intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

28 marzo, 2013

Novità (quasi) assoluta alla Scala


Dopo Quartett di Francesconi, presentato nella passata stagione, ecco ancora una novità quasi assoluta nel cartellone della Scala: Cuore di Cane di Alexander Raskatov (2009) basata su un racconto di Michail Bulgakov della prima metà del ‘900, nell’epoca del consolidamento dei Soviet.

Per cominciare, una notazione di carattere linguistico: siamo, è vero, in tempi di globalizzazione selvaggia, ma è davvero singolare, per non dire ridicolo, che un’opera che ha il libretto originale scritto in italiano (da Cesare Mazzonis) venga rappresentata in Italia in lingua russa (traduzione di George Edelman) con sopratitoli in italiano!!! Mentre il programma di sala reca, toh!, esclusivamente il testo italiano, che diverge non poco da quello della traduzione russa, come si deduce dai tagli elencati sul programma scaligero e come chiunque può (più o meno facilmente) presumere ascoltando la registrazione della prima andata in scena poco tempo fa ad Amsterdam, dove l’opera fu commissionata.

Poi, indagando, si viene anche a sapere che la traduzione in russo è stata approntata anche in vista della rappresentazione dell’opera in quel Paese, cosa che però è risultata fino ad oggi impossibile, a causa dell’opposizione di un erede di Bulgakov, che millanta diritti di copyright sull’originale. Insomma, roba da… cani (smile!) E chissà se dentro a questa intricata faccenda non ci stia anche il forfait dal podio di tale Valery Gergiev.

La storia di Bulgakov – invero inverosimile – si colloca nel solco della letteratura russa paradossal-parodistica (tipo Il Naso di Gogol-Shostakovich, per dire) e vorrebbe essere una satira al vetriolo contro certe ideologie staliniste (l’uomo nuovo, modellato in provetta da scienziati pazzi) e contro le contraddizioni del regime, che tollera che all’interno della nuova società egualitaria sopravvivano sacche di privilegi borghesi, per non dire feudali.   

Va detto che lo spettacolo che la coppia di autori Mazzonis(Edelman)-Raskatov e il regista Simon McBurney hanno messo in piedi appare, almeno al primo contatto, assai accattivante, con la sua doppia essenza: di divertente farsa (l’atto primo) seguita dall’autentico dramma (atto secondo) del fallimento dell’uomo-cane, o cane-uomo, fino all’inevitabile e necessaria revoca del folle esperimento (revoca peraltro tardiva ed inefficace, secondo il finale di Mazzonis-Raskatov, che contraddice l’originale lieto-fine di Bulgakov). E proprio perché intelligente e interessante, in Italia l’opera meriterebbe di esser rappresentata nella nostra lingua (gli albionici ci hanno ancora una volta dato una lezione, offrendola al pubblico di Londra tradotta in inglese) per rendercela vieppiù digeribile. Chissà se ci sarà un’altra occasione… intanto questa però è stata persa, come dimostrano gli enormi vuoti che anche ieri sera si sono registrati in teatro, insieme al fuggi-fuggi nell’intervallo. Sì perché, diciamolo chiaro, se uno non ha come minimo letto prima, e molto attentamente, il libretto, rischia di non capirci proprio nulla e di mandar tutti a quel paese…

Il fatto è che la trama non è proprio così lineare e immediatamente comprensibile (se ascoltata in una lingua sconosciuta) poiché alla vicenda surreale del cane trasformato in uomo si sovrappongono e si mescolano altre vicende che pochissimo o nulla hanno a che fare con quella del cane, ma moltissimo con alcune problematiche psico-sociologico-politiche dell’epoca proto-staliniana in cui il soggetto è ambientato. Ad esempio, dopo che all’inizio si vede il povero cane randagio salvato dalla morte per fame-freddo ed ospitato in un palazzo altolocato, prima di arrivare al momento topico dell’operazione chirurgica che lo trasformerà in uomo, per quasi tutto il primo atto si intercalano – allo scopo evidentemente di mostrarci in quale ambiente il cane sia capitato, ma distogliendo l’attenzione dalla vicenda principale – le scene occupate dalle visite di due pazienti paranoici del professore padrone-di-casa, e poi quella  dell’arrivo dei rappresentanti del soviet-di-condominio che vorrebbero espropriare una porzione dello spazioso appartamento-clinica del medico. Queste scene, se non si conosce in anticipo il testo e in compenso lo si ascolta in ostrogoto, risultano incomprensibili e fuori dal contesto, finendo per disorientare completamente lo spettatore.

