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31 gennaio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°19

 

Ancora Mahler a riempire di suoni lo splendido ambiente dell’Auditorium. Dopo la trionfale Seconda di Axelrod, ecco la cosiddetta Tragica. A proporre la quale si aspettava con grande interesse e simpatia il ritorno di Vladimir Jurovsky, che con laVerdi anni fa compì importanti passi verso la notorietà, ma purtroppo un acciacco di stagione gli ha rovinato la rimpatriata. A sostituirlo, comunque degnamente, è arrivato un sollevantino itinerante, il 57enne Eiji Oue (di cui dovrò purtroppo… sparlare).    
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La sesta è una sinfonia su cui ancora gravano incrostazioni di varia natura, sia di carattere estetico (create a suo tempo, queste, dai ripensamenti dell’Autore su aspetti peculiari della partitura) che extra-musicale, alimentate da Alma più per tornaconto proprio che per illustrare la memoria del marito. Lo stesso nick affibbiato al lavoro è assai discutibile, benché abbia radici in espressioni usate dall’Autore in persona: se bastasse la conclusione in minore a spiegarlo, allora bisognerebbe chiamare tragica anche la K550 di Mozart e la Abschied di Haydn.  

Come io personalmente la vedo, l’ho scritto  già anni fa, in occasione di una memorabile performance della LSO con Harding alla Scala. Ma assai meglio e più autorevolmente ne parla Ugo Duse, in questo passo del suo fondamentale testo su Mahler:


Ad ulteriore integrazione informativo-culturale, ecco qui un interessante lavoro di Paolo Petazzi su Mahler, comparso a settembre 1989 su Musica&Dossier.
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In questa esecuzione si torna, quanto a successione dei tempi, all’ultima metà del secolo scorso (la contestata Edizione critica di Erwin Ratz, basata sulle inaffidabili dicerie di Alma, che Mengelberg si era bevuto): lo Scherzo è infatti eseguito in seconda posizione e l’Andante in terza (questa fu la primissima decisione di Mahler, peraltro revocata già prima della prima, poi forse, ma non è affatto certo e comunque mai fu dall’Autore ufficializzato, ripensata ancora…) In questa configurazione la struttura della sinfonia si avvicina abbastanza a quella della precedente Quinta, con due poderose sezioni esterne (35-40 minuti la prima, 30 la seconda) separate da quella centrale più leggera e (relativamente alle usuali dimensioni mahleriane) più breve, circa 15 minuti.

Ad un ascoltatore medio, poco addentro a questioni di filologia e di estetica musicale, che effetto fanno queste diverse scelte? Per dire, se un pazzo rappresentasse la Bohème invertendo l’ordine fra secondo e terzo quadro, anche un neofita della lirica darebbe in escandescenze e chiederebbe il rimborso del biglietto, e pure i danni… ma qui? Cosa cambia nel profondo significato della narrativa, se si invertono i due movimenti interni della sinfonia? E chissà quale profonda riflessione filosofica ci sta dietro? Visto che l’Autore non ce l’ha esplicitamente chiarito, dobbiamo allora concludere che anche i filosofi in circolazione si dividono (come sempre) in opposte correnti di pensiero…  

Quanto alla supposta e sbandierata tragicità, nel Finale Mahler arriva alla battuta 772 (sulle 822 totali) con una scala di LA maggiore che potrebbe benissimo chiudere la Sinfonia in gloria, invece che in tragedia. In fin dei conti lo stesso Mahler conclude la sua Seconda in MIb maggiore al posto dell’iniziale e funerario DO minore… Ah già, lì c’è il testo di Klopstock che spiega tutto, parlando di resurrezione e non di morte, ma che dire della Quinta e della successiva Settima, aperte in minore (DO# e SI) e chiuse in maggiore (RE e DO)? Per non parlare della tradizione, della Quinta di Beethoven, che parte in DO minore e chiude in maggiore, precisamente come la Quarta di Schubert e la Prima di Brahms. E la Nona beethoveniana, la Terza di Bruckner, la Quarta di Schumann e l’unica di Franck: non partono forse in RE minore per chiudere in maggiore? E la mendelssohniana Scozzese principia in LA minore e finisce in maggiore, giusto? Così come la Nona di Dvorak si apre in MI minore per chiudere in maggiore.

In analogia alla Sesta mahleriana troviamo invece, oltre alle due sinfonie citate all’inizio, anche la Quarta di Brahms, che nasce e muore in MI minore (senza che a nessuno venga in mente di chiamarla tragica); così come la Patetica ciajkovskiana, con il SI minore. Ma qualcuno si sarebbe sentito imbrogliato se fossero state chiuse da due code rispettivamente in MI (o SOL) e SI (o RE) maggiore?

Ora, sarà un caso che la Sesta sia l’unica delle dieci sinfonie di Mahler a chiudere in minore? O c’era semplicemente il bisogno di togliere lo zero da una casellina del proprio catalogo? Mah…

Tornando alla scelta della versione, quella odierna per fortuna non si è tirata dietro anche il ripristino della terza martellata (a battuta 783 del Finale). Essa (eseguita anche alla prima di Essen) era poi stata espunta da Mahler, chi dice per ragioni estetiche (eccerto, come no!) chi per ragioni… scaramantiche (ecco, probabile). Fatto sta che nel manoscritto originale di colpi di martello pare se ne trovino addirittura cinque (ma sì, abbondiamo, con tutta la fatica che ci vuole per fabbricare l’arnese e il cassone su cui abbatterlo!) In realtà, a voler fare i pignoli e un po’ anche gli impertinenti, se le martellate rappresentassero le future disgrazie capitate a Mahler, allora dovrebbero essere quattro: alle tre elencate post-mortem da Alma (la scomparsa di Putzi, l’allontanamento dalla Hofoper e la diagnosi della disfunzione cardiaca) ne andrebbe aggiunta una quarta, e di quale importanza: la crisi del rapporto coniugale (ma certo su questa la disinvolta Alma preferiva sorvolare…)

Di nuovo, cosa dobbiamo pensare? A ridicole considerazioni e ripensamenti sul non-c’è-due-senza-tre? In una Sinfonia? E comunque, che differenza fa che le martellate siano cinque, o tre o due, quando comunque tutto finisce con quel terrificante schianto di LA minore nell’intera orchestra, seguito dai lugubri rintocchi, nei timpani, del motto che impone la… forza-del-destino?   
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Dato il dovuto spazio all’accertamento dell’identità dell’opera presentata, adesso devo ahimè sporgere denuncia contro un falsificatore di… sinfonie, che risponde al nome di Eiji Oue. Dico, non ha lasciato intatta una sola misura delle 1954 che compongono la partitura: infilandoci ad ogni piè sospinto arbitrari quanto penosi o ridicoli salti di tempo (in volgare: gigionerìe da quattro soldi) quando non addirittura modificando la lunghezza delle note, come nel caso della prima delle quattro semicrome con cui oboi e clarinetti aprono il secondo Trio dello Scherzo, da lui trasformata in una… semiminima, ottenendo così un mirabile effetto batteria-scarica (rob de matt!) E mi rifiuto di pensare che questo approccio sia stato imposto dal titolare del concerto, Jurovsky.

Insomma, già la Sinfonia si presta a facili battute e sarcasmi: figuriamoci cosa diventa se arriva uno che ne fa la parodia! Poi, magari a qualcuno piace di più il sushi che non la wiener-schnitzel, almeno a giudicare da un paio di bravo! che il mandorlocchiuto si è portato inopinatamente a casa, e vabbè…

Invece peccato per i ragazzi, che ce l’hanno messa tutta e non meritavano che la loro abnegazione venisse oltraggiata in questo modo.

27 gennaio, 2014

Clemenza in laguna


Domenica 26 alla Fenice ha avuto luogo la seconda delle cinque recite della Clemenza di Tito, nell’allestimento (ormai ultra-trentenne, 1982 LaMonnaie) dei coniugi Ursel e Karl-Ernst Herrmann, già ripreso più volte in diversi teatri, per ultimo un paio d’anni fa a Madrid.

Opera controversa, per taluni un’autentica regressione (complice lo spettro di Metastasio) su posizioni addirittura da riforma-di-Gluck, posizioni che Mozart sembrava aver superato definitivamente con Idomeneo; per altri un autentico capolavoro che nulla avrebbe da invidiare alla trilogia e alla Zauberflöte (opera cui Mozart stava lavorando in contemporanea al Tito e al Requiem).

Forse c’è un po’ di verità in entrambe le posizioni: non si può negare che il testo metastasiano (per quanto preso a mazzolate dal… Mazzolà per consentire a Mozart di farci un’opera vera) comporti fatalmente un ritorno al passato, sia come soggetto che come struttura drammatico-musicale. A partire dai recitativi secchi (interminabili e per noi davvero insopportabili, perché lì non solo non c’è proprio traccia di Mozart, essendo di Süssmayr o chi per lui, ma perchè non sono musica!) e dalle parti di Sesto e Annio affidate rispettivamente ad un castrato (oggi rimpiazzato da un soprano, o mezzo- en-travesti) e ad un soprano pure en-travesti; però ci sono pochi dubbi che la musica del Teofilo sia qui di qualità straordinaria.

In questo approfondito studio di Giuseppe Pugliese sull’opera seria mozartiana, apparso nel dicembre 1990 su Musica&Dossier, l’autore prende una posizione, diciamo… interlocutoria.

Pregevole come sempre, e ricchissimo di scienza e informazioni, il programma di sala che il Teatro ha pubblicato online già prima-della-prima! Fra l’altro vi si trovano anche i riferimenti ai testi originali di Metastasio (5 diverse edizioni della Clemenza!) editi con grande cura dall’Università di Padova. Detto di passaggio, queste – di pubblicare in rete e senza barriere di entrata, materiale di valore inestimabile – sono davvero iniziative rivoluzionarie, qualitativamente non inferiori ad altre più globali e conosciute, come Wikipedia o la Gutenberg Library, o il CVC, per citare solo qualche esempio. Ecco, chi non va all’opera solo per sfoggiare toilettes o per mettersi in mostra dovrebbe dargli almeno una scorsa.

A proposito, anche le più autorevoli strutture della cultura a volte possono incorrere in qualche (più o meno grave) svista. Quasi per caso, scorrendo la documentazione sulla Clemenza, disponibile online sul sontuoso portale-web della NMA (Neue-Mozart-Edition) ho scoperto, nella prefazione di Franz Gliegling all’edizione dell’opera, uno scambio di persona relativo agli interpreti della prima di Praga (martedi 6 settembre 1791, per l’incoronazione di Leopoldo II a Re di Boemia-Ungheria): il famoso castrato Domenico Bedini è associato al ruolo di Annio, invece che a quello di Sesto (da Gliegling attribuito al soprano Carolina Perini, che invece fu appunto Annio):

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Il plot della Clemenza è di quelli invero… indigesti (smile!) tipo Il trionfo di Clelia, per citare il primo titolo che mi viene in mente. La moglie del Re festeggiato non ebbe dubbi sul giudizio da darne (una schifezza tedesca in italiano) e anche a noi è solo la grandezza della musica che lo fa digerire. Certo, la circostanza legata alla commissione che Mozart aveva ricevuto dalla Corte asburgica – comporre un’opera per celebrare un’incoronazione - a era tale da escludere soggetti à la DaPonte o Schikaneder. Però, nei panni dell’incoronato, non mi sarei sentito troppo lusingato dal parallelo con questa specie di ingenuo sempliciotto (si noti: nel libretto, più che nella musica!) che risponde al nome del clemente Tito!     

Già il suo approccio al matrimonio lascia a dir poco esterrefatti: cambia tre potenziali candidate, come in un lista-e-spunta, in un solo atto d’opera (smile!) Poi, senza aver sospettato alcunchè (nemmeno quando gli incendiano la casa, il Campidoglio…) perdona come nulla fosse tutti i golpisti che lo volevano far secco. Insomma, un esempio di dabbenaggine, prima ancora che di clemenza.
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L’Ouverture (DO maggiore) è ripartita fra temi enfatici e solenni, legati alla regalità, e temi più agitati e sfuggenti, evocanti i diversi moti dell’animo dei protagonisti.

La buona parte del primo atto presenta vicende più adatte a costruirci una farsa, che un dramma. Ciò a causa di una serie incredibile e sostanzialmente ridicola di colpi di scena e di conseguenti contrattempi.

Si inizia con la principessa Vitellia (figlia viziatella anzichenò di un precedente imperatore di pari nome, al maschile, ovvio) che si lamenta con il suo spasimante Sesto nientemeno che della mancata attuazione di un golpe contro Tito, ohibò! Veniamo a sapere che la vivace signorina ce l’ha con l’Imperatore che lei (antistoricamente) considera l’usurpatore del trono di suo padre (detronizzato invece dal padre di Tito) e che per di più le ha preferito per moglie un’extracomunitaria (Berenice, vecchia conoscenza mediorientale del Tito spietato saccheggiatore di Gerusalemme). Sesto si mostra subito indeciso sul golpe, è troppo amico di Tito e non lo vorrebbe proprio nemmeno sfiorare. Si preoccupa più della gelosia di Vitellia per Berenice che della strumentalizzazione cui viene fatto oggetto dall’amata (roba da chiodi!)

Ora però ecco iniziare la musica.

1. Duetto Sesto-Vitellia (Come ti piace imponi): i due protagonisti principali si presentano, lui elegiaco e già sottomesso, lei superba e dominatrice. È stabilito che il golpe si faccia al più presto. Poi entrambi manifestano la loro comune ansia e le diverse lacerazioni che dilaniano le rispettive psiche.

Ma Vitellia ha appena finito di convincere Sesto ad agire, quando viene a sapere da Annio che Tito ha rinunciato alla cilicia, quindi lei torna a sperare e richiama indietro il suo spasimante che già stava a malincuore partendo per il golpe.

2. Aria Vitellia (Deh, se piacer mi vuoi): dopo aver revocato l’ordine di golpe, la principessa ha anche il coraggio di deridere Sesto e di rimproverarlo, prendendosi gioco dell’innamorato, dapprima con ammiccamenti e adulazioni, poi con severità mista ad ipocrisia.

Ora Annio e Sesto ci mostrano quanto è saldo il loro legame d’amicizia: il primo chiede in sposa al secondo la sorellina Servilia, e Sesto subito si rende disponibile ad accontentarlo, in un delizioso…   

3. Duettino Annio-Sesto (Deh, prendi un dolce amplesso): meraviglioso cammeo, questo, in cui i due en-travesti cantano la loro incrollabile amicizia e fedeltà reciproca.

Ora abbiamo la scena dei festeggiamenti a Tito, che si materializza in…

4-5. Marcia-Coro (Serbate, oh dèi custodi): è la presentazione di Tito, musica ricca di solennità senza retorica, di carattere nobile e massonico, proprio adatta alla circostanza mondana cui è dedicata.

Publio (il Ministro dell’Interno) e Annio tessono le lodi dell’Imperatore, che mostra la sua magnanimità devolvendo i fondi, che il popolo aveva raccolto per erigergli un tempio, al soccorso alle popolazioni colpite dall’eruzione del Vesuvio (e ciò è storicamente accertato). Dopodichè, conclusa una ripetizione della Marcia, rimane solo con Annio e Sesto: è il momento in cui Sesto dovrebbe chiedere, come promesso all’amico, il nulla-osta per le nozze della sorellina Servilia con Annio. Sesto però la prende alla larga, chiedendo a Tito particolari riguardo la sua rinuncia alla cilicia (Berenice) col risultato di spingere l’Imperatore a dichiarare la sua volontà di sposare… indovina chi? Servilia!

Bella frittatona hai combinato, caro Sesto! Ma Annio è ancor più sottomesso di lui al sovrano, arrivando addirittura (e masochisticamente) a lodarne ed approvarne la scelta! Come riconoscimento per avergli preso la sorellina, Tito promette a Sesto promozioni ai più alti gradi, al che il povero si schermisce, chiedendo addirittura a Tito di moderare i benefici (!) Al che il sovrano canta la sua prima…

6. Aria Tito (Del più sublime soglio): aulica e nobile, un’aria col da-capo, come da tradizione, quasi ad evocare l’autorità illuminata e la magnanimità del sovrano, la cui prima premura è di sollevar gli amici

Adesso Annio comunica la novità alla ormai ex-fidanzata, cercando – ma col cuore in gola - di farla passare per una gran notizia. Invece la ragazzina mostra le unghie, non gliene frega un fico secco di sposare l’Imperatore, lei vuole il suo Annio (dico: ma ‘sto Annio quali risorse le deve aver fatto intravedere? stra-smile!) Insomma, i due si riconciliano presto in un…

7. Duetto Annio-Servilia (Ah, perdona al primo affetto): una vera e propria scena d’amore, di sublime innocenza e soavità. Beh, insomma… innocenza fino a un certo punto, a giudicare dalla comune esternazione Più che ascolto i sensi tuoi, in me cresce più l'ardor (stra-mega-smile!) Oh, questa è del Mazzolà da Longarone, mica del cesareo!

Torniamo a casa di Tito, sul Palatino, dove il suo fido Publio gli porta una lista di sbifidi pipistrelli che tramano contro di lui. Ma l’Imperatore è clemente per natura (e per titolo d’opera!) per cui ignora e perdona ogni affronto. Arriva invece l’impertinente Servilia (mai nome fu più dissociato dalla personalità!): la sbarazzina osa comunicare all’Imperatore che qualcuno ce l’ha più lungo di lui possiede ormai il suo cuore, però se proprio l’Imperatore lo ordina, lei è disposta anche a… (vabbè). Tito è un pesce-lesso, ormai lo sappiamo, e così, invece di provare a convincerla che lui ne ha più di Annio, la esalta e la benedice, addirittura chiedendole di essere d’esempio per tutte! Poi si cimenta in una nuova…

8. Aria Tito (Ah, se fosse intorno al trono): altra aria regale, tripartita, dove l’Imperatore esalta la verità (il franco atteggiamento di Servilia) contro l’inganno.

Nel frattempo Vitellia (ancora non conosce gli ultimissimi sviluppi) è venuta a sapere che l’imperatore ha scelto in moglie Servilia e allora… contrordine del contrordine: Sesto, cazzo, stai ancora qui a poltrire, perché non ti dai una mossa e ti decidi una buona volta a fare ‘sto golpe? E questa volta Sesto parte per davvero, oddio, non senza aver prima e per fortuna nostra cantato – accompagnato ai tempi dal clarinetto del grande Anton Stadler - la più strabiliante aria di tutta l’opera e forse di tutta la produzione mozartiana…

9. Aria Sesto (Parto; ma tu ben mio): come detto, uno dei passi  più ispirati; l’incipit è deciso, ma subito la musica volge all’elegiaco. Il clarinetto obbligato accompagna i mutamenti di umore di Sesto: ora eroico e combattivo, poi subito addolcito (l’accenno allo sguardo di Vitellia). Insomma, tutto un continuo turbillon, che si chiude con arditi virtuosismi richiesti all’interprete.

Sesto è appena uscito per fare un golpe, quando Annio e Publio annunciano a Vitellia che l’imperatore la vuol vedere subito per sposarla! (ma dai…) La povera fedifraga è così interdetta da aprire un celestiale terzetto con una strofa dal testo quasi comico (Vengo… aspettate… Sesto!… Ahimè!… Sesto!… è partito?…) che solo e ancora una volta la mirabile vena del Teofilo riesce a nobilitare (chiedendo al soprano anche un RE sovracuto) prima di slanciarsi all’inseguimento del suo povero burattino per tentare (invano) di fermarlo.

10. Terzetto Vitellia-Publio-Annio (Vengo… aspettate…): mirabile evocazione dello stato confusionale che invade la psiche di Vitellia, all’annuncio della sua prossima elezione a imperial-consorte, mentre Sesto è in viaggio per sistemare per le feste… il futuro consorte! Con i due uomini che ne equivocano l’origine, addebitandola alla gioia per il privilegio ricevuto, e non alla disperazione per aver messo in moto l’infernale e ormai inarrestabile macchina del complotto. Adesso le cose si fanno però maledettamente serie, anche nel testo. Ma soprattutto nella musica.

11. Recitativo accompagnato Sesto (Oh dèi, che smania è questa!): drammatica tempesta che si scatena nell’animo di Sesto, totalmente dissociato fra la necessità dell’impresa, legata al suo folle amore per Vitellia, e la vergogna per il vile tradimento.

E così il Campidoglio brucia e Tito viene trafitto dalla spada del povero Sesto, uno sfigato a cui per la verità non ne va bene una che è una (in cambio Mozart lo gratifica della sua musica più sublime!) Il finale dell’atto – lontano le mille miglia da quelli consueti, allegri o comici o bombastici - è una vera delizia, evocando un generale stato di preoccupazione, di tristezza e (per i responsabili del disastro) di colpa: inoltre non è, come tradizione, un fermo-immagine, ma un vero film d’azione.

12. Quintetto con coro Sesto-Annio-Servilia-Coro-Publio-Vitellia (Deh, conservate, oh dèi, a Roma il suo splendor): un concertato tutta azione, tutto dramma, che ci fa vivere la fase decisiva del complotto: (Allegro in MIb maggiore) Annio che incontra Sesto senza poterne fermare la corsa verso il delitto, Servilia e Publio che sospettano la congiura, il coro in lontananza con disperate grida; (Allegro in DO minore) Vitellia che accorre in cerca di Sesto, lo stesso Sesto che torna dopo aver colpito quello che crede Tito e lo confessa a Vitellia, che gli impone il silenzio per salvare se stessa; (Andante in MIb maggiore) tutti piangono Tito, con l’atto che si chiude (su tradimento e giorno di dolor) con due sommessi accordi.

Nel secondo atto gli eventi precipitano: Annio comunica a Sesto che l’individuo infilzato durante l’incendio non era Tito, e Sesto, incredulo, gli confessa di esser lui l’autore del golpe. Vorrebbe fuggire chissà dove, ma Annio lo trattiene:

13. Aria Annio (Torna di Tito a lato): è una serena manifestazione di amicizia per Sesto, che l’amico fatica a credere responsabile del complotto  e di cui ancora non comprende fino in fondo le ragioni di tanto dolore per la morte (ora smentita) di Tito.  

Arriva Vitellia, che spinge Sesto alla fuga (più che altro per salvare se stessa dall’accusa di essere la mandante del fallito attentato. Ma in quel momento ecco Publio che annuncia che l’infilzato da Sesto non era l’imperatore, ma un altro… cospiratore (Lentulo!) che adesso, essendo sopravvissuto all’attentato (ma ‘sto Sesto allora dev’essere proprio una sega…) per salvare le chiappe sue incastra l’amico che gli aveva commissionato l’incendio.

14. Terzetto Sesto-Vitellia-Publio (Se al volto mai ti senti): Sesto viene arrestato per il fallito golpe; Vitellia si preoccupa per se stessa ma comincia a roderle dentro qualcosa che si trasformerà in pentimento più tardi; Publio ancora equivoca l’atteggiamento di Vitellia e si commuove nel dover arrestare l’amico, ma il dovere gli impone di procedere.

Siamo ora tornati alla reggia, dove ascoltiamo…

15. Coro-Tito (Ah, grazie si rendano – Ah no, sventurato non sono cotanto): coro leggero ed etereo, di ringraziamento per lo scampato pericolo. Tito come sempre sdrammatizza e si compiace del favore di cui gode presso la sua gente.

Deve iniziare uno spettacolo circense (che funge anche da esecuzione capitale, guarda un po’ l’efficienza…) e Publio sollecita Tito a recarvisi. L’imperatore però non intende farlo finchè non sarà chiarita la posizione di Sesto. Publio gli ricorda che Lentulo ha reso ampia confessione, il che coinvolge Sesto senza appello. Alle insistenze di Tito, risponde con un’aria…

16. Aria Publio (Tardi s'avvede d'un tradimento): solenne, pomposa ed enfatica, come si addice al capo dei Pretoriani, che non perde però l’occasione per un bonario rimprovero all’Imperatore, troppo portato a negare le altrui infedeltà.

Ora sopraggiunge Annio, da cui Tito spera di avere indizi sulla buona fede di Sesto, ma che si limita a chieder clemenza. Arriva invece Publio con la piena confessione di Sesto (e la conseguente condanna del Senato) il quale, accecato dall’amore per Vitellia, prende su di sé tutte le responsabilità del golpe. Annio prova a smuovere l’Imperatore, cantandogli un’aria…

17. Aria Annio (Tu fosti tradito): grave e solenne, poiché il tradimento di Sesto viene riconosciuto anche dal suo più caro amico (e… cognato); poi però la musica si addolcisce, lasciando spazio alla speranza nella clemenza dell’Imperatore.

- Recitativo accompagnato Tito (Che orror! che tradimento!): mirabile espressione della dissociazione dell’animo dell’Imperatore, fra il richiamo della giustizia e quello dell’amore per l’amico traditore.

Adesso Tito è davvero impaziente di incontrare Sesto, che sta giusto sopraggiungendo. Si canta quindi un…   

18. Terzetto Sesto-Tito-Publio (Quello di Tito è il volto!): è l’inizio del drammatico faccia-a-faccia fra attentatore e mancata vittima, con Publio che comprende e commenta lo stato d’animo di Tito. Accusato e accusatore (ma soprattutto amici!) sono in preda a tremendi moti dell’animo, che controllano a malapena.

Restati soli, i due si abbandonano allo stupore (Tito) e alla disperazione (Sesto). Segue un lungo tira-e-molla, dove Tito cerca in tutti i modi di estorcere a Sesto la verità, mentre quest’ultimo si rinserra nella sua stoica resistenza, in nome del folle amore per Vitellia.

19. Rondò Sesto (Deh, per questo istante solo): il protagonista vi canta il suo stato d’animo esacerbato, l’amore per quello che è un amico prima che sovrano, la disperazione per la propria ormai inevitabile sorte. Nasce però nelle note una lontana speranza (che risentiremo fra poco nel Rondò di Vitellia, al 23). 

Rimasto solo, Tito si risolve a condannare l’amico, in nome della legge, che non può fare sconti né differenze. Ma così bisognerebbe cambiare Titolo (smile!) all’opera e allora Tito rimedia subito e, tre secondi dopo aver controfirmato la condanna a morte comminata a Sesto dal Senato, strappa la pergamena e decide di graziare l’amico (ah, dimenticavo: Tito, Sesto, Annio, Publio, e pure Lentulo dobbiamo pensare, sono amiconi per la pelle, sembra quasi che si siano giocati il posto di imperatore con una riffa davanti a una pizza…) Publio chiama l’Imperatore per la festa circense; Tito gli nasconde la sua ultima decisione.

20. Aria Tito (Se all'impero, amici dèi): l’Imperatore espone le regole programmatiche della sua clemenza, suggellando il tutto con virtuosismi che scolpiscono le sue certezze.

Vitellia ricompare e chiede a Publio notizie su Sesto. Si convince che il suo spasimante abbia parlato, accusandola di aver tramato la congiura. Ma Servilia e Annio la convincono del contrario. Servilia in particolare la sprona ad intercedere presso Tito per il povero fratello:

21. Aria Servilia (S'altro che lacrime): la ragazzina rimprovera, con mestizia mista a dolcezza, l’insensibilità di Vitellia, che pare ancora restìa a chiedere la grazia per Sesto.

22. Recitativo accompagnato Vitellia (Ecco il punto, o Vitellia): finalmente la protagonista fa l’esame di coscienza, analizzando le possibili strade che le si prospettano. Non resisterebbe a vivere sul trono a fianco di Tito mentre Sesto si è sacrificato per colpa sua e per amor suo. Da qui la drammatica decisione: confessare.

23. Rondò Vitellia (Non più di fiori vaghe catene): è la rinuncia all’egoismo e la preparazione alla pena. Il corno di bassetto accompagna il suo canto, ma improvvisamente esplode in un tema allegro, con appoggiature, un tema che ricorda quello del Rondò di Sesto (19) e che rappresenta un barlume di speranza, ancora coltivata in fondo all’anima.  

Torniamo a Tito, che è già sul luogo della festa circense.

24. Coro (Che del ciel, che degli dèi tu il pensier): altra musica da gran cerimonia, con caratteri massonici, per onorare l’augusto sovrano.

Adesso c’è la serie di colpi di scena finale, sospesa fra il drammatico e il comico. Tito dapprima si diverte a deludere Annio e Servilia, che invano ancora cercavano di intercedere per Sesto. Poi, proprio mentre l’Imperatore si appresta a concedere platealmente e sorprendentemente il perdono a quello che considera, e pure controvoglia, l’unico traditore, riceve invece la visita di Vitellia (che lui ha convocato nientemeno che per sposarsela!) La quale, finalmente pentitasi - o chissà, sperando che la clemenza di Tito non solo le porti il perdono, ma le conservi pure il trono - gli comunica di aver scoperto il vero colpevole, gettando il povero imperatore nella costernazione (E quanti mai, quanti siete a tradirmi? Ma che giorno è mai questo! al punto stesso che assolvo un reo, ne scopro un altro!) Sembra… Totò (smile!)

25. Recitativo accompagnato Tito (Ma che giorno è mai questo!): di fronte all’inaspettata confessione della sua futura moglie, l’Imperatore rimane interdetto ed ingenuamente sorpreso.

Naturalmente tutto finisce in gloria, col generale perdono del clemente e le lodi sperticate dei sudditi.

26. Sestetto con coro Sesto-Tito-Vitellia-Servilia-Annio-Publio-coro (Tu, è ver, m'assolvi): dopo un ultimo sfogo di Sesto, che davvero fatica a ritrovare serenità, ecco il lieto fine, con i classici tre colpi in unisono sul DO dell’intera orchestra.

Insomma, una materia che se già faceva sorgere dubbi (e reazioni scomposte) persino ai tempi suoi, oggi ci fa un filino sorridere. Per fortuna il Teofilo sapeva cavar sangue dalle rape! Anzi, più che sangue… ambrosia. Non altrimenti si spiega come, di tutte le 40 e più intonazioni del testo (di Metastasio) soltanto questa di Mozart abbia resistito all’azione demolitrice del tempo e non sia sprofondata nell’oblio.   
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L’allestimento dei coniugi Herrmann fece scalpore non solo alla sua comparsa, ma anche successivamente, in particolare nel 1992 a Salzburg, dove provocò nientemeno che la reazione sdegnata, con relativo sbattimento di… porta, da parte di Riccardo Muti, come ci ricorda Amfortas nella sua sempre brillante recensione dello spettacolo.

Oggi, da una parte, ci siamo giocoforza assuefatti a certe deplorevoli proposte registiche (ce n’è di davvero orripilanti in giro) e ciò non è affatto un bene; dall’altra siamo però più aperti a giudicare in base alla sostanza e non all’apparenza, in base alla concezione che il regista porta avanti, piuttosto che da scene o costumi più o meno stravaganti. E quindi siamo (forse) più attrezzati di qualche decennio fa a valutare se l’allestimento sia coerente almeno con lo spirito, se non con la lettera dell’originale, e in particolare se sia funzionale a valorizzarne ed apprezzarne la musica, che nel teatro musicale è – val la pena ribadirlo perché non sempre ci se ne ricorda - l’ingrediente di gran lunga più importante.

Tutto ‘sto tormentone per concludere cosa? Che magari sbagliava Muti a prendersela così platealmente con gli Herrmann… Ma anche che non hanno ragione a priori tutti quei registi che si prendono le libertà più assurde.

Venendo a questa Clemenza, ho avuto l’impressione che i coniugi registi abbiano scartato le due possibili strade estreme (tradizione assoluta o rivisitazione radicale) per imboccarne una abbastanza originale. Quella della parodia: mi spiego subito, non una parodia becera e goliardica, ma sufficientemente raffinata e sottile (beh, su questo la mia vicina di posto in galleria era tutt’altro che d’accordo, al punto da prodursi in un’esternazione piuttosto colorita, alla fine del primo atto). In sostanza caricando in modo evidente (ma non smaccato, sempre secondo me) certi tratti dei protagonisti.

Ecco quindi Sesto mostrato come un povero invasato, del tutto alla mercè di Vitellia, che dal canto suo appare come un ibrido fra la carognetta e la… civetta: per dire, canta il suo Larghetto iniziale in faccia a Sesto nel mentre che riempie di moine lo stupefatto Annio, che da parte sua ha tutta l’aria di un gay (smile!) Tito a sua volta non pare proprio così… regale e papale, mostra diversi tic e complessi. Gli unici personaggi quasi normali sono il finto-truce (in realtà una pasta d’uomo) di Publio e quella gattina-morta che risponde al nome di Servilia (lei arriva in… gondola, beh siamo in laguna, ma chissà se anche a Bruxelles e Salzburg usava lo stesso mezzo di locomozione, o invece aveva la barchetta col cigno alla Monnaie e uno slittino in Austria).

Tutto il primo atto, proprio perché si presta (come ho piuttosto canzonatoriamente scritto sopra) a interpretazioni, diciamo così, leggere, scorre fra una simpatica gag e l’altra fin quasi alla fine, cioè fin quasi al quintetto conclusivo. Parlo più che altro delle parti in recitativo secco, dove la stretta e apollinea aderenza al testo rischierebbe di far addormentare, o di esasperare, o magari proprio di suscitare ilarità sguaiate. Non a caso il giro-di-boa dell’impostazione registica cade in corrispondenza del primo dei tre recitativi accompagnati, quello di Sesto sul finire della prima parte.    

Più impegnato, in ossequio al dramma, l’atto secondo, dove i registi hanno abbandonato i toni parodianti per passare a quelli seriosi, ben caratterizzando le diverse psico-crisi che esplodono nell’io-profondo di almeno la metà dei personaggi.

Efficaci e centrate le scene minimaliste, con quel tocco di neoclassico di ordinanza; belli i costumi, appropriate le luci e tecnicamente raffinata la direzione del livello attoriale degli interpreti.  

Ergo non posso personalmente che plaudire qui, come applaudito ho in loco.
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Applausi altrettanto convinti (attenzione: non tali da produrre lacerazioni cutanee!) ho riservato agli addetti ai suoni. A partire dall’orchestra (dove Vincenzo Paci non ha fatto rimpiangere… Stadler!) e dai maestri Dantone e Ferrari, il primo autore di una lettura sufficientemente rigorosa della partitura (gli perdono quelle impercettibili pause che ha infilato rispettivamente prima delle minime MI e SOL nelle battute iniziali dell’Ouverture - e nella relativa ripresa - la classica pisciatina di… Dantone, smile! perché si sappia che di lì c’è passato lui). La Ferrari va lodata per lo stoicismo dimostrato nel supportare adeguatamente quegli interminabili recitativi secchi che costringono fatalmente i registi a inventarsi trovate di ogni genere, per mantenere alta l’attenzione del pubblico.

Monica Bacelli sostituiva un… castrato (stra-smile!) e devo dire che non lo ha fatto rimpiangere (tanto chi ha mai sentito un castrato cantare, al giorno d’oggi?) Per insistere con le battute, mi è parsa ben in palla (aridaje…) con questa parte tormentata al massimo. Non parliamo poi di come ha assecondato a meraviglia le direttive registiche.

Carmela Remigio non ha ovviamente difficoltà a spiccare i sovracuti (come il suo RE) e bene ha fatto in generale, salvo qualche difficoltà a far udire chiaramente i LA e SOL gravissimi che Mozart le infligge.

Il Tito di Carlo Allemano ha la positiva caratteristica di una voce quasi da baritenore, il che conferisce al personaggio quel peso musicale che la coppia Metastasio-Mazzolà aveva stentato a dargli nel testo. L’imperiale presenza fisica non lo ha salvato da qualche gag impostagli dai registi. 

Su livelli dignitosi Raffaella Milanesi, brava a rivestire il carattere di Annio della modestia (in senso positivo) che lo contraddistingue. Servilia era Julie Mathevet, anche lei adattissima alla parte, nel canto un po’ pigolante come nelle mosse da educanda. Publio era Luca Dall’Amico, che ai miei orecchi ha meritato assai, così come il coro di Claudio Marino Moretti.
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All-in-all, come dicono i bocia in laguna, uno spettacolo meritevole di plauso.

25 gennaio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°18

 

Ancora Axelrod sul podio dell’Auditorium per un altro appuntamento di quelli (in senso nobile) pesanti. Dopo il colossale Heldenleben straussiano della scorsa settimana, ecco la monumentale Seconda mahleriana.   

Concerto dedicato alla memoria di Claudio il Grande, autentico alfiere della renaissance mahleriana (iniziando proprio dalla Auferstehung) qui a Milano, alla Scala, come nel mondo intero.  

Opera composta a rate addirittura lungo 6 anni (1888-94) e quindi coeva dei primi poemi sinfonici di Strauss (Don Juan è dell’89 e Till del ’95): un po’ a somiglianza della prima, nacque come poema sinfonico (la Totenfeier) e poi fu promossa, tramite aggiunte successive di altri quattro tempi (di cui due mutuati da precedenti Lieder) al rango di sinfonia. Ma non sto qui a ripetere cose già scritte, per cui se qualche masochista vuol sapere cosa pensavo (e penso tuttora) di quest’opera può leggere le mie elucubrazioni, scritte proprio in occasione della sua ultima (ma ormai vecchia di più di 3 anni) esecuzione da parte de laVerdi.

Più interessante può essere sapere come l’ha diretta Axelrod: per me in modo assolutamente convincente. Intanto per il pieno rispetto dei tempi: lui, che pure fu allievo di Lenny Bernstein, evidentemente non ne condivide gli… eccessi, e ciò gli fa onore. Poi per la squisita leggerezza con cui ha proposto l’Andante moderato, prosciugandone al massimo i suoni fino a ridurlo quasi ad un quartetto. E la magistrale resa dell’aspetto parodistico della Predica di SantAntonio.

Una piccola libertà se l’è presa in Urlicht, facendo imbracciare a Santaniello un violinetto di strada (proprio quello che Mahler prescriverà, accordato più in alto del normale, per il secondo movimento della sua quarta) ad accompagnare la seconda strofa del Lied: una trovata tutto sommato abbastanza intelligente, dato il contesto.

Impeccabile anche il Finale, impreziosito dalla prestazione del coro di Erina Gambarini, meraviglioso nell’incipit sulla soglia dell’udibilità dell’Auferstehung. Onorevoli le prestazioni delle due soliste, la veterana dell’Auditorium Maria Josè Montiel (con cui Axelrod ha condiviso… un bicchiere d’acqua, smile!) e la siberiana Eteri Gvazava.

Successo trionfale con minuti e minuti di applausi per i ragazzi, per i quali ormai gli elogi si sprecano, e ripetute chiamate per i protagonisti.

22 gennaio, 2014

A Bologna il Parsifal truccato da Castellucci


Eccomi a raccontare del Parsifal bolognese. Visto la sera successiva al giorno della dipartita di quel bolognese d’adozione che rispondeva al nome di Claudio Abbado.



Prima dell’inizio, Nicola Sani ha ricordato il Maestro e annunciato un desiderio del nipote, Concertatore di questo Parsifal: un minuto di silenzio prima dell’inizio e nessun applauso nei due intervalli (come del resto si faceva nella Bayreuth dei tempi d’oro).

Lo spazio e il tempo

È davvero deprimente constatare il livello di ignoranza distribuita che caratterizza la nostra civiltà. Ignoranza che si manifesta sotto forma di leggerezza, approssimazione e in sostanza menefreghismo rispetto agli oggetti di cui si deve trattare.

Zum Raum wird hier die Zeit (Il tempo qui si fa spazio). Un verso topico del Parsifal, cantato da Gurnemanz nel primo atto al momento, per lui e per il ragazzo folle, di avviarsi verso il tempio del Gral.

Un verso impiegato proprio da Claudio Abbado a fondamento di un ciclo di rappresentazioni di Parsifal alla Philharmonie di Berlino nel 2001-02 e ripreso sul blog dei suoi fedelissimi. E usato dal Teatro Comunale di Bologna come sottotilolo al volantino elettronico (e anche del libriccino stampato) di annuncio della stagione. Un verso richiamato dal protagonista bolognese di Parsifal sul suo blog, dove ha dedicato a questa produzione una lunghissima e per certi versi illuminante serie di post già in occasione delle recite a Bruxelles).

Notato nulla di strano nella traduzione italiana (e inglese, per Richards) dei tre riferimenti? Il puro e semplice capovolgimento del concetto! Ecco, i traduttori e soprattutto i responsabili delle pubblicazioni di quella scellerata traduzione sono la testimonianza palese della suddetta ignoranza distribuita.  
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Può darsi che Wagner, per la sua allegoria, si sia ispirato ad Eraclito e Parmenide, per cui l’entrata nel Tempio del Gral rappresenta il passaggio dal tempo (il divenire di Eraclito) cioè il mondo sensibile, materiale, prosaico, caduco, allo spazio (l’essere di Parmenide) uno stato definitivo, immobile e ineffabile, dove il tempo si dilata fino a scomparire; in altre parole l’eternità, la trascendenza, il metafisico.

Ma possiamo anche pensare che Wagner abbia anticipato di un quarto di secolo… Albert Einstein!

Kein Weg führt zu ihm durch das Land, und niemand könnte ihn beschreiten, den er nicht selber möcht' geleiten (Al Gral via non è, che conduca attraverso il paese: nessuno mai percorrerla potrebbe, che egli stesso non volesse guidare). Cioè: non ci si muove verso il Gral, ma vi si è risucchiati! E infatti così osserva lo stupefatto Parsifal: Ich schreite kaum, doch wähn' ich mich schon weit (Cammino appena, eppur mi sembra già d'esser lontano). E qui Gurnemanz gli aveva dato quell’apparentemente criptica risposta sul tempo che si fa spazio.

Oggi noi conosciamo il Paradosso dei gemelli (qui, da 4’55”, spiegato anche da Crozza-Zichichi): quello dei due che viaggia ad altissima velocità nello spazio e poi torna sulla Terra è invecchiato meno di quello che se ne è stato in poltrona a casa sua. Perché la teoria della relatività ci spiega che il tempo è una variabile dipendente (dal sistema di riferimento) e che quello del gemello viaggiante rallenta, si dilata. In un certo qual modo si potrebbe dire che per lui – come per Gurnemanz e Parsifal, risucchiati dalla potenza del Gral - il tempo diventa spazio

Ecco un bello spunto per un regista che volesse davvero mostrarci un Parsifal innovativo!
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Invece qui abbiamo a che fare con un Parsifal di cui, per la verità, già si sapeva tutto (a mezzo DVD) a livello di allestimento, ormai… stagionato per ben tre anni, dal debutto nel 2011 a La Monnaie di Bruxelles, accolto mediamente da peana per il regista e da osanna per la direzione musicale. Qui a Bologna il regista è sempre lui, mentre è quasi tutta nuova la compagine dei Musikanten, tranne (per la verità) proprio i due protagonisti.

A leggere come Castellucci ha approcciato Parsifal (lo scritto compare anche sul programma di sala) vengono… i brividi (smile!) Illuminante – ancor più delle Note di regìa - è questa intervista in cui Castellucci racconta la sua vision del dramma. Un put-pourri di banalità, tipo l’opera preferita di Hitler e di idee ardite, tipo il sangue è quello mestruale (certo Wagner in materia era assai più ferrato di Nietzsche, smile!) Poi: Parsifal non è un eroe, perché non fa niente (dimenticando le imprese che il ragazzo compie prima di arrivare a Monsalvat - abbattere giganti, nientemeno! - e soprattutto l’autentica carneficina che il nostro provoca sulle mura del castello di Klingsor!) Poi ecco che il pitone bianco si è mangiato la colomba, con elencazione di tutti i significati del pitone albino nella storia e nell’arte… (peccato davvero che Wagner non ci abbia fatto mente locale – e sì che ha messo una cintura di pelle di serpente addosso a Kundry - ma Castellucci è qui apposta per rimediare alla svista). E poi comico velleitarismo (ho studiato l’opera troppo a fondo…) seguito da involontarie ammissioni (…poi l’ho rivoltata come un calzino). Interpretazioni cervellotiche (Kundry è in grado di guarire Amfortas) e palesi contraddizioni (Kundry cerca sinceramente l’amore di Parsifal e per averlo… lo inganna).

Insomma, eccone un altro che ti dice: Oh, mica vorrai sorbirti per l’ennesima volta quella boiata pazzesca del Parsifal di Wagner! Vieni mo’ qua, che te lo do io il Parsifal giusto! (stra-smile!) Naturalmente nell’intervista ci sono anche considerazioni del tutto condivisibili (e ci mancherebbe anche!) che però all’atto pratico (ciò che si vede in scena) vengono più che altro sconfessate.

Più organiche e strutturate, anche se criptiche la loro parte, oltre che fondamentalmente irrispettose della lettera (come minimo) del dramma wagneriano, sono le considerazioni esposte, sempre sul medesimo documento, dalla drammaturga Piersandra Di Matteo. L’impressione che se ne ricava – e sarà in pieno confermata dai fatti – è di una ossessiva ricerca di un’interpretazione innovativa e, per lo spettatore, stupefacente, del dramma di Wagner. Il che porta ad una fatale sovraesposizione di concetti, idee e persino di simboli, qui introdotti in gran dovizia, dopo aver buttato nel cesso (avendone dottamente teorizzato e giustificato la rimozione!) il Gral e la Lancia, il Cigno e la Colomba: Nietzsche, il pitone, il cerchio-specchio, la bacchetta da Kapellmeister di Klingsor e gli ingredienti venefici da lui impiegati, i kalashnikov imbracciati dalle fanciulle-fiore, le scritte sul muro, le funi rosse (o bianche), l’arbustello del terzo atto, tanto per citarne solo alcuni.

I cardini essenziali del dramma, così come fissati da Wagner, vengono bellamente rimossi se non addirittura sconfessati. Magari per dare il massimo risalto – con trovate spettacolari e intelligenti di per sé – ad aspetti che poco hanno a che fare con l’essenza del dramma medesimo. Siamo sempre lì: il regista, pensando in buona fede di arrecarle valore aggiunto, costruisce una sua personale visione dell’opera, sulla quale poi crea uno spettacolo che magari sarà anche intelligente, coinvolgente, profondo, attuale fin che si vuole.

Peccato che non abbia più nulla a che fare con l’originale. E ciò che viene matematicamente penalizzato in questi casi è in primo luogo la musica. Poiché è musica – oh, parlo ovviamente di Wagner, mica del Rossini degli imprestiti, con tutto il rispetto - composta per il (e cucita su misura del) soggetto originale; e non calza più sul soggetto derivato, anzi spesso e volentieri stride maledettamente con esso. E quando in scena si vede qualcosa che fa a pugni con ciò che si sente, è la rovina. Per quanto bella, affascinante, interessante, intelligente e coinvolgente sia quella vista.

Cerco ora di esemplificare.   
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Comincio dal fondo, perché è l’aspetto più importante della questione, di una semplicità proprio cristallina. Dico: qualunque lettura del testo, anche la più strampalata e ardita, e soprattutto qualunque interpretazione della musica (quelle celestiali 54 battute tutte in maggiore, accuratamente depurate - si noti bene! - da ogni e qualsivoglia precedente traccia di dolore, su cui cala il sipario) indipendentemente da voli di colombe o di cigni o di… pitoni, non può non farci concludere che si tratti di un finale – i cui presupposti sono evidentemente gettati da tutto ciò che precede – di redenzione.  

Dopodichè dietro a quel termine ognuno ci metta pure tutto quel che gli passa per la testa: redenzione dal peccato originale, dal vaticano dello ior, dall’arte degenerata, dal maschilismo o dalla pedofilia, dal capitalismo selvaggio o dal comunismo reale o da alqaeda, dall’alienazione o dal consumismo, da hitler o stalin o berlusconi o... castellucci, o da tutto quer che je pare ar reggista… Ma lo scenario è quello, inequivocabilmente, tassativamente.

Ecco ciò che Wagner scrive (testo, didascalie) da vedersi mentre si odono quelle 54 battute: Raggio luminoso; abbagliante fulgore del "Gral". Dalla cupola scende a volo aperto una bianca colomba, arrestandosi sul capo di Parsifal. - Kundry, lo sguardo levato verso di lui, cade lentamente a terra esanime davanti a Parsifal. Amfortas e Gurnemanz, in ginocchio, rendono omaggio a Parsifal, il quale traccia col Gral un gesto di benedizione sui cavalieri adoranti.

Ora, diciamone pure tutto il male possibile o ridiamoci sopra a crepapelle, ma questa è la conclusione che Wagner dà al suo dramma, punto. Se non ci piace, possiamo benissimo far a meno di ascoltarla, di vederla e di… metterla in scena. Castellucci, che ha sciorinato per quattro ore e passa una magistrale sapienza nell’uso delle luci, ci fa vedere qui l’esatto contrario (a proposito di calzini rivoltati!) di ciò che Wagner prescrive. E non parlo certo della mancanza della colomba (possiamo davvero fare a meno di simboli materiali – pitone compreso! - che generano più equivoci che altro) ma qui abbiamo il palcoscenico che si svuota progressivamente delle moltitudini che lo avevano invaso e piomba nell’oscurità mentre le luci piene si accendono in sala…
  
Parsifal? Lui resta solo come un cane, abbandonato da tutti, per ultima da Kundry: cioè resta lì precisamente come alla fine del primo atto - quando nulla aveva capito di ciò che era accaduto dinanzi ai suoi occhi e Gurnemanz gli aveva dato dell’oco - proprio come se nulla sia accaduto nel frattempo! E ciò mentre dall’orchestra sale quella musica che invece ci dice, con la forza espressiva che solo Wagner sapeva infonderle, che tutto è cambiato, per Parsifal e per l’Umanità! Musica quindi mirabilmente funzionale alla scena così come immaginata da Wagner, musica che diventa invece del tutto incomprensibile se associata a ciò che ci mostra Castellucci.

E quindi chiunque – si chiami pure Castellucci o Bieito o Schlingensief o Konwitschny o Berghaus, tanto per andare un po’ a ritroso nel tempo – mi mostri una conclusione del dramma in termini pessimisti, o addirittura nichilisti, o anche semplicemente qualunquisti o agnostici, ai miei occhi fa la figura dell’emerito ciarlatano. Che pretende di presentarmi, magari ammantandole con ampie dosi di filo-psico-sociologia-un-tanto-al–chilo, le sue concezioni o le sue fisime, o le sue ardite seghe (toh, a proposito di Nietzsche, smile!) mentali. Impiegando alla bisogna – e adulterandola (ops, scusate: de-strutturandola, per rispetto del gergo del moderno Regietheater) – la materia originale che ci ha lasciato il più grande Artista di teatro musicale che la nostra civiltà abbia finora prodotto.   
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Altro esempio illuminante degli abbagli che prende il regista, nella sua smania di mostrarci quelli che per lui (non per Wagner!) sono aspetti del dramma della massima rilevanza, quindi da portare in primissimo piano, è ciò che vediamo nel secondo atto, in particolare in tutta la prima parte.

Anche un ingenuo fa presto a capire che le fanciulle-fiore, e Kundry con loro, rappresentano la mercificazione del sesso e lo sfruttamento delle qualità libido-eccitanti della donna da parte di Klingsor, il mago che le ospita nel suo castello (di menzogne) per usarle a suo profitto. E che per sottometterle possiamo certo immaginare impieghi tutti i mezzi disponibili nel suo laboratorio di mago-alchimista, che Wagner ci descrive sommariamente ad inizio d’atto. Ma domandiamoci: è proprio questa fase, diciamo così, di sadica preparazione delle ragazze al compito che le aspetta ciò di cui Wagner ci vuol parlare qui? È questa l’allegoria sottesa alla prima scena dell'atto? Prima di rispondere leggiamo il libretto ed ascoltiamo la musica. 

Allora: le ragazze-fiore sono sicuramente agli ordini di Klingsor, ma per svolgere un ben preciso lavoro. Quello di adescare e sedurre i concorrenti del loro padrone (i cavalieri del Gral) portandoli a disertare e ad ingrossare le fila del suo esercito, così da indebolire le difese di Monsalvat e consentire al mago di conquistarlo e di divenirne finalmente il signore assoluto. Per questo Klingsor le ricopre di vesti preziose e di inebrianti profumi; e per questo Wagner le riveste di una musica celestiale.

Sono sfruttate da un padrone? Sì, ma in una prigione dorata, dove possono persino godere di una vita affettiva, legate proprio a quei cavalieri da loro sedotti e che adesso sono, come loro, al servizio del loro stesso padrone. Non altrimenti si spiega il loro dolore al vedere i compagni massacrati da Parsifal lungo la sua scalata alle mura del castello; e non altrimenti si spiega il loro iniziale risentimento contro quel ragazzo che ha loro rovinato la… famiglia.

Insomma, qui ci troviamo in una specie di azienda, guidata sì da un pazzoide, il quale però non ha come obiettivo primario ed esclusivo, cioè come fine ultimo, la riduzione della donna in schiavitù, ma la conquista del mercato (comunque lo si voglia filosoficamente intendere) e che a tale fine (demolire la concorrenza) impiega come mezzo un’organizzazione di cui fanno parte (in qualità di sfruttate e sfruttati, certo, come lo sono tutti i lavoratori dipendenti in tutte le aziende di questo mondo) sia femmine che maschi.

Ecco perché Castellucci sbaglia clamorosamente (per me) quando invece pone al centro della sua interpretazione della scena l’esposizione smaccata degli atti di volgare schiavizzazione della donna e lo scempio sado-maso del corpo femminile, sostituendo alle fanciulle-fiore le fanciulle-salsiccia, che lui ci presenta mentre Klingsor - evidentemente dopo averle imbottite di tutte le sostanze venefiche che il regista ci ha elencato (patologie indotte comprese) sul sipario fra primo e secondo atto - le lega e le appende al soffitto della sua macelleria, per organizzarne l’esposizione. Così facendo, Castellucci finisce per perdere di vista il concetto fondamentale che è alla base dell’allegoria wagneriana: la posizione e il ruolo di Klingsor rispetto a Monsalvat e le profonde motivazioni che ne informano le scellerate iniziative. Insomma, vien da pensare che qui il sadico non sia Klingsor, ma… il regista (mega-smile!)

La sua, di Castellucci dico, è una scelta che lo porta contemporaneamente anche a stravolgere in modo intollerabile le caratteristiche estetiche del second’atto: sì, perché affinchè l’azione ammaliatrice e seduttrice di quelle donne possa aver successo è assolutamente necessario che tali femmine vengano appunto vestite e profumate come fossero fiori, proprio come ammaliante e seducente è la musica che le accompagna. Quello in cui Parsifal si avventura deve apparire a lui – e anche a noi spettatori, che pure, a differenza sua, siamo già edotti dell’inganno che vi si nasconde – come un ambiente idilliaco, pervaso da bellezza e amore.  (Solo più tardi anche Parsifal scoprirà che in realtà quella è una trappola gestita da un lestofante, un nemico mortale che si serve anche di donne a lui assoggettate per corromperlo e condurlo a perdizione.) Ma insomma, non è un caso se Wagner pensava ai giardini di Ravello – non ad una sala di macellazione - mentre ambientava questa scena!

Invece Castellucci ci mostra un Parsifal che è sul punto di farsi ammaliare e sedurre dalle orripilanti fanciulle-salsiccia, poi trasformate in marionette nude! Col che la scena scade addirittura nel ridicolo. Peggio ancora quando le fanciulle ritornano armate di mitra! Insomma, ciò che il (vero) mago Wagner ha immaginato e mirabilmente realizzato (soprattutto in musica, lo ripeto!) cioè la presentazione della fallacia del mondo di Klingsor, dove la contraffazione più subdola e l’inganno più bieco si nascondono dietro le apparenze più accattivanti, tutto ciò il regista lo butta nel cesso, presentandoci una scena di iper-realismo tanto crudo e ributtante quanto fuori luogo. Scena che reclamerebbe – e questo è sempre il punto fondamentale, accidenti - il supporto di una musica totalmente diversa

(A merito del regista invece va riconosciuto, e sembra paradossale, che l’immagine più iconoclasta di questa scena - la vagina esposta in primo piano - è proprio quella più pertinente al contesto dell’incontro Parsifal-Kundry.)

A proposito, mentre Kundry bacia Parsifal, che poi si ritrae inorridito, sulla zanzariera passano le immagini di un coito (uno stupro peraltro, direi). Qui abbiamo almeno due interpretazioni: la più banale, che si tratti di un didascalico riferimento (per i disattenti o i non informati) ad un precedente coito, fra la stessa signora e Amfortas. La seconda, ben più importante, che sia la risposta che da 165 anni tutto il mondo aspettava con ansia alla domanda: ma da dove è uscito fuori ‘sto Lohengrin?  

Infine, quello che tutti gli spettatori, anche i più sprovveduti, devono aver capito al volo è come mai, a un certo punto, senza apparente ragione, la macelleria scompaia nel nulla, con tutto il bendidio che conteneva. E questo è il più gran merito dell’eliminazione di tutti i simboli di Wagner…  
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Il primo atto è forse quello meno rovinato, anche se non vi mancano gratuite invenzioni e aperte contraddizioni del testo wagneriano.

Foresta ombrosa e austera, ma non tetra, così Wagner. Beh, Castellucci, in vena di rivoltare calzini, ci mostra un luogo di una tetraggine assoluta, in certi momenti non si vede letteralmente nulla. Gurnemanz&C sono ridotti a cespugli ambulanti, tanto che, a voler fare facili battute, mi vien da pensare che il regista stesse anche mettendo in scena un Macbeth e abbia per errore portato in Parsifal la scenografia predisposta per Birnam (smile!)

Al primo arrivo di Amfortas, portato al laghetto per il bagno ristoratore, Wagner compie uno dei suoi miracoli, legando mirabilmente il tema disperante del dolore (Nach wilder Schmerzensnacht, dopo una notte selvaggia di dolore…) a quello invero sbudellante del radioso mattino che illumina la foresta (…nun Waldes Morgenpracht! la selva, ora, in mattutino splendore!) Ecco, sono meno di due minuti di arte straordinaria, una delle tante perle che Wagner ci offre perché ne possiamo esteticamente e spiritualmente godere. Castellucci? Tutto come prima, fogliame impenetrabile, su cui galleggia un canotto pneumatico che attraversa la scena. Memorabile!

Non parliamo della Verwandlung, con la foresta che si… ritira in tutte le direzioni, rasa al suolo da boscaioli armati di motoseghe che lasciano, invece che il Duomo di Siena, un un letto di foglie e rami per quei quattro sfigati di Gurnemanz&C, mentre sullo sfondo vediamo una volgare raffineria: oh già, parliamo di raffinazione dello spirito! (Però tutti i record son fatti per essere ineluttabilmente battuti, quindi la Verwandlung del terz’atto sarà ancor meglio, stiamone certi!)

Nulla si vede dello scoprimento del Gral, con la scena chiusa da un velone bianco su cui campeggia una virgola, o un apostrofo, o (in notazione musicale) un segno di respiro. Né il Gral si vedrà alla fine, dato che per il regista è una non-cosa, una mancanza, insomma un vattelappesca su cui è meglio non indagare oltre. 
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Una delle conseguenze della visione sostanzialmente pessimistica del regista consiste nel cestinare senza pietà tutta la fondamentale problematica wagneriana (caratteristica non solo del Parsifal) legata alla Natura (hai detto niente!) Dopo le bizzarrìe del primo atto (Monsalvat=Birnam) e lo scempio del secondo atto (Ravello=macelleria) la cosa toccherà il suo zenit nel terzo, al momento del cosiddetto Incantesimo del Venerdi Santo.

Esso viene ridotto - da stupefacente inno alla Natura finalmente tornata ad essere tutt’uno con l’Uomo - ad un’interminabile processione di gente sbandata (Pellizza credo non gradirebbe proprio…) che marcia su un tapis-roulant. Cioè in realtà sta ferma, e si noti bene l’implicazione filosofica della cosa, a proposito di pessimismo della concezione registica e di Paradosso dei gemelli! (Nota tecnica: il nastro che è posto quasi al proscenio e occupa tutta la larghezza della scena, ha solo un paio di metri di profondità, ci camminano massimo, sfalsate, due file di persone, tutte le altre centinaia che stanno dietro si limitano ad agitarsi per simulare la camminata. Chissà chi fa più fatica?)

Sentiamo Parsifal, selon Wagner: (Parsifal si volta e guarda con dolce estasi sulla selva e sul prato, che ora rilucono in luce antimeridiana.) Oh come bello m'appare oggi il prato! Bene io mi trovai tra fior di meraviglia, che intorno a me cupidi s'attorcevan fino al capo; e pure mai io vidi sì mansueti e teneri, fiori e steli in fioritura; né mai così tutto odorò di cara fanciullezza, né così mi parlò intimo e soave!

Capita l’antifona? Qui ci sono i fiori veri, naturali, gli steli in fioritura, altro che le ingannevoli fanciulle-fiore di quel castrato di Klingsor! E Gurnemanz ci aggiunge un’autentica laude alla Natura come parte del creato, agli esseri animati che nascono, crescono e muoiono con naturale innocenza. Ma proprio mentre canta (Wagner) che in quel giorno gli uomini evitano di calpestare erba e fiori, che ti fa, l’ecologista targato Castellucci? Sradica l’unico arboscello presente in ettari ed ettari di deserto per farne una corona d’alloro a Parsifal! (Ma Greenpeace non interviene, dico io?)

Ho già anticipato della seconda Verwandlung, che qui proprio non c’è del tutto, perché surrogata dal protrarsi della finta camminata sul rullo della palestra.

In precedenza, ma solo secondo Wagner, Gurnemanz aveva continuato a parlare a Kundry, che voleva farsi in quattro per Parsifal; persino l’aveva bonariamente rimproverata quando lei aveva recato acqua per rianimarlo; poi entrambi avevano preparato il battesimo di Parsifal, che aveva baciato castamente Kundry, dopo che la donna gli aveva lavato ed asciugato i piedi.

Castellucci? Kundry scompare letteralmente dopo il suo risveglio e la rivediamo solo alla fine, quando passa a salutare Parsifal prima di aggregarsi al gregge che si allontana. Gurnemanz e Parsifal parlano al vento ed accarezzano il vuoto dinanzi a loro, con movimenti mutuati dallo yoga. Insomma: Wagner buttato nel cesso, tutta roba, avrà pensato Castellucci, degna di donnicciuole svenevoli o di novizie al convento.

Eh già, le scorie bigotte che Nieztsche rimproverava al Maestro. Qui invece il più arido qualunquismo anima quelle moltitudini marcianti verso il nulla nel più arido degli spazi urbani cementificati. Ancora una volta: per questa scena servirebbe ben altra musica, capito Wagner?       
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Ora basta buttare in vacca la regìa e parliamo appunto di cose serie: la musica!

In complesso mi sento di dichiararmi moderatamente soddisfatto: la compagnia di canto è di livello più che discreto, da Gábor Bretz, che è un Gurnemanz convincente, forse poco ieratico (secondo i miei gusti) a Detlef Roth, che capitalizza bene la sua dimestichezza con il ruolo di Amfortas, da lui portato anche a Bayreuth. Gradite sorprese (per me che partivo con qualche riserva mentale su di loro) il Klingsor di Lucio Gallo, e la Kundry di Anna Larsson.    

Arutjun Kotchinian cantava Titurel dal suo sarcofago in… loggione e non ha demeritato, come le fanciulle-fiore, a loro volta relegate ai due lati della buca, mentre sul palco si esibivano le… salsicce. Positiva anche la prestazione dei cori di Andrea Faidutti e Alhambra Superchi, peraltro quasi sempre relegati dal regista dietro sipari o quinte.

Roberto Abbado mi pare abbia superato onorevolmente questo difficile battesimo, mutuando ora da Kna (primo atto in particolare) ora da Boulez, così da… stare in media (smile!) A parte le battute, una direzione attenta, con qualche sbavatura sul fronte del fracasso che ha in qualche occasione sommerso le voci. Orchestra forse non al massimo, ma il banco di prova è davvero dei più temibili.
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Considerazioni finali: un grazie grandissimo al Teatro per l'immane sforzo organizzativo messo in campo, un vero miracolo stante la condizione pre-agonica del nostro sistema-cultura. Resta (ma questa è ovviamente la mia reazione personalissima) il rammarico per la discutibilità della proposta artistica.   
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Post scripta.

Ho già scritto anni fa della mia personale vision del Parsifal, e siccome da allora non è cambiata (non c’è riuscito nemmeno Castellucci, a farmela cambiare, smile!) rimando i milioni di curiosi a quel lontano post.

Invece consiglio seriamente a tutti di ascoltare (basta andare sul tubo) la versione in lingua italiana nell’esecuzione di Vittorio Gui del 1950 con l’Orchestra RAI di Roma (è stata anche trasmessa qualche settimana fa da RadioFD). A parte che ci si trova in Kundry una 27enne allora quasi sconosciuta (indovinare chi…) la cosa che sorprende (perlomeno che mi sorprende, essendo personalmente scettico sulle traduzioni, in specie di Wagner) è la qualità assoluta della versione ritmica di Giovanni Pozza, che non toglie nulla alla pregnanza del testo, anzi ce lo rende quasi più caldo e vicino. 

Wagner il saccheggiatore. L’incipit del tema principale di tutto il dramma (l’Agape) viene dal caro genero:

Excelsior, introduzione alla cantata Le campane del Duomo di Strasburgo (1874).