intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

31 maggio, 2013

I Sassoni con Thielemann sommergono di suoni la laguna


La Sächsische Staatskapelle e il suo carismatico Kapellmeister sono stati ieri ospiti di Venezia per un grande concerto wagneriano (con intermezzo… contemporaneo). Era l’ultima tappa del tour del compleanno, che ha prima toccato Parigi e Vienna, altre città-chiave nella vita (non solo artistica) di Wagner.  

Ma il programma era interamente dedicato a Dresda, per evidenti ragioni… geopolitiche: tutte musiche che in quella città, e proprio con i trisnonni dei musicisti di oggi, videro la luce (Rienzi, Holländer, Eine Faust Ouverture, Tannhäuser) o musiche che in quella città furono concepite (Lohengrin). In mezzo, un omaggio a Hans Werner Henze, che Thielemann aveva voluto come Compositore in residenza presso la Staatskapelle e che purtroppo ci ha lasciato prima di poter completare il suo Isoldes Tod. A completare il quadro, la presenza… ingombrante (stra-smile!) di Johan Botha, che si è cimentato in tre famose arie di quelle stesse opere (Holländer escluso).

Una Fenice con più di una poltrona vuota ha assistito ad una straordinaria prestazione dei sassoni, un’orchestra che – in questo repertorio soprattutto – ha pochi rivali. Come pochi ne ha Thielemann, che la guida con il suo gesto misurato, poco appariscente, ma evidentemente efficacissimo. Segno che dietro c’è un duro lavoro di prova e di amalgama, che poi in concerto dà i suoi frutti quasi da solo.

Il programma era ben congegnato, con l’Ouverture dell’Holländer ad aprire sontuosamente la serata. È l’opera che anche in questo anno di ricorrenze inaugura il Festival di Bayreuth, il 25 luglio. E Thielemann evidentemente sta rientrando in quell’atmosfera: qui ha preferito la chiusa in pianissimo sul tema della redenzione, omettendo il rumoroso accordo finale.

Ecco poi Eine faust Ouverture, forse l’unico pezzo sinfonico di Wagner che mantiene stabilmente un posto nei programmi concertistici. Und so ist mir das Dasein eine Last,/ Der Tod erwünscht, das Leben mir verhaßt, perciò l’esistenza è per me un fardello, la morte augurabile, la vita odiosa. Questi i due versi di Goethe posti programmaticamente da Wagner in calce alla partitura, che vide la luce ai tempi dell’Holländer (di cui mutua le atmosfere cupe) e fu poi rivista quando si affacciava da lontano un tale Tristan… Ecco come la interpretava Toscanini. E Thielemann non è da meno: fa proprio venir fuori tutto il pessimismo che la pervade, appena appena rischiarato dalla conclusione serena (tipo Tristan, in effetti).

Quindi la prima comparsa di Botha, per interpretare la straordinaria Allmächt’ger Vater dal quinto atto del Rienzi. Per la verità qui il tenore sudafricano non mi è parso troppo all’altezza del compito: solo il modo con cui ha tirato via i gruppetti che caratterizzano i versi Du stärkest mich e Du liehest mich (e poi Mein Herrsenke dein Auge) la dice lunga su una certa approssimazione. (Qui il pur discusso Kaufmann fa assai meglio…) Per fortuna ci pensa subito dopo Thielemann, dirigendo l’Ouverture, a rimettere le cose al giusto posto: un’esecuzione letteralmente superlativa, accolta da acclamazioni entusiastiche.

Dopo l’intervallo una nuova accoppiata strumenti-voce: dapprima il Preludio di Lohengrin, altra autentica perla della serata, dove gli archi (i violini innanzitutto, come è ovvio) cavano una purezza di suono incomparabile. Poi arriva Botha per l’immancabile In fernem Land, corredata – come ormai costume, almeno in concerto o nelle incisioni, come questa di Kaufmann (e speriamo che non lo diventi in teatro!) - di quei 20 versi aggiuntivi che letteralmente distruggono tutto il bello e il buono di ciò che li precedeva, soprattutto se privati (come qui, per evidenti ragioni) degli interventi del coro, gli unici che in qualche modo li nobilitano. E non per nulla Wagner ordinò perentoriamente a Liszt di espungere l’intera sezione già alla prima rappresentazione di Weimar! Botha anche qui non (mi) incanta: emissione affannata, poco legato, insomma una mezza delusione.

Di Hans Werner Henze viene poi eseguita Fraternitè, composta per Kurt Masur e la New York Philharmonic Society nel 1999. Bellissimo pezzo di questo gigante della musica contemporanea, che evidentemente concepiva la musica come arte mossa dall’ispirazione, e non come freddo vaniloquio.

In chiusura altra coppia canto-orchestra. Tocca per primo a Botha proporre la massacrante aria finale di Tannhäuser (Inbrunst im Herzen): qui il tenore mi pare riscattarsi e fa emergere efficacemente tutta la drammatica potenza dello sfogo del personaggio maledetto da tutti. Meglio comunque fa ancora Thielemann con l’Ouverture, un vero gioiello, di suoni e anche di interpretazione, davvero calata fino in fondo nello spirito alto-tedesco del soggetto.

Trionfo assicurato e contraccambiato con il bis più… ovvio: il Preludio all’Atto III di Lohengrin.

Beh, almeno per quanto mi riguarda, è valsa la pena – e la spesa - di una trasferta sotto il diluvio (che per fortuna ha risparmiato proprio Venezia): capita poche volte, in Italia, di ascoltare orchestre ed esecuzioni di così alto livello.  

28 maggio, 2013

Il giugno wagneriano a Milano


Nel prossimo mese di giugno a Milano si potrà fare un’indigestione di Wagner, principalmente per merito del Teatro alla Scala, ma non solo.

Dopo le ultime due recite di Götterdämmerung, che chiudono la  presentazione a rate (dal 2010 ad oggi) del Ring di Barenboim-Cassier, nelle due settimane del 17-22 e 24-29 andranno in scena due cicli completi di questa produzione.

Subito prima delle recite dei quattro drammi (lunedi-martedi-giovedi-sabato) sarà possibile anche seguire, nella vicina sede della Fondazione Cariplo, le rispettive conferenze introduttive.

In più, nei due giorni di riposo (mercoledi-venerdi) sono in programma le proiezioni di due film che trattano soggetti wagneriani: Ludwig di Visconti e l’interminabile Wagner di Palmer (il quale sarà presente per introdurre la proiezione).  

In aggiunta a tutto ciò è da segnalare l’iniziativa di un Ente che parrebbe destinato all’estinzione (smile!): la Provincia di Milano, che ha organizzato una manifestazione intitolata L’Oro di Wagner. Che ha avuto il suo prologo ieri pomeriggio con un incontro introduttivo con Quirino Principe e la proiezione di due filmetti muti dei primi del ‘900, accompagnati al pianoforte da Rossella Spinosa. La rassegna proseguirà martedi 4 con la proiezione de La caduta degli dei di Visconti, lunedi 10 con una lezione, corredata da suoni e immagini, di Quirino Principe, seguita dalla proiezione del film Ludwig di Syberberg e domenica 23 con un programma di Lieder cantati da Sabina Willeit e recitati da Quirino Principe, con Giorgio Fasciolo al pianoforte.  

23 maggio, 2013

Un vuoto Crepuscolo alla Scala


Ieri seconda recita della giornata conclusiva del Ring in un Piermarini per nulla affollato. Fra gli assenti anche i due principali responsabili dello spettacolo: direttore e regista.

Non c’è Barenboim, per un malanno alla schiena, che si sta curando a casa sua, cioè a Berlino. Così alla Scala lo si vede – adesso che è Direttore musicale – meno di quando era soltanto Maestro scaligero… Del resto, inutile domandarsi a chi lui sia più legato, se alla Scala o alla Staatskapelle Berlin: dovendo dirigere un ciclo completo del Ring a Londra, per i PROMS, che orchestra ha scelto secondo voi come partner? Scopritelo qui.

Al suo posto un… Bignamini tedesco: il 52enne Karl-Heinz Steffens è infatti un suonatore di clarinetto (come il più giovane collega de laVerdi) passato al podio. Ha del miracoloso come sia riuscito a tenere insieme un’orchestra ormai orfana di tutori e a proporci un Crepuscolo più che dignitoso!