E siccome in un’opera di teatro musicale (almeno da 200 anni in qua) la musica è strettamente legata al soggetto letterario, se allo spettatore sfugge il contenuto del soggetto medesimo, a maggior ragione gli sfuggirà quello della musica. Certo, ciò vale per qualunque opera cantata in una lingua sconosciuta allo spettatore, quindi anche per Janacek, Musorgski, e addirittura per Wagner, ma è da autolesionisti buttare alle ortiche un’occasione come questa, dove il soggetto è stato scritto precisamente nella nostra lingua!
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Come dicevo, spettacolo godibilissimo e messo in piedi con grande professionalità da tutto il team di produzione (davvero un Gesamtkunstwerk, cui concorrono cantanti, attori, mimi, intelligenti scene mobili, luci e proiezioni appropriate).

Una curiosità quasi paradossale: al termine del primo atto vediamo l’uomo, che da cane qual’era ha appena assunto in modo completo le sue fattezze, apparire completamente nudo, evidentemente per convincerci senza ombra di dubbio che proprio di uomo si tratti… Ebbene, nella rappresentazione di Amsterdam il protagonista appariva quasi pudicamente con la giacca, da cui spuntava qualcosa di penzolante: evidentemente nella terra dei tulipani (e di Nieuwmarkt…) dev’esser successa una rivoluzione (stra-smile!)
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Fermo restando che il giudizio sui contenuti musicali è difficile darlo dopo solo un paio di ascolti, mi sentirei di dire che Raskatov abbia saputo abbastanza sapientemente destreggiarsi (magari con una dose di sano opportunismo) fra modernità da avanguardie novecentesche e tradizione… romantica. Insomma, una musica che coniuga i necessari pugni-nello-stomaco con squarci di grande lirismo (con tanto di richiami e citazioni ottocentesche).

Certo, solo una maggior consuetudine – a livello personale e generale – potrà dirci se questa sia opera in grado di affermarsi fuori da ristrette cerchie di appassionati e di teatri, oppure finisca per entrare in quel limbo (che a volte prende forma di discarica) in cui si accumulano ogni giorno nuove creazioni musicali.  
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Il pubblico della terza di ieri sera (quello che ha resistito fino alla fine, perlomeno) ha accolto lo spettacolo con favore, se si esclude un isolatissimo buh dal loggione, stagliatosi fra gli applausi alla fine del primo atto. Al termine si sono uditi soltanto applausi abbastanza calorosi per tutti indistintamente i protagonisti dello spettacolo (per le identità dei quali rimando alla locandina, in modo da non far torto a nessuno).

Certo, è difficile giudicare così sui due piedi l’interpretazione musicale (chi può valutare il rispetto della partitura da parte di cantanti e direttore?) Da un lato possiamo immaginare che – date le circostanze, prima fra tutte la presenza in-loco degli autori – tutto sia stato fatto nel migliore dei modi… Per il resto, rimangono l’apprezzamento per l’originalità e la gradevolezza dello spettacolo, apprezzamento che avrebbe potuto ulteriormente crescere di livello con l’impiego delle lingua di casa nostra.

27 marzo, 2013

Orchestraverdi – concerto n.28


Siamo in settimana di… Passione e laVerdi non si sottrae ai suoi doveri e alle sue consuetudini, riproponendo un autentico mostro della musica sacra, la Matthäus-Passion del grande Giovanni Sebastiano. Sul podio lo specialista Ruben Jais.

Prestazione che non esiterei a definire eccezionale di tutto il complesso: dalla doppia orchestra ai doppi cori (più i piccoli) ai solisti, al maestro. Il quale va lodato per il sapiente equilibrio interpretativo, raggiunto attraverso la parsimoniosa distribuzione delle risorse vocali-strumentali, sempre rispettosa della lettera dell’originale.    

Tre ore – nette – di autentica manna per lo spirito, volate via quasi senza accorgersene. E quindi strepitoso successo, in un Auditorium pressochè esaurito.   

Dopo quella standard di oggi, venerdi 29 una replica tutta speciale: intanto perché si terrà nel tempio scaligero; e poi perché fatta a sostegno di una nobile finalità.
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Continuando nel revival di Musica&Dossier, allego qui uno studio sulle due Passioni bachiane di Stefano Catucci e Filippo Gonnelli, apparso nel numero di marzo-aprile 1992 della rivista.
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Jader Bignamini tornerà prossimamente sul podio per una nuova incursione in territorio russo.

22 marzo, 2013

Orchestraverdi – concerto n.27


Giuseppe Grazioli sale sul podio nella stagione principale (lui ne ha una sua propria, che occupa molte mattinate domenicali) per dirigere un programma (quasi) sovietico.

Si parte proprio dall’unico non-sovietico, Stravinski e dalla sua Suite da PulcinellaÈ costituita da 8 (in realtà 11) dei 18 numeri del balletto originale (dove è prevista anche una voce) che Stravinski compose ispirandosi a – anzi, diciamo pure, scopiazzando a più non posso – il buon Pergolesi, più altri musicisti autori di brani erroneamente attribuiti al famoso maestro del settecento:  

1. Sinfonia
2. Serenata
3. Scherzino - Allegretto - Andantino
4. Tarantella
5. Toccata
6. Gavotta (con due variazioni)
7. Vivo
8. Minuetto - Finale 

Naturalmente va dato atto a Stravinski dello sfoggio di gran maestrìa nella trascrizione di temi e soprattutto nell’orchestrazione, con la ricerca raffinata di timbri e sonorità innovativi. 

