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da stellantis a stallantis

30 novembre, 2012

Un SantAmbrogio di sinistra


Questo con la zia Letizia non sarebbe successo.
 

Orchestraverdi – concerto n.12


Appena reduce dalla (trionfale, dicono) trasferta russa, laVerdi (senza Helmuth Rilling che speriamo proprio di rivedere in occasione del Requiem brahmsiano!) è tornata in Auditorium con Ruben Jais per il dodicesimo concerto della stagione principale.  

Concerto che ha un programma relativamente inconsueto, ma tutto saldamente ancorato all’800 (austro)tedesco, ma un ‘800 che guarda con grande rispetto alla tradizione settecentesca (Haydn e Bach in testa) per renderle omaggio e allo stesso tempo trarne ispirazione.

Ecco quindi Brahms e le sue Variazioni su un tema di Haydn. Una specie di ultimo test attitudinale (1873) cui il burbero amburghese si sottopose in vista della sua tanto attesa e reclamata discesa in campo nell’arena sinfonica (1876).
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Che il tema originario (Chorale in honorem St. Antonii, scritto per organico di banda) sia proprio di Haydn è cosa su cui nessuno è disposto a metter la mano sul fuoco (anzi è ormai praticamente certo fosse un canto di pellegrini boemi ripreso da Ignatz Joseph Pleyel) ma ciò che interessa a noi è l’impiego magistrale che Brahms ha fatto di quel tema di 10 battute (5+5) che lo caratterizza:

L’intera opera non sfugge mai alla tonalità del tema principale: SIb. Le otto variazioni che seguono l’esposizione del tema (cinque in modo maggiore e tre – 2-4-8 - in minore) ne sviluppano tutte le potenzialità, o ne derivano altri motivi a mo’ di reminiscenza.

Nel Finale (tempo di passacaglia, ecco un altro chiaro richiamo al glorioso passato) Brahms inventa ancora una nutrita serie di (piccole) variazioni, su un motivo di basso ostinato di 5 battute:
Esso è tenuto inizialmente (per 9 volte) dai soli contrabbassi, ma poi passa ai violoncelli, alle viole e quindi emerge in primo piano nei corni e ancora (in minore) negli oboi, poi nei flauti e di nuovo nei corni, per tornare (in maggiore) a corni e violoncelli, prima della trionfale e conclusiva ripresa del tema.
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Insomma, una composizione che valse ad ottenere a Brahms il passaggio dell’esame (al pianoforte) con la severa (ma anche… innamorata?) Clara Schumann e a convincerlo a fare finalmente sul serio con la Sinfonia in DO minore.    

Jais tiene tempi stringati e privilegia – giustamente, direi – i fiati, che sono i veri protagonisti del brano (come lo erano nell’originale, del resto…): e i ragazzi rispondono alla grande, consegnandoci un’esecuzione assai apprezzabile.

Ecco poi la Tragica di Schubert: appellativo forse esagerato - pur se scritto di proprio pugno (ma a posteriori, e senza mai averla potuta udire suonata da un’orchestra) dall’autore - chè non basta di certo il modo minore per tragicizzare qualcosa… (caso mai il nick-name meglio si applicherebbe all’Incompiuta).
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Qui è ancora lo Schubert giovane, che ai limiti congeniti in campo sinfonico tenta di sopperire con la cantabilità liederistica dei suoi temi. Il primo movimento cerca di copiare il modello Haydn-iano (introduzione in Adagio molto e poi tempo Allegro vivace) ma ciò che manca è la capacità di sviluppo e di contrasto (o amalgama) dei temi.

Dopo l’esposizione (ripetuta) dei due temi - il primo in DO minore e il secondo in LAb maggiore (dominante del MIb, relativa maggiore della tonalità di impianto) – ci si aspetterebbe appunto uno sviluppo. Invece Schubert lo salta a piè pari per avventurarsi in una riesposizione del primo tema in… SIb minore e successivamente in SOL minore (!?) prima di ripescare il secondo tema e faticosamente chiuderlo (col movimento) in DO maggiore. Insomma, una cosa che somiglia di più ad una fantasia che ad un primo tempo di sinfonia

Molto meglio l’Andante, dove Schubert si trova… a casa sua! E può sciorinare, senza obblighi di sorta, le sue bellissime melodie. Quella del primo tema ispirerà molto più tardi il celeberrimo (secondo) Impromptu dell’opera 142:
Paradossalmente il movimento è però strutturato con maggior robustezza rispetto al primo, con i suoi due temi assai contrastanti, il primo (LAb maggiore) molto dolce e delicato, il secondo (FA minore) il cui incipit (salita da dominante a tonica) ricorda molto da vicino l’attacco del primo tema del movimento iniziale, introducendo nell’opera un elemento di ciclicità. La forma è più o meno A-B-A-B-A’(+coda): la seconda comparsa di A chiude modulando a REb e la seconda di B inizia quindi nella relativa SIb minore. A torna poi sviluppato ampiamente, dando origine ad una mirabile cadenza finale.

