Dopo il Regio di
Torino è la volta della Fenice a cimentarsi con Stravinski. Impresa peraltro non proibitiva, a suo tempo (1951) essendo stato
proprio il teatro lagunare a tenere a battesimo l’ultimo ruggito neo-classico dell’orso russo transumato
in occidente. Ieri pomeriggio seconda rappresentazione in un teatro assai
gremito. Anche qui si è fatto un solo intervallo che – a differenza di Torino -
è stato posto fra il secondo e il terzo atto.
Segnalo
subito la – come sempre – brillante recensione di Amfortas, che ha seguito la prima di
venerdi. E anche il magnifico programma di sala, già scaricabile via web,
vero fiore all’occhiello del teatro veneziano.
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Damiano Michieletto con il suo team fisso (scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti e luci di Alessandro Carletti) fa ancora il profeta in patria portando a Venezia – però con cast totalmente rinnovato - il suo allestimento già collaudato qualche settimana fa a Lipsia dove, almeno stando alla stampa locale, ha ottenuto molti consensi e sparute contestazioni. E a proposito di stampa tedesca, è interessante (e torna a tutto suo onore) un’affermazione di Michieletto in risposta all’ultima domanda del Leipzig-Almanach: l’arte non deve insegnare, ma suscitare emozioni. Beh, come risposta a tanti eccessi pseudo-maieutici del Regietheater non c’è male davvero! Ma il rischio è che si predichi bene e poi…
Damiano Michieletto con il suo team fisso (scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti e luci di Alessandro Carletti) fa ancora il profeta in patria portando a Venezia – però con cast totalmente rinnovato - il suo allestimento già collaudato qualche settimana fa a Lipsia dove, almeno stando alla stampa locale, ha ottenuto molti consensi e sparute contestazioni. E a proposito di stampa tedesca, è interessante (e torna a tutto suo onore) un’affermazione di Michieletto in risposta all’ultima domanda del Leipzig-Almanach: l’arte non deve insegnare, ma suscitare emozioni. Beh, come risposta a tanti eccessi pseudo-maieutici del Regietheater non c’è male davvero! Ma il rischio è che si predichi bene e poi…
La regìa
del suo Rake la definirei superficiale,
riscattatasi soltanto nelle due scene finali (quelle oggettivamente più facili
da valorizzare e/o più difficili da… rovinare). Vediamo perché.
La prima
scena, che almeno inizialmente dovrebbe essere – seriamente e poeticamente! – idilliaca, viene trasformata da
Michieletto in una prosaica giornata di week-end in campagna, con tanto di
barbecue, dispetti con spruzzi dell’irrigatore e lavaggio di auto. Quest’ultima
operazione serve al regista per rappresentare il lavoro alienante (di contabile)
proposto a Tom dal futuro suocero, e che il (potenziale, per ora) libertino
disprezza nel suo recitativo con aria
di sortita. Magari l’autoveicolo può anche evocare il viaggio maledetto di Tom
che toccherà diverse tappe per condurlo finalmente alla perdizione, dopodichè
si può sorridere dell’ingenuità di portare in scena una vecchia Peugeot 204
degli anni ‘60 (in Inghilterra poi, un’auto francese con guida a sinistra?)
come simbolo del viaggiare! Dal che intanto si deduce quale sia il periodo
storico in cui Michieletto cala la sua ambientazione; quanto al luogo,
effettivamente pare più yankee che british.
Shadow
compare in scena fin da subito e in pratica mai ne uscirà, costituendo una
presenza costante e persin troppo asfissiante. Poco giustificate le sue
attenzioni (e molestie in piena regola) nei confronti di Anne, forse ai suoi
occhi una nemica, in quanto potenzialmente in grado di strappargli dalle
grinfie la sua vittima Tom (nulla di tutto ciò si desume, nemmeno lontanamente,
dal libretto, manco a dirlo).
L’enorme
piscina in cui è ambientata la seconda scena del primo atto (il bordello di
Mother-Goose) fa venire in mente LasVegas più che Londra: è riempita di monete d’oro
e sopra di essa incombono sette scritte al neon rappresentanti gli altrettanti vizi
capitali. Questa scelta è di sicuro impatto, anche se sembrerebbe attribuire
surrettiziamente a Tom tutti i vizi possibili e immaginabili (vedremo che non
sarà così, ma che ciò provocherà altri problemi). Inoltre è poco appropriata a
dipingere un postribolo frequentato da bad-boys
(o hooligans violenti, oggidì) dove
in definitiva è quasi solo la lussuria ad imperare, contornata magari da
accidia e ira: si deve perciò da subito sospettare che questa scena farà da
sfondo – via via deteriorandosi - anche a tutte le successive tappe del cammino
di Tom. E di volta in volta si accenderanno solo alcune scritte al neon per
sottolineare i vizi in quel momento aleggianti sulla scena.
Ecco,
l’associazione di taluni vizi a personaggi diversi da Tom finisce però per
togliere enfasi e per sfuocare proprio quelli del protagonista, che dovrebbero
essere l’oggetto dell’opera. Che ira, gola, invidia e superbia siano
attribuibili a Baba (scena 3 dell’atto secondo) può essere tecnicamente
plausibile, ma è del tutto fuorviante nell’economia dell’opera, che è
focalizzata sui vizi di Tom! Al quale Tom essi vengono anche attribuiti a
sproposito: ad esempio la sua infatuazione per la macchina del pane andrebbe
imputata a superbia (diventare famoso e meritare l’amore di Anne) non come fa
Michieletto ad avarizia (=avidità) vizio che Tom ha già ampiamente dismesso nella
prima scena di quello stesso atto, in cui lui manifesta la sazietà e il
disgusto per cibo, gioco e donne, cioè gola, avarizia e lussuria. Un discorso a
sé meriterebbe l’accidia: la scritta luminosa si accende nella prima scena del
second’atto (dove vediamo Tom schifato dell’esistenza da ricco) e quindi
comunica il concetto che tale vizio sia un
effetto della sua nuova vita a Londra, quando invece sappiamo benissimo che
esso è per lui la madre di tutti i vizi
e quindi la causa prima e unica di
tutte le sue disavventure! Se si voleva chiarire il concetto allo spettatore
sprovveduto, allora quella scritta luminosa doveva essere mostrata già nella
prima scena del primo atto!
Veramente
debole la seconda scena dell’atto 2, con Baba (alias Conchita Wurst) che assiste
a volto (e corpo!) scoperto all’arrivo di Anne, ai preparativi delle nozze e
all’incontro di Anne con Tom: come minimo va a farsi benedire la sorpresa dello
scoprimento della sua fluente barba!
Ridicola
anche la terza scena del second’atto, con canotti, salvagenti e pupazzi di
plastica a rappresentare i cimeli di Baba: insomma tutto il personaggio e il
mondo della donna barbuta vengono banalizzati e irrisi in modo volgare (e non
raffinato, come si dovrebbe e potrebbe fare rispettando il libretto!)
Bambinesca anche la parte finale della scena, con la macchina del pane ridotta
ad una pila di salvagenti, metafora piuttosto ingenua delle bolle economiche dei nostri giorni,
gonfiate artificiosamente.
Di
conseguenza anche la prima scena del terz’atto (l’asta) diventa tutta una
pagliacciata che finisce per metterne in ombra, annegandoli in una generale
caciara, proprio tutti gli aspetti più grotteschi.
Come detto,
le ultime due scene, dove si materializza il dramma, sono le meglio riuscite:
guarda caso, lì Michieletto segue il testo originale in modo quasi pedestre,
senza inventarsi nulla. Tranne il due di
spade della scena del cimitero, che magari si giustifica proprio per
facilitarne la miglior comprensione da parte dello spettatore italiano. E poi –
ultima scena – il mostrare il suicidio di Tom che si soffoca infilandosi in
testa un sacchetto di plastica. Invece la bambolina-Venus che il regista mette
in braccio a Tom (e gli fa rubare da Shadow) è un’idea coerente con lo spirito
(se non la lettera) dell’originale e come tale è da apprezzare.
Nell’Epilogo
fanno un poco sorridere le quattro coltellate inferte al povero Shadow (che
tanto se ne fa un baffo…) dai quattro protagonisti.
In
definitiva, un allestimento con parecchie ombre e qualche luce nel finale. Dal
confronto diretto, per me McVicar
esce vincitore per 3-1!
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Diego Matheuz ha
diretto la pregevole orchestra della Fenice con diligenza e compostezza; devo
dire che a Torino Noseda mi aveva dato l’impressione di maggior cura dei
dettagli (ma sono proprio impressioni…) Bravissimi anche i membri del Coro di
Claudio Marino Moretti, a partire dalle sguaiatezze del bordello per finire al
mirabile canto funebre conclusivo.
Fra i protagonisti,
su tutti un ottimo Juan Francisco Gatell, che ha proposto in modo assai efficace il personaggio di Tom. Accanto
a lui una più che discreta Carmela Remigio, efficace in tutta la gamma, che va dal SI sotto il rigo al DO acuto
(nella chiusa della cavatina lo ha esploso come nulla fosse). Le perdonerei la forzatura di altri acuti, con tendenza a vetrosità di emissione.
Lo sbifido Shadow era Alex Esposito, attore consumato in cui Michieletto ha di sicuro trovato il suo diavolo. Ma anche vocalmente se l’è cavata assai bene (la parte peraltro non è proibitiva).
La Baba di Natasha Petrinsky si è meritata ai miei
orecchi una larga sufficienza, che sarebbe diventata ancor più solida se le
note dell’ottava bassa (tocca il LA
sotto il rigo) fossero risultate più udibili.
La Mother Goose Silvia Regazzo e il Sellem Marcello Nardis hanno ben meritato: in particolare il secondo, che ha una parte molto radicata al centro dell’estensione (MI-SOL) ma deve cantare con la voce petulante caratteristica degli imbonitori da strada.
Michael Leibundgut (Trulove) e Matteo Ferrara (guardiano del manicomio) più
che onesti nelle loro parti di contorno.
Alla fine il
pubblico ha tributato meritati applausi a tutti, per uno spettacolo che evidentemente
lo ha divertito ed emozionato.