Anche la compagnia di canto non è stata per nulla male: alla Theorin la (pur breve) convivenza con Siegfried (smile!) deve aver fatto bene, poiché l’ho trovata decisamente migliorata rispetto a quando era ancora… nubile (cioè alla seconda giornata dello scorso novembre). Ryan ha la voce che ha ma per lo meno regge l’urto con sicurezza e non è cosa da poco. Sempre affidabile Kränzle pur nella fugacità della sua apparizione notturna. Anche la Meier, che ormai a Brünnhilde aveva rinunciato da anni, e che deve accontentarsi di fare la nonna (oh, pardon: la Norna) in aggiunta alla sua omonima walchiria, ha mostrato che la classe non è acqua, anche se la voce non è più quella di una volta. Petrenko non sarebbe neanche un Hagen malvagio, se avesse una voce da… Hagen e non da Figaro (!)

Note meno entusiasmanti dai fratelli ghibichunghi: Grochowski piuttosto deboluccio e Samuil decisamente sotto il livello della sufficienza. Anche le altre cinque femmine (due Norne e tre Figlie) non mi sono parse proprio entusiasmanti.

I cori di Casoni hanno fatto più che dignitosamente la loro parte, in particolare cantando con la dovuta sguaiatezza le loro esternazioni del second’atto.
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L’altro assente ingiustificato era Cassiers: perché di regìa non s’è vista manco l’ombra (forse è meglio così, dati i precedenti, smile!) Per tutte le 4 ore e mezza (nette) di spettacolo la scena è rimasta praticamente deserta (gli allestimenti minimalisti di Wieland al confronto erano dei caravanserragli). Solo proiezioni di immagini mutanti scelte random dal computer e qualche nastro che scende dall’alto e poi risale. Una quinta che a volte scherma lo sfondo, dotata di porticina (per ricordarci che c’è la reggia con la sua entrata!) Elementi prismatici trasparenti che vanno e vengono per servire da tavolo o da tribunetta per il coro, e recanti all’interno spezzoni di immagini di quel bizzarro bassorilievo di Lambeaux (già comparso nel Siegfried) che poi alla fine appare in tutto il suo ridicolo splendore (!)

Lo scavo dei personaggi è bene esemplificato dall’entrata in scena di Gunther e Gutrune, in postura ed atteggiamento perfettamente tagliati per Siegmund e Sieglinde (del resto, a quei tempi, in mancanza di coniugi che potevano fare due fratelli?)

Visto che la scena era vuota, si è pensato bene di animarla con i soliti mimi, che qui seguono il povero Siegfried per tutto il primo atto: dapprima usando la colonna sonora del suo Rheinfahrt per inscenarci un balletto in stile Carrà… Poi per introdurre l’eroe alla reggia dei Ghibichunghi; e infine per fargli il lavoro sporco al momento di strappare a Brünnhilde l’anello (che poi qui è una specie di avambraccio posticcio, così lo si può distinguere chiaramente).      

Sulla scelta dei costumi… meglio non infierire. Per il resto… recita scolastica.
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Dato che il ciclo è stato presentato in 3 anni (che sforzo!) ammetto di essermi dimenticato le giornate precedenti: brutto segno, non per la mia memoria, sia chiaro, ma per la qualità degli allestimenti… Ecco perché, essendo allo stesso tempo cultore di Wagner e un poco masochista, ho deciso di assistere all’intero ciclo che andrà in onda a giugno. Così, per vedere l’effetto che fa

22 maggio, 2013

2013: fuori uno!


200 anni orsono (era di sabato) nasceva in quel di Lipsia un tale che – forse senza contarci per davvero e/o senza rendersene conto – sarà responsabile di alcuni impercettibili trend della nostra civiltà.

Tanto per cominciare: come minimo a partire dal 1865 (Tristan!) non fu più scritta sul pentagramma, in tutto il pianeta, una sola nota che non fosse poco, o soprattutto tanto, influenzata da quelle vergate da costui.

Non basta: persino dal buio della tomba in cui giaceva da 50 anni, il nostro fu – almeno secondo taluni – ispiratore e artefice di alcune simpatiche conquiste del ‘900, tipo il Nazismo e l’Olocausto!

E quindi fiato alle… tube per epinici ed epicedi.

Il mio modesto contributo ai peana consiste nel mettere a disposizione della rete un corposo, acuto e sempre attuale saggio del grande Franco Serpa sul Ring, apparso su Musica&Dossier del settembre 1988. Buona lettura!



20 maggio, 2013

Onegin torna al Regio torinese


Il terz’ultimo appuntamento stagionale del Regio è con Evgenij Onegin, che per Torino è pur sempre una primizia, visto che siamo al terzo allestimento in assoluto! (vero è che è il terzo in 30 anni, dopo un secolo di… ignoranza totale). Teatro gremito, ma non certo esaurito.

Riporto qui un interessante – quanto provocatorio - scritto di Aldo Nicastro riguardo le opere di Ciajkovski, a partire dall’Onegin, pubblicato nel marzo 1991 su Musica&Dossier. Già il titolo la dice lunga, anticipando un giudizio tagliente riguardo la non-rispondenza del libretto e della musica dell’Onegin di Ciajkovski allo spirito del poema di Puškin. Ma per la verità, al di là dell’ambito accademico e teorico, ai fini dell’apprezzamento dell’opera, a noi che ce ne importa? Forse che la Carmen di Bizet non ci piace perché assai diversa dal racconto di Mérimée? O storciamo il naso davanti alla Tosca di Puccini, poiché diverge non poco da quella di Sardou? 

Sarà un caso, ma si potrebbe immaginare che il regista Kasper Olten, più o meno volontariamente, abbia voluto riprendere la critica di Nicastro (che peraltro non era nemmeno sua esclusiva) e introdurre nel suo Konzept la prospettiva di Puškin (dove le personalità dei due protagonisti sono mediate dalla descrizione che ne fa il poeta) allorquando ci mostra in scena due copie (mimi) di Onegin e Tatiana, chiaramente più giovani degli originali, i quali originali ne esplorano, o quanto meno osservano, i comportamenti, dando a vedere di non condividerli, ma nulla potendo fare per modificarli.

Ciò avviene in particolare in due momenti topici: per quanto riguarda Tatiana, nella scena della lettera, dove noi vediamo il personaggio reale (quello che canta, tanto per chiarire!) che osserva con un certo scetticismo la sua giovane alias che scrive la lettera, in preda a tutte le agitazioni e i turbamenti come da libretto. Quanto a Onegin, quello adulto è già presente sul luogo del duello assai prima di Lenski, mentre il suo giovane alias arriva in ritardo come da libretto, accompagnato da un Guillot il quale – invece che turbato - ci viene cervelloticamente presentato come un alcolizzato (quindi, per fortuna, non è lui che reca le pistole, ma il compunto Zareski…) L’Onegin vero, impotente, canta, mentre la sua copia… spara! (Lenski sembra Tristan che si butta sulla spada di Melot, tanto per rincarare la dose sulla viscidità di Onegin, mah…) L’ultima apparizione dei due alias - quella che probabilmente secondo il regista dovrebbe giustificare da sola la sua scelta – si materializza nella scena conclusiva, allorquando Onegin e Tatiana cantano insieme Ah! La felicità era così vicina a noi, così vicina, così vicina, così vicina! I due giovinetti appaiono belli felici, sottobraccio, mostrando ai protagonisti e a noi come sarebbe potuta finire se non avessero dato ascolto alle loro rispettive impulsività.

Che dire? A me pare il solito cannone per sparare ad una mosca: dico, il libretto è sufficientemente chiaro senza che un regista ce lo venga a spiegare con artifizi che nessun altro risultato ottengono se non di confondere le idee allo spettatore. E perché è lapalissiano che se Tatiana per prima non avesse scritto quella lettera, l’Onegin si sarebbe fermato dopo il primo dei sette quadri (smile!)  