Il successivo Menuetto, Allegro vivace, si caratterizza per la sua concisione: severo il tema principale (MIb, ripetuto); più cantabile la seconda idea, che sfocia ancora nel primo tema per la chiusa. Nel Trio ricompare ciclicamente la salita dominante-tonica, una specie di motto, quindi, della Sinfonia.  

Il cui Allegro conclusivo vuole presentarci una specie di conflitto tra tenebre e luce (da cui emergerà la seconda). E già il tema principale ci prefigura questo obiettivo: dal DO minore di impianto, la sua seconda esposizione sfocia nella relativa MIb maggiore. Il tema viene ancora ripreso in DO minore e subito sottoposto, nella stessa tonalità, ad uno sviluppo convulso e quasi angoscioso nei violini, con le sincopi degli strumentini e delle viole e con l’esplosione di un paio di accordi dissonanti (sul SOL e SOLb) a tutta orchestra.

Qui subentra una modulazione a LAb maggiore (come nel primo movimento) dove compare l’altra idea, cantabile, palleggiata fra archi e fiati, che porta alla riproposta del primo tema, adesso in MIb maggiore: ed è con questo che si conclude l’esposizione (che prevederebbe, ma di solito non si fa, il ritorno all’inizio).

Ora abbiamo uno sviluppo dove il tema principale ricompare in frammenti e in tonalità diverse per poi, dopo una rarefazione della melodia, passare abbastanza sorprendentemente a LA maggiore e quindi, modulando per terze discendenti, prima a FA maggiore e poi a REb maggiore, dove si inizia una transizione, che passa dal FA al FA# e da qui al SOL, dominante del DO maggiore che sarà protagonista della ricapitolazione finale.

Nella quale il tema principale, dopo una prima esposizione in DO maggiore, torna anche in minore (la relativa LA) così come il suo agitato sviluppo, che lascia spazio all’idea cantabile, ora canonicamente in FA maggiore. Quindi il DO riprende faticosamente il sopravvento per chiudere con una (peraltro poco luminosa) apoteosi.
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Jais conferma la sua predisposizione a stringere i tempi: il che non fa male, salvo che nell’Andante, che a mio avviso avrebbe meritato un poco più di… ponderazione. Per il resto, uno Schubert più che accettabile.

Chiude il concerto Mendelssohn con il Salmo XLII, da Martin Luther: Verlangen nach Gott aus fremden Land (Desiderio di Dio da una terra straniera). Un’anima conturbata e un cuore addolorato anelano e sono dolorosamente assetati di Dio. Egli alla fine verrà loro in aiuto, perciò sia lodato per l’eternità:


Si tratta di una Cantata per 5 solisti e coro, composta praticamente… in viaggio di nozze. È forse per questo che la musica che accompagna il testo, invece di evocarne l’angoscioso contenuto, si mantiene in un ambito piuttosto sereno e beato…

Vi troviamo gli stilemi caratteristici del compositore, già comparsi in opere di ispirazione religiosa, sia strumentali (vedi la Reformationssinfonie) che vocali (come il Paulus) e che ritroveremo più avanti nell’Elias e soprattutto in quell’ibrido di sinfonia&cantata che sarà la Lobgesang. E anche qui il risultato è musica accattivante, eterea sì, ma anche piuttosto molle, quasi al limite della monotonia; insomma, priva di quegli slanci (e magari anche di spigolosità) che oltretutto ci si aspetterebbero dall’asprezza di un testo come questo.

Ecco, alla fine si resta come dopo un pranzo tutto a base, che so, di… camembert; o dopo aver mangiato troppa… nutella (smile!)

Laura Aikin e i quattro solisti che l’accompagnano nel n°6 (tutti membri del Coro de laVerdi: tenori Francesco Frasca e Hidekazu Suzuki; bassi Fausto Candi e Diego Manto) hanno fatto del loro meglio, insieme al resto del Coro di Erina Gambarini, per valorizzare al massimo questa partitura.

Certo, la recente trasferta russa dell’Orchestra deve aver limitato assai i tempi di prova, rispetto al normale, e qualche incertezza è emersa qua e là. C’è quindi da immaginare che le nelle prossime due uscite le cose vadano ancor meglio. Anche Ruben Jais ha sopperito con la sua esperienza di Maestro del Coro e di barocco all’assenza del mitico Rilling

Alla fine buon successo, in una sala relativamente affollata (tenendo conto del contestuale sciopero dei mezzi pubblici…)

Riprende fra due settimane il Ciclo-Dvorak con lo specialista Aldo Ceccato.

26 novembre, 2012

La dignità del Tristan alla Fenice


Ieri pomeriggio la terza del Tristan veneziano, in un teatro affollato, ma non proprio esaurito. Anzi, andatosi tristemente svuotando di intervello in intervallo. Che dire? perle ai porci?

