intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

26 ottobre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°6

 

Prima apparizione sul podio, nella stagione 13-14, per il Direttore principale John Axelrod, che continua la sua visitazione delle sinfonie di Brahms e completa il ciclo dedicato ai concerti di Rachmaninov.

In un gremitissimo Auditorium si esegue del russo il Quarto ed ultimo, interpretato da Alexander Ghindin. Un’opera dalla genesi tormentata e dalla vita piuttosto grama… (meritatamente, tirate tutte le somme.)

Concepito ancora a ridosso del terzo, questo quarto dovette attendere anni e anni prima di vedere la luce (1926). E quelli furono gli anni peggiori per Rachmaninov, che era faticosamente – e con grandi compromessi sul piano artistico – uscito dalla tremenda crisi depressiva patita sul finire dell’800 ed ora era volontario esule da una patria che i bolscevichi gli avevano resa invivibile, cittadino errante in un mondo (l’Occidente) che magari lo riempiva di dollari, ma che lui intimamente disprezzava, includendo nella sua diffidenza anche le clamorose novità che vi nascevano in campo musicale: a Vienna (Schönberg) e Parigi (Stravinski, un suo compatriota che però, a differenza di lui, qui da noi aveva davvero trovato… l’america! )

Ecco perché, più che veder la luce, il concerto vide un lumicino, come quello che i simpatici nostri governanti ci indicano da anni baluginare laggiù, in fondo all’interminabile tunnel della crisi (smile?) Rachmaninov, dopo poche esibizioni in USA, accolte, ad essere comprensivi, dalla più totale indifferenza (beh, qualcuno si spinse a scrivere che il concerto sarebbe stato vecchio già 50 anni prima!) non fece nemmeno pubblicare la partitura (la cosa è avvenuta solo nel 2000, quando il manoscritto originale del compositore fu ceduto a Boosey). Questa versione è stata incisa proprio da Ghindin con Ashkenazy, in Finlandia.

Due anni dopo (1928) Rachmaninov si decise a far pubblicare l’opera, non dopo averla un po’ rimaneggiata (soprattutto nel tempo finale) e smagrita. (Il fatto che lui medesimo la ritenesse smisuratamente prolissa, mentre durava poco più di 30’, la dice lunga sul suo valore intrinseco…) Ne esiste, pare, un sola incisione, che si può ascoltare qui, sia pur mutilata del tempo di mezzo.

Ma dopo la riproposizione al pubblico, il lumicino, proprio come quello sul fondo del nostro tunnel, si trasformò in… lumino da cimitero: così il compositore ritirò l’opera dalla circolazione e non se ne riparlò per più di un decennio, fino al 1941, quando un Rachmaninov che forse non immaginava di essere ormai vicino alla fine le diede un’altra robusta sforbiciata e un deciso maquillage (qui Benedetti Michelangeli).

Ed è proprio quest’ultima (delle tre) la versione che si è faticosamente trascinata negli anni fra una sala da concerto e una di incisione, senza però mai sfondare; e che abbiamo ascoltato ieri sera nel primo dei due appuntamenti previsti per il 6° concerto.
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Il primo movimento (Allegro vivace, alla breve) è di struttura quasi indecifrabile, una cosa che si avvicina più alla fantasia o al capriccio che non alla classica forma-sonata. Al primo ascolto (ma non è che al secondo, terzo, ecc. le cose migliorino…) appare come un pot-pourri di motivi affastellati l’uno sull’altro, senza alcuna narrativa a giustificarne la presenza.

Sono almeno sei le idee tematiche (più le relative diramazioni e transizioni!) che compaiono in successione; alcune delle quali rifanno capolino in seguito, ma senza che ciò abbia attinenza con concetti di esposizione, sviluppo e ripresa. La qual cosa per me, più che innovazione, significa… manifesta impotenza ad esprimere in musica qualcosa di sensato. Effetti senza cause? O cause che non sfociano in effetti? Comunque sia, una cosa piuttosto deludente.

Nella figura sottostante sono riportati i principali motivi di questo primo movimento, individuati da lettere corrispondenti alla tabella successiva:


Lo specchietto qui sotto sintetizza la struttura del movimento, nelle due versioni del 1928 e del 1941; nella colonna tagli sono riportate esclusivamente le modifiche apportate da Rachmaninov in termini di accorciamento dei tempi; altre modifiche, più o meno pesanti e diffuse, riguardano la strumentazione:


Come si vede, i motivi ricorrono in modo disordinato, senza alcuna apparente logica formale, il che lascia l’ascoltatore interdetto, come di fronte ad una specie di caos.

Si noti di passaggio come la sforbiciata più decisa del 1941 (circa il 70% delle modifiche) riguardi la transizione nella parte iniziale del movimento.

Il successivo Largo – che è probabilmente la parte più nobile del concerto - ha una struttura semplice: breve introduzione, poi A-B-A e infine una breve transizione verso il Finale; era di sole 80 battute già nella versione 1928 e fu ulteriormente accorciato (di altre tre, nella prima delle tre sezioni) in quella del 1941, dove però subì anche qualche non banale modifica.

L’incipit del tema principale, DO maggiore, che in pratica monopolizza l’intero movimento, essendo riproposto in ben 5 diverse tonalità, scende dalla mediante alla tonica e ricorda ovviamente quello del famosissimo concerto di Schumann. Sembrerà strano, ma Rachmaninov se ne rese conto solo dopo aver riguardato la prima bella copia dell’opera, e ne scrisse stupito (!?) al dedicatario Nicolas Medtner, quasi rimproverandogli di non averglielo fatto notare prima.

Lo specchietto seguente riporta con un certo dettaglio la macro e micro struttura del brano:


Qui il taglio del 1941 è stato davvero impercettibile, mentre sono riscontrabili alcune innovazioni di non poco conto, fra cui è il caso di citare: la ristrutturazione delle 9 battute che nella versione del 1928 (a partire dalla 25) erano interamente affidate al solista, e che nel 1941 vennero distribuite fra solista e orchestra, in pratica riproponendo l’approccio impiegato nella prima esposizione del tema; poi l’inizio della sezione agitata, dove la parte del solista è stata semplificata (pesanti accordi in sostituzione di veloci semicrome) e vi è stato aggiunto un attacco del pianoforte (laddove c’era una pausa); poi il ritorno del tema principale (sezione Come primo) che era esposto esplicitamente in orchestra e poi dal solista, mentre ora è vagamente sfumato e variato; infine è stato cambiato radicalmente il passaggio alle battute 66-72 nella versione 1928, dove il pianoforte divagava sul tema, mentre ora procede con pesanti accordi ribattuti. Francamente è difficile trovare dei razionali convincenti per queste manipolazioni.

L’Allegro vivace finale è il movimento più pesantemente modificato da Rachmaninov nel 1941 (ma già l’incipit e la coda erano stati oggetto di corpose modifiche nel 1928): vi tagliò quasi il 9% delle battute e ne modificò un altro 32%... In particolare rivoluzionò la sezione conclusiva, cambiandone radicalmente anche il tempo (da 2/4 a 3/4). Insomma, un vero e proprio rifacimento!  

La macro-struttura del movimento presenta tre sezioni tematiche principali (A-B-A) ciascuna costituita da diversi motivi, richiamati nella figura seguente:

Lo specchietto qui sotto schematizza la struttura del movimento (di cui riporta soltanto i tratti salienti):


Come si vede, una prima modifica abbastanza marcata fra 1928 e 1941 riguarda l’inizio della sezione B, dove viene introdotto dal pianoforte un motivo impertinente, poi ripreso dopo il cantabile del solista. La ripresa della sezione A è, come detto, in gran parte rimaneggiata.

Dopo la riproposizione dell’Introduzione del primo movimento abbiamo la Coda, che Rachmaninov rifece di sana pianta (esclusa la cadenza conclusiva) nel 1941 portandola, come detto, da 2/4 a 3/4. In essa infilò anche un richiamo al motivo E del primo movimento, enfaticamente dilatato, dando così un (facile) tocco di ciclicità al lavoro; quanto alle novità di questo finale nella versione ultima, esse sono più che altro di natura scopertamente effettistica, e quindi non è che bastino a risollevare le sorti del concerto.
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Ghindin, che oggi ha solo 36 anni ma ne dimostra qualcuno in più (ahilui deve odiare ogni tipo di dieta, smile!) si è impegnato allo spasimo in questo concerto, anche con i muscoli maxillo-facciali, oltre che con le dita… ma più di tanto nemmeno lui può fare per trasformare questo pastiche in un capolavoro!

Così, per addolcirci la pillola, ci regala due bis di un Rach più abbordabile, nel primo dei quali si sente pure un po’ di Malagueña
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Dopo la pausa Axelrod si presenta per… incidere la Prima di Brahms: al pubblico viene chiesta in anticipo la massima collaborazione (leggi: limitare o evitare starnuti e scaracchi di stagione… smile!) e in effetti non si è sentita volare una mosca per l’intera durata della sinfonia.

Axelrod fa eseguire – cosa rara – il ritornello del primo movimento, chissà se per fedeltà alla lettera brahmsiana o perché poi (in studio) sceglierà quale delle due esecuzioni (anzi delle quattro, contando la replica di domenica) immortalare sul nuovo CD…

A parte gli scherzi, una performance pregevole, con il Direttore che ha tenuto un aplomb davvero impeccabile e i ragazzi che han dato il massimo in tutti i reparti: insomma nessuno si può essere annoiato, fosse pure al centesimo ascolto di questo capolavoro immortale.  

21 ottobre, 2013

Il Simon Boccanegra di Noseda a Torino

 

Prendendo direttamente il testimone da quello di Parma, il Regio di Torino ha inaugurato la stagione con Simon Boccanegra.


Già la prima di mercoledi 9 trasmessa da Radio3 aveva lasciato (perlomeno a me) una buona impressione, che si è confermata ieri dopo l’ascolto dal vivo della penultima delle otto rappresentazioni.

Spettacolo originale di Bussotti del 1979 (!) ripreso da Vittorio Borrelli: un esempio di come si possa coniugare il rispetto quasi maniacale per il libretto con la modernità di presentazione e di interpretazione. Modernità che nulla ha a che fare con trasposizioni spazio-temporali cervellotiche, né con la ricerca (che spesso è invenzione bella-e-buona) nell’originale di chissà quali reconditi significati filosofico-politico-psicologico-esistenziali.

Credo che pochi spettatori non si siano commossi fino alle lacrime nella scena dell’agnizione Simone-Maria o in quella che chiude l’opera. Naturalmente il merito preponderante è di tale Giuseppe Verdi, basta affidarsi a lui (come ha fatto Bussotti) senza pretendere di migliorarlo per rendercelo più appetibile…

Strepitosa la prestazione delle masse strumentali e corali del Regio: un Noseda che ha tenuto in pugno buca e palco con l’autorità di sempre (ormai il mio concittadino sestese staziona di diritto nell’Olimpo dei Kapellmeister) e un Fenoglio che ha preparato nel miglior modo i suoi coristi. Credo che il Teatro torinese abbia oggi pochi rivali (in Italia, quanto meno) in fatto di standard qualitativi.

Quanto alle voci, note essenzialmente positive, ovviamente con alti e… meno alti.

Su tutti il Fiesco di Michele Pertusi, vocalmente e scenicamente impeccabile. Come quasi impeccabile è stato Ambrogio Maestri, cui purtroppo mancano, come dire, i connotati somatici per interpretare al meglio ruoli che non siano Dulcamara o Falstaff: intendiamoci, la voce c’è e come, è il portamento e persino il suo ghigno naturale che lo rendono poco plausibile in ruoli drammatici, come questo di Simone o come Amonasro, per citarne solo un altro… Anche per lui comunque, come per Pertusi, un grande successo.

Bella sorpresa (ma già in radio si era apprezzata) da parte di María José Siri, voce per me molto adatta al ruolo di Amelia-Maria, ossia abbastanza pesante (in senso positivo): dopo un avvio con qualche incertezza (in Come in quest’ora bruna) non ha fatto altro che crescere, meritandosi applausi a scena aperta e ovazioni finali.

Roberto De Biasio è stato un Adorno appena sulla sufficienza (per me, ovviamente): è giovane e deve sicuramente migliorare; tutto sta a vedere se la strada migliore per farlo siano questi impegni con l’asticella troppo alta

Convincente il Paolo di Devid Cecconi, che non per nulla fa anche Rigoletto nell’attuale produzione del Regio. Un onesto Pietro è Fabrizio Beggi.

I due ruoli decisamente minori erano interpretati da Dario Prola (Capitano) e dalla brava soprano del Coro del Regio Eugenia Braynova (Ancella) che all’ultimo momento ha sostituito la collega Sabrina Boscarato.

Senza voler avanzare paragoni (che sarebbero improponibili date le due diversissime realtà) fra l’edizione di Parma e questa di Torino, mi sento di dire che la scelta parallela dei due teatri ha meritoriamente consentito di riportare in evidenza quest’opera forse ancora troppo poco valorizzata. 

18 ottobre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°5

 

Riecco in un Auditorium strapieno il rampante-con-juicio Jader Bignamini sul podio de laVerdi per dirigervi un concerto tutto russo, ma di musicisti di… esportazione.

La prima parte è dedicata a Rachmaninov, e precisamente al famigerato Rach3 (ascoltato recentemente agli Arcimboldi dal giovane bresciano Federico Colli con Temirkanov e i suoi) qui interpretato da un altro ventunenne: il milanese Luca Buratto.

Sarà magari perché questo Rachmaninov è, come dire, più di pancia che di testa e quindi non pone all’interprete (né all’ascoltatore, a dirla tutta) problemi metafisici… fatto sta che l’esecuzione del ragazzo è stata proprio travolgente!

Intanto non si è risparmiato una sola nota (sappiamo quanto venga tagliato, col beneplacito dell’Autore, questo concerto) e si è semplicemente cautelato tenendosi lo spartito dentro la cassa del pianoforte.
   
Quanto alla cadenza del primo movimento (che per la prima parte esiste in due versioni, entrambe autografe) Luca ha optato per la seconda (indicata come ossia) che è forse la meno eseguita, ma che non è certo di difficoltà inferiore all’altra.

Meritatissimo successo e grandi ovazioni per questa bella realtà del concertismo italiano, che ci offre un bis (ancora Rach?)
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Poi tutto Stravinski: uno e… due.

Lo Scherzo fantastique è un’opera del primo periodo (russo, 1907-8). Si volge ancora indietro, a Ciajkovski e soprattutto al maestro Rimski; però ci si trovano già i germi di ciò che maturerà di lì a pochi anni (se non mesi) come l’impiego, insieme ad uno spiccato cromatismo, di scale a toni interi e di scale diminuite (o ottofoniche che dir si voglia). L’accostamento con Le Sacre (1913) è quindi assai interessante ed istruttivo.
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La composizione fu ispirata dallo scritto del 1901 La vie des abeilles (La vita delle api) di Maurice Maeterlinck (un vero esperto in materia, avendo fatto per 20 anni l’apicoltore) e in effetti ci si sente il ronzio di insetti e coleotteri (teniamo presente che a quei tempi Rimski aveva già composto il suo Calabrone…)

In tutto consta di 460 battute, suddivise in tre sezioni, più una coda, così articolate in agogica:

a) 1-167 Con moto (6/8)  
b) 168-297 Moderato assai (3/4, 9/8 e 6/8) 
c) 298-460 Tempo I Accelerando-Stringendo-Vivo (6/8)

Si noti ancora la regolarità del tempo, che ha pochissime e morbide variazioni, al contrario di quanto accadrà per le opere successive (Le sacre ha 7 cambi di tempo nelle sole prime 9 battute!)

Le tre sezioni corrispondono al programma letterario pubblicato nella prima edizione della partitura, il quale programma deriverebbe più o meno dal corposo saggio di Maeterlinck, costituito da ben 7 libri, così strutturati:

I Sulla soglia dell’alveare (8 capitoli)
II Lo sciame (31 capitoli)
III La fondazione della città (25 capitoli)
IV Le giovani regine (18 capitoli)
V Il volo nuziale (12 capitoli)
VI Il massacro dei maschi (3 capitoli)
VII Il progresso della specie (19 capitoli)

Così avremmo in Stravinski: (a) la vita dell’alveare, poi interrotta (b) dall’accoppiamento dell’ape-regina con il fuco e, dopo la morte del maschio, (c) ripresa con maggior intensità. Mentre le due sezioni estreme abbondano di cromatismi e scale esotiche, quella centrale è assai più diatonica e ci si sente persino Wagner (l’incantesimo del Parsifal e atmosfere dei Meistersinger…) oltre ad influssi dell’impressionismo di Debussy e a reminiscenze proprio di Rachmaninov (la seconda sinfonia, composta un paio d’anni prima di questo Scherzo).

Nelle due sezioni estreme abbiamo un ampio impiego degli strumentini (fra cui l’ottavino, ovviamente) per evocare l’incessante muoversi e operare degli insetti; ci troviamo anche note rapidamente ribattute, che diventeranno ossessive nel Sacre.  La sezione centrale allarga i tempi e si fa più cantabile ed elegiaca.  

Stravinski a posteriori negò di aver voluto comporre della musica a programma, pretendendo invece che fosse nata come musica pura… ma sappiamo che sulla sincerità del nostro nessuno sarebbe disposto a mettere la mano sul fuoco. Per di più su quella musica fu costruito – toh! - un balletto (proprio col titolo da Maeterlinck) e chissà che la sconfessione di Stravinski non sia legata più prosaicamente a contenziosi economici relativi a come spartire i proventi di quello spettacolo.
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Bignamini ha il merito di averci evocato un ordinatissimo alveare e non un… vespaio (smile!) facendo suonare tutti con grande leggerezza, proprio come fosse un Mendelssohn del Sogno.

Infine ecco il piatto forte della Sagra (traduzione proprio ridicola, che fa pensare a salsicce alla brace, frittura di pesce, zucchero filato e processioni con madonne pellegrine); un capolavoro che ancor oggi – a un secolo di distanza! – sa di avanguardia, di novità, di rottura.

Straordinaria prestazione dell’Orchestra in tutte le sezioni, e sicura conferma del valore di Bignamini, che appare sempre più maturo e autorevole.

Intanto uno dei padri de laVerdi pare destinato a prendere – non proprio domani mattina - il timone della Scala. Intanto sarà protagonista, con l’Orchestra che lui ha guidato per anni, di un avvenimento quasi unico per Milano: l’Ottava di Mahler (21 e 23 novembre alla vecchia Fiera). 

17 ottobre, 2013

Torna alla Scala il Don fatale

 

Sì sì, questo è un altro equivoco (come il famoso ah l’amor, l’amor è un dardo): lo so che il fatale non è DonCarlo (come però ho creduto per anni e anni… smile!) ma il fascino della Eboli che – secondo lei, modestia suprema! – la costringe a compiere azioni sconvenienti e sconsiderate. Poi, dopo il suo pentimento, canta a proposito del Don (questo sì, il Carlo!): Sia benedetto il ciel!... Lo salverò!... Però tutto quello che sa fare per salvarlo, nel finale dell’atto III (che spesso è pure tagliato!) è gridargli Va’! fuggi! quando la folla inferocita reclama la testa dell’amato (?! potenza dei libretti d’opera…)

 

Ieri sera alla Scala – con  molti… buchi, andati aumentando di numero ad ogni intervallo, lungo o breve che fosse - seconda recita del Don Carlo nella ripresa dell’edizione 2008-9, quella che fu precisamente fatale all’incolpevole Filianoti e che passò alla storia non certo per la qualità dello spettacolo – che fu passabile, ma nulla più - ma soprattutto per le contestazioni alla prima ambrogina a Daniele Gatti…

 

Del quale Gatti il concertatore Fabio Luisi ha evitato gli arbitrari ripescaggi di brani che Verdi aveva autorevolmente escluso dall’edizione da lui personalmente ed espressamente curata e pubblicata in occasione dell’esecuzione dell’opera alla Scala (10 gennaio 1884): edizione impiegata per le recite di questa stagione.

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A proposito di versioni dell’opera, ne riporto qui l’elenco sintetico ma sufficientemente esaustivo pubblicato (a cura di Enrico M. Ferrando, sulla base dell’edizione critica integrale di Ricordi) sul programma di sala del Regio di Torino, in occasione della produzione dell’opera nella stagione 12-13:

1a) Versione completa, utilizzata per le prime prove del lavoro (include 8 brani, poi eliminati per contenere la durata dell’esecuzione nei limiti rigidamente stabiliti dalle convenzioni dell’Opéra, e manca del balletto, terminato nel febbraio 1867).
1b) Versione della prova generale (comprende ancora tre degli otto brani eliminati alla prima, e include il balletto, completato nel febbraio 1867).
1c) Versione della prima esecuzione (11 marzo 1867).
1d) Versione della seconda esecuzione (13 marzo 1867): in questa versione l’atto IV è abbreviato e termina con la morte di Rodrigo.
1e) Versione in italiano (San Carlo, Napoli, 1872): include varianti al duetto Filippo-Rodrigo (due terzi del quale furono composti ex-novo su un nuovo libretto) e al duetto finale Carlo-Elisabetta.

2) Versione in quattro atti, in italiano (Milano, 1882-1883). È un radicale rimaneggiamento che elimina più di metà della musica originaria (tutto l’atto I, duetti Carlo-Rodrigo e Filippo-Rodrigo nell’atto II, scena iniziale e balletto nell’atto III, scena Filippo-Elisabetta nell’atto IV, finale dell’atto IV, finale dell’atto V), sostituendola con sette nuovi brani e ricollocando la romanza “Io la vidi” (che Carlo canta nell’atto I della versione parigina) nel Preludio, introduzione e scena del frate (n.1) del nuovo atto I.

3) Versione in cinque atti in italiano (1886). Rispetto alla precedente reintegra l’atto I originale (la romanza di Carlo è ovviamente ricollocata nell’atto I, e viene quindi ripristinato l’inizio dell’atto II).
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Sulla pertinenza, plausibilità, arbitrarietà, abuso… riguardo i contenuti di un’opera come questa da mettere in scena si potrebbe discutere all’infinito. Alla fine però ci si riduce immancabilmente al quesito: vogliamo rispettare le volontà dell’Autore, così come materializzatesi in suoi atti espliciti, o invece ci prendiamo il diritto di costruire noi lo spettacolo, impiegando di volta in volta i pezzi del meccano che più ci piacciono (o che possono fare più cassetta)?

Nel caso del Don, pochi dubbi esistono che le uniche due versioni che Verdi licenziò espressamente dopo averne meticolosamente curato la preparazione siano: a) quella della prima di Parigi (1867, in francese e poi in traduzione italiana) e b) quella della Scala del 1884.

Purtroppo però non ci si ferma qui, poiché anche grandi direttori (vedi Abbado o Pappano, o il Gatti di qualche anno fa) si inventano la loro personale versione del Don, scegliendone una come base e poi infilandoci o togliendoci altri pezzi a loro piacimento. Prendiamo ad esempio il duetto Filippo-Carlo dell’Atto III (che Gatti riscoprì nel 2008): che sia grande musica non si può negare, e Verdi medesimo lo impiegò nel suo Requiem come Lacrymosa; che però il Maestro lo abbia cassato in via definitiva dal Don lo dimostra proprio la versione preparata (con mesi e mesi di lavoro!) per il nuovo allestimento della Scala del 1884 (nel 1868 e 1878 vi si era rappresentata la versione in 5 atti in italiano, ma non senza modifiche). Dove le ragioni del taglio legate alla lunghezza dell’opera (e agli orari dei treni di Parigi…) non reggevano più, visto che la versione in 4 atti recupera una buona mezz’ora rispetto a quella originale del 1867! Invece no, nessuna riapertura: evidentemente il Maestro aveva concluso da tempo – almeno dal 1874, anno di composizione del Requiem e dell’impiego di quel brano del Don come Lacrymosa  - che la drammaturgia della scena, e quindi il suo valore estetico ed artistico venivano seriamente compromessi da quel siparietto in cui tutto un mondo in fermento si deve fermare in surplace per ascoltare l’epinicio che Filippo e Carlo cantano al povero Rodrigo.

Insomma, personalmente mi sento di dire bravo a Luisi anche solo per non aver voluto fare il diverso… In realtà la sua prestazione di ieri ha avuto, per me, altrettante ombre che luci: poiché alla generale correttezza dello stacco dei tempi ha fatto da contraltare una tendenza ad eccessivo fracasso (penso in particolare all’Atto II, ma non solo) con conseguente copertura delle voci. Certo, anche per colpa delle voci, come dirò. Ma il concertatore dovrebbe venire in soccorso, invece di… seppellire.  

Orchestra meglio del solito e Coro di Casoni sui suoi standard.

Mattatore della serata René Pape, che a distanza di 4 anni è stato ancora un Filippo autorevole, commovente e – per giunta – non acconciato come un vecchio rimbambito (a dispetto del suo crin bianco, non dimentichiamo che il RE storico aveva da poco passato i 30!) Non vorrei sbagliare, ma mi pare che nell’aria-madre dell’Atto III non abbia preso bene il suo primo amor… In ogni caso, una prestazione notevole per emissione e sensibilità interpretativa. Per lui trionfo indiscusso.

Con lui abbastanza bene l’altro basso, Štefan Kocán, nei panni del tremendo Inquisitore: cui ha conferito anche quel che di protervo che ben si addice al personaggio. Certo, quando in altre repliche dovrà indossare i panni del Re, sarà bene che trovi il registro appropriato.

Fabio Sartori è un Infante passabile: la voce è un pochino… sporca, squilla poco, anche se ha una potenza tale da sovrastare persino gli eccessi rumoristici di Luisi! Certo, la sua presenza scenica non è proprio delle più accattivanti, e non solo per la circonferenza… pavarottiana del suo adipe (smile!)   

Rodrigo è Massimo Cavalletti, che mi ha favorevolmente impressionato: voce ben impostata e passante, portamento efficace; mi sembra che il 35enne lucchese (ascoltato qui come Ford nel Falstaff di inizio anno) stia continuamente migliorando.

Le due protagoniste femminili hanno funzionato a corrente alternata. Nel senso che le loro voci si sentono quando devono trovarsi nella cosiddetta ottava alta; in quella bassa faticano a farsi udire (e Luisi purtroppo nulla ha fatto per farcele udire). Meglio la Martina Serafin (Elisabetta) che almeno gli acuti li emette con proprietà… mentre Ekaterina Gubanova (Eboli) tende a spararli al limite dello schiamazzo.

Efficace Fernando Rado nella parte non proprio secondaria né banale del Frate. Su standard da minimo sindacale Barbara Lavarian (il Paggio, en-travesti) e Il Conte di Lerma di Carlos Cardoso.

Efficace la prestazione dei sei Deputati fiamminghi: Ernesto Panariello, Simon Lim, Davide Pelissero, Filippo Polinelli, Federico Sacchi e Luciano Montanaro.

Carlo Bosi e Roberta Salvati (che evidentemente ier sera cantava dal suo camerino…) completano il cast.

Alla fine applausi per tutti e per ciascuno, con punte per Pape e Luisi.
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La regìa di Stéphane Braunschweig è rimasta su per giù quella che era. Ho notato che adesso è meno invasiva la presenza dei due bambinelli a far da controfigura a Carlo&Elisabetta. In particolare ad Atocha, dove il piccolo è relegato in fondo-scena e legato ad un patibolo, anziché sostituirsi (come 5 anni fa) a Posa per la consegna della spada di Carlo al Re.

Un allestimento che non ha fatto e non farà storia, nel bene e nel male. Dove il bene consiste principalmente nel non fare danni all’originale; e di questi tempi, in cui assistiamo a travisamenti e adulterazioni di ogni sorta, è già qualcosa.

In conclusione, un ritorno accettabile: di questi tempi c’è di che accontentarsi.

12 ottobre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°4

 

Il quarto concerto della stagione de laVerdi nasce da una collaborazione con MilanoMusica. Ergo non può non proporre brani di compositori contemporanei (o almeno che tali sono stati per molti di noi…)

Si tratta di Morton Feldman (cui è intitolata la rassegna milanese di quest'anno) e di Tōru Takemitsu, due compositori vissuti in pieno ‘900 e accomunati dall’aver subito – in modi e tempi diversi – l’influenza di un tale che (per me, qui lo dico e qui lo confermo) avrebbe fatto meglio ad occuparsi esclusivamente di funghi e non di suoni (smile!): John Cage.

Di Feldman (1926-1987) la bella Geneviève Strosser ci propina The viola in my life IV. Nel 1970 Feldman aveva composto una prima versione del brano per viola e piccolo complesso (flauto, violino, violoncello, percussioni, pianoforte) su commissione dei Pierrot Players (poi rinominatisi The London Fires) e per la famosa violista Karen Phillips; nei mesi successivi ne compose due nuove varianti: una (la II) con accompagnamento di altro complesso cameristico (flauto, clarinetto, violino, violoncello, percussioni, pianoforte, il famoso ensemble schönberghiano del Pierrot) e l’altra (la III) per viola e solo pianoforte. Nel 1971 poi compose - su commissione della Biennale di Venezia, che ne ospitò la prima esecuzione il 16 settembre, sempre con la Phillips - la variante IV che prevede per accompagnare il solista un’orchestra di organico quasi normale, ed è una specie di compendio delle precedenti tre. (Tutte sono ascoltabili qui ).

Musica da sessioni di terapia zen (smile! vi assicuro che ascoltare in cuffia e al buio tutti i 4 pezzi, quasi tre quarti d’ora, è un’esperienza davvero unica…) dove i suoni della viola, spesso isolati e lunghi (con qualche breve sussulto) appaiono come una specie di melopea spezzata e si alternano ad interventi degli strumenti accompagnatori, che creano di volta in volta brevi tappeti sonori o ruvide risposte all’imperturbabile e monotono incedere dello strumento solista. Il rischio di dormita generale – e di bruschi risvegli in corrispondenza di qualche entrata improvvisa delle percussioni - è quindi assai alto.

Questa quarta variante dura fra i 15 e i 20 minuti (a seconda che il terapista sia più o meno carogna, stra-smile!) e si chiude, dopo tanta lagna, con un brusco accordo dissonante del pianoforte che precede le ultime note della viola, per assicurarsi che nessuno fra il pubblico faccia brutte figure, rimanendosene lì appisolato per il resto della serata. 

Geneviève Strosser e Tetsuji Honna evidentemente in questa musica ci credono e fanno del loro meglio per convincere anche il pubblico: che non fa mancare gli applausi, ma in questi casi non sai mai se sia per intima convinzione o semplicemente per buona educazione e riconoscimento dell’abnegazione degli esecutori…
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Poi è la volta di Marginalia di Tōru Takemitsu (1930-1996) composta pochi anni dopo la viola di Feldman. L’ispirazione per questo brano (il cui titolo letteralmente viene dall’espressione note a margine) venne a Takemitsu, come lui stesso scrisse, da alcune opere letterarie (E.A.Poe, S.Takiguchi) e pittoriche (P.Klee e S.Francis) che colpirono la sua immaginazione. Quindi il pezzo sarebbe costituito da un’ossatura tematica principale e da liberi approfondimenti sul tema (i marginalia, appunto).

Il compositore giapponese, pur sperimentando molte delle diavolerie che nel secondo dopoguerra venivano inventate a più non posso dai vari Cage (per dire: anche qui c’è il solito secchio d’acqua in cui un percussionista immerge un mini-gong per ottenere evidentemente suoni… liquidi) mi pare assai ancorato a sani principi compositivi, non facendo mancare alle sue opere un minimo di narrativa, che scarseggia o manca del tutto in brani come quello di Feldman.

Personalmente – e del tutto arbitrariamente, riferendomi soltanto a sensazioni di prima mano – potrei di individuare nel brano una serie di atmosfere che elencherei così: un mondo inanimato; qualcosa sembra risvegliarsi; ritorna il caos indistinto; altro segno di vita, e arriva… la Valse (!); ritorno di tenebre abissali; angosciante instabilità; climax; leggero rasserenamento; nuova agitazione e acquietamento; insorgere di un anelito; progressiva eccitazione; frustrazione; eroismo e climax; drammatica sospensione; elegia finale.

Insomma, qui qualcosa viene raccontato: non è ciò che deve fare (anche) la Musica? Strano a dirsi, un esperto come Alex Ross, nel suo ormai celebre The rest is noise, dedica pagine e pagine a Feldman, per poi liquidare in poche righe Takemitsu… mah.
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Chiude il concerto lo stravinskiano Petrushka, edizione originale del 1911. E a proposito di raccontare in musica, Stravinski ci fa qui una mirabile evocazione della storia di una marionetta, che si dipana all’interno della kermesse della settimana grassa di SanPietroburgo.

Chi desideri approfondire i contenuti dell’opera e la tecnica compositiva che Stravinski impiegò troverà pane per i suoi denti in questo benemerito sito tedesco (diciamo la verità, i crucchi non ci danno lezioni solo di buona economia…) Ogni aspetto (ambientale e soprattutto musicale) dell’opera vi viene sviscerato in modo straordinario, con dovizia di informazioni e con l’aggiunta di autorevoli commenti (ad esempio: Boulez).

Smagliante la prova dei ragazzi, in tutte le sezioni dell’orchestra, ugualmente impegnate allo stremo da questa incredibile partitura, un vero preludio per Le sacre, che ascolteremo fra una settimana.

11 ottobre, 2013

Intenso compleanno di Verdi a Milano

 

Ieri, anniversario della nascita di Verdi (10 ottobre 1813) la città di Milano, che ne ha visto i primi trionfi e ne ha accolto l’estremo respiro, ha dedicato al Maestro alcuni importanti avvenimenti, nell’ambito delle celebrazioni verdiane che proseguiranno per giorni e giorni.

Da segnalare fra gli altri il Teatro alla Scala, che si è aperto gratuitamente al pubblico per l’intera giornata, offrendo proiezioni di documentari biografici e musicali e visite al Museo.

Poi, alle 18, presso l’Auditorium di Largo Mahler si è tenuta la conferenza La fabbrica dell’Opera, introdotta da Luigi Corbani, patron della Fondazione de laVerdi, e condotta da Marta Boneschi e Laura Nicora, che hanno trattato tutti gli aspetti artistici ed extra-artistici della gestazione e della produzione delle opere verdiane. Il tutto riportato con dovizia di notizie e immagini in un pregevole libricino edito a cura della Fondazione e introdotto da una prefazione dello stesso Corbani

Ha fatto anche capolino alla conferenza il sempre più lanciato Jader Bignamini che alle 20:30 - nell’intervallo fra la penultima e l’ultima recita del Simone al Regio di Parma  - si è tenuto in allenamento con Verdi dirigendo un concertone straordinario di musiche verdiane: preludi, arie e cori.

Un’antologia che ha toccato alcune tappe dell’intera produzione verdiana, da Oberto fino a Otello e che ha visto impegnato anche il Coro di Erina Gambarini e due voci  femminili: Tiziana Carraro che ha interpretato brani da Oberto e Trovatore e Chiara Taigi che si è cimentata con I Lombardi e Otello; entrambe poi hanno interpretato il duetto dall’Aida.

La Carraro ha mostrato buone qualità nell’aria di Cuniza, mentre è sembrata un po’ meno efficace nei panni delle due cattivone (Azucena e Amneris) dove nell’ottava alta sembra scurire artificialmente la voce. Convincente la Taigi, sia nella preghiera di Giselda che nell’aria di Amelia, come in Aida: per lei anche un bel bis con La Vergine degli Angeli di Leonora.

Splendido il coro, in particolare nella scena finale dell’atto II di Aida e come sempre eccellente la prestazione del complesso strumentale, una colonna del quale (Alex Caruana) ci ha anche proposto il poco conosciuto Adagio per tromba (qui Andrea Bonaldo). Anche il Konzertmeister Luca Santaniello ha avuto il suo momento di gloria con quella specie di romanza per violino che è il preludio al finale dell'Atto III dei Lombardi (Verdi lo compose per Eugenio Cavallini, primo violino e direttore della prima dell'opera).

Quanto a Bignamini, ormai non è più da scoprire, almeno in Verdi. Così fra una settimana sarà interessante vederlo e sentirlo alle prese con il pagano Stravinski.

Insomma: una bellissima giornata, che nemmeno il temporale che ha accolto il pubblico all’uscita dall'Auditorium ha potuto guastare.

09 ottobre, 2013

Il Simon Boccanegra di Bignamini a Parma

 

Ieri, nell’ambito dell’annuale Festival Verdi, penultima recita del Simone, in un Regio affollato (ma non proprio esaurito) di un pubblico cosmopolita (tedesco e francese le lingue più diffuse nel foyer).


Si sa che il Simone è opera ostica, cupa, difficile da digerire; persino i pochi momenti di relativa serenità sono velati da inquietudine, presagi oscuri e minacce incombenti. La versione ultima del 1881 poi perde anche quell’unico squarcio di allegria, di giubilo, di festa che animava la parte finale del primo atto, sostituita da quella scena vergata da Boito e stupendamente musicata da Verdi che è un autentico capolavoro, ma che non fa se non aggiungere angoscia ad un dramma di per sé già buio, a dispetto del secolo in cui è ambientato, che vedeva ormai l’avvicinarsi del Rinascimento, evocato proprio nella nuova scena boitiana dal riferimento (involontariamente?) comico al Petrarca.

In più si tratta di un’opera dove l’azione scarseggia, mentre vi tengono banco le più diverse pulsioni dell’animo umano, personali o collettive che siano; e dove persino la trama è ostica e difficile a decifrarsi anche a chi abbia studiato con cura il libretto… Insomma, un’opera di Verdi da approcciarsi quasi fosse il Wozzeck!

La regìa – non nuova - di Hugo de Ana è assolutamente in linea con lo spirito e la lettera del libretto: scene austere e cupe, recanti su un verso bassorilievi di una opprimente monotonia e sull’altro nudi interni di stiva di vascello, dove anche le rare aperture verso il mare creano più disagio che serenità; per il resto, quasi assenza di suppellettili, sostituite da semplici blocchi squadrati; costumi più o meno d’epoca, sufficientemente differenziati fra patrizi e popolani; movimenti di personaggi e masse ridotti al minimo indispensabile.

Inutile dire che con opere come questa il successo o il fallimento della recita dipendono quasi esclusivamente dalle qualità degli addetti ai suoni, a partire dal Concertatore. E devo dire che Jader Bignamini non ha tradito le (mie) aspettative, confermando quanto di buono si vede (e soprattutto si sente) di lui nelle frequenti apparizioni sul podio della sua Orchestra Verdi (a proposito, domani sera ci tornerà per una serata verdiana…) Azzeccate le scelte sui tempi e sull’agogica, precisi gli attacchi e sicura la guida di buca e palco; fracassi solo quanto basta e quando si deve, per il resto un approccio conservativo e senza gigionerìe. Bravo davvero. E bravi i ragazzi della Toscanini, un’altra giovane e bella realtà del panorama musicale padano.

Fra le voci, note positive  per i due grandi vecchi: Roberto Frontali è un Simone convincente, che sa tirar fuori tutta la sofferta personalità del protagonista, nei momenti di appello alla pace e all’amore, come in quelli di spaventevole imposizione d’autorità. Giacomo Prestia è un Fiesco sufficientemente altero e duro, figura scenicamente imponente e vocalmente ancora robusta.

Gabriele è il giovane sudamericano Diego Torre: voce da heldentenor, ancora forse da rodare al meglio, ma ci si sentono già qualità più che promettenti.
  
Ahilei, Carmela Remigio non è un’Amelia convincente: a cominciare dalle caratteristiche della sua voce: il personaggio non sarà proprio da soprano drammatico, ma nemmeno da… Zerlina! E lei invece ha proprio una vocina pigolante e metallica in alto. Già le caratteristiche, per così dire, anagrafiche del personaggio - Amelia-Maria ha passato da parecchio la trentina, che per una donna di fine medioevo significava essere matura assai, se non quasi vecchia (!) – sono tali da escludere una voce e movenze da ragazzina adolescente e ingenua, come purtroppo ci è apparsa la cantante pescarese.

Discreta l’interpretazione di Paolo da parte di Marco Caria, voce potente e ben impostata. Su uno standard più che accettabile anche i tre comprimari: Seung Pil Choi come Pietro, Antonio Corianò (capitano) e Lorelay Solis (ancella).

Sicura ed efficace la prestazione del Coro del Regio di Martino Faggiani.

In definitiva, uno spettacolo che merita ampiamente il caloroso consenso che il pubblico gli ha tributato con ripetute chiamate alla ribalta.

E proprio questa sera parte, a mo' di staffetta, il Boccanegra torinese