Buona la prestazione dell’orchestra, pur con qualche sbavatura negli ottoni, chiamati a difficili acrobazie, come questa del finale, affidata alla tromba:

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L’italo-russo 64enne Boris Petrushansky, non nuovo come ospite de laVerdi, si cimenta poi in Shostakovich, e precisamente nel controverso Secondo Concerto, composto (1957) 4 anni dopo la morte di Stalin e circa un anno dopo l’inizio della cosiddetta destalinizzazione che ebbe per artefice quella specie di simpatico contadinaccio (apparentemente) troglodita che rispondeva al nome di Nikita Kruscev (quello della scarpa sbattuta sul banco dell’ONU nel 1960, o della gomitatina galeotta quanto ridicola rifilata a Jaqueline Kennedy a Vienna nel 1961):


Sarà che è una composizione quasi di ricorrenza (per il 19° compleanno del figlio Maxim, che ne sarà poi interprete) ma di sicuro sembra opera di uno che finalmente può farsi gli affari suoi la musica sua come gli pare e piace, senza la spada di… baffone sul capo!
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Pur impiegando i mezzi classici (forma-sonata, bitematismo, esposizione, ripresa e cadenza solistica) Shostakovich sa inventare un primo movimento (Allegro) assolutamente originale, dove pianoforte e orchestra si integrano vicendevolmente, scambiandosi spesso i ruoli e i motivi.

E gli stessi motivi sono fra loro intrecciati, come si può notare già dall’esposizione del primo oggetto tematico (FA maggiore); sei battute introduttive e poi l'irruzione del pianoforte:


Segue un secondo tema esposto dalla tastiera, con l’impertinente accompagnamento del tamburino militare, sulla dominante DO maggiore (regola da Conservatorio…):


Il solista lo sviluppa, poi assume la funzione di contrappunto alla melodia del primo tema, esposta ora dall’orchestra e ulteriormente sviluppata.

Ancora il solista che propone un nuovo motivo, ora in RE minore (tonalità relativa di quella di impianto, anche qui siamo a scuola…):


Dopo averla abbondantemente sviluppata, il pianoforte la chiude in RE maggiore, sfumando poi a minore.

Qui ecco un improvviso accordo di sesta, sul SI (che in realtà è mediante di SOL) dove si introduce lo sviluppo, che svaria dal SOL del primo tema variato al MI del secondo tema; ancora una transizione del pianoforte sul SOL, indi il primo tema in orchestra sul SIb e quindi, dopo un intervento del solo pianoforte, ancora negli archi in LA maggiore… insomma si va parecchio a spasso! Ecco il secondo tema ancora in SIb, in tutta l’orchestra, seguito da una lunga e poderosa transizione caratterizzata da volate del solista e secchi accordi dell’orchestra, che porta alla cadenza solistica, imperniata sul primo tema.

Ed ora, canonicamente, la ripresa del primo tema esposto in FA dall’orchestra e seguito dal secondo, che il pianoforte riespone – toh! – pure in FA. Torna il primo tema, enfaticamente, mentre il pianoforte ci ricorda, sempre in FA, il motivo esposto precedentemente in RE minore (insomma, un’applicazione quasi… talebana dei sacri canoni). Si arriva così alla perentoria conclusione con accordi secchi di crome di tutta l’orchestra e del solista.

Il centrale Andante è un pezzo elegiaco, dove il pianoforte opera quasi esclusivamente per terzine (tipo la Mondschein, per intenderci) sulle tonalità dei tre bemolli (DO minore e MIb maggiore) con una breve sezione - proprio l’ingresso del solista - in DO maggiore:


Per il resto i soli archi e un corno accompagnano languidamente e assai discretamente il solista nelle sue sognanti divagazioni, chiuse da due terzine… zoppe, sul DO, che preparano l’attacco diretto del finale Allegro.

In tutto il movimento il solista ha soltanto sei brevissimi momenti di respiro (ciascuno di 2-3 battute al massimo); per il resto deve suonare continuamente e alla velocità di un treno in corsa. 

Ecco la prima esposizione, dove sembra proprio di sentire un treno che si mette in moto:


Ad essa segue una sezione in 7/8, introdotta dalla sola orchestra, dove il ritmo si fa più frenetico:

Poi il pianoforte riprende la sua corsa sfrenata, spesso suonando quasi da solo, con scarsi interventi orchestrali, oppure accompagnato da pochi fiati (corni e clarinetti). È un turbine di volate e di scale (pare che Shostakovich vi abbia introdotto deliberatamente esercizi scolastici, a beneficio del figlio… diplomando) che non conosce soste, fino allo schianto conclusivo, che rappresenta per tutti un’autentica liberazione!
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Trascinante l’esecuzione di Petrushansky, benissimo coadiuvato dall’orchestra, che Grazioli tiene sempre saldamente in controllo. Sicuro nei passaggi più percussivi (come le famose ottave spaccatasti) e delicato nel porgere le atmosfere sognanti dell’Andante.   