Beh, forse proprio non erano perle, ma certo un Tristan più che decoroso non si ascolta e vede tutti i giorni. E si avrebbe sempre qualcosa da imparare, se i buhatori spiegassero le loro ragioni. Dico: quello (o quei due al massimo) che hanno accolto Chung alla sua uscita finale sul palco con sonorissimi buh dovrebbero gentilmente far sapere ai poveri pirla che gridavano bravo! e applaudivano calorosamente che cosa non andava secondo loro nella direzione del coreano (o erano forse i suoi occhi sporgenti?) Direzione che io (ma evidentemente sono un crasso ignorante, e per questo mi piacerebbe imparare qualcosa…) ho trovato di livello se non assoluto, quanto meno elevatissimo (gli perdonerò qualche eccessivo fracasso nel finale).

La compagnia di canto non è proprio di quelle da star-system, ma se l’è cavata degnamente. Su tutti, per me, la Brangäne di Tuija Knihtila, voce bellissima e penetrante, che ha spesso sovrastato – nei loro dialoghi - la pur brava Brigitte Pinter. La quale è stata un’apprezzabile Isolde, pur con qualche piccola pecca sugli acuti pieni, un po’ troppo aperti e vocianti. E il modo con cui fissava in continuazione Chung (non Tristan!) fa pensare anche a un qualche disagio, se non proprio ad insicurezza (sarà mica questa la ragione dei buh al maestro?)  

Ian Storey, da cinque anni esatti a questa parte (cioè da quando Barenboim gli appaltò per la prima volta il ruolo per l’inaugurazione scaligera del 2007) è evidentemente migliorato, almeno come capacità di tenuta fino in fondo (allora aveva mostrato chiare défaillances, e anche in seguito, vedi a Genova nel 2010, se l’era cavata solo grazie ad abbondanti tagli nel second’atto). La voce non sarà straordinaria (anche lui meno penetrante della Knihtila) ma pare anche emotivamente adatta al personaggio (non parliamo poi delle qualità attoriali, che non si scoprono oggi).

Il Kurwenal di Richard Paul Fink non mi è dispiaciuto, sia nelle sue sguaiate esternazioni del prim’atto, che nelle sue premurose attenzioni del terzo. Un po’ a desiderare ha lasciato il suo modo di muoversi (ma quanto c’entra la regìa?) che ne faceva più una figura di cuoco o, che so, di addetto alle stalle, che non del rude luogotenente di Tristan!    

Attila Jun era König Marke: voce discreta, non eccezionale; quello che personalmente gli contesto è una caratterizzazione troppo focosa e meridionale della figura del vecchio Re: che ai miei occhi dovrebbe essere un personaggio dolorosamente colpito dal tradimento del figlioccio, ma che mantiene sempre (nel canto e nei gesti) l’aplombe e la regalità del suo ruolo, senza fare gesti inconsulti o imprecare come Rigoletto contro i cortigiani (!) 
     
Francamente modesto il Melot di Marcello Nardis (meno male che canta poco, smile!); apprezzabili i comprimari, in specie Gian Luca Pasolini, il mozzo che ha l’ingrato compito di rompere il ghiaccio. Come pure il pastore Mirko Guadagnini (chi ha trionfato con pieno merito è stata la sua… controfigura al corno inglese, Renato Nason) e Armando Gabba (il timoniere).

Il coro di Claudio Marino Moretti non si è mai… visto, ma ha sostenuto efficacemente la sua parte, che è limitata al primo atto.
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Due cosette sull’allestimento di Paul Curran (con le scene/costumi di Robert Hopkins e le luci di David Jacques). Dirò subito che, con tante stupidaggini che si vedono in giro di questi tempi, qui siamo al rigore (quasi) assoluto: grazie!

Sì, non mancano trovate abbastanza gratuite, come il Tristan che gioca a carte con Kurwenal durante l’intera prima scena: qui non si tratta solo di infedeltà rispetto al libretto, ma di una evidente banalizzazione del personaggio. Tristan se ne dovrebbe stare da solo a scrutare il mare (o il vuoto) perché ha qualcosa (e sapremo bene cosa) che gli rode dentro: mostrandocelo mentre gioca a carte per far passare il tempo è francamente deludente. E poi contrasta in pieno con il pretesto che Tristan invocherà per rispedire Brangäne a mani vuote (dover attendere al timone…) Buona invece l’idea scenografica della gabbia che rinchiude Tristan, efficace strumento ad evocare la barriera psicologica che separa i due protagonisti. Così come efficace e quasi didascalico è l’impiego delle luci al momento del brindisi e del risveglio: buio totale dopo l’assunzione del filtro e poi una luce violenta e concentrata sul pavimento verso la quale i due amanti, finalmente dichiaratisi, si trascinano bocconi, fino a congiungere le loro mani.