Un’altra perla della regìa riguarda il dopo-duello. Intanto: la scena rimane la stessa, con Lenski morto sdraiato al proscenio (e ci resterà per la restante mezz’ora e più, fino alla fine dell’opera!) vicino all’enorme ramo secco che si era portato da casa (il regista potrà di certo dare spiegazioni esaurienti e/o freudiane in merito…) e Onegin – quello che non ha sparato! - impietrito a guardare la salma dell’ex-amico. Che musica sentiamo a questo punto? Una marcia funebre? Un lamento per l’amico defunto? Ma no, quella prevista dalla partitura, ovviamente: la polacca in SOL maggiore che apre il sesto quadro! Geniale! Durante l’esecuzione della quale allegra polacca, per la verità, alcune danzatrici si presentano anche, nel ruolo di adescatrici e/o consolatrici del povero Onegin, che però di farsi consolare non ne ha voglia, e infatti – come da libretto – successivamente canta Anche qui mi annoio a morte… raccontando del suo vano vagabondare inseguito dai rimorsi per i suoi errori passati. Però siccome il libretto prevede due balli nella sontuosa dimora di Gremin, ecco che almeno la successiva scozzese ci viene offerta in pompa magna, con gentiluomini e dame agghindati come Zeffirelli comanderebbe.

Questa è solo una piccola ciliegina: Onegin chiede a Gremin: chi è quella signora col cappello cremisi? È Tatiana, ovviamente, peccato che sia… a capo scoperto (smile!) Un’altra? I covoni che i contadini avevano portato a casa Larin (una fattoria) nel primo quadro sono rimasti lì in bella mostra anche nella principesca dimora sanpietroburghese di Gremin, fra stucchi, specchiere e porcellane! 

Kasper Olten deve sicuramente aver visto – o essersi informato su – la messinscena di Tcherniakov (passata anche alla Scala anni fa) perché ne ha mutuato almeno un paio di trovate: la prima riguarda un tentato, quanto inventato, suicidio di Onegin – con pistola che fa cilecca! - che il regista russo aveva posizionato proprio alla fine dell’opera, dopo l’addio definitivo di Tatiana. Olten invece lo anticipa nella scena del duello, dove vediamo Onegin puntarsi alla tempia la pistola del defunto Lenski (che ha ancora il proiettile in canna) senza però riuscire ad esplodere il colpo. La seconda è l’apparizione – una cosa invero imbecille – di Gremin nel bel mezzo dello show-down finale fra Onegin e Tatiana, che rischia di stravolgere tutto il sottile senso del comportamento della donna. Come sempre: si copiano le sciocchezze, mica le buone idee.

Chiudo queste note sull’allestimento con un apprezzamento (per non sembrare prevenuto, smile!) che riguarda i costumi di Tatiana: rosso-amore nella prima parte e bianco-dovere (sotto il quale spunta però il rosso-amore) alla fine. Ecco, questa è un’idea semplice-semplice, ma efficace. Però sorge spontanea una domanda: ma alla fine anche Onegin un pochettino cambia, o no? (o vogliamo dar ragione a Tatiana che lo accusa di fingere di amarla solo per vantarsi poi dello scandalo della sua conquista?) Se cambia, si meriterebbe anche lui di mettersi almeno, che so, una giacchetta rossa (smile!) invece di restare sempre col solito blu…
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Aggiungo anche un’osservazione riguardo la suddivisione materiale dello spettacolo, cosa di cui è sempre difficile stabilire la responsabilità, o suddividerla fra regista e concertatore.

Allora, Onegin è in tre atti, quindi prevede(rebbe) due intervalli. La cosa ha una spiegazione assolutamente chiara e semplice, legata al non rispetto dei canoni aristotelici di unità di luogo-tempo-azione. I due intervalli dovrebbero servire a far percepire anche materialmente allo spettatore le due soluzioni di continuità che la vicenda descritta presenta.

La prima riguarda i parecchi mesi che trascorrono fra il primo, fatale incontro di Tatiana con Onegin e il ballo in casa Larin dove si consumerà la rottura fra il medesimo Onegin e Lenski, con conseguente duello: il primo evento si svolge in piena estate (mietitura e raccolta di frutta) nell’arco che va da un pomeriggio alla sera, poi alla notte (della lettera) e infine al mattino successivo (con il gran rifiuto di Onegin); il secondo accade invece in pieno inverno, quindi come minimo 6 mesi dopo: non solo lo apprendiamo da Puškin, ma lo deduciamo dalla nota del libretto che ci avverte di paesaggio d’inverno in apertura del Quadro II del second’atto, quello dove assistiamo al duello, che avviene un paio di giorni (e comunque non certo mesi e mesi) dopo quello del ballo e della successiva scenata violenta sfociata nella sfida di Lenski all’ormai ex-amico. Detto tra parentesi: il fatto che passino mesi e non poche ore fra questi due eventi (il primo incontro e il secondo, al ballo) getta una luce assai significativa sui rapporti fra Tatiana e Onegin, i quali evidentemente hanno avuto tutto il tempo per pensare al loro primo incontro e al loro futuro. Soprattutto Onegin, che accetta di seguire Lenski al ballo dei Larin, ben sapendo che là vi incontrerà la ragazza da lui strapazzata in quel primo incontro dell’estate precedente. E che lui non esita ad invitare a ballare, dando l’impressione ai presenti (e forse a lei stessa) di essere in procinto di dichiararsi… per poi decidere invece di offendere Lenski a seguito degli acidi giudizi che gli invitati gli rivolgono.

La seconda cesura è addirittura di parecchi anni, quelli che Onegin trascorre vagabondando all’estero dopo il duello fatale con Lenski e prima di presenziare al ricevimento in casa Gremin: deduciamo ciò senza alcuna ombra di dubbio da quanto ascoltiamo dire da Onegin, Tatiana e Gremin.

Ora, l’allestimento odierno del Regio (forse non è la prima volta che accade) suddivide invece lo spettacolo in sole due parti, quindi presenta un solo intervallo. Ma non posto fra il primo atto e i due successivi, più brevi (il che sarebbe del tutto accettabile, anche in termini di equilibri di durata, 70-70 minuti) bensì fra i due quadri del secondo. La qual decisione ottiene due effetti perversi: eliminare agli occhi (e alla percezione generale) dello spettatore le due chiare soluzioni di continuità presenti nella trama, creandone in compenso un’altra del tutto arbitraria, se non proprio fuorviante: quella fra la scenata in casa Larin e il duello successivo.

Il tutto a che pro? Accorciare di 20-25 minuti (il secondo intervallo risparmiato) uno spettacolo che in complesso non supererebbe comunque le 3 ore e un quarto? Personalmente mi pare una decisione poco intelligente.
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Note liete (per il pubblico: trionfali!) sul fronte musicale. Il mio concittadino Gianandrea Noseda non si smentisce, e poi questo repertorio per lui è un po’ un ritorno a casa… Se proprio devo trovargli un pelo nell’uovo (ma è questione di personali preferenze) citerei un'eccessiva pesantezza nel walzer del second’atto e un po’ di fracasso di troppo nella concitata scena finale fra i due innamorati infelici. Per il resto, una concertazione impeccabile. Bene l’orchestra (piccole sbavature sono sempre in agguato, e perdonabili) e benissimo il coro di Fenoglio.

La trionfatrice del pomeriggio è stata Svetla Vassileva, una Tatiana assai positiva, pur non esente da qualche pecca di intonazione (cito ad esempio il LAb acuto della chiusura della lettera, aria che certo impegna la voce come poche altre).

La sorellina Olga (Nino Surguladze) direi discreta ma non più, anche se la sua vocina sottile (che non mi pare proprio da contralto) in fin dei conti ci sta col fatto che lei è più giovane ancora di Tatiana, quindi praticamente una ragazzina.

Vasilij Ladjuk è un Onegin più che discreto, voce potente, ben passante, abbastanza chiara per rendere al meglio il personaggio di questo giovane e immaturo figlio-di-papà.

Bravo Maksim Aksënov, un Lenski all’altezza, voce calda, sempre ben intonata, efficacissimo nella sua impegnativa aria prima del duello.

Ancor meglio  Aleksandr Vinogradov, un Gremin autoritario e convincente: certo, la parte è quantitativamente limitata (diciamo un… Re Marke in miniatura, smile!) ma proprio per questo la qualità è importante, e Vinogradov l’ha tirata fuori tutta.

Carlo Bosi è stato un efficace Triquet, bene impersonando questa specie di macchietta.

Gli altri interpreti di contorno (ma comunque non insignificanti, soprattutto le due donne) hanno ben figurato: un bravo a tutti, Marie McLaughlin (Larina), Elena Sommer (Filippevna), Vladimir Jurlin (Capitano) e Scott Johnson (Zareski).

Ecco, ancora una prova più che soddisfacente del Teatro torinese, che si conferma una realtà solida e affidabile, in questi tempi non proprio tranquilli.

18 maggio, 2013

Clelia dopo 250 anni trionfa a Bologna… per pochi intimi


Il 14 maggio 1763 (era un sabato) Bologna inaugurava il suo nuovo Publico Teatro (dell’architetto Galli Bibiena) con una nuovissima opera del sommo Christoph Willibald Gluck: Il trionfo di Clelia.


E martedi 14 maggio 2013 le note di quest’opera quasi dimenticata (venne ripresa 12 anni fa dopo un oblio di più di 2 secoli…) sono tornate a risuonare dentro quello stesso ambiente, dove ieri sera si è tenuta la terza rappresentazione.

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I retroscena della lunga e complessa trattativa che si instaurò fra Gluck e il Teatro per la definizione di tutti i dettagli – artistici ed economici – dell’impresa portano alla scoperta di aspetti curiosi e sorprendenti. Ad esempio, se oggi ci si lamenta della scarsa cultura musicale del pubblico, che sembrerebbe apprezzare di più qualche effetto epidermicamente interessante, che non i contenuti estetici ed artistici dell’opera che si rappresenta, 250 anni orsono pare che le cose non stessero poi in modo tanto diverso. Come si deduce dal contenuto della seguente missiva inviata dal Conte Luigi Bevilacqua (uno degli emissari del Teatro bolognese) all’Abbate Ludovico Preti che da Vienna – dove si trovava come segretario del Nunzio - teneva i contatti fra Gluck e Bologna in vista dell’ingaggio del compositore per onorare l’avvenimento:


Insomma, già a quei tempi si stigmatizzava una certa incultura, in fatto di estetica del teatro musicale, di un pubblico che guardava più all’apparenza che alla sostanza, e i cui gusti tuttavia si dovevano in tutti i modi assecondare. Giustamente un musicista serio come Gluck intravedeva i risvolti negativi di tale atteggiamento di connivenza da parte del Teatro, se è vero che personalmente avrebbe preferito musicare per l’occasione l’Olimpiade (il cui libretto poco o punto si prestava a divagazioni frivole) invece del Trionfo.     

Ma a proposito di spettacolarità delle rappresentazioni operistiche, era a quei tempi consuetudine intrattenere il pubblico, durante gli intervalli fra gli atti, con intermezzi di balletto e ricche coreografie, che nulla avevano a che fare con il contenuto dell’opera, a partire proprio dalla musica, che era di autori diversi. A Bologna si eseguirono due balletti di Augusto Hus (coreografo al quale è incertamente attribuita anche la musica) aventi per titolo Il riposo interrotto (soggetto di carattere bucolico, movimentato da un duello rusticano fra due spasimanti di un’avvenente pastorella) e Le fontane incantate, ispirato all’Orlando furioso, ambientato nei boschi delle Ardenne, dove si trovano a passare Rinaldo e Angelica che bevono alle sorgenti, rispettivamente, dell’odio e dell’amore, finchè Cupido interviene di persona per garantire il… lieto fine. 

Lo spazio e il rilievo riservato sulle locandine ai balli e ai loro protagonisti ed interpreti, oltre agli elementi di spettacolarità degli allestimenti, testimoniano dell’estrema importanza che essi rivestivano all’interno della rappresentazione, la quale diventava perciò una specie di interminabile kermesse mondana.

E così accadde probabilmente anche in quell’occasione del 1763, che vide lo spettacolo nel suo complesso accolto assai positivamente, ma la musica non altrettanto, almeno a giudicare dalla reazione di tale Alfonso di Maniago, un Padre gesuita che così ne commentò la cerebralità, che ne comprometteva a suo dire la popolarità:


Su Gluck allego anche un paio di documenti tratti da Musica&Dossier: il primo è un breve ritratto del compositore, fatto da Piero Mioli e comparso sul numero di marzo del 1987; il secondo è uno stralcio dal dossier di Sandro Cappelletto sull’Opera del ‘700, pubblicato nel numero di ottobre 1989.

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Il soggetto dell’opera, su testo di Pietro Metastasio - che venne musicato, prima e dopo Gluck, da altri compositori, fra cui Hasse a Vienna, Mysliveček a Torino e Jommelli a Lisbona – è ambientato nell’antica Roma, ai tempi immediatamente successivi al contrastato dominio etrusco (508 a.C.) Precisamente quando Porsenna cinse d’assedio la città per abbatterne la Repubblica, e restaurarvi la monarchia di Tarquinio il Superbo, che un anno prima era stato defenestrato e costretto all’esilio da Giunio Bruto, postosi alla testa della rivolta dei romani contro i tiranni etruschi, innescata dallo stupro di Lucrezia da parte del figlio del Re, Tarquinio Sestio. Costui – assassinato poco dopo la cacciata da Roma - è il protagonista del dramma The Rape of Lucretia di Shakespeare (poi musicato da Britten) le cui vicende si svolgono nel 509 a.C. Tutte vicende che furono narrate abbastanza in dettaglio da autori latini (e non solo) Tito Livio in primis.

Il Tito Tarquinio deuteragonista dell’opera di Metastasio-Gluck è invece un fratello che ha attitudini un po’ diverse da quelle di Sestio (un tipo, quest'ultimo, assetato di femmine, e in particolare di donne virtuose, come Lucrezia, evidentemente prede più pregiate – perché più difficili da conquistare – delle facili sgualdrinelle di cui poteva disporre in quantità industriale). Lui stesso, nella prima scena dell’opera, ci tiene a precisare a Clelia di non essere (come) Sestio, ma di desiderarla onestamente come consorte. In compenso però vedremo come non esiterà a mettere in atto una montagna di inganni, pur di raggiungere il suo nobile (?) obiettivo.

Si noti che, mentre la trama dello Stupro di Lucrezia (sia in Shakespeare che in Britten) è sufficientemente fedele alle fonti (pseudo)storiche, questa di Metastasio è una invenzione bella e buona, che fonde fantasticamente in un unico libretto fatti e personaggi diversi e disgiunti. In particolare, a Tarquinio affianca come protagonisti due personaggi romani diventati famosi – l’uno indipendentemente dall’altra - per le imprese da loro compiute al tempo dell’assedio di Roma da parte di Porsenna, imprese che vengono mostrate in scena nell’opera (rispettivamente nel secondo e terzo atto): si tratta di Orazio (Coclite) che si oppose da solo ai nemici etruschi, impedendone l’accesso al ponte Sublicio (da cui avrebbero potuto entrare in Roma) il tempo necessario ai compagni alle sue spalle per demolirlo, e raggiungendo poi a nuoto la riva romana; e di Clelia, una giovane ragazza della nobiltà romana presa da Porsenna in ostaggio (in cambio di una tregua con i romani assediati) che riuscì a fuggire dal campo etrusco ai piedi del Gianicolo, guidando anche le compagne di cattività, con le quali poi attraversò il Tevere a nuoto per riparare a Roma.

Ecco: Metastasio si inventa e ci presenta Orazio come promesso sposo di Clelia, di cui però si è invaghito (per l’appunto) Tarquinio, il quale ha contemporaneamente snobbato la promessa sposa Larissa (figlia di Porsenna) a sua volta innamorata di Mannio, un principe di Veio. Insomma, addirittura due triangoli uniti dal comune vertice Tarquinio! Il quale, come detto, per raggiungere il suo obiettivo, non esita a prodursi in una serie impressionante di menzogne, false promesse, inganni, macchinazioni e calunnie ai danni di Orazio, indirettamente provocando i due atti di eroismo compiuti dal medesimo Orazio e da Clelia.

Qui però – a differenza del caso di Lucrezia - c’è il lieto fine (per la verità confermato dagli storici): Porsenna perdona i romani, riconoscendo il loro valore, e rinuncia per sempre alla conquista della città, mentre a Tarquinio, del quale vengono finalmente smascherate tutte le ignobili trame, non resta che darsela a gambe…
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Nella produzione di Gluck il Trionfo arriva pochissimo tempo dopo l’Orfeo, che aveva segnato la svolta riformatrice del melodramma settecentesco, operata dal compositore tedesco in combutta con il librettista Ranieri de’ Calzabigi e con la benedizione di Giacomo Durazzo, arrivato come diplomatico della Repubblica di Genova in quel di Vienna e colà poi nominato Generalspektakeldirektor al Teatro di Corte. Riforma che ebbe come cardini: il passaggio dai recitativi secchi (accompagnati solo dal continuo) a quelli accompagnati (da parte dell’orchestra); lo smagrimento dei puri virtuosismi vocali e un riavvicinamento al recitar cantando e alla valorizzazione degli aspetti peculiari del dramma (con il conseguente abbandono della struttura schematica delle arie) e l’introduzione di brani d’insieme: duetti, terzetti, e soprattutto cori. Al confronto, il Trionfo appare – probabilmente a causa delle circostanze extra-artistiche che la condizionarono, e del ritorno ai testi di Metastasio – come un passo indietro rispetto all’Orfeo, un riflusso verso la tradizione consolidata, anche se non vi mancano di certo aspetti innovativi. (Gluck tornerà presto alla sua personale rivoluzione con Alceste.)

Ecco quindi ancora i lunghissimi recitativi secchi, ben 29 (9+11+9, nei tre atti) che solo in 8 occasioni (2+4+2) lasciano il passo a quelli accompagnati. Ed ecco ancora le classiche arie bi-strofiche tripartite: A – B – da capo A (con piccole varianti).  Sono ben 18 (7+6+5, di quattro versi a strofa, salvo la 4, la 8 e la 13, con tre). La tipica struttura delle arie prevede una prima esposizione della prima strofa in una tonalità che modula alla dominante; poi una ripetizione della prima strofa sulla tonalità che parte dalla dominante e torna alla tonica. La seconda strofa – non ripetuta – è abitualmente nella relativa minore della tonalità base. Poi – da capo - si riespone la prima strofa.

Qui abbiamo un solo duetto (nell’atto secondo) e soprattutto mancano i cori (quello indicato a chiusura dell’opera, monostrofa, è di fatto un breve quartetto). Nel second’atto compaiono anche gli unici due pezzi strumentali (oltre all’Overtura): una Marcia ed una Sinfonia (ripetuta). In tutto quindi abbiamo 23 numeri: Overtura+7+9+6.   

Salvo Porsenna che è un tenore, le altre voci sono di contralto (Mannio) e di soprano (Clelia, Larissa, Orazio e Tarquinio) con le seguenti estensioni (si consideri che ai tempi il diapason era circa mezzo tono più basso di quello di oggi, tant’è che l’esecuzione di opere come questa si fa a 415Hz invece che allo standard 440):


Questi furono gli interpreti della prima bolognese:


Come si può notare, le parti di soprano e contralto dei personaggi maschili erano sostenute da… signori (già, era l’epoca dei castrati).

La distribuzione dei numeri prevede: per Orazio e Clelia 4 arie a testa (2+1+1) più il duetto; per Tarquinio, Larissa e Porsenna 3 (1+1+1) e per Mannio una (second’atto). Clelia-Larissa e Orazio-Mannio cantano il coro finale. Qui il libretto originale stampato in occasione della prima, con i testi delle arie evidenziati da riquadri. 

L’organico orchestrale include, nei fiati: coppie di flauti, oboi, fagotti, corni e trombe; poi timpani, archi e cembalo. I violoncelli (salvo l’Overtura e l’Aria N°11) e i contrabbassi, oltre ad un fagotto e al cembalo, suonano solo la parte di continuo. Per le 28 rappresentazioni originali risultano essere stati impiegati complessivamente 58 orchestrali, il che fa supporre che la sezione archi fosse particolarmente nutrita.
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I tre atti dell’opera comprendono in tutto 35 scene (11+14+10) precedute dal

N°1 Overtura in tre tempi: Moderato (introduzione, 4/4) e Allegro (3/4) in DO maggiore; Andante (2/4) in LA minore; Minuetto (3/4) in DO maggiore.

L’Allegro è in forma-sonata piuttosto semplice: dopo un’introduzione viene esposto il primo tema in DO maggiore, che poi modula alla dominante per la presentazione di un secondo tema, in SOL. Segue direttamente la ripresa del primo tema, con relativa introduzione e poi quella del secondo, accodatosi ora alla tonalità del primo; la cui introduzione fa anche da chiusa.

L’Andante consta di due sezioni ripetute, la prima che modula dal LA al MI minore; la seconda che compie il percorso inverso, dal MI al LA minore. La melodia presentata è sempre la stessa, carica di mestizia e di ansiosi fremiti allo stesso tempo.

Il Minuetto è strutturato su tre sezioni, le prime due ripetute, che presentano il tema festoso e un suo controsoggetto; la terza che serve da cadenza conclusiva.

I motivi dell’Overtura non sono legati a temi dell’opera, ma le tre diverse parti richiamano genericamente la regalità dello scenario, le vicende anche dolorose che vi si svolgono, e il lieto fine che corona la vicenda.

N°2 Aria Sì, tacerò, se vuoi (Tarquinio): dopo che nella prima scena Tarquinio ha invano cercato di far cadere le resistenze di Clelia, promettendole persino il trono di Roma in cambio del suo amore, nella seconda scena arriva Larissa, promessa sposa all’etrusco, il quale le si rivolge con fare ipocrita, suscitandone lo sdegno. Zittito dalla figlia di Porsenna, Tarquinio intona quest’aria in cui accetta di tacere, ma contemporaneamente esprime i suoi sentimenti per Clelia. È un’aria dal carattere severo, che sottolinea l’inquietudine che attanaglia l’animo di Tarquinio e la confessione del suo struggimento per Clelia. Il tempo è Andante (4/4) la tonalità va dal DO al SOL maggiore, al LA minore della seconda strofa. L’accompagnamento è limitato agli archi alti.

N°3 Aria Ah, celar la bella face (Larissa): nella terza scena Larissa e Clelia si sono confidate una parte dei rispettivi segreti. Clelia ha confermato le pretese che Tarquinio ha su di lei; Larissa, nella sua aria, si lascia andare ad ammettere di essere innamorata (chiunque capisce dal contesto che non sia Tarquinio colui che la fa sospirare…) Un’aria la cui atmosfera non si discosta molto da quella precedente di Tarquinio – anche nella struttura dell’accompagnamento di soli violini e viole, oltre al continuo - con in più un paio di momenti drammatici, di canto quasi declamato. Tempo Larghetto (3/4) tonalità fra il SOL e RE maggiore, con seconda strofa in SI minore.

N°4 Aria Resta, o cara (Orazio): la quarta scena vede l’incontro tra Clelia e il promesso sposo Orazio, arrivato per trattare con gli etruschi. Lei vorrebbe fuggire, preoccupata dall’atteggiamento aggressivo di Tarquinio, mentre lui la invita a restare, per non suscitare ritorsioni da parte di Porsenna. Dopo un batti-e-ribatti, Clelia si convince della nobiltà patriottica degli intenti di Orazio e della sincerità delle sue intenzioni, e decide di restare. Arriva Mannio (quinta scena) a convocare Orazio presso Porsenna, così il romano canta la sua aria, nella quale rincuora la giovane, invitandola a coniugare amor patrio e fedeltà. L’aria è in tempo Maestoso, RE e LA maggiore (la prima strofa, dove compaiono anche i corni, oltre agli archi) e Andante, FA maggiore (la seconda). La prima strofa (4/4) è ricca di quartine di semicrome che rendono il canto assai agitato, come è logico sia, dato il testo; la seconda invece (3/4) è assai riflessiva, laddove Orazio invita Clelia ad essere fiduciosa ed ottimista per il futuro.  

Recitativo accompagnato Grazie, o dei protettori (Clelia): avviatosi Orazio verso Porsenna, Clelia rimane per un po’ ancora con Mannio (scena sesta) e gli rivela che Larissa non ama Tarquinio, ma… altri. Mannio comincia quindi a sperare, ed offre a Clelia i suoi servigi (di indagatore su Tarquinio). Nella settima scena ascoltiamo dapprima Clelia in uno dei pochi recitativi accompagnati (Andante, 4/4) in cui la giovane ringrazia il cielo per aver riacquistato fiducia in se stessa, in Orazio, in Roma, nel futuro. Vi sentiamo tutta la sua carica di orgoglio, di dignità e di decisione. Il recitativo è accompagnato dagli archi con piglio nervoso e note insistentemente ribattute, ad introdurre la successiva

N°5 Aria Tempeste il mar minaccia (Clelia): la giovane romana la canta mescolandovi le preoccupazioni per il presente e le speranze per il futuro. In tempo Allegro (3/4) ascoltiamo una lunga introduzione in DO maggiore, dove oboi, fagotto e corni si uniscono agli archi per evocare l’agitazione che pervade l’animo di Clelia, agitazione però mista all’ottimismo che ormai si è fatto largo in lei. DO e SOL maggiore si scambiano i ruoli, nella consueta ripetizione della prima strofa, caratterizzata da lunghe volate del soprano. La seconda strofa, un poco più tranquilla nel pathos, gravita in tonalità di LA minore.    

N°6 Aria Sai che piegar si vede (Porsenna): l’ottava scena è dedicata alla descrizione della trattativa di pace-guerra fra Porsenna ed Orazio. Il Re etrusco è un ammiratore di Roma e dei romani, e vorrebbe una conquista… condivisa (le larghe intese, già a quei tempi!?) Ma Orazio è inamovibile: Roma vuole libertà o guerra. E qui il saggio Porsenna cerca di convincere Orazio con una similitudine: fra l’arbustello flessibile, che resiste anche alle tempeste, e la quercia tutta d’un pezzo, che però da un uragano può essere sradicata. Questo è il succo dell’aria, un Andante in 4/4 alla breve, FA maggiore (con modulazioni a modulazioni a DO e RE minore) dove udiamo, oltre agli archi, anche flauti ed oboi, ad evocare turbini e folate di vento. Un’aria estremamente impegnativa, dacchè il tenore è chiamato a continue volate di semicrome, oltre ad alcune salite al DO acuto. L’aria ha una struttura diversa dallo standard: le due strofe si succedono nello stesso ambito tonale e manca il da-capo.    

Recitativo accompagnato Che crudel sacrifizio (Orazio e Clelia): nella nona scena abbiamo assistito ad un drammatico incontro fra Orazio e Tarquinio. Il principe etrusco ha fatto al nobile romano una proposta tanto oscena, quanto ingannevole: tu mi lasci la tua Clelia, ed io ti lascio Roma! E Orazio, che antepone il bene pubblico a quello privato (toh! proprio uguale a un certo Berlusconi, smile!) si è lasciato convincere. Nella decima scena lo ascoltiamo in questo recitativo accompagnato, mentre si strugge al pensiero di come far digerire l’inciucio alla promessa sposa; e gli archi ben sottolineano il suo stato d’animo, diciamo così, un po’ dissociato. Ora Clelia lo raggiunge e si fa ragguagliare sull’esito (negativo) dell’incontro di Orazio con Porsenna, dopodiché Orazio cerca (invano) di trovare le parole per raccontarle dell’accordo con Tarquinio, come ascoltiamo nella successiva

N°7 Aria Saper ti basti, o cara (Orazio): siamo in Adagio (3/4) MI bemolle maggiore (e dominante SIb) con presenza dei corni la prima strofa; DO minore (soli archi) la seconda. Un’aria stupenda, piena di struggimento e di calore che sgorgano da un’anima profondamente innamorata, ma decisa al sacrificio dell’amore medesimo, per una superiore causa.

N°8 Aria Mille dubbi mi destano nel petto (Clelia): siamo entrati nell’undicesima ed ultima scena del primo atto e Clelia ha ben percepito dallo strano comportamento di Orazio che lui le nasconde qualcosa. Ed esterna tutta la sua ansia in quest’aria in Allegro (4/4) DO maggiore (SOL maggiore), ancora con l’intervento dei corni. La prima strofa, introdotta dall’orchestra che prepara il clima mosso, presenta una serie di volate e picchiettature che sottolineano l’agitazione dell’anima di Clelia di fronte al reticente atteggiamento dell’amato. La seconda (Andante non molto, 4/4 alla breve, DO minore) lascia spazio ad una specie di rassegnazione al dolore che è piombato sulla giovane. Si può prendere quest’aria come esempio del vecchio stile dell’opera italiana, volto a valorizzare, oltre ogni contesto drammatico, l’abilità del cantante:
Il secondo atto si apre con Tarquinio che aspetta notizie da un messaggero, che finalmente arriva e gli conferma che il piano per attaccare Roma di sorpresa è pronto e i suoi uomini stanno ammassandosi verso il ponte Sublicio. Tarquinio scorge Orazio aggirarsi pensoso e immagina che sia in procinto di comunicare il loro accordo a Clelia.
  
N°9 Aria Dei di Roma, ah perdonate (Orazio): nella seconda scena il nobile romano è ancora alle prese con il suo interiore conflitto (roma-amor, smile!) ed esterna il suo cruccio con questa aria (Moderato, 3/4) introdotta e poi sostenuta dall’intera orchestra, compresi i fiati (trombe escluse). La prima strofa è in tonalità FA maggiore; la seconda nella relativa RE minore. Un’aria davvero straordinaria, di una semplicità e naturalezza impareggiabili.

N°10 Duetto Sì, ti fido al tuo gran core (Clelia e Orazio): Orazio sembra deciso a rivelare finalmente a Clelia il suo accordo con Tarquinio, fiducioso che il patriottismo della ragazza le farà… ingoiare il rospo. Ma ecco – terza scena - Clelia sopraggiungere agitatissima, il che lascia sospettare Orazio che lei abbia già scoperto tutto. Ma non è così, ciò che Clelia ha invece accertato, grazie ad una soffiata di Mannio, è il proditorio piano di Tarquinio per attaccare Roma. Orazio decide allora di sbarrare il passo agli etruschi al ponte Sublicio. Clelia cerca di dissuaderlo, considerando l’impresa impossibile, ma Orazio la convince che questo è l’unico mezzo per salvare Roma. E così i due si congedano con questo duetto, un Andante in 4/4, in SOL maggiore (e RE maggiore) sostenuto anche da oboi, fagotti e corni. I due dapprima dialogano, poi cantano per terze il loro duplice amore, quello personale e quello di patria.

N°11 Aria Sol del Tebro in su la sponda (Porsenna): nella quarta scena assistiamo al colloquio di Porsenna con la figlia, alla quale il padre chiede la ragione della sua tristezza. Larissa gli rivela quindi di odiare Tarquinio, e Porsenna comprende che ci sia di mezzo Mannio. In quel momento – scena quinta – arriva Clelia, furibonda, a protestare col Re etrusco per l’inganno di Tarquinio. Porsenna, ignaro e scettico, le chiede le prove di quanto sospetta, e lo fa cantando quest’aria (Andante, 4/4) in SI bemolle maggiore (e FA maggiore) accompagnata dai soli archi (qui anche dai violoncelli). La seconda strofa è nella relativa SOL minore. Un’aria assai mossa, caratterizzata da frequenti volate di crome e semicrome. 

N°12 Aria Dico che ingiusto sei (Larissa): nella sesta scena Larissa cerca a sua volta di convincere Clelia dell’infondatezza delle sue accuse a Tarquinio, ipotizzando che anche Mannio sia caduto in errore. Ma ecco che sopraggiunge proprio lo spasimante di Larissa – scena settima – che conferma tutto, rincarando la dose riguardo l’imminente pericolo per Roma. Clelia allora decide di andare a difendere la sua città, mentre Larissa e Mannio, nella scena ottava, recitano una specie di commedia degli equivoci, nessuno dei due trovando il coraggio di rivelare all’altro il proprio amore. Così Larissa esterna il suo cruccio in quest’aria (Andante non tanto, 4/4) accompagnata dai soli archi, chiedendo a Mannio di non odiarla, ma di non pretendere che lei lo ami. La prima strofa è in FA maggiore (DO maggiore) e la seconda in RE minore.  

N°13 Aria Vorrei che almen per gioco (Mannio): nella nona scena vediamo Mannio sconsolato dopo l’incontro con Larissa, cantare la sua speranza che Larissa gli dichiari il suo amore anche per scherzo, poiché il gioco si può col tempo tramutare in affar serio (!?) L’aria, introdotta ed accompagnata anche da flauti e corni, è un languido Andantino in 3/4 in SOL maggiore. Entrambe le strofe (3 versi) sono esposte di seguito e ripetute, con leggere variazioni; poi viene riesposta la prima strofa, seguita da un postludio. Come detto, questa è l’unica aria riservata a Mannio.    

N°14 Marcia: la decima scena è occupata dalla prima parte dello scontro fra gli etruschi e Orazio al ponte Sublicio. Dapprima gli etruschi si inoltrano sul ponte, abbandonato dai guardiani romani, e udiamo questa marcia (tempo Maestoso, 4/4, RE maggiore) suonata da tutta l’orchestra (trombe comprese). È in due sezioni ripetute, di sole 7 battute ciascuna: enfatica e solenne, con gran cipiglio.

Recitativo accompagnato No, traditori, in ciel di Roma (Orazio): Orazio, evidentemente già salito sul ponte in precedenza, affronta da solo gli etruschi, e il suo canto minaccioso è sostenuto dagli archi con biscrome ribattute.

N°15 Sinfonia: ecco la battaglia sul ponte, fra gli etruschi e il solo Orazio, favorito evidentemente dalla strettezza della… passerella, che gli consente di respingere i nemici. La sinfonia riprende lo stesso ritmo della Marcia precedente, in tempo Presto (4/4, sempre RE maggiore). Sono due sezioni, rispettivamente di 8 e 12 battute.

Recitativo accompagnato Ecco il tempo, o Romani (Orazio): accompagnato solo da secchi accordi degli archi, Orazio incita i suoi compatrioti a distruggere il ponte alle sue spalle, per togliere al nemico l’unica via di accesso a Roma.

Recitativo accompagnato Dove, o codardi? (Tarquinio e Orazio): siamo all’undicesima scena e l’introduzione tempestosa degli archi ci testimonia dell’arrivo trafelato del principe etrusco. Il quale, accompagnato ora solo dal continuo, ferma i suoi, ormai in rotta, costringendoli a tornare all’assalto del ponte. Gli archi riprendono il loro accompagnamento agitato, mentre Orazio rifiuta di dare ascolto ai suoi che gli chiedono di abbandonare la posizione ed invece torna ad affrontare la seconda ondata di etruschi. I romani incendiano e fanno a pezzi il ponte alle sue spalle, mentre l’orchestra reitera per intero la Sinfonia (N°15).

Recitativo accompagnato Ah da’ cardini suoi (Clelia): siamo ora nella dodicesima scena e Clelia è arrivata sul posto, vede Orazio che ha nuovamente respinto il nemico e che ora, distrutto il ponte, decide di abbandonarlo… buttandosi in acqua per raggiungere la sponda romana, mentre la povera Clelia rimane lì costernata e disperata.

N°16 Aria Io nemica? A torto il dici (Clelia): Tarquinio – tredicesima scena - se la prende con la malasorte, ma già architetta un nuovo piano, incolpare Orazio e i romani della rottura della tregua. Vede Clelia, un po’ risollevata dal vedere Orazio sano e salvo sull’altra sponda, ed ancora cerca di convincerla ad amarlo. Ma lei gli risponde per le rime con quest’aria, dove gli rinfaccia le sue scelleratezze e lo svergogna da par suo. L’aria (4/4, tonalità FA) è assai breve (45 battute in tutto): è in tempo Sostenuto (prima strofa) e poi Più andante (seconda strofa, dove Clelia fa i suoi secchi rimproveri a Tarquinio). L’incipit della prima strofa viene ripetuto, seguito da un postludio orchestrale. Ecco, quest’aria può essere presa ad esempio del nuovo corso che Gluck aveva aperto con Orfeo:

N°17 Aria Non speri onusto il pino (Tarquinio): nella quattordicesima, ed ultima scena dell’atto secondo, troviamo Tarquinio architettare il suo ennesimo piano scellerato, consistente nell’organizzare il rapimento di Clelia (all’uopo verga un foglio con gli ordini per un suo fedelissimo) e nel contempo convincere Porsenna della colpevolezza di Orazio e dei romani. Si rende perfettamente conto dei rischi che sta correndo, ma nell’aria che canta sembra parafrasare con poetici versi il motto chi non risica, non rosica. L’aria, introdotta e accompagnata anche da oboi e corni, è un Andante in 4/4. La prima strofa è al solito esposta nella tonalità base (LA maggiore) con modulazione alla dominante (MI maggiore) nella quale viene ripetuta, con ritorno al LA. Qui viene ancora ripetuta due volte, con variazioni, nella tonalità di base. La seconda strofa è in RE maggiore ed è seguita dalla ripresa in LA maggiore dell’introduzione e della prima strofa, con mutate colorature virtuosistiche. Un postludio conclude l’aria e l’atto.

Il terzo atto si apre, come il primo, nelle stanze del palazzo dove Clelia è ospitata – in realtà come ostaggio – dagli etruschi. La giovane non si spiega il comportamento di Re Porsenna – che non crede alle malefatte di Tarquinio – e soprattutto di Larissa. Così canta la sua   

N°18 Aria Tanto esposta alle sventure (Clelia): un’aria relativamente breve (senza il da-capo, di 75 battute) dove l’accompagnamento è limitato agli archi e siamo in tempo Moderato, 4/4 in LA maggiore. La prima strofa modula a MI maggiore, da dove la seconda riparte per tornare al LA, per cedere infine spazio alla prima.

Recitativo accompagnato Eterni dei! (Clelia): invece di Larissa arriva un emissario di Mannio, che consegna a Clelia un foglio. È l’ordine del suo rapimento stilato da Tarquinio, che Mannio ha evidentemente intercettato e glielo ha fatto recapitare (sarà la prova decisiva contro il principe etrusco). Clelia vorrebbe fuggire, ma sopravviene Tarquinio. Nel recitativo accompagnato  (Presto, poiché è l’agitazione che imperversa nel suo animo) ascoltiamo la giovane impegnata a trovare una via d’uscita per sfuggire al reprobo: per sua fortuna i cancelli sono aperti e nei paraggi c’è miracolosamente un cavallo, che lei impiegherà per scendere al Tevere, attraversarlo e riparare a Roma.

N°19 Aria Ah ritorna età dell’oro (Larissa): nella seconda scena Tarquinio viene raggiunto da Larissa, intenzionata a difendere Clelia dalle mire del principe. Ma invece di Clelia trova il suo mantello e, scrutando in lontananza, addita a Tarquinio la giovane romana che sta guadando il fiume. Larissa resta sola (terza scena) e manifesta la sua preoccupazione per Clelia, che teme travolta dai gorghi del fiume, e impreca contro il destino che non punisce i colpevoli. Poi canta la sua aria (Tempo di Minoè, 3/4). La prima strofa è in SOL maggiore, modula a RE e riprende da lì per tornare al SOL. La seconda strofa (dove agli archi si aggiunge il fagotto) è in SOL minore e SIb maggiore, chiudendo ancora in SOL minore per preparare il da-capo della prima.

N°20 Aria Spesso, sebben l’affretta ragione (Porsenna): nella quarta scena si incontrano Porsenna e Tarquinio. Il Re sembra convinto della colpevolezza dei romani (e Tarquinio in ciò lo spalleggia) ma prova anche grande ammirazione per i nemici; tuttavia ha deciso: sarà guerra contro Roma. La scena successiva (quinta) vede l’arrivo di Mannio che annuncia un ambasciatore romano. Porsenna si appresta a riceverlo e nella sua aria manifesta la volontà di essere duro e intransigente. L’aria, introdotta e poi sostenuta dai soli archi, è in tempo Andante, 4/4 alla breve, LA maggiore, andamento marziale. La prima strofa modula presto alla dominante MI maggiore. Viene ripetuta, partendo dal MI per tornare al LA di partenza. La seconda strofa è nella relativa minore (FA#) e presto chiude per lasciar spazio alla ripetizione della prima.

N°21 Aria Sin questa selva oscura (Tarquinio): nella sesta scena troviamo Tarquinio solo e quasi disperato: sente che ormai per lui sta arrivando il redde-rationem e comincia a perdere fiducia in se stesso. Lo canta nella sua aria, Andante 4/4 alla breve, FA maggiore, con introduzione e successivo sostegno dei soli archi. La prima strofa modula rapidamente a DO maggiore, poi viene ripetuta e dal DO torna al FA, dove viene ancora ripetuta e variata. La seconda strofa è in RE minore, poi la prima viene canonicamente ripetuta.

Recitativo accompagnato Violatrice Roma de’ giuramenti! (Orazio): nella scena settima ritroviamo Porsenna in attesa dell’ambasciatore romano. Tarquinio, sempre più intimorito, annuncia che si tratta nientemeno che di Orazio! Porsenna, come sempre magnanimo, si appresta a dargli accoglienza dignitosa. Così nell’ottava scena assistiamo allo scambio di accuse fra Orazio e Porsenna (spalleggiato da Tarquinio) che si rimpallano la responsabilità della rottura della tregua. Quando a Porsenna viene annunciata la fuga di Clelia la situazione sembra precipitare per i romani, e a Orazio non resta che proclamare la strenua volontà di Roma di resistere all’invasione. Lo fa dapprima nel recitativo accompagnato, sostenuto da agitatissime semicrome degli archi, e poi nella successiva

N°22 Aria De’ folgori di Giove (Orazio): con tutta la potenza dell’intera orchestra, l’Allegro assai, 4/4, attacca nel luminoso DO maggiore. La prima strofa, caratterizzata da lunghi arpeggi della voce, vira al solito alla dominante SOL, poi nelle ripetizioni, variate, torna da SOL al DO. La seconda strofa è in LA minore, che modula poi al MI per preparare la ripetizione integrale della prima strofa.

N°23 Coro Oggi a te, gran re toscano: nella nona scena ancora Tarquinio cerca di scacciare dalla mente di Porsenna l’ammirazione che il Re etrusco prova per l’orgoglio dei romani. Ma ecco il colpo di scena (decima) finale: arriva Clelia! Tarquinio cerca l’ultima disperata difesa, ma viene smascherato quando Clelia mostra a Porsenna il messaggio del principe etrusco che progettava il suo rapimento. Tarquinio se la dà a gambe, mentre Porsenna non può che lodare la lealtà, il coraggio, il patriottismo e l’onestà dei romani, concedendo loro la libertà e decidendo la rimozione dell’assedio. Il brevissimo coro finale (solo 36 battute in Allegro, 3/4 in RE maggiore) cantato con la piena orchestra dalle due coppie felicemente congiuntesi (Clelia-Orazio e Larissa-Mannio) suggella il lieto-fine.
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Certo, quest’opera non si può propriamente considerare un capolavoro, e la sua caduta nel dimenticatoio dopo il successo delle prime rappresentazioni non è del tutto immeritata. Ma resta comunque un bell’esempio di opera italiana, che cerca di sfruttare al meglio le caratteristiche delle voci che nel ‘700 spopolavano, castrati in primis. Così si spiegano tutti gli abbellimenti e i virtuosismi tecnici di cui è ricca, destinati ad esaltare le qualità delle voci. Ma vi si trovano anche squarci delle nuove strade che Gluck stava aprendo al teatro musicale. 

Per il resto, la spropositata lunghezza dei recitativi secchi (quasi un’ora, circa un terzo della durata complessiva), la rigidità quasi maniacale (con poche eccezioni) della forma delle arie e l’assenza di numeri di insieme rischiano di renderla, a noi che veniamo da due secoli e mezzo di… evoluzione, piuttosto noiosa e stucchevole. 

Devo dire subito però che l’allestimento di questa ripresa ha contribuito in buona misura a renderci l’opera più digeribile. Un allestimento, già presentato ad Atene e a Londra nel 2012, che è stato reso possibile attraverso un progetto europeo di TAO (Tutti All’Opera); l’incisione diretta da Giuseppe Sigismondi de Risio è ascoltabile integralmente (è anche accessibile direttamente da Youtube) anzi… di più, essendovi duplicata la parte finale del second’atto (circa 17 minuti, da 2h 24’ 00” – Sinfonia - al termine, 2h 40’ 50”). Oltre al Direttore, altri quattro (su sei) interpreti fanno parte del cast di questa edizione bolognese. 

Si tratta di Mary-Ellen Nesi (Orazio); Burçu Uyar (Larissa); Irini Karaianni (Tarquinio) e Vassilis Kavayas (Porsenna). Ai quali si affiancano qui Maria Grazia Schiavo (la protagonista) e Daichi Fujiki (Mannio). Non saranno dei mostri sacri, ma in questo repertorio mi sentirei di accomunarli in un unico e sincero apprezzamento, insieme a quello per gli strumentisti del Comunale (41 in tutto) e al Direttore de Risio. Tutti accolti alla fine da grandi  e meritate ovazioni. 

Rispetto all’incisione citata, qui a Bologna c’è un drastico taglio dei recitativi (la durata totale dello spettacolo - strutturato in due tempi: primo atto e poi secondo+terzo - è di circa due ore e 15’, intervallo escluso). Il che elimina un po’ di parti noiose, anche se poi rischia di rendere l’intera trama più difficile da seguire per uno spettatore poco… preparato. Ma tutto sommato mi è parso un compromesso dignitoso, compreso lo spostamento di arie nel finale: quella di Tarquinio (Sin questa selva oscura) viene messa dopo quella di Orazio (De’ folgori di Giove) all’interno della scena conclusiva. Nella quale anche Porsenna, dopo la sua magnanima decisione, si unisce alle due coppie innamorate per cantare, anzi… cantarsi, l’epinicio che chiude l’opera. 

La proposta di Nigel Lowery a prima vista potrebbe apparire cervellotica e strampalata, ma in realtà mi sembra animata da lodevoli intenzioni: evita, come ovvio, ogni grandiosità di cartapesta (quella per cui andavano matti nel ‘700) e quindi niente cavalli in carne ed ossa, nè il finto incendio di un ponticello, o la ridicola simulazione di guadi del Tevere; allo stesso tempo non inventa ambientazioni astruse, non tira in ballo Freud, non veste i personaggi con cappotti-ddr… e allora, che fa? 

Ecco, semplicemente ci narra questa vicenda un po’ come immaginavamo la Storia di Roma noi bambini delle elementari, a sentirla raccontata dalla signora maestra e a guardare le figure sul sussidiario: il Re Porsenna (già l’onomatopea del nome incuteva timore!) che vuole soggiogare Roma; Orazio Coclite che da solo respinge eroicamente un intero esercito di etruschi; e poi Muzio Scevola che sfida Porsenna immergendo la mano nel braciere, e ancora gli Orazi e Curiazi, e così via fantasticando. 

E la storia sembra infatti rappresentata in un teatrino scolastico, al saggio di fine anno, fra banchetti di scuola e scenografie di compensato (felicissima quella del ponte Sublicio fatto con scatoloni di cartone accatastati - su cui scorrono immagini animate degli scontri fra Orazio e i nemici - e poi buttati all’aria al momento opportuno). O dove il Tevere in piena è evocato semplicemente da un film che fa scorrere acqua sul pavimento; e il destriero di Clelia da un cavallino-giocattolo… 

I personaggi stessi sono vestiti con costumi fantasiosi, quasi fossero maschere di carnevale, e le loro personalità evocate in modo efficace e pertinente da semplici posture o oggetti (come Larissa con la bambola di pezza o Porsenna sempre immerso in attività intellettuali). 

C’è anche qualche accenno non troppo intrusivo agli aspetti più ideologici dell’opera: lo spirito di sacrificio e l’anelito alla libertà, con tanto di proclamazione della superiorità della ResPublica su tutti i totalitarismi.

Tirando le somme: uno spettacolo piacevole e meritevole del consenso che (almeno ieri sera) gli è stato tributato. Da un pubblico – ed ecco la nota davvero dolentissima – che occupava forse la metà (alla fine anche meno) delle poltrone del Bibiena.