Trionfo assicurato e ricambiato da un bis... dicembrino.
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Dopo l’intervallo arriva Prokofiev con la Suite delle musiche dal film di Aleksandr Nikoleyevich Faintsimmer (tratto dal breve racconto di Yury Tynyanov) Il luogotenente Kiže, del 1933. La trama del film e soggetto del paradossale racconto è un inesistente militare, nato per un errore di copiatura di un documento da parte di uno scrivano dello Zar Paolo I. Il quale Zar si infatua della figura del militare, lo promuove e ne vuol seguire la carriera. Per non disilluderlo, i burocrati dell’esercito fanno addirittura maritare il fantomatico luogotenente, ma quando lo Zar chiede di riceverlo in persona, non trovano di meglio, per pararsi il culo, che dichiararlo improvvisamente morto e fargli un dovuto funerale (!) 

La Suite si articola in cinque brani che trattano:

I. Nascita di Kiže. Si tratta ovviamente della venuta al mondo del tutto virtuale e involontaria del militare, cui lo Zar dedica inaspettatamente grandi attenzioni. 
II. Romanza. Il fantomatico luogotenente si innamora.
III. Il matrimonio di Kiže, necessario a soddisfare i desideri dello Zar, che pensa che tutti i suoi eroi debbano essere sposati.
IV. Troika.
V. Funerale di Kiže. Per evitare figuracce con lo Zar, i burocrati fanno all’inesistente Kiže delle esequie di Stato. 
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La Suite si apre e si chiude con un segnale militare (tipicamente da silenzio) che la tromba solista esegue standosene molto in lontananza:
L’ottavino presenta un motivo marziale, ma da marcia di… marionette, come si addice ad un soldatino immaginario:

Il matrimonio è introdotto da una fanfara davvero degna di miglior causa…

Infine ecco il tema, a metà fra il guascone e il ridicolo, del luogotenente, ancora esposto dalla tromba:

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L’Orchestra ha dato il meglio, come insieme e come singoli: in particolare la tromba di Alessandro Caruana che, sistemato remotamente, ha intonato nascita e… dipartita del luogotenente virtuale.

A proposito di Prokofiev, allego qui un approfondito – e assai problematico - studio di Franco Pulcini, comparso nel numero di Maggio-Giugno 1991 di Musica&Dossier
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Chiude il concerto Aram Khachaturian, un esempio classico di come l’Unione Sovietica riuscisse, con le buone e più spesso con le cattive, a tenere insieme gente delle più disparate origini. Lui era uno nato in Georgia (la terra di Stalin) da genitori azeri di sangue armeno e si era integrato (non senza avere poi delle marginali divergenze di vedute con quel simpaticone di Andrej Aleksandrovič Ždanov) nell’apparato dell’arte di regime. 

Di lui ascoltiamo la Suite dalle musiche di scena del dramma ottocentesco Masquerade di Mikhail Yurevich Lermontov, un soggetto vagamente simile ad Otello, dove il protagonista Eugene Arbenin uccide la moglie Nina, accecato dalla gelosia provocatagli dallo smarrimento da parte di lei di un bracciale, durante una festa mascherata.  

Poco prima dell’invasione tedesca dell’URSS (1941) Khachaturian compose queste musiche di scena, precisamente 14 numeri così intitolati:

1. Romanza
2. Mazurka 
3. Walzer (al ricevimento)
4. Galop
5. Notturno
6. Walzer (camera da letto)
7. Walzer (alla Masquerade)
8. Walzer (al casinò)
9. Tema della baronessa Strahl
10. Tema di Kazarin (una specie di Jago, ndr)
11. Tema del braccialetto
12. Introduzione
13. Finale del ricevimento
14. Inno

L’Autore estrasse in seguito la Suite che ascoltiamo qui, composta da 5 numeri, disposti con perfetta simmetria (tre mossi – altrettante danze - alternati a due lenti):

1. Walzer
2. Notturno
3. Mazurka
4. Romanza
5. Galop 
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Il Walzer – che è il cuore dell’intera musica di scena, ha una struttura assai semplice, regolare: A-B-A-C-A-B-A. Struttura anche simmetrica, salvo per il fatto che i temi A e B alla prima apparizione vengono ripetuti (di norma un’ottava più in alto) mentre nella ripresa non lo sono.

La tonalità è LA minore (A), MI minore (B) e DO maggiore (C). I temi vengono sempre esposti dagli archi, mentre i legni fanno da contrappunto (a canone) o da raddoppio e gli ottoni più che altro scandiscono i levare del tempo di walzer (salvo alcuni brevi interventi melodici di trombe e corni).

Il primo tema è costituito da due frasi giustapposte; la prima è una ostinata ripetizione di una scala ascendente:

La seconda è una melodia più cullante che degrada pian piano per poi risalire velocemente. Il secondo tema – che Kachaturian confessò di aver ideato mentre posava per un ritratto fattogli da Eugenia Lurie, prima moglie di Boris Pasternak – ha tratti somiglianti al primo, con le sue salite e riprese a dente di sega:

Il tema centrale, introdotto da pesanti ed enfatici accordi, si muove prevalentemente sull’arpeggio di DO maggiore e chiude con una reminiscenza del verdiano libiamo:

 
Il Notturno (Andantino con moto) è un breve brano monotematico, aperto da 5 battute di accordi arcani di corni, poi fagotti e clarinetti. Il tema, affidato al violino solista e contrappuntato principalmente dal clarinetto, viene sostanzialmente riproposto cinque volte, le prime e le ultime due nella tonalità di LA minore, la terza in SOL minore. Una melodia, a somiglianza dei temi del Walzer, caratterizzata da ascese intercalate da brusche ricadute:

Sia la transizione interna che la chiusa si appoggiano sulla tonalità di DO# maggiore.

La Mazurka (Allegro) in MIb maggiore, presenta, come il Walzer, una struttura perfettamente simmetrica: A-B-C-B-A. Vi troviamo un primo tema che richiama alla lontana quello del primo quadro di Coppelia, tema formato da due sezioni, la prima ancora una volta costituita da veloci salite e bruschi ripiegamenti:


La seconda da una serie di ondeggiamenti di crome in staccato. Dopo la sua ripetizione, ecco il secondo tema, nella relativa DO minore, inizialmente più elegiaco, ma che poi si agita in archi e legni, con veloci scalate:

 
Esso viene ripetuto e poi gli subentra un nuovo, spigliato motivo in FA maggiore, pure ripetuto:

Ritorna poi il secondo tema (qui una sola volta) che infine cede il passo a quello iniziale, che con due ripetizioni chiude il numero.   

La Romanza (Andante) è la musica che deve sostenere i versi che la protagonista Nina canta al suo sposo, che dubita di lei. Il motivo principale, in SIb minore, è esposto dai violini, che salgono lungo l’ottava, da dominante a dominante (FA) per poi ripiegare giù sul SOLb:

Qui il motivo si ripete, ma sviluppato fino virare a REb maggiore, e quindi tornare a SIb minore, chiudendo sulla sopratonica DO.

Ora sono viole e violoncelli a riprenderlo, in seguito modulando dolcemente a LAb maggiore, dove il clarinetto espone una nuova e struggente melodia:

Dopo che l’orchestra ha sviluppato il secondo motivo, si torna al primo tema, SIb, ora esposto con gran portamento e nobiltà dalla tromba solista, che viene poi affiancata dagli archi a completare la riesposizione del tema, fino alla sommessa chiusura sulla dominante FA.

Chiude il Galop (Allegro vivo) un ubriacante pezzo (in SIb maggiore) che ricorda vagamente la polka Tritsch-Tratsch di Johann Strauss. Anche qui struttura semplice e immetrica: A-B-A-C-A-B-A.

Dopo 8 battute che servono ad impostare il folle ritmo del brano, un primo tema esilarante è esposto inizialmente dagli strumentini, e poi verrà ripreso dagli archi:
Dal SIb sfocia su una sospensione in RE minore, caratterizzata da un inciso di ottoni e tamburino che anticipa la struttura del terzo tema. Dopo la ripetizione segue il secondo tema, sempre in SIb, esposto da viole, violoncelli e fagotti, con i violini ad arpeggiare in staccato:


Torna ora il primo tema, cui segue un’introduzione ritmata dalle trombe che prepara il terzo tema, nella sottodominante MIb, con modulazione a SOL minore:

Ora c’è una pausa di tranquillità, dove il clarinetto solista inserisce una sua cadenza, seguito dal flauto solo, che porta alla ripresa dei due temi principali che chiudono in modo spiritoso il brano e l’intera Suite.
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Veramente un pezzo geniale, anche se apparentemente disimpegnato, che Grazioli esegue con la sua proverbiale verve, trascinando l’orchestra ad una prova maiuscola – su tutti il violino di Luca Santaniello e la tromba di Alessandro Ghidotti - e il pubblico ad un’autentica ovazione da stadio! Che convince maestro e professori a ripetere il celeberrimo Walzer.

Prossimamente saremo però sotto Pasqua, e quindi… Passione!

17 marzo, 2013

Sposalizi a Torino


Mentre segnalo con soddisfazione una nuova buona prova del Regio, che si conferma teatro di qualità per livello artistico e gestionale, non posso non restare allibito per le notizie invero raccapriccianti che arrivano da un altro nostro glorioso teatro (forse vittima della moda imperversante delle rottamazioni, chissà…)

Oggi ricorreva il 152° anniversario dell’Unità d’Italia e il Regio aveva i palchi imbandierati di tricolore (scommetterei l’occhio malato di Berlusconi che nel resto della penisola la data sia passata praticamente sotto silenzio…) Il soprintendente Vergnano ha approfittato dell’occasione per diffondere al pubblico, prima dello spettacolo, un indirizzo giustificatamente enfatico, in cui non ha mancato di ricordare i due nuovi Presidenti delle Camere (ma avessero eletto Schifani? …smile!) e il Presidente (ormai) uscente della Repubblica. OK, viva l’Italia e viva Torino!

Dunque, Il matrimonio segreto, questo gioiello che rivaleggia nientemeno che con le ultime opere italiane del sommo Teofilo e che aprì la strada a quel Rossini che doveva venire al mondo precisamente tre settimane dopo la prima viennese del capolavoro di Cimarosa.  

Lo spettacolo - realizzato 10 anni orsono da Michael Hampe in collaborazione con MonteCarlo e ripreso qui da Vittorio Borrelli - è precisamente di quelli da museo, ma nel senso più nobile del termine. La scena di Jan Schlubach è (ovviamente, dato il libretto) fissa, mentre bellissimi sono i costumi d’epoca di Martin Rupprecht. Efficaci le luci di Andrea Anfossi.

La regìa è assolutamente sobria, evitando facili sguaiatezze da avanspettacolo, assai raffinata ed efficace. Insomma, tutto al servizio della mirabile musica di Cimarosa, che dopo 220 anni ancora è in grado di soddisfare sia lo spirito che la carne di noi schizzinosi del terzo millennio.

E la musica è stata servita a dovere da Francesco Pasqualetti (un giovine cresciuto sotto l’ala dell’attuale padrone di casa, Gianandrea Noseda) che ha guidato con mano ferma i bravissimi professori del Regio.

Di buon livello tutto il cast vocale, dove si sono distinti particolarmente i due buffi Paolo Bordogna (il padrone di casa, Geronimo) e Roberto de Candia (il nobile in decadenza Robinson) e il Paolino di Emanuele D'Aguanno.

Ma anche le tre femmine di casa - Barbara Bargnesi (Carolina), Chiara Amarù (Fidalma) ed Erika Grimaldi (Elisetta) hanno più che dignitosamente tenuto botta.

Alla fine tutto il pubblico si è stretto, come al solito, sotto il palco per tributare meritatissimi applausi ai suoi beniamini.
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Procedendo con la pubblicazione di estratti della defunta rivista Musica&Dossier, allego qui un breve ma acuto saggio di Piero Mioli sul Matrimonio, inquadrato nel più ampio scenario dell’evoluzione dell’opera buffa di fine ‘700; scritto comparso sul numero di luglio-agosto 1989.

15 marzo, 2013

Orchestraverdi – concerto n.26


Ancora John Axelrod sul podio de laVerdi per un concerto dal taglio ultra-tradizionale: protagonista Brahms, e tutto in RE maggiore!

Dapprima la 42enne col fisico da bambina che risponde al nome di Midori Gotō si presenta per suonarci il Concerto Op.77.

Ecco cosa ne pensava il 36enne Mahler nel 1896: Come si può ancora scrivere una cosa così antidiluviana come un concerto per violino? Pensavo proprio che, grazie a Dio, avessimo definitivamente chiuso con questo genere di opere!

Busoni era ancora più caustico: Un pezzo letteralmente scippato a Beethoven (…) nonostante tutte le arie che si dà, è un’accozzaglia di cose insignificanti.

Beh, con tutto il rispetto per quei maestri, non siamo poi così alla canna del gas; al solito, si tratta di giudizi emessi da (giovani) contemporanei insofferenti di chi appariva – in quel momento - eccessivamente legato alla tradizione: ma il tempo si è incaricato di restituire al Concerto il ruolo che gli compete.

Splendida l’esecuzione di Midori, con perle riscontrabili nella cadenza del primo movimento e nel delizioso duetto con l’oboe di Luca Stocco nel secondo. 

Successo grande e grande bis con il Preludio della Terza Partita di Bach

Ecco poi la Seconda Sinfonia, che viene registrata (come accaduto per la quarta qualche settimana fa) per farne un CD con l’integrale delle sinfonie brahmsiane.

Axelrod pare propendere per la concezione serena e perfino magniloquente ed euforica della Sinfonia (che peraltro Brahms medesimo dipingeva, ma forse per scaramanzia, come una composizione dimessa e listata a lutto…) non lesinando sulle sonorità più nette e persino sui fracassi. E nemmeno sulla durata, avendo meticolosamente rispettato il da-capo nel movimento iniziale (poi magari ci penseranno in laboratorio a …tagliarlo sul CD, smile!)

In ogni caso un’esecuzione trascinante e brillantissima, trionfalmente accolta dal folto pubblico.

Vecchia URSS (o quasi…) nel prossimo concerto di Grazioli.
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Reliquie

Ho deciso di cogliere l’occasione per cominciare a pubblicare in rete (in formato pdf, da scannerizzazione degli originali cartacei) materiale proveniente dall’ormai da tempo defunta, ahinoi, rivista mensile (poi bimestrale) Musica&Dossier, che l’Editore Giunti pubblicò negli anni 1986-1993, per un totale di 70 numeri, che custodisco ancora gelosamente. Non credo sia materiale coperto da copyright ed anzi penso che sarebbe fare un buon servizio alla cultura musicale pubblicarlo integralmente sul web (…ma certo non è impresa che possa sobbarcarmi io).

Per questa inaugurazione ecco una parte del corposo saggio su Brahms La forma come disciplina di Massimo Mila, apparso sul numero del Giugno 1988: si tratta della sezione intitolata Il sinfonista. E poi una scheda di A.Riccardo Luciani sulla Seconda Sinfonia, apparsa sul numero del Novembre 1991, dove in forma grafica è contenuta una sommaria analisi della struttura e dei contenuti dell’opera.

13 marzo, 2013

Sulla Scala un olandese che vola basso


Una regìa più ridicola che velleitaria; una compagnia di canto tendente al mediocre; un podio francamente deludente. Così questo Olandese abbassa ancora la media dei voti della Scala in questa stagione che doveva essere di livello storico
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Andreas Homoki, ahilui, non può nemmeno accampare la scusa di essere un giapponese che non conosce bene il tedesco (smile!) per giustificare le sciocchezze della sua regìa. Lui è un intelligentissimo crucco di origine controllata e garantita e oggi è addirittura il Lissner del Teatro dell’Opera di Zurigo (al che ho realizzato quale immensa fortuna abbiamo noi milanesi ad avere un soprintendente che non si diletta – perlomeno ancora – di regìa…)   

Il suo soggetto è a dir poco sconvolgente e meriterebbe di vincere premi letterari in quantità industriale. C’è dentro di tutto: un po’ di Conte di Montecristo, poi l’epopea del capitalismo, forse anche lo spread; la crisi del colonialismo e persino l’avvento di Bokassa (smile!)

Il problema non sta certo nell’ambientare la vicenda in qualche sede londinese di società di trading: quanto poco, anzi nulla, a Wagner importasse dove la vicenda materiale si svolge lo testimonia il fatto che cambiò lui per primo l’ambientazione, spostandola dalla Scozia (teatro dell’azione nei racconti che ispirarono l’opera) alla Norvegia (forse in ricordo della personale esperienza colà vissuta sul barcone Thetis).

Invece il problema sta nella società che il regista ci presenta a far da sfondo alla vicenda centrale dell’opera - rappresentata dal rapporto peccato-redenzione, alias Holländer-Senta - e nei personaggi che in questa società si muovono.

Non siamo più in un ambiente sostanzialmente familiare, da economia autarchica, dove i rapporti umani sono improntati a un vago socialismo paesano; dove Daland, per dire, non sarà propriamente uno stinco di santo, ma neanche un bieco e truce capitalista sfruttatore (Dev’essere comico, prescriveva Wagner, come conferma la musica che lo sorregge, perdinci, da tutti bollata come scopiazzatura di Auber, una cosa da donnicciuole o da invertebrati…); dove Mary è la tata di Senta che fa anche da chioccia alle ragazze del paese riunite in casa sua a filare allegramente all’arcolaio, cantando simpatiche filastrocche. Insomma, un ambiente magari fin troppo sereno e ricco di arcaica poesia nordica, della quale fanno parte anche i fenomeni naturali più preoccupanti, come gli uragani e le tempeste di mare.

No, invece il regista ci trasporta in pieno sistema capitalistico-colonialistico, quello che si stava consolidando, o cominciava a sperimentare qualche crisi, a fine ‘800; Daland è il CEO di una grande società mercantile con traffici planetari e stuoli di impiegati e impiegate trattati con metodi tayloristici: è un brutale sfruttatore di manodopera e forse anche un trafficante di schiavi negri, almeno a giudicare dalla presenza del personaggio – del tutto inventato! – del servo di colore. Ecco, per il Daland di Homoki ci vorrebbe, come minimo e per restare a Wagner, la musica che caratterizza Hagen, o Klingsor, o Alberich!

Mary è un’acida capufficio di uno stuolo di dattilografe il cui ambiente di lavoro e il cui atteggiamento sono agli antipodi di quelli immaginati da Wagner. Per il quale scenario Homoki avrebbe dovuto casomai propinarci la musica di Nibelheim…

Quanto all’Olandese, piuttosto che un peccatore in cerca di redenzione, qui ci appare come un volgare ricettatore di refurtiva, che cerca di piazzare al capitalista Daland, facendo quindi passare quest’ultimo anche per riciclatore di denaro sporco…

Il regista poi si millanta intelligente e perspicace, mostrandoci un’enorme carta geografica dell’Africa, evidentemente oggetto dei traffici di merci dell’armatore-capitalista Daland. Ora, che l’Africa fosse una meta dell’Olandese, che si era venduto l’anima al diavolo pur di passare il Capo di Buona Speranza, è un’illazione plausibile (quantunque il libretto taccia assolutamente che il Capo fosse proprio quello, lo sappiamo solo dalle storie che ispirarono Wagner – ma non dal principale ispiratore, Heine, attenzione! - per il resto potrebbe pure essere Capo Horn o Capo Passero…) ma mi dice Homoki che centra l’Africa con il povero Daland, che invece al massimo faceva la navetta (smile!) fra Norvegia (o Scozia) e Danimarca? E la trasformazione dello schiavo di colore in Bokassa, con l’Africa che brucia, è proprio la ciliegina su questa improbabile torta!

Gli unici due personaggi che Homoki non sfregia più di tanto sono, a dir il vero e per fortuna nostra, Senta ed Erik: lei una schizofrenica visionaria (il suo mezzo spogliarello è gratuito, ma in fondo non è la cosa peggiore dello spettacolo) e lui un sempliciotto di provincia. Ma è un po’ poco per la verità. 

Essendo stato Homoki aiutante di Willy Decker, dal maestro ha preso alcune idee più o meno plausibili o criticabili per la sua messinscena (il Regio di Torino ha aperto la stagione 12-13 proprio con la produzione di Decker, peraltro assai più rispettosa dell’originale, va detto): fra le prime citerei il grande quadro a soggetto marino, sul quale a un certo punto si vede transitare un veliero; fra le seconde la scena del suicidio di Senta.  

La cui fine – una auto-fucilata sotto il mento, così come la auto-pugnalata di Decker - è quanto di più lontano, ma proprio agli antipodi, dell’idea di Wagner. Per il quale la donna si sacrifica per l’uomo che sente di dover redimere, e lo fa con un gesto ben preciso: il lanciarsi dalla rupe verso il mare dove l’Olandese si sta allontanando, il che rende anche visivamente l’idea di un estremo tentativo di ricongiungersi a lui, tentativo che sarà (secondo Wagner, manco a dirlo) coronato da successo, come testimoniano le didascalie e soprattutto la musica del finale!

Qui invece noi assistiamo ad un volgare e spregevole gesto suicida, dettato da mera disperazione e follia nichilista. E nulla di nulla ci vien mostrato della redenzione del peccatore!

Ma quando la smetteranno questi registi da strapazzo di pensare di apportare valore aggiunto alle scelte originali di autentici geni, come Wagner?
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Sul piano sonoro, più ombre che luci, mi vien da dire.

Terfel avrà anche il fisico adatto per fare l’Olandese, ma la voce, ahilui, spesso trasforma il personaggio in un hooligan arrabbiato e imbottito di birra: forse in omaggio alla concezione del regista, chissà…

La Kampe, come Terfel, ha una voce piena di decibel, discreta nella zona centrale, ma sguaiata negli acuti: i suoi LA e SI naturali li spara in modo piuttosto volgare, spalancando a dismisura le sue enormi fauci. Discreta invece nei momenti più intimistici, ad esempio nella sezione Più lento della Ballade.  

Anger è - anche lui in omaggio al regista? - un Daland piuttosto deficitario, spesso vociante e stonato e le sue esternazioni non hanno proprio nulla della prosaica e affettata banalità volutamente appioppatagli da Wagner. 

La Plowright è una Mary censurabile, che canta proprio in negativa sintonia con l’acidità del personaggio impostale dal regista.

Chi fa in fin dei conti una figura almeno discreta è il nemorino (smile!) Vogt, che perlomeno canta come dio comanda e non stravolge l’essenza musicale del personaggio. Certo che sarebbe più adatto a far la parte del timoniere…

Il quale timoniere è impersonato mediocremente da Wortig, assai impacciato nel suo Lied di apertura.   

Il coro di Casoni ha dato una prova sufficiente, ma mi è parso perdere qualche colpo (ad esempio le ragazze nel concitato passaggio Sie sind daheim del secondo quadro). Meglio i maschi, compreso il gruppo degli olandesi, dislocato in buca e munito, come da partitura, di rudimentali megafoni.

Il Direttore Haenchen non mi ha particolarmente impressionato e per di più si è permesso indebiti elastici nei tempi.

L’Orchestra ha pure mostrato parecchie pecche, a cominciare dalla maldestra entrata di oboe e clarinetti nell’Andante dell’Ouverture. Soprattutto – ma qui ne va chiesto conto al Kapellmeister – mi è parso deficitario il corretto amalgama fra le sezioni. È vero che questa partitura non è stata scritta per l’Orchestergraben di Bayreuth, ma nemmeno per lasciare ciascun strumentista libero di suonare come pare a lui.

Alla fine tiepido successo per una prestazione di ordinaria routine, a proposito di tempio sacro della lirica…