Nel second’atto la scena è nuda e sembra più un carcere che una lussuosa dimora, albero spoglio incluso (che il sempre sapido amfortas giustamente vedrebbe meglio nella Walküre!) Le libagioni dei due amanti (Tristan si è portato dietro in bisaccia bottiglia e calici, ma Isolde tracanna anche direttamente dalla bottiglia!) sono forse un cedimento alle abitudini del regista (scozzese, smile!) Quando i due amanti vengono sorpresi, secondo Wagner Isolde dovrebbe accucciarsi vergognosa sul sedile fiorito (e fin qui ci siamo quasi… mancano solo i fiori) e Tristan, in piedi, dovrebbe aprire il braccio per coprire col mantello la vista della svergognata. Qui invece vediamo Tristan coprire direttamente (in modo biblico, proprio!) la sventurata… Evabbè. Poi, dopo che Marke ha fatto il pistolotto e Tristan e Isolde hanno chiarito a tutti le loro intenzioni, il nostro eroe bacia la sua amata… dove? Mica in fronte, come poeticamente avverte Wagner, ma proprio e bene sulla bocca (in modo che anche i distratti possano capire, smile!)  

Nel terz’atto tornano le suppellettili del primo (fasciami di nave e gabbia di legno) ma tutte sgangherate e cadenti: e ci sta senz’altro, dato ciò che è accaduto nel frattempo. Tristan giace su una poltrona (e va bene) e se ne sta anche abbastanza fermo, come vorrebbe Wagner (che lo fa alzare solo all’avvicinarsi di Isolde). Bende insanguinate dappertutto non lasciano dubbi sul suo stato fisico, anche se l’attenzione di noi tutti dovrebbe concentrarsi esclusivamente su quello spirituale…

Il finale è rappresentato con efficacia e poesia: Isolde trasfigurata sul cadavere di Tristan e tutti gli altri, in penombra, inebetiti ad osservare.
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Per me, lo spettacolo vale assolutamente la pena (del prezzo del biglietto e del trasferimento in laguna). Poi però: non scappate durante gli intervalli, please!

23 novembre, 2012

Orchestraverdi – concerto n.11


Oleg Caetani (-Markevitch) torna sul podio dell’Auditorium per presentarci un interessante programma, che parte dal Beethoven teatrale per arrivare a Shostakovich. Ieri la seconda tornata del concerto, la prima essendo stata anticipata allo scorso 20 in funzione dell’imminente trasferta dell’Orchestra in Russia.    

Si inizia con la celebre ouverture dalle musiche di scena dell’Egmont di Goethe, un vero gioiello di drammatica concisione, proprio del Beethoven eroico. Peccato che (alle mie orecchie) l’esecuzione sia parsa corretta sul piano tecnico, ma un po’ troppo blanda e rilassata su quello del pathos: insomma, qualche scatto in più non avrebbe guastato.

Poi arriva il giovane soprano Susanne Braunsteffer per offrirci due arie. Iniziando dalla seconda delle due che un Beethoven ancora giovane (poco più che venticinquenne) compose come arie di sostituzione per un Singspiel di Ignaz Umlauf, intitolato Die schöne Schusterin oder Die pücefarbenen Schuhe (La bella calzolaia, o la scarpa color pulce). Si intitola Soll ein Schuh nicht drücken (Una scarpa non deve stare stretta) e si basa sul testo originale di Gottlieb Stephanie der Jüngere.

L’aria, dal testo impertinente, che tratta dei classici problemi di calzaggio delle scarpe, è strutturata in 4 strofe, come A-B-A-B’, sempre in 6/8, quasi un Ländler. A è in SIb maggiore, con modulazione alla dominante FA e ritorno al SIb. B principia nella relativa SOL minore, poi modula ancora a FA e alla fine torna a SIb per la riesposizione del ritornello A. B’ riprende il motivo centrale di B ma portato canonicamente a SIb.

È un piccolo cammeo, ma vi si intravedono già stilemi che troveremo qualche anno dopo nel primo atto di Fidelio (ad esempio nella coda dell’aria di Marzelline). L’interprete vi ha modo di sfoggiare le sue capacità tecniche, con trilli e svolazzi diversi, che la bella e… abbondante Susanne esegue con più precisione che grazia.

Poi ecco la celebre Ah! Perfido, anch’essa del 1796, aria destinata alle sale da concerto, ma dallo spessore drammatico degno di una scena operistica, ed anche fisicamente pesante, dato che impegna l’interprete ininterrottamente per una dozzina di minuti filati.

Anche qui abbiamo apprezzato una più che dignitosa interpretazione della Braunsteffer (certo la Callas era un altro pianeta, smile!): la ragazzona tedesca ha una voce che arriva fin negli spazi siderali, deve solo mettere a punto, credo io, la sensibilità interpretativa. Cosa che avrà certamente tutto il tempo di fare.

Il pezzo forte della serata è la Settima Sinfonia (Leningrado) di Shostakovich, preceduta da una breve introduzione del Direttore, che ne ha ricordato le circostanze della composizione. Un’opera indecifrabile e da sempre tirata da ogni parte, per ragioni squisitamente extra-musicali, anzi precisamente politiche: al suo apparire, osannata dai sovietici e in Occidente (Toscanini in testa) in funzione anti-nazi; abbattuto il nazismo, in Occidente si è preferito dimenticarla, per non dar fiato a Stalin e nipotini, che ne avevano fatto un simbolo di superiorità morale del comunismo; poi qualcuno ci ha trovato germi di… anticomunismo e allora evviva, disseppelliamola!

Nata per essere una specie di poema sinfonico, o una fantasia (e l’iniziale Allegretto è in effetti tutto tranne che un primo movimento di sinfonia come-si-deve…) è poi cresciuta a dismisura, fino a raggiungere proporzioni sesquipedali, sotto una specie di costrizione patriottica di cui l’Autore fu vittima a seguito dell’invasione nazista.

Quella specie di bolero-di-ravel-su-tema-di-lehár che è incastonato nel movimento iniziale fu descritto (a posteriori, fra l’altro, come spesso accade ai programmi appiccicati alla musica) come il marciare dei cavalieri teutonici sulla città: dapprima si sentono e si vedono in lontananza, laggiù in fondo alla steppa sconfinata, e paiono una squadretta di boy-scout che marciano allegramente accompagnati da pifferi e tamburino:
Poi però, man mano che si avvicinano, ecco che si scorgono dietro alle loro bandierine colorate delle baionette, quindi si profilano le torrette dei tank, poi le spaventevoli sagome dei mezzi d’artiglieria, e in cielo gli stormi della Luftwaffe! Dico, una sinfonia, o la parodia dell’Ouverture 1812? Non per nulla il mite e un po’ sfigato Bartók ci fece sopra uno sberleffo, nel suo Concerto per orchestra.

I due movimenti centrali son certo meno prosaici e pretenziosi (a parte la lunghezza…) e ci restituiscono uno Shostakovich lirico, ma poi col Finale torniamo ai fracassi della guerra, interrotti da qualche… funerale.

Insomma, un’opera difficile da digerire, perché è difficile capire quale ne sia la natura più autentica.

Caetani e laVerdi però sono maestri nell’interpretare lo Shostakovich sinfonico (ne hanno inciso l’integrale!) e l’esecuzione è pressoché impeccabile, accolta da un calorosissimo successo di pubblico.    

Prossimamente avremo una… defezione (ahinoi, del venerabile Helmuth Rilling) che sarà comunque colmata da Ruben Jais

21 novembre, 2012

Il Moro è rientrato a Venezia


La Fenice ha inaugurato la stagione Verdi-Wagner con Otello e Tristan, diretti da Myung-Whun Chung. Ieri sera la seconda del dramma shakespeariano, in un teatro affollato, anche se non proprio esaurito. 

Tratto subito dello spettacolo, qui recensito con la solita cura dal venetio-fobico (smile!) amfortas, partendo da qualche considerazione su quello che è il personaggio-clou del dramma: Jago.

Francesco Micheli, nel suo breve intervento sul (come sempre impagabile) programma di sala, propone alcune interessanti osservazioni sul personaggio così come esce dall’originale di Shakespeare. In sostanza, un individuo che rappresenta sì tutto il male possibile che può manifestarsi nell’umana natura, ma allo stesso tempo senza averne un movente preciso, avendone… persin troppi: da qui l’affermazione (condivisibile, senz’altro) del regista riguardo la banalità del male, come emerge dal testo shakespeariano.

E in effetti lo Jago del dramma da cui Arrigo Boito ricavò il mirabile libretto per Verdi ci appare come un essere piuttosto instabile di mente, a dispetto della sua lucida perfidia, uno squilibrato che non solo non conosce quale sia la ragione precisa del suo esser malvagio, ma nemmeno è convinto di esserlo. O meglio, giustifica la sua malvagità interiore come doverosa reazione a quella dell’universo intero nei suoi confronti. È la frustrazione, legata ai suoi insuccessi, che ne alimenta la gelosia nei confronti di chiunque il successo l’ha invece ottenuto, nel campo economico, o militare, o sentimentale.  

Così, non avendo saputo acquisire ricchezze, diventa un bieco estorsore, e il ricco Roderigo ne è la vittima preferita, cui spillare danaro in cambio di un improbabile aiuto a conquistar Desdemona: nel primo atto (quello di Shakespeare, in Venezia, che Boito ignorò quasi totalmente) Jago convince Roderigo a vendere tutte le sue proprietà per procurarsi denaro e preziosi da portare a Cipro per far regali alla giovane che la convincano ad accettare il suo amore, regali che però finiranno regolarmente nelle sue tasche.

Poi confessa allo stesso Roderigo di odiare il Moro a causa della mancata promozione a suo luogotenente, posizione per la quale Otello gli aveva preferito un matematico-contabile (Cassio=Cash!) fiorentino totalmente a digiuno di arti militari.

Ma poi, proprio alla fine del primo atto (sempre quello di Shakespeare) tira fuori una storia di corna, esternandoci il suo sospetto che Otello abbia giaciuto nelle sue lenzuola, facendo le sue veci…  

Ancora, alla fine della prima scena del second’atto (a Cipro) ecco un’altra esternazione, in cui Jago confessa la gelosia (causata dal sospetto di corna messegli da Otello) che gli rode le interiora, e che alimenta il suo proposito di rendere moglie-per-moglie al Moro, o quanto meno di instillargli in cuore una gelosia così forte da non poter essere curata dalla ragione.

Non solo, ma subito dopo Jago mostra di sospettare corna ai suoi danni anche da parte di Cassio! (temo che anche Cassio abbia indossato la mia papalina da notte…

Insomma, un tipo che si sente preso di mira da tutto e da tutti e per combattere le sue frustrazioni diventa ladro, calunniatore ed alla fine pure duplice assassino, visto che ammazzerà (vigliaccamente, oltretutto) Roderigo, già in fin di vita, e poi una donna disarmata (la propria moglie Emilia). Troppi moventi (quelli di gelosia poi del tutto immaginari) che finiscono per indebolire (banalizzare, per parafrasare Micheli) invece che esaltare la grandezza (pur in negativo) del personaggio.  

Che fu invece letteralmente posto su un piedistallo da Arrigo Boito e ovviamente da Giuseppe Verdi! I quali, se si esclude il fugace accenno che Jago fa a Roderigo nella prima scena dell’opera (riguardo la sua mancata promozione) ne scolpirono mirabilmente la straordinaria personalità nel famoso Credo del second’atto:

Dalla viltà d’un germe o d’un atòmo
Vile son nato.
Son scellerato
Perchè son uomo;
E sento il fango originario in me.

Ecco qui, davvero: il male per il male, il male allo stato puro, senza moventi, il male come DNA di un individuo, che poi si sfoga contro l’obiettivo più visibile che si trova nei suoi paraggi (e non a caso si tratta di un diverso). Perdinci, nulla di simile troviamo nei 3743 versi del testo di Shakespeare!

E inoltre lo Jago di Boito-Verdi mai impiega la violenza fisica (se si esclude il gesto di strappare il fazzoletto dalle mani di Emilia): non sappiamo chi abbia ucciso Roderigo (anzi siamo portati a sospettare che sia Cassio, sia pure per legittima difesa); ed Emilia rimane in vita fino alla fine. Insomma, mentre lo Jago di Shakespeare è un personaggio abietto, ma anche abbastanza meschino, quello boito-verdiano è al confronto davvero grande, un po’ come grande è l’Alberich del Ring wagneriano nei confronti del fratello Mime

Ecco perché mi pare che i citati versi di Boito avrebbero meglio rappresentato le radici del dramma, di quelli scelti da Micheli da proiettare sul velario all’inizio e alla fine dell’opera e presi dai due riferimenti nell’originale del Bardo che rimandano al movente-corna:

Io odio il Moro.
Si dice che sotto le mie lenzuola
Si sia fatto gli affari miei.
Non avrò pace finchè
La sua anima non sarà avvelenata
della stessa mostruosa gelosia
che rode in me le interiora.

Movente-corna, attenzione, del tutto escluso da Boito-Verdi, insieme a quello della sete di ricchezza (nessun cenno troviamo nel libretto alle manovre estorsive di Jago ai danni di Roderigo): e qui, particolare non insignificante, si rappresenta appunto Boito-Verdi, non Shakespeare.
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Ma in complesso la regìa di Micheli mi è parsa tutto sommato rispettosa dello spirito, se non proprio della lettera del capolavoro verdiano. Anche il finale – da wagneriana redenzione, tipo Senta-Holländer che ascendono in cielo – dove Desdemona ricompare in scena per passare ad Otello lo stiletto con cui trafiggersi (!) non è poi troppo campato in aria (come dirò anche in seguito accennando proprio ad un passo wagneriano della partitura): in fondo, adesso che il male è stato in qualche modo neutralizzato, il destino non fa che restituire alle sue vittime ciò che aveva loro dolorosamente e spietatamente tolto. E del resto, a ben vedere, è proprio questo che ci dice la musica (primo ed ultimo e unico termine di riferimento) che chiude il dramma con quel tranquillo, sereno accordo di MI maggiore, la tonalità celestiale per eccellenza…    

Un cubo rotante e semovente che racchiude spazi di interno è in pratica l’unico componente della scena, alquanto minimalista, ma abbastanza appropriata a concentrare l’attenzione del pubblico sul testo di Boito e soprattutto sulla musica di Verdi. Sulle pareti esterne del qual cubo Edoardo Sanchi ci mostra immagini delle costellazioni che in qualche modo si associano ai protagonisti, immagini ispirate dal cielo stellato di Cipro, nel cui mare discende la Pleiade (Boito) ma forse anche dal Sagittario (Shakespeare) la locanda dove Otello aveva fatto alloggiare Desdemona dopo il rapimento-matrimonio.

Un po’ banali tutti i letti che compaiono all’inizio, a rappresentare dormitori di ciurma e soldati della guarnigione di Cipro, e poi tornano anche qua e là ad accompagnare ora Jago, ora Cassio.

I costumi di Silvia Aymonino sono stilisticamente belli, ma quelli dei maschi (che paiono l’equipaggio di una love-boat o militari della classica repubblica di bananas) fanno un poco sorridere.

Non so se sia da addebitare alla regìa, ma il quartetto (o meglio, duetto-doppio: Desdemona-Otello ed Emilia-Jago) del second’atto è risultato poco efficace, causa l’eccessiva distanza fisica fra le due coppie, il che rendeva difficile seguirne entrambe le… conversazioni. Abbastanza gratuita anche la presenza di mimi che nel finale attorniano Otello a rappresentarne, immagino, gli incubi e i fantasmi che popolano ormai la sua mente.

Tuttavia, come ripeto, un allestimento per nulla disprezzabile, soprattutto a confronto di tante scelleratezze che oggigiorno si spacciano per genialità…
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Sempre sul citato programma di sala, il professor Michele Girardi ci guida in un tour che percorre le diverse influenze che l’Otello ha avuto sulla musica di fine-ottocento e novecento. A cominciare da Mahler, di cui è celebre la citazione del tema che accompagna la tempesta iniziale nel Finale della sua Terza Sinfonia. Per passare poi a Puccini (Bohème e Tosca) a Janácek (Jenufa) a Leoncavallo e Schönberg.

Sul fronte citazioni, o ispirazioni, si può anche ricordare un piccolo inciso dal monologo di Otello del terz’atto (Dio mi potevi scagliar tutti i mali) che Mahler riprese in un suo Lied dal Wunderhorn, Der Schildwache Nachtlied:

Invece – sul fronte dell’influenza di Wagner sull’ultimo Verdi - sarà interessante osservare (e lo fa puntualmente Emanuele Bonomi nei suoi commenti al libretto, sul programma di sala)  una straordinaria rassomiglianza che riguarda un motivo (tonica – terza minore – dominante – sesta minore – dominante) che nell’Otello ritorna due volte, nel quarto atto: la prima, in LA minore in corno inglese e fagotto, al momento in cui il Moro solleva le cortine del letto in cui Desdemona sta dormendo e si appresta a baciarla; la seconda, in MI minore, dove si aggiunge anche il clarinetto, poco prima della chiusa, ad incastonare i versi Pria d’ucciderti, sposa, ti baciai.

Ebbene, questo inciso si trova (quasi) pari-pari nel Parsifal, second’atto, poco dopo la folgorazione che il ragazzo subisce al contatto col bacio di Kundry, e pronuncia le parole del Salvatore Erlöse, rette mich… Redimimi, salvami (dalle mani macchiate dal peccato); è in effetti una variante del tema dell’Agape, lì suonata in LAb minore da corni e violoncelli e chiusa dalla voce con la seconda minore discendente:


(Poi anche il solito Mahler citerà la seconda minore di quel motivo nel finale della sua Auferstehung, sulle parole O glaube, mein Herz o glaube.)

È certo che Verdi non potè ascoltare Parsifal in teatro (ai suoi tempi si rappresentò esclusivamente a Bayreuth, dove lui mai mise piede) ma sappiamo che il Maestro non si faceva mancare partiture o spartiti di Wagner, e di sicuro resta la strabiliante vicinanza dei due contesti, prima ancora che delle quattro note che li evocano.

Orbene, nell’allestimento di Micheli (ma qui c’è probabilmente lo zampino di Chung) noi vediamo in scena Desdemona e Otello abbracciati (dopo che il Moro si è trafitto col pugnale offertogli dalla moglie) precisamente mentre in orchestra sale il motivo che in Wagner accompagna quei versi: Redimimi, salvami… (!) Se la cosa è stata voluta, tanto di cappello a regista e direttore, se è venuta per caso… resta di impatto straordinario!    
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Buone se non ottime notizie sul fronte musicale, a partire da Chung e dall’Orchestra, che hanno sciorinato una prestazione di gran qualità (al Maestro, che non ha mai aperto la partitura sul suo leggìo, perdonerò qualche decibel di troppo, da Attila insomma, ma mai comunque a coprire le voci). Per loro un calorosissimo successo.

Gregory Kunde è un Otello straordinario, nella voce (soprattutto!) come nel portamento (ma qui non scopriamo oggi le sue eccellenti capacità di calarsi nei personaggi che interpreta). Un autentico trionfo per lui.

Di Leah Crocetto mi pare di poter dire che… promette bene. Per essere all’esordio in un’Opera e in un Teatro importanti non ha per nulla sfigurato. Certo non siamo a livelli, diciamo… proporzionali ai prezzi dei biglietti (smile!) e non si può tacere la sua tendenza a calare sugli acuti morbidi (su quelli sparati invece niente da dire). Ieri sera ha compitato bene anche l’arpeggio finale (LAb-DO-MIb-LAb) dell’AveMaria, che venerdi scorso, alla prima radiotrasmessa, aveva chiaramente mancato. Per lei un buon successo… con una riserva (vedi sotto).  

Lo Jago di Lucio Gallo (pure assai applaudito alla fine) a me personalmente non è piaciuto molto: è proprio la voce, il timbro, che mi pare carente di robustezza e di armonici; insomma, pare che vociferi invece di cantare.

Francesco Marsiglia (Cassio) e Antonello Ceron (Roderigo) sono stati all’altezza della situazione. Oneste anche le prestazioni dei comprimari Lodovico (Mattia Denti), Montano (Matteo Ferrara) e Un araldo (Salvatore Giacalone). Un po’ carente l’Emilia di Elisabetta Martorana.

Bene il coro di Claudio Marino Moretti e quello dei Piccoli Cantori Veneziani di Diana D'Alessio.
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Aggiungo ora due note sull’accoglienza da parte del pubblico. Alla fine del primo atto applausi di cortesia o poco più (c’era solo una breve pausa). Al termine del secondo, con in scena Kunde e Gallo (più Chung sul podio, ovviamente) applausi convinti, rotti però da tre buh, isolati e provenienti da un unico punto del loggione, verosimilmente da un unico spettatore, ma di violenza inaudita. Diretti a chi?

Al rientro di Chung, solo applausi e bravo! Ancora applausi moderati al termine del terz’atto (anche qui pausa brevissima, nemmeno si cambia la scena).

Al definitivo calare del sipario ancora grandi applausi, poi alle uscite singole, come detto, c’è stata una sola eccezione per la Crocetto: in mezzo a generali consensi, ancora un unico e fortissimo buh, piovuto dal loggione e più o meno dalla stessa posizione di quelli precedenti.

E questo è quanto, aspettando… Tristan.   

19 novembre, 2012

L’ultimo Siegfried chiude la stagione 11-12 della Scala


Il Turno B mi ha riservato l’ultima (che doveva essere la più buona… o no?) delle rappresentazioni scaligere del Siegfried dell’improbabile accoppiata Barenboim-Cassiers (da esperto masochista ho già da tempo sottoscritto un bronze per il ciclo del Ring del prossimo giugno, smile!)   

Chiusura con alti e bassi, un po’ lo specchio dell’intera stagione. Alti rappresentati (una volta tanto) dall’Orchestra (e relativo Direttore) che si è ben portata in tutti i reparti. Bassi dall’allestimento invero… inverecondo.

La novità-sorpresa della penultima ora era rappresentata da Brünnhilde: basta con Nina Stemme e sotto un’altra, tale Irene Theorin, che già è scritturata per impersonare il ruolo nella prossima Götterdämmerung e nei due cicli del Ring di giugno 2013 (ma c’è assai tempo – speriamo, smile! - per rinunce, certificati medici o gravidanze). Fatto sta che la bionda cinquantenne svedese è stata l’unica destinataria di isolati ma chiari buh recapitati dal loggione. Contestazioni forse un tantino eccessive, ma direi non proprio ingiustificate: voce con eccessivo e sgradevole vibrato negli acuti e quasi inudibile nei gravi (e meno male che nel Siegfried canta solo nell’ultima scena!)

Lance Ryan è andato decisamente meglio, mostrando una buona capacità di distribuire le… energie, con la quale forse camuffa qualche magagna nel suo Siegfried: intanto è arrivato in fondo senza andare in riserva, ed è già qualcosa.

Il Wotan di Terje Stensvold è di quelli da sano teatro di repertorio: gran mestiere (accumulato in anni di carriera) e nessun volo pindarico, insomma una prestazione dignitosa.

Ottimo l’Alberich di Johannes Martin Kränzle, direi il migliore della compagnia, per quanto abbia una parte non proibitiva.

Si è salvato anche il Mime di Peter Bronder, discreto anche dal lato macchietta.    

Un disastro Anna Larsson (Erda) cui i buatori della Theorin han fatto gentilmente lo sconto del 100% (smile!)

Senza infamia, ma con scarse lodi il Fafner di Alexander Tsymbalyuk, che non saprei dire se fosse peggio qui o nel recente Sparafucile…

Ha fatto onestamente la sua parte Rinnat Moriah come Uccellino. Domanda: ma a Bayreuth la cantante-volatile la sistemano per caso giù nell’Orchestergraben? Fatto sta che qui era dislocata sotto la porticina di destra dell’ingresso in buca: insomma un uccello appollaiato… in fossa. Il colmo del ridicolo però è che sul palco si aggirava una sua controfigura, sempre alle costole dell’ignaro Siegfried: evabbè… 

Qualcuno dovrebbe sporgere denuncia - per dissipazione e scempio di risorse pubbliche – contro l’allestimento di Guy Cassiers  e compagni (fossimo in Francia si beccherebbero subito l’appellativo di petit-belge): una cosa indegna, un misto di ignoranza crassa, puerilità e invenzioni da bastian-contrario.

Scene orripilanti (la fucina di Mime, roba da manicomio) o del tutto vuote (strisce penzolanti a far da alberi, che se tornasse in vita tale Adolphe Appia si armerebbe di bazooka) fondali con proiezioni anonime e banali; costumi strampalati (non si irrideva sempre alle pelli e alle corna? ecco, qui pelli e piume abbondano: Siegