tromboni
31
DO M
pp
corni
15
SIb M
mf
legni-flauti
32
FA M
pp
legni-oboi-sax-cfagotto
16
DO m
p
archi
33
RE M
ppp
trombe+tromboni
17
LA M
pp
ottoni
34
DO M
ppp
corni
   
Effettivamente si tratta di una serie piuttosto ardua da decifrare (chissà se Britten si è portato nella tomba l’algoritmo da lui impiegato per generarla… oppure se gli è venuta così, a sentimento, o ancora se ha estratto le successive tonalità, gli strumenti e le dinamiche da un cappello, chissà…) L’unica caratteristica scientificamente rilevabile è che si tratta di accordi nelle sole 13 su 24 tonalità (maggiori + minori) che contengono almeno una nota della triade di FA maggiore, da cui inizia e su cui sfocia l’Interludio. E quali sono le note di quella triade? FA-Claggart / LA-Billy / DO-Vere (!!!) 

L’Epilogo ha un punto culminante su un SIb maggiore pieno, che sembrerebbe implicare per Vere una ritrovata pace e serenità (where she’ll anchor forever…) al riparo da ogni pericolo, rappresentato dal precedente SI minore, ma le ultime battute del Capitano si allontanano ancora da quella tonalità, che permane nel quasi indistinguibile borbottìo dei timpani e sfuma (IV-V-III grado) su… Vere commanded the Indomitable: