Prima
apparizione sul podio, nella stagione 13-14, per il Direttore principale John Axelrod, che
continua la sua visitazione delle sinfonie di Brahms e completa il ciclo
dedicato ai concerti di Rachmaninov.
In un gremitissimo
Auditorium si esegue del russo il Quarto ed ultimo, interpretato da Alexander Ghindin. Un’opera dalla genesi tormentata e dalla vita
piuttosto grama… (meritatamente, tirate tutte le somme.)
Concepito
ancora a ridosso del terzo, questo
quarto dovette attendere anni e anni prima di vedere la luce (1926).
E quelli furono gli anni peggiori per Rachmaninov, che era faticosamente – e
con grandi compromessi sul piano artistico – uscito dalla tremenda crisi
depressiva patita sul finire dell’800 ed ora era volontario esule da una patria
che i bolscevichi gli avevano resa invivibile, cittadino errante in un mondo
(l’Occidente) che magari lo riempiva di dollari, ma che lui intimamente
disprezzava, includendo nella sua diffidenza anche le clamorose novità che vi
nascevano in campo musicale: a Vienna (Schönberg) e Parigi (Stravinski, un suo
compatriota che però, a differenza di lui, qui da noi aveva davvero trovato…
l’america! )
Ecco perché,
più che veder la luce, il concerto vide un lumicino, come quello che i
simpatici nostri governanti ci indicano da anni baluginare laggiù, in fondo
all’interminabile tunnel della crisi (smile?)
Rachmaninov, dopo poche esibizioni in USA, accolte, ad essere comprensivi,
dalla più totale indifferenza (beh, qualcuno si spinse a scrivere che il
concerto sarebbe stato vecchio già 50 anni prima!) non fece nemmeno pubblicare
la partitura (la cosa è avvenuta solo nel 2000, quando il manoscritto originale
del compositore fu ceduto a Boosey). Questa versione è stata incisa proprio da Ghindin con Ashkenazy, in Finlandia.
Due anni dopo
(1928) Rachmaninov si decise a far pubblicare l’opera, non dopo averla un po’ rimaneggiata
(soprattutto nel tempo finale) e smagrita. (Il fatto che lui medesimo la
ritenesse smisuratamente prolissa, mentre durava poco più di 30’, la dice lunga
sul suo valore intrinseco…) Ne esiste, pare, un sola incisione, che si può
ascoltare qui, sia pur mutilata del tempo di mezzo.
Ma dopo la
riproposizione al pubblico, il lumicino, proprio come quello sul fondo del
nostro tunnel, si trasformò in… lumino da cimitero: così il compositore ritirò
l’opera dalla circolazione e non se ne riparlò per più di un decennio, fino al
1941, quando un Rachmaninov che forse non immaginava di essere ormai vicino
alla fine le diede un’altra robusta sforbiciata e un deciso maquillage (qui Benedetti
Michelangeli).
Ed è proprio quest’ultima
(delle tre) la versione che si è faticosamente trascinata negli anni fra una
sala da concerto e una di incisione, senza però mai sfondare; e che abbiamo
ascoltato ieri sera nel primo dei due appuntamenti previsti per il 6° concerto.
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Il
primo movimento (Allegro vivace, alla
breve) è di struttura quasi indecifrabile, una cosa che si avvicina più
alla fantasia o al capriccio che non alla classica forma-sonata. Al primo ascolto (ma non è
che al secondo, terzo, ecc. le cose migliorino…) appare come un pot-pourri di motivi affastellati l’uno
sull’altro, senza alcuna narrativa a giustificarne la presenza.
Sono
almeno sei le idee tematiche (più le relative diramazioni e transizioni!) che
compaiono in successione; alcune delle quali rifanno capolino in seguito, ma
senza che ciò abbia attinenza con concetti di esposizione, sviluppo e ripresa. La qual cosa per me, più che
innovazione, significa… manifesta impotenza ad esprimere in musica qualcosa di
sensato. Effetti senza cause? O cause che non sfociano in effetti? Comunque
sia, una cosa piuttosto deludente.
Nella
figura sottostante sono riportati i principali motivi di questo primo
movimento, individuati da lettere corrispondenti alla tabella successiva:
Lo
specchietto qui sotto sintetizza la struttura del movimento, nelle due versioni
del 1928 e del 1941; nella colonna tagli
sono riportate esclusivamente le modifiche apportate da Rachmaninov in termini
di accorciamento dei tempi; altre modifiche, più o meno pesanti e diffuse,
riguardano la strumentazione:
Come si
vede, i motivi ricorrono in modo disordinato, senza alcuna apparente logica
formale, il che lascia l’ascoltatore interdetto, come di fronte ad una specie
di caos.
Si noti
di passaggio come la sforbiciata più decisa del 1941 (circa il 70% delle
modifiche) riguardi la transizione nella parte iniziale del movimento.
Il
successivo Largo – che è
probabilmente la parte più nobile del
concerto - ha una struttura semplice: breve introduzione, poi A-B-A e infine
una breve transizione verso il Finale; era di sole 80 battute già nella
versione 1928 e fu ulteriormente accorciato (di altre tre, nella prima delle
tre sezioni) in quella del 1941, dove però subì anche qualche non banale
modifica.
L’incipit
del tema principale, DO maggiore, che in pratica monopolizza l’intero
movimento, essendo riproposto in ben 5 diverse tonalità, scende dalla mediante
alla tonica e ricorda ovviamente quello del famosissimo concerto di Schumann.
Sembrerà strano, ma Rachmaninov se ne rese conto solo dopo aver riguardato la
prima bella copia dell’opera, e ne scrisse stupito (!?) al dedicatario
Nicolas Medtner, quasi rimproverandogli di non averglielo fatto notare prima.
Lo
specchietto seguente riporta con un certo dettaglio la macro e micro struttura
del brano:
Qui il
taglio del 1941 è stato davvero impercettibile, mentre sono riscontrabili
alcune innovazioni di non poco conto, fra cui è il caso di citare: la
ristrutturazione delle 9 battute che nella versione del 1928 (a partire dalla
25) erano interamente affidate al solista, e che nel 1941 vennero distribuite
fra solista e orchestra, in pratica riproponendo l’approccio impiegato nella
prima esposizione del tema; poi l’inizio della sezione agitata, dove la parte del solista è stata semplificata (pesanti
accordi in sostituzione di veloci semicrome) e vi è stato aggiunto un attacco
del pianoforte (laddove c’era una pausa); poi il ritorno del tema principale
(sezione Come primo) che era esposto
esplicitamente in orchestra e poi dal solista, mentre ora è vagamente sfumato e
variato; infine è stato cambiato radicalmente il passaggio alle battute 66-72
nella versione 1928, dove il pianoforte divagava sul tema, mentre ora procede
con pesanti accordi ribattuti. Francamente è difficile trovare dei razionali
convincenti per queste manipolazioni.
L’Allegro vivace finale è il movimento
più pesantemente modificato da Rachmaninov nel 1941 (ma già l’incipit e la coda
erano stati oggetto di corpose modifiche nel 1928): vi tagliò quasi il 9% delle
battute e ne modificò un altro 32%... In particolare rivoluzionò la sezione
conclusiva, cambiandone radicalmente anche il tempo (da 2/4 a 3/4). Insomma, un
vero e proprio rifacimento!
La
macro-struttura del movimento presenta tre sezioni tematiche principali (A-B-A)
ciascuna costituita da diversi motivi, richiamati nella figura seguente:
Lo specchietto
qui sotto schematizza la struttura del movimento (di cui riporta soltanto i
tratti salienti):
Come si
vede, una prima modifica abbastanza marcata fra 1928 e 1941 riguarda l’inizio della
sezione B, dove viene introdotto dal pianoforte un motivo impertinente, poi ripreso
dopo il cantabile del solista. La ripresa
della sezione A è, come detto, in gran parte rimaneggiata.
Dopo la
riproposizione dell’Introduzione del primo movimento abbiamo la Coda, che Rachmaninov
rifece di sana pianta (esclusa la cadenza conclusiva) nel 1941 portandola, come
detto, da 2/4 a 3/4. In essa infilò anche un richiamo al motivo E del primo movimento,
enfaticamente dilatato, dando così un (facile) tocco di ciclicità al lavoro; quanto alle novità di questo finale nella
versione ultima, esse sono più che altro di natura scopertamente effettistica, e quindi non è che bastino
a risollevare le sorti del concerto.
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Ghindin, che oggi ha solo
36 anni ma ne dimostra qualcuno in più (ahilui deve odiare ogni tipo di dieta, smile!) si è impegnato allo spasimo in questo
concerto, anche con i muscoli maxillo-facciali, oltre che con le dita… ma più di tanto
nemmeno lui può fare per trasformare questo pastiche
in un capolavoro!
Così, per
addolcirci la pillola, ci regala due bis
di un Rach più abbordabile, nel primo dei quali si sente
pure un po’ di Malagueña…
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Dopo la pausa Axelrod si presenta per… incidere la Prima
di Brahms: al pubblico viene chiesta in
anticipo la massima collaborazione (leggi: limitare o evitare starnuti e scaracchi
di stagione… smile!) e in effetti non
si è sentita volare una mosca per l’intera durata della sinfonia.
Axelrod fa eseguire
– cosa rara – il ritornello del primo movimento, chissà se per fedeltà alla lettera
brahmsiana o perché poi (in studio) sceglierà quale delle due esecuzioni (anzi delle
quattro, contando la replica di domenica) immortalare sul nuovo CD…
A parte gli scherzi,
una performance pregevole, con il Direttore
che ha tenuto un aplomb davvero impeccabile
e i ragazzi che han dato il massimo in tutti i reparti: insomma nessuno si può essere
annoiato, fosse pure al centesimo ascolto di questo capolavoro immortale.