intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

30 giugno, 2014

Altri libertini a Venezia


Dopo il Regio di Torino è la volta della Fenice a cimentarsi con Stravinski. Impresa peraltro non proibitiva, a suo tempo (1951) essendo stato proprio il teatro lagunare a tenere a battesimo l’ultimo ruggito neo-classico dell’orso russo transumato in occidente. Ieri pomeriggio seconda rappresentazione in un teatro assai gremito. Anche qui si è fatto un solo intervallo che – a differenza di Torino - è stato posto fra il secondo e il terzo atto.

Segnalo subito la – come sempre – brillante recensione di Amfortas, che ha seguito la prima di venerdi. E anche il magnifico programma di sala, già scaricabile via web, vero fiore all’occhiello del teatro veneziano.
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Damiano Michieletto con il suo team fisso (scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti e luci di Alessandro Carletti) fa ancora il profeta in patria portando a Venezia – però con cast totalmente rinnovato - il suo allestimento già collaudato qualche settimana fa a
Lipsia dove, almeno stando alla stampa locale, ha ottenuto molti consensi e sparute contestazioni. E a proposito di stampa tedesca, è interessante (e torna a tutto suo onore) un’affermazione di Michieletto in risposta all’ultima domanda del Leipzig-Almanach: l’arte non deve insegnare, ma suscitare emozioni. Beh, come risposta a tanti eccessi pseudo-maieutici del Regietheater non c’è male davvero! Ma il rischio è che si predichi bene e poi…

La regìa del suo Rake la definirei superficiale, riscattatasi soltanto nelle due scene finali (quelle oggettivamente più facili da valorizzare e/o più difficili da… rovinare). Vediamo perché.

La prima scena, che almeno inizialmente dovrebbe essere – seriamente e poeticamente! – idilliaca, viene trasformata da Michieletto in una prosaica giornata di week-end in campagna, con tanto di barbecue, dispetti con spruzzi dell’irrigatore e lavaggio di auto. Quest’ultima operazione serve al regista per rappresentare il lavoro alienante (di contabile) proposto a Tom dal futuro suocero, e che il (potenziale, per ora) libertino disprezza nel suo recitativo con aria di sortita. Magari l’autoveicolo può anche evocare il viaggio maledetto di Tom che toccherà diverse tappe per condurlo finalmente alla perdizione, dopodichè si può sorridere dell’ingenuità di portare in scena una vecchia Peugeot 204 degli anni ‘60 (in Inghilterra poi, un’auto francese con guida a sinistra?) come simbolo del viaggiare! Dal che intanto si deduce quale sia il periodo storico in cui Michieletto cala la sua ambientazione; quanto al luogo, effettivamente pare più yankee che british.   

Shadow compare in scena fin da subito e in pratica mai ne uscirà, costituendo una presenza costante e persin troppo asfissiante. Poco giustificate le sue attenzioni (e molestie in piena regola) nei confronti di Anne, forse ai suoi occhi una nemica, in quanto potenzialmente in grado di strappargli dalle grinfie la sua vittima Tom (nulla di tutto ciò si desume, nemmeno lontanamente, dal libretto, manco a dirlo).

L’enorme piscina in cui è ambientata la seconda scena del primo atto (il bordello di Mother-Goose) fa venire in mente LasVegas più che Londra: è riempita di monete d’oro e sopra di essa incombono sette scritte al neon rappresentanti gli altrettanti vizi capitali. Questa scelta è di sicuro impatto, anche se sembrerebbe attribuire surrettiziamente a Tom tutti i vizi possibili e immaginabili (vedremo che non sarà così, ma che ciò provocherà altri problemi). Inoltre è poco appropriata a dipingere un postribolo frequentato da bad-boys (o hooligans violenti, oggidì) dove in definitiva è quasi solo la lussuria ad imperare, contornata magari da accidia e ira: si deve perciò da subito sospettare che questa scena farà da sfondo – via via deteriorandosi - anche a tutte le successive tappe del cammino di Tom. E di volta in volta si accenderanno solo alcune scritte al neon per sottolineare i vizi in quel momento aleggianti sulla scena.

Ecco, l’associazione di taluni vizi a personaggi diversi da Tom finisce però per togliere enfasi e per sfuocare proprio quelli del protagonista, che dovrebbero essere l’oggetto dell’opera. Che ira, gola, invidia e superbia siano attribuibili a Baba (scena 3 dell’atto secondo) può essere tecnicamente plausibile, ma è del tutto fuorviante nell’economia dell’opera, che è focalizzata sui vizi di Tom! Al quale Tom essi vengono anche attribuiti a sproposito: ad esempio la sua infatuazione per la macchina del pane andrebbe imputata a superbia (diventare famoso e meritare l’amore di Anne) non come fa Michieletto ad avarizia (=avidità) vizio che Tom ha già ampiamente dismesso nella prima scena di quello stesso atto, in cui lui manifesta la sazietà e il disgusto per cibo, gioco e donne, cioè gola, avarizia e lussuria. Un discorso a sé meriterebbe l’accidia: la scritta luminosa si accende nella prima scena del second’atto (dove vediamo Tom schifato dell’esistenza da ricco) e quindi comunica il concetto che tale vizio sia un effetto della sua nuova vita a Londra, quando invece sappiamo benissimo che esso è per lui la madre di tutti i vizi e quindi la causa prima e unica di tutte le sue disavventure! Se si voleva chiarire il concetto allo spettatore sprovveduto, allora quella scritta luminosa doveva essere mostrata già nella prima scena del primo atto!

Veramente debole la seconda scena dell’atto 2, con Baba (alias Conchita Wurst) che assiste a volto (e corpo!) scoperto all’arrivo di Anne, ai preparativi delle nozze e all’incontro di Anne con Tom: come minimo va a farsi benedire la sorpresa dello scoprimento della sua fluente barba!

Ridicola anche la terza scena del second’atto, con canotti, salvagenti e pupazzi di plastica a rappresentare i cimeli di Baba: insomma tutto il personaggio e il mondo della donna barbuta vengono banalizzati e irrisi in modo volgare (e non raffinato, come si dovrebbe e potrebbe fare rispettando il libretto!) Bambinesca anche la parte finale della scena, con la macchina del pane ridotta ad una pila di salvagenti, metafora piuttosto ingenua delle bolle economiche dei nostri giorni, gonfiate artificiosamente.

Di conseguenza anche la prima scena del terz’atto (l’asta) diventa tutta una pagliacciata che finisce per metterne in ombra, annegandoli in una generale caciara, proprio tutti gli aspetti più grotteschi.

Come detto, le ultime due scene, dove si materializza il dramma, sono le meglio riuscite: guarda caso, lì Michieletto segue il testo originale in modo quasi pedestre, senza inventarsi nulla. Tranne il due di spade della scena del cimitero, che magari si giustifica proprio per facilitarne la miglior comprensione da parte dello spettatore italiano. E poi – ultima scena – il mostrare il suicidio di Tom che si soffoca infilandosi in testa un sacchetto di plastica. Invece la bambolina-Venus che il regista mette in braccio a Tom (e gli fa rubare da Shadow) è un’idea coerente con lo spirito (se non la lettera) dell’originale e come tale è da apprezzare.

Nell’Epilogo fanno un poco sorridere le quattro coltellate inferte al povero Shadow (che tanto se ne fa un baffo…) dai quattro protagonisti.

In definitiva, un allestimento con parecchie ombre e qualche luce nel finale. Dal confronto diretto, per me McVicar esce vincitore per 3-1!

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Diego Matheuz ha diretto la pregevole orchestra della Fenice con diligenza e compostezza; devo dire che a Torino Noseda mi aveva dato l’impressione di maggior cura dei dettagli (ma sono proprio impressioni…) Bravissimi anche i membri del Coro di Claudio Marino Moretti, a partire dalle sguaiatezze del bordello per finire al mirabile canto funebre conclusivo.

Fra i protagonisti, su tutti un ottimo Juan Francisco Gatell, che ha proposto in modo assai efficace il personaggio di Tom. Accanto a lui una più che discreta Carmela Remigio, efficace in tutta la gamma, che va dal SI sotto il rigo al DO acuto (nella chiusa della cavatina lo ha esploso come nulla fosse). Le perdonerei la forzatura di altri acuti, con tendenza a vetrosità di emissione. 

Lo sbifido Shadow era Alex Esposito, attore consumato in cui Michieletto ha di sicuro trovato il suo diavolo. Ma anche vocalmente se l’è cavata assai bene (la parte peraltro non è proibitiva).

La Baba di Natasha Petrinsky si è meritata ai miei orecchi una larga sufficienza, che sarebbe diventata ancor più solida se le note dell’ottava bassa (tocca il LA sotto il rigo) fossero risultate più udibili.

La Mother Goose Silvia Regazzo e il Sellem Marcello Nardis hanno ben meritato: in particolare il secondo, che ha una parte molto radicata al centro dell’estensione (MI-SOL) ma deve cantare con la voce petulante caratteristica degli imbonitori da strada.

Michael Leibundgut (Trulove) e Matteo Ferrara (guardiano del manicomio) più che onesti nelle loro parti di contorno.

Alla fine il pubblico ha tributato meritati applausi a tutti, per uno spettacolo che evidentemente lo ha divertito ed emozionato.

26 giugno, 2014

Barenboim alla Scala si fa in due per DonGnocchi


Fra una recita e l’altra del… guthiano Così, Daniel Barenboim - del quale si può dire tutto il male, salvo che manchi di umana, sociale e cristiana (!) carità - ha trovato, insieme ai professori della Filarmonica, il modo e il tempo per dedicarsi ad opere di bene: un concerto a beneficio della benemerita Fondazione DonGnocchi.

Concerto che lo ha visto – in un teatro abbastanza gremito - contemporaneamente come Direttore e Interprete. Sul secondo fronte era alla tastiera per suonare il K595, composto circa un anno dopo (inizio 1791) la terza fatica dapontiana. È l’ultimo dei concerti per pianoforte e orchestra e – salvo poche venature d’ombra - sprizza serenità e gioia di vivere da ogni battuta: e pensare che Mozart non arriverà a vedere il 1792…
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Composto per una circostanza particolare e per essere eseguito in una sala d’albergo, ha un organico ridotto all’osso: solo 7 fiati (niente clarinetti e trombe) più gli archi. Numerose sono le auto-citazioni che vi compaiono, come quella di un inciso (che appare a battuta 5) proveniente dal finale della sinfonia Haffner, che a sua volta lo aveva mutuato dal Ratto:


A battuta 13 ecco un motivo che ci ricorda il Finale della Jupiter: sono i violini secondi ad esporlo, armonizzati per terze dai violini primi:


Il tema del Larghetto è una reminiscenza della Sinfonia Linz (finale) e una sua iniziale cellula viene anche riproposta, con diversa scansione ritmica, dal solista nell'Allegro conclusivo:

Il cui tema principale Mozart impiegherà quasi contemporaneamente in una canzone:


Una curiosità, per così dire, editoriale, riguarda un passaggio dell’Allegro iniziale, che nelle partiture storicamente esistenti sul mercato fin dopo la metà del secolo scorso manca di 7 battute (dopo la 46). Si tratta di un passaggio che compare più tardi nello sviluppo e poi proprio alla fine del movimento: pare che nell’esposizione manchi dal manoscritto di Mozart, sostituito però da un appunto che verosimilmente serviva da richiamo. Le sette battute sono state reintegrate nell’edizione critica della NMA (1960) cui oggi (quasi) tutti gli interpreti fanno riferimento:


Si possono ascoltare in questa esecuzione proprio di Barenboim con i Wiener, da 1‘38“ a 1‘52“ del filmato. Una delle mosche bianche che ancora impiega l’edizione non emendata è  Jenö Jandó, qui con András Ligeti da 1’28”.
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Dopo una falsa partenza, dovuta ad intemperanze di qualche cafone in platea prontamente redarguito, l’approccio di Barenboim è assai leggero, quasi compassato: personalmente un poco di freschezza in più non mi sarebbe dispiaciuta, magari nell’Allegro finale. Comunque è sempre un piacere ascoltare questo autentico gioiello della produzione del Teofilo.

E anche il pubblico mostra di apprezzare, con ripetute chiamate del Maestro, che non può esimersi dall’offrirci un bis: le beethoveniane Sei variazioni sull’aria Nel cor più non mi sento da La molinara di Paisiello (qui il grande Kempff).   
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Ecco infine l’inflazionata Quinta di Ciajkovski. Nel primo movimento Barenboim ci vede proprio la marcia pesante del destino che arriva minaccioso, poi l’orizzonte si apre nell’Andante cantabile (grazie al corno di Danilo Stagni) e la Valse è suonata come un minuetto settecentesco. Finale enfatico e retorico quanto basta, e forse più, con i grandiosi fracassi che contraddistinguono l’ostinato prevalere della volontà sul destino cinico e baro. Gran trionfo con innumerevoli chiamate.

22 giugno, 2014

Così fan tutti i... Guth


Ieri sera seconda recita (delle ben 12 previste, fino al 18 luglio) del mozartiano Così fan tutte alla Scala, in un teatro ancora parecchio lontano dall’affollamento che ci si aspetterebbe per un’opera come questa.

 

L’allestimento di Claus Guth è una rivisitazione di quello presentato nel 2011 a Salzburg (a sua volta una sostanziale revisione di quello del 2009, sempre nella città di Mozart).   


Per commentarlo potrei limitarmi a riproporre le stesse e identiche considerazioni che mi venne di scrivere un paio d’anni fa, in occasione dell’edizione di Damiano Michieletto alla Fenice. Di sicuro non ho nel frattempo cambiato idea sulla natura del soggetto e dei relativi personaggi: né opera comica (perché giocoso è, ma dramma) né opera pessimista (poiché dramma è, ma giocoso). O magari potremmo sì definirla pessimista, ma in senso gramsciano, in piena coerenza con il proposito che tutti esprimono alla fine: Fortunato l’uom che (…) da ragion guidar si fa (ecco l’ottimismo che fa capolino…) Succede invece che gli allestimenti tendano a presentare una sola delle due facce, ai nostri giorni solitamente più quella scura, perché questo fa tanto impegnato

Ecco, il segreto e insieme la grande difficoltà di chi mette in scena quest’opera sarebbe di saper camminare, anzi danzare e fare acrobazie, su una lama di rasoio, senza cadere di sotto e senza farsi nemmeno un taglietto alle piante dei piedi. Cosa che né Guth né il suo più giovine imitatore Michieletto provano nemmeno lontanamente a fare. Loro – con diversi accenti e, mi sentirei di dire, con minor tasso di gravità per il nostro compatriota – evitano accuratamente la lama di rasoio per accomodarsi stolidamente su una delle due opposte sponde: nella fattispecie quella nichilista, dove ai protagonisti (ergo, all’umanità) non resta altra prospettiva se non un perenne e astioso conflitto.

La base comune di queste assurde interpretazioni del capolavoro è la crassa ignoranza (o meglio: la sprezzante minimizzazione) della musica del Teofilo, oltre che del testo del suo amico librettista nonché prete.

Ora però, Michieletto si limitava – per così dire – al pessimismo della conclusione e a presentare DonAlfonso come un povero ubriacone che si diverte a rovinar famiglie, lasciando però in vita molto della freschezza e del buonumore di cui è permeata l’opera. Guth invece va ben oltre e ne distrugge con scientifica meticolosità l’intero impianto, per farlo aderire al suo lunatico Konzept nichilista, infarcito di iper-freudismo da quattro soldi.

Per tutto il primo atto i comportamenti dei protagonisti, non solo dei due maschi ma anche delle due femmine, sono determinati dagli effetti di sbornie e dai fumi dell’alcool, come dire: tutta la vicenda è un nonsenso. I due finti albanesi mai si trovano al cospetto delle due ragazze: al massimo si coprono il volto con due maschere; oppure sono loro a bendare le donne, oppure piomba un’improvvisa oscurità. Finalmente, nella scena del finto suicidio, eccoli presentarsi con i loro connotati originali, che da lì in poi manterranno fino alla fine dell’opera (?!?)

Altra trovata: alla fine del primo atto, al momento del finto suicidio, la scena si apre per mostrare un bosco, che poi si ingigantirà nel second’atto e quindi quasi del tutto sparirà alla fine. Che significa? Certo Guth-Freud avrà una risposta; di sicuro c’è che nel libretto il protagonista, non solo a livello natura, ma psiche, è il mare, che il regista non ci mostra nemmeno col binocolo!    

C’è poi un particolare apparentemente secondario, ma in realtà illuminante, che testimonia dell’indifferenza del regista per l’originale. Si tratta di un paio di tagli al libretto, che ci privano di un passo fondamentale nella caratterizzazione del personaggio di Fiordiligi e del suo tremendo conflitto interiore: prima dell’aria di Dorabella È amore un ladroncello Fiordiligi, che ha già confessato di amare anche Ferrando, ha un estremo ripensamento (Cosa dici! Non pensi agli infelici che stamane partir!) che Guth cancella; poi, e qui davvero la cosa è proditoria, il regista cassa l’intera scena in cui Fiordiligi ordina a Despina di recapitarle le uniformi dei due fidanzati per raggiungerli al campo militare, e poi sceglie per sé quella di… Ferrando! Così si salta immediatamente al duetto in cui la ragazza cede definitivamente. Ecco cosa un sedicente regista arriva a fare, pur di forzare l’originale ad aderire alla sua idea.

Insomma, ancora una volta un allestimento regista-centrico che letteralmente snatura il capolavoro originale. Complimenti davvero!
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Discreto e non più – a mio avviso – il livello della prestazione musicale.

Sopra la media l’orchestra e il coro: Barenboim forse fin troppo… wagneriano nell’agogica, ma a mio parere efficace nel mettere in risalto tutte le infinite sfaccettature della partitura; il coro di Casoni ha una presenza sporadica, ma ha risposto come sa.

Fra gli interpreti metterei in cima alla lista la Fiordiligi di Maria Bengtsson (che bene aveva fatto anche nella produzione veneziana) e Michele Pertusi, un DonAlfonso autorevole (che non merita di essere rovinato dal regista).

Rolando Villazon è Ferrando e se la cava con mestiere, gli do una onesta sufficienza.

Sotto la media mi son sembrati gli altri: dalla Dorabella di Katija Dragojevic al Guglielmo di Adam Plachetka alla Despina di Serena Malfi.

Successo moderato, in un teatro-gruviera.

16 giugno, 2014

Libertini a Torino


Al Regio di Torino è andata in scena ieri pomeriggio la quarta e penultima recita di The Rake’s Progress di Igor Stravinski. Segnalo subito l’interessantissima presentazione di Alberto Bosco, ora disponibile su youtube.
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Lo spunto per quest’opera (che ebbe la prima a Venezia nel 1951) era venuto al compositore da una serie di otto quadri di William Hogarth (vissuto nel ‘700) rappresentanti, appunto, alcune fasi dell’esistenza di un personaggio definito come libertino, o dissoluto. Da qui si potrebbe pensare a qualcosa di tipo Don Giovanni, o magari anche Duca di Mantova.

In realtà la favola morale che i librettisti Wystan Hugh Auden e Chester Simon Kallman derivarono - interpretandole in modo assai elastico - dalle otto pitture di Hogarth rimanda assai più ai casi di tale Dottor Faust, ma più giovane e meno… intelligente (smile!) Insomma: più che un libertino, questo Tom Rakewell sembra uno scansafatiche in cerca di ricchezze, agi, amore e fama a buon mercato, che il destino gli dovrebbe garantire per grazia ricevuta (proprio come quella che Berlusconi reclama da Napolitano...)

Lui, per dire, l’amore ce l’avrebbe già (la povera Anne Trulove, versione moderna della bizetiana Micaëla) ma di fare un’onesta vita da contabile (offertagli dal futuro suocero) per mantenere futura moglie e futuri figli non ne vuol proprio sapere: lui si ritiene meritevole dello status di mangiapaneatradimento e così diventa facile vittima degli… appetiti di un Mefistofele momentaneamente disoccupato (alias Nick Shadow). Costui gli procura una ricca eredità e, di passaggio, lo porta in un bordello (chèz Ma mère l’oye!) tanto per metterlo a suo agio, mentre la povera Anne non si dà pace non avendo più notizie di lui.

Rakewell comincia ad annoiarsi di fare il ricco nullafacente, così esprime il desiderio di essere felice (ma non con Anne, guarda un po’): prontamente il diavolo Shadow gli procura il necessario, Baba la Turca, un fenomeno da baraccone – donna barbuta, per dire - che viene subito sposata dall’entusiasta dissoluto. Anne rintraccia la dimora del fidanzato fedifrago e vi trova… la Turca, così scappa via inorridita.

Però anche il matrimonio comincia a scricchiolare: nel bel mezzo di una discussione domestica, Rakewell immobilizza la moglie con la sua stessa parrucca e poi sogna di diventare un benefattore dell’umanità, fabbricando e vendendo una portentosa macchina che produce pane dalle pietre. Shadow subito lo accontenta, presentandogli un perfetto prototipo dell’incredibile… diavoleria.

Ma come tutte le bufale, anche questa ha vita breve e così Rakewell perde tutte le sue sostanze, causa fallimento dell’impresa. Ciò che ancora conserva in casa vien messo all’asta e venduto dal banditore Sellem, che a un certo punto vorrebbe vendere anche la Turca (rimasta lì dove Rakewell l’aveva immobilizzata). Ma la barbuta torna in sé, consiglia Anne (nel frattempo arrivata ancora a cercare il suo Tom) di prendersi cura del povero amato, e poi torna al suo baraccone.

Dovendo esserci qualcosa di dongiovannesco, ecco che ci troviamo ora in un cimitero, dove Shadow reclama il suo compenso: l’anima di Rakewell. Prima che la mezzanotte scocchi però il diavolo vuol prendersi un’ultima soddisfazione e sfida la sua vittima ad un sadico gioco: indovinare per tre volte la carta che lui estrarrà dal mazzo. Rakewell indovina la prima (Donna di cuori… Anne) e poi la seconda (due di picche, la vanga da becchino caduta a terra in quel momento). Adesso lo sbifido Shadow ne fa una delle sue, per garantirsi la vittoria: rimette nel mazzo la Donna di cuori e la estrae. Ma Rakewell sente la voce di Anne e contro ogni logica nomina ancora la Donna di cuori, e vince. Poi cade svenuto, mentre Shadow sparisce scornato giù nell’inferno, non senza prima aver lanciato sul cliente un’ultima maledizione: farlo pazzo.

Al risveglio infatti Rakewell è fuor di melonera, si crede Adone e così lo ritroviamo trasferito in manicomio, dove la sua Venere (Anne) viene a dargli l’ultimo saluto. Infine, sempre come in Mozart, ecco tutti i personaggi tornare in scena per farci, ciascuno, la sua dovuta morale

Insomma, il soggetto è un – magari sapido – pastiche, ma certo assai più dilettantesco e dozzinale del libretto di DaPonte, non parliamo poi del capolavoro di Goethe. Tanto per esemplificare, i fatti che possiamo chiamare preternaturali sono di ben diversa portata nei modelli rispetto al testo musicato da Stravinski: nel Don la statua del Commendatore ha una valenza simbolica e drammatica eccezionale; nel Faust abbiamo il ringiovanimento compiuto da Mefistofele, anche qui un evento di immensa portata filosofica. Invece nel Rake troviamo dei miracoli piuttosto banalotti: un’eredità (concreta, stando agli sviluppi) che arriva a Tom da uno zio inesistente; poi la macchina del pane che viene presa sul serio dalla Borsa (neanche nella nostra new-economy-delle-bolle si dà retta a certe bufale…)

Certo, nel Rake possiamo vedere tanti aspetti di sottile critica della nostra società post-industriale, di fenomeni che erano già in essere in USA a metà del secolo scorso e che sono poi arrivati anche da noi (le televendite o il mito del successo a buon mercato) e di stereotipi di comportamenti individuali (Tom l’arrivista e Anne la pia, Baba la diva, Sellem il venditore di tappeti e Shadow il potere demoniaco della TV). Ma il livello estetico generale a me pare francamente abbastanza bassino, ed anche nel piccolo ci sono trovate proprio da avanspettacolo (neanche Broadway…) come la povera Baba che rimane ibernata - con la parola never rimastale in bocca a metà – per giorni, se non addirittura settimane o mesi!

E a proposito di scimmiottature un filino dissacranti, nel Rake c’è perfino qualcosa di Parsifal: la scena del bordello (il castello di Klingsor) dove le prostitute (ragazze-fiore) si contendono Rakewell che poi viene usucapito dalla loro tenutaria (Kundry).
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Dal punto di vista musicale Stravinski, con una logica da… orso russo, spiegò che, essendo il soggetto ambientato nel ‘700, allora gli parve normale musicarlo con gli strumenti di quell’epoca (opera a numeri chiusi e con recitativi secchi). Impiegando la stessa logica potremmo immaginare quale musica avrebbero dovuto comporre Verdi per Aida o Wagner per Lohengrin! Invece, forse, Stravinski pensava furbescamente di schivare l’ormai usurato tardo-romanticismo senza però trarne le logiche conseguenze. Un po’ come chi, in economia, per superare Marx non trova di meglio che… retrocedere ad Adam Smith.

Ecco perché personalmente trovo la musica del Rake piuttosto artefatta, pretenziosa ed estetizzante; l’incredibile varietà degli ingredienti utilizzati finisce per renderla stucchevole e addirittura quasi noiosa e indigeribile. Ecco, magari bella, ma fredda e francamente poco coinvolgente…

Certo nella partitura non mancano particolari interessanti o curiosi e spunti di riflessione; mi limito a citarne solo alcuni.
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Le tre apparizioni di Shadow – in corrispondenza dei tre desideri espressi da Tom - sono sempre accompagnate da un arpeggio del clavicembalo, che evoca proprio una specie di pof! da cui si materializza la presenza del demonio, pronto a soddisfare (ma per il proprio tornaconto) le voglie dello scansafatiche. Questi tre arpeggi hanno una struttura comune, costituita da un gruppo di veloci biscrome (12 per i primi due, 11 per il terzo, sempre sulla lunghezza di una semiminima) con andamento ondeggiante, seguito da una nota lunga, ma sono sempre diversi nell’altezza, calando ogni volta di una terza minore (attacco sul FA-RE-DOb e chiusura sul RE-SI-LAb):

Insomma: è come se il diavolo abbia sempre meno necessità di far colpo sulla sua vittima, che è sempre più soggiogata…

Inoltre un quarto arpeggio compare nel momento in cui (scena del cimitero, estrazione della terza carta) Tom, che ha appena udito la voce di Anna, dichiara di non avere più altri desideri (I wish for nothing else):


Come si può constatare, qui le 16 biscrome seguono una linea praticamente a singhiozzo: poichè Shadow si è accorto di esser sul punto di perdere la partita che già credeva vinta! 
    
Troviamo poi alcuni interessanti richiami tematici. Uno collega l’inizio e la fine della scena del cimitero: è dapprima in SOL minore, a preparare l’atmosfera drammatica dell’ultimo incontro Tom-Shadow; poi nella relativa SIb maggiore, a sottolineare l’arrivo dell’alba e il risveglio dell’ormai inebetito, anzi ammattito Tom:


Un altro mette fra loro in stretta relazione telepatica due esternazioni: quella di Tom che si prepara ad indovinare la terza carta (scena del cimitero) e quella di Anne al momento di decidere di partire alla ricerca dell’amato (cabaletta alla fine dell’Atto I):

Come non ammirare infine la ninna-nanna in LAb con cui Anne-Venus fa addormentare il suo Tom-Adonis, prima di dargli l’ultimo addio:

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Come ci è stata proposta a Torino? Intanto si è fatta – cosa abbastanza solita - una sola pausa, qui dopo la seconda scena dell’Atto II, al momento del trionfo di Baba.

La regìa di McVicar (proveniente da Glasgow) è come sempre rispettosa della lettera, prima ancora che dello spirito dell’opera: ambienti, costumi e… suppellettili sono del tutto appropriati, con poche e sempre utili varianti (due scimpanzé in carne ed ossa che Baba si tiene in casa insieme ai più strampalati oggetti; o la palandrana con cui il marito la copre per zittirla, più plausibile della parrucca).

Per il resto un’aderenza quasi maniacale al libretto. Scene ridotte al minimo: quasi vuote per i momenti intimistici e riempite di masse sapientemente manovrate per quelli di carattere pubblico. Costumi d’epoca assai appropriati, mai volgari anche nei momenti più svaccati (memorabili le tettone finte di Mamma-oca!)

E poi il proverbiale magistero di McVicar nel gestire la componente attoriale: dove ogni minimo dettaglio è meticolosamente studiato e nulla è lasciato al caso.
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Sul fronte musicale, note positive come sempre per l’orchestra e il coro: la prima sapientemente mantenuta da Noseda entro i rigidi canoni stravinskiani; il secondo come sempre preparato al meglio da Fenoglio.

Alti e bassi invece a livello voci protagoniste: su tutti lo specialista (di Tom) Leonardo Capalbo, sicuro in una parte che magari non richiede punte acute (non sale mai oltre il LA) ma che abbisogna di lirismo e di… ingenuità.

Alti e bassi invece per Danielle de Niese, che ha cercato di proporre una Anne dolce e devota, ma ci è riuscita bene a livello scenico, un filino meno bene sul canto, in particolare con tendenza al vetroso negli acuti.

Lo Shadow di Bo Skovhus ha ben figurato, guadagnandosi meritati applausi; peraltro, a fronte di grande efficacia nell’ottava alta, ha mostrato qualche debolezza nel registro più grave. Stesso dicasi per la comunque efficace Annie Vavrille (Baba). Discreto anche il Sellem di Colin Judson.

Jakob Zethner (Trulove) Barbara Di Castri (Mamma-oca) Ryan Milstead (guardiano) e Lorenzo Battagion hanno dignitosamente completato il cast.

Per tutti alla fine caloroso successo in un teatro abbastanza affollato.

Fra pochi giorni sarà la Fenice a proporre la sua produzione del Rake – ambientazione moderna, artefice Damiano Michieletto – già andata in scena a Lipsia qualche settimana fa (e dove tornerà a novembre): vedremo la… differenza!

13 giugno, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°38

 

La stagione del ventennale de laVerdi si conclude con le tre repliche del concerto diretto da Jader Bignamini, delle quali la prima è andata in onda ieri sera, in un Auditorium abbastanza affollato, anche se non proprio esaurito.

Due le opere in programma, con l’Imperatore a chiudere il ciclo dei concerti beethoveniani, alla tastiera Davide Cabassi. Il quale – lo dico con grande dispiacere, ma senza mezzi termini – mi ha deluso assai. A parte alcuni evidenti svarioni in cui è incappato, ciò che mi è parso censurabile è un generale pressapochismo emerso dalla sua prestazione. Ne è sintomo non secondario la presenza, dentro la cassa dello strumento, dello spartito che il nostro ha continuato a sfogliare per l’intera durata dell’esecuzione: segnale preoccupante di insicurezza e, quindi, di inadeguata preparazione. Mentre dietro di lui Bignamini guidava assai bene l’orchestra a memoria!

Peccato davvero… speriamo che almeno nelle due recite che rimangono le cose migliorino. Poi, con il virtuoso bis di Padre Soler Cabassi ha cercato di recuperare quei consensi non meritati in precedenza.
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Bignamini ha infine diretto da par suo la Quinta di Ciajkovski, opera che l’orchestra ormai conosce come le proprie tasche. E forse per questo ho percepito qua e là qualche pecca, magari dovuta ad eccesso di sicurezza, ma nulla di così grave.

Il Direttore mi è parso quasi perfetto nei primi tre movimenti, prendendosi poi qualche piccola (e perdonabile) libertà con le dinamiche nel movimento conclusivo. Ma in sostanza si è trattato di una prestazione encomiabile da parte di tutti.

E proprio con questa stessa Quinta si aprirà la prossima stagione, il 14 settembre alla Scala, sotto la bacchetta di Zhang Xian.

11 giugno, 2014

La… Herlitzius di Strauss alla Scala

 

Ieri la Scala – in un teatro non propriamente esaurito - ha ospitato l’ultima recita di Elektra, accolta in precedenza da consensi praticamente unanimi, sia per la prestazione musicale di Salonen&C che per la messinscena del compianto Patrice Chéreau.


Devo dire del tutto serenamente che – a giudicare da quest’ultima recita – lo spettacolo è stato salvato quasi esclusivamente dalla Evelyn Herlitzius e – solo in parte – da Salonen. Per il resto siamo in una risicata sufficienza (la Pieczonka, discreta nell’ottava alta ma deficitaria sotto) o addirittura in una desolante nullità (spiace che tocchi alla grande Waltraud Meier, ma quando dal loggione non si riesce a sentire distintamente una sola sillaba di ciò che canta… è detto tutto). Si aggiunga a tutto ciò che il povero Pape è stato in pratica costretto a cantare con mezza voce (e se ne è scusato con eloquenti gesti alla chiamata singola) e il quadro è completo. Tutti gli altri interpreti su un piano di dignitosa routine.

Salonen da parte sua ha fatto suonare assai bene l’orchestra scaligera, però come se in programma ci fosse la… Alpensinfonie! E così le voci (Herlitzius esclusa) già poco o tanto deficitarie di loro, sono state spesso e volentieri coperte dai suoni provenienti dalla buca.

Invece è proprio la straordinaria prestazione della Herlitzius che mi dà lo spunto per sollevare il problema (annoso nella fattispecie) dei tagli che vengono tradizionalmente apportati a questa partitura e che - almeno una volta tanto, quando si dispone come qui del miglior interprete sul mercato - avrebbero potuto essere riaperti, consegnando al pubblico l’opera nella sua splendida interezza. Peccato che così non sia stato: una bella occasione perduta.

In questa produzione ne sono stati praticati cinque (diciamo: statisticamente nella media dei vari allestimenti e incisioni). In termini di durata siamo attorno ai 6-7 minuti, poca roba, che di per sé non giustificherebbe di certo l’operazione. Essendo quasi tutti però sulla parte della protagonista, è comune supposizione che siano fatti per… risparmiarle la voce: spiegazione abbastanza di comodo, direi; e che - fossi nella strepitosa Evelyn - tenderei a respingere decisamente.

Certo, per chi conosce poco il testo e meno ancora sa cavarsela con il tedesco, possono sembrare tagli innocui (se non addirittura… benefici!) ma in realtà innocui non sono proprio per nulla. E che lo stesso Strauss ai suoi tempi li avesse magari tollerati non è un buon motivo per continuare a perpetrarli, specie in produzioni che si vogliono e si definiscono epocali. Purtroppo si tratta di mutilazioni che, piccolo o grande, qualche danno lo fanno: alla musica, privandoci del ritorno di molti dei temi dell’opera, ed anche alla drammaturgia, nascondendoci alcuni interessanti squarci sulla personalità di Elektra. Vediamoli in dettaglio (testi in italiano, traduzione di Franco Serpa per la Scala, con le parti tagliate evidenziate in giallo). Ho indicato i tempi con riferimento ad una delle (due sole?) incisioni complete disponibili sul mercato (Solti/Nilsson).

1. Scontro Elektra-Klytämnestra: dal #240 a #255 della partitura, per un totale di 94 battute (circa 2’10”). È sicuramente il più pernicioso, in quanto devasta letteralmente uno dei momenti topici del dramma, quello in cui Elektra, che ha convinto la madre della necessità di un sacrificio umano (una donna) per esorcizzare i suoi incubi notturni, le annuncia che la vittima sarà proprio lei stessa.

Elettra (balza dal buio verso Clitennestra, sempre più le si accosta facendosi sempre più terrificante)
Quale sangue? Il sangue del tuo collo,
quando t’abbia agguantato il cacciatore!
Sento che corre per le stanze, sento
che alza la tenda del letto: chi scanna
la vittima nel sonno? Egli ti stana,
scappi gridando, e sempre ti è alle spalle:
ti incalza per la casa! Fuggi a destra,
c’è il letto! A sinistra, il bagno fuma
sangue! Dal buio e dalle torce cade
su te rete mortale nero-rossa –
(Clitennestra, sconvolta da muto orrore, vuole rientrare. Afferrandola per la veste, Elettra la trascina in avanti. Clitennestra arretra verso il muro. Ha gli occhi sbarrati, dalle mani tremanti le cade il bastone.)
Giù per le scale lungo i corridoi,
va di portico in portico la caccia –
ed io! io! io che l’ho lanciata,
io sono come un cane sui tuoi passi,
cerchi una tana, addosso mi ti avvento
da un lato, così ancora ti incalziamo –
fino a un muro e lì tutto si chiude,
pur nel profondo buio io lo vedo,
un’ombra, poi le membra e del suo occhio
il bianco vedo, là ci attende il padre:
nulla osserva, ma tutto deve compiersi:
presso i suoi piedi noi ti costringiamo –
Vorresti urlare, ma l’aria ti strozza
l’urlo incompiuto e l’abbandona a terra
giù senza suono. Come ossessa il collo
offri nudato, senti nella sede
della vita vibrare il taglio, invece
egli il colpo trattiene: non è il rito
perfetto. Nel silenzio ascolti il cuore
in petto martellarti: quel momento
– ti si stende davanti come un fosco
golfo di anni. – Il momento ti è dato
per provare quel che il naufrago sente,
quando si perde l’urlo tra le nubi
di caligine e morte, quel momento
ti è dato perché tu possa invidiare
ogni inchiodato al muro della cella,
chi dal fondo di un pozzo invoca morte
come salvezza – perché tu a te stessa,
tu sei tanto inchiodata, come fossi
nel ventre arroventato di una bestia
di bronzo – e come ora non hai grido!
Qui sto io davanti a te, con l’occhio fisso leggi
la tremenda parola che sul volto m’è impressa:
pende dal cappio che tu stessa hai teso,
l’anima, scende l’ascia sibilando,
ed io ci sono e finalmente vedo
la tua morte! Finiscono i tuoi sogni,
né io sognerò più, e chi ancora è vivo
trionfa e della vita può bearsi!

Come si può constatare, il taglio ci priva del racconto dei macabri particolari dell’autentica caccia-alla-donna di cui la regina sarà vittima (secondo le allucinate visioni della figlia) e delle terrificanti pressioni psicologiche prima ancora che delle ferite materiali cui verrà sottoposta.

Soprattutto non ci chiarisce fino in fondo chi dovrebbero essere i giustizieri della regina: il testo mutilato infatti lascia in campo soltanto Elektra e il cacciatore (Orest, come si deduce dal contesto e dai suoi temi musicali) ma non permette di riconoscervi (anche a mezzo della musica!) lo spettro di Agamemnon.

E appunto la musica che si perde è tutt’altro che puro riempitivo: è un drammatico declamato della protagonista, accompagnato da almeno una dozzina di Leit-motive dell’Opera, che come sempre ci chiariscono ciò che nemmeno le parole possono spiegare.  

2. Confronto Elektra-Chrysothemis: sono precisamente tre tagli, a breve distanza uno dall’altro, alla scena in cui – dato per morto Orest - Elektra cerca in tutti i modi di convincere la sorella ad essere sua complice nella vendetta.   

a) da #59a a #68a della partitura, per un totale di 72 battute (circa 1’).

Elettra
Tu! Tu!
Sei forte!
(attaccata a lei)
Sei così forte! T’hanno
fatto robusta le virginee notti.
In ogni membro hai forza!
I tuoi tendini sono di un puledro,
agili sono i piedi.
Come agili e flessuosi –
senza sforzo li abbraccio –
sono i tuoi fianchi!
Nei pertugi ti insinui, tu sai sollevarti
per le finestre! Ch’io ti senta le braccia:
come sono fresche e forti! Se mi respingi,
sento che braccia sono queste. Ciò che stringi
a te, tu potresti schiacciarlo. Tu potresti
soffocare me o un uomo tra le tue braccia.
C’è forza in ogni membro!
Erompe come un freddo
sotterraneo torrente dalla roccia. Scorre
nell’onda dei capelli sulle salde spalle.
Sento dalla freschezza della pelle
il calore del sangue, con la guancia
sfioro il tenue velluto delle braccia!
Sei solo forza e sei bella,
sei un frutto nei giorni del raccolto.
Crisotemide
Lasciami!

b) da #89a a #102a della partitura, per un totale di 120 battute (circa 1’45”).

Crisotemide (chiude gli occhi)
No, sorella.
Non dire queste cose in casa nostra.
Elettra
Oh sì! Più che sorella io ti sono
da questo giorno in poi: io t’ubbidisco
come una schiava. Quando avrai le doglie,
presso al tuo letto resto giorno e notte,
scaccio le mosche, attingo l’acqua fresca,
e quando a un tratto una creatura viva
sul nudo grembo sta, nostro sgomento,
in alto la sollevo, così in alto
che il suo sorriso giù fino al profondo
segreto abisso del tuo cuore scenda
e lì per questa luce il freddo orrore,
l’ultimo, si discioglie e in chiare stille
puoi sfogare il tuo pianto.
Crisotemide
Andiamo via!
In questa casa muoio!
Elettra (ai suoi ginocchi)
Bello hai il labbro,
quando si schiude all’ira! Dalla bocca
pura, forte, tremendo un grido certo
risplende, tremendo come il grido
della dea della morte, se ai tuoi piedi
si giace come io ora.
Crisotemide
Di che parli?
Elettra (si alza)
Prima che me tu lasci
e questa casa, devi farlo!
Crisotemide (vuole parlare)
Elettra (le chiude la bocca)
Altra
strada non c’è che questa. Non ti lascio,
se prima bocca a bocca non mi giuri
che lo farai.

c) da #104a a #108a della partitura, per un totale di 36 battute (circa 30”).

Crisotemide (si divincola)
Lasciami stare!
Elettra (la riafferra)
Giura,
verrai stanotte ai piedi della scala,
quando è silenzio tutto!
Crisotemide
Lascia!
Elettra (la tiene per l’abito)
Donna,
non rifiutarti! Il corpo tuo di sangue
non macchierai: dall’abito imbrattato
nelle vesti nuziali intatta entri.
Crisotemide
Lasciami!
Elettra (sempre più incalzante)
Non esser vile! Se ora
il tuo brivido vinci, avrai compenso
di brividi d’amore notti e notti –
Crisotemide
Non posso!
Elettra
Sì, verrai!
Crisotemide
Non posso!
Elettra
Guarda,
giaccio davanti a te, ti bacio i piedi!
Crisotemide
Non posso!
(Scappa dentro la porta della casa.)
Elettra (le urla dietro)
Maledetta!

Questi tre tagli sul piano strettamente musicale ci privano di alcuni splendidi passaggi, e al contempo mutilano non poco l’evocazione della morbosa, quanto interessata, attitudine di Elektra verso la sorella minore: ci troviamo ammirazione quasi erotica, perfida adulazione e promesse di felicità e di aiuto, in cambio della complicità nell’uccisione di madre e concubino. Insomma, tutte caratteristiche salienti della complessa personalità della protagonista che questa amputazione fa abbastanza sfumare, se non proprio scomparire. Fra l’altro, sul piano drammatico, la stessa imprecazione finale di Elektra finisce per diventare affrettata e meno giustificata, in assenza di tutto quel crescendo di pressione cui invano la sorella era stata sottoposta.

3. Incontro Elektra-Orest: da 7 battute dopo #166a a #171a, per un totale di 33 battute (circa 1’5”).

Elettra (con un grido)
Oreste!
(pianissimo, tremante)
Oreste! Oreste! Oreste!
Non si muove nessuno! Gli occhi tuoi
lascia ch’io guardi, sogno, visione
a me donata, più bella dei sogni!
. . .
Vedi, fratello? Tutto ciò che ero,
io l’ho sacrificato. Il mio pudore
l’ho offerto, il pudore che è più dolce
di tutto, che come un velo lunare
di argenteo chiarore cinge ogni donna
e lei difende e l’anima sua
da ogni vergogna. Vedi, fratello?
Donare al padre ho dovuto la dolce
trepidazione. Non credi che quando
gioivo del mio corpo, non salivano
i suoi sospiri, non saliva il gemito
fino al mio letto?
(con mestizia)
Sì, sono gelosi
i morti: ed egli mi ha mandato l’odio,
l’odio dagli occhi vuoti, come sposo.
Così mi sono fatta profetessa
e da me, dal mio corpo nulla ho tratto,
nulla se non imprecazioni e angoscia!
Perché mi fissi spaventato? Parla!
Parlami dunque! Tremi in tutto il corpo?

Qui perdiamo invece un particolare importante del morboso e ambiguo rapporto di Elektra col padre, che spiega i disturbi psicotici della donna (che erano studiati dalla psicanalisi proprio negli anni della composizione dell’opera) e soprattutto l’immanente presenza (sia pure soltanto in… musica!) di Agamemnon in ogni angolo dell’opera. E lo stesso regista - alla fine delle sue note apparse sul programma di sala - cita il passaggio tagliato (e con apparente rammarico!) proprio per sottolinearne la valenza psicologica.
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Ciò mi dà lo spunto per qualche considerazione sulla regìa. Della professionalità e delle indiscusse capacità di Chéreau di creare emozioni non è certo il caso di discutere. È invece lecito avanzare qualche dubbio su certe sue, diciamo, trovate, che paiono della serie famola strana.

Allora: il sangue. Chéreau, già prima che incominci la musica, ne fa sparire anche le ultime labili tracce, sparse in giro su scale e cortile, mostrandoci le serve che le cospargono di sabbia. Nessuno pretende di vedere (come è capitato altre volte) scene raccapriccianti con docce di sangue sul palcoscenico, e del resto basta leggere il libretto per constatare come di sangue soltanto si parli, ma non lo si veda giammai. Ecco che invece il regista decide di mostrarci i due omicidi (di cui nel libretto abbiamo soltanto notizia da urla strazianti di Klytämnestra ed Aegisth provenienti dall’interno del palazzo) in primo piano: col cadavere della regina trascinato all’aperto da Orest e poi con il truce, disgustoso e verista accoltellamento dell’usurpatore da parte del precettore (?) del medesimo Orest. Davvero non è un bel servizio fatto alla coppia Hofmannsthal-Strauss!

Che dire della scure (quella con cui fu assassinato Agamemnon) che Elektra ha gelosamente conservato - come ha rivelato alla sorella - seppellendola vicino ad una delle porte della reggia? Il relativo Leit-motiv si ode nientemeno che all’undicesima battuta della partitura, però come per il sangue, anche della scure sentiamo soltanto parlare a più riprese da Elektra ma mai la vediamo. Nemmeno allorquando lei cerca di disseppellirla (allo scopo di usarla personalmente contro madre e concubino) dopo il rifiuto della sorella a farsi complice della vendetta e si mette furiosamente a scavare proprio mentre arriva Orest. Distratta dall’intrusione del (non ancora agnito) fratello, lei dimentica l’ascia e se ne ricorda quando è troppo tardi (Ich habe ihm das Beil nicht geben können!Invece Chéreau, in un impeto didascalico, ci mostra Elektra che recupera la scure, la libera dalle bende in cui era avvolta in modo che tutti la possano chiaramente vedere, e però subito la rinasconde (mah…)

Un’altra gratuita libertà che Chéreau si prende riguarda l’arrivo di Orest presso Elektra: nell’originale ciò avviene solo al termine del confronto fra le due sorelle, chiuso dal disperato Sei verflucht! Nun denn, allein! della protagonista. Invece il regista ci mostra Orest, seduto nella penombra, assistere a pochi metri di distanza a tutto il dialogo fra le sorelle, dal quale dovrebbe a questo punto ed in modo inequivocabile scoprire l’identità di Elektra, il cui nome viene ripetutamente fatto da Chrysothemis. Ma ciò contrasta in pieno con quello che accade subito dopo, quando Orest – come da libretto - mostra di non riconoscere per nulla Elektra!  

Anche il finale lascia perplessi: Orest nell’originale non si vede proprio, ma in compenso Chrysothemis ce ne parla come di un eroe portato in trionfo e letteralmente issato sulle spalle dai suoi fedeli. Chéreau invece lo fa entrare in scena e poi uscire da solo, con atteggiamento disgustato, ignorato da tutti. (?)

Quanto ai singoli personaggi, al di là della maestrìa con cui il regista li fa muovere, mi sentirei di criticare la sua Klytämnestra. Ecco come Hofmannsthal ce la presenta:  La regina è sovraccarica di gemme e talismani. Le braccia sono piene di monili. Le dita sono rigide di anelli. E Strauss letteralmente si supera nell’evocare tutto ciò in musica: il Leit-motif dei talismani magici erompe al #177 della partitura, subito prima dell’esternazione della regina (Ich habe keine guten Nächte). È il flauto, accompagnato dai tintinnii del glockenspiel e dagli accordi arpeggianti delle… arpe (qui si anticipa il Rosenkavalier!) a presentarci l’assurda quanto appariscente bardatura di Klytämnestra. Che però Chéreau minimizza, limitandosi ad una collana da bigiotteria elegante e a diversi anelli, su un abito altrettanto sobrio indossato da una donna dai tratti nobili ed apparentemente equilibrata; ed eliminando il bastone su cui si dovrebbe sorreggere la barcollante e nevrotica regina nell’originale.

Se devo citare invece il  momento più riuscito di tutta la rappresentazione, questo è la scena dell’incontro fra madre e figlia che per un momento – splendidamente sottolineato dalla musica di Strauss – esternano i reciproci sentimenti, e dove Elektra ha l’unico sussulto di amor filiale: perché, come acutamente scrisse uno dei massimi esegeti straussiani, Richard Specht, nel suo saggio sull’opera (1921) l’odio di Elektra (verso la madre) è amore pervertito.
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Peduzzi mi sembra uno che porta sempre lo stesso abbigliamento a Capodanno, Pasqua, Ferragosto e SanMartino: ha al massimo il 50% di probabilità di azzeccarci con la stagione. Così le sue scene vanno bene per questa Elektra, come andarono benissimo per la Casa di morti; ridicole invece furono per Tristan, Carmen e Tosca, per citare solo opere viste qui al Piermarini.

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Allego infine un saggio del sommo Quirino Principe su Strauss (una specie di bigino del ponderoso volume dello stesso Autore) apparso su Musica&Dossier del marzo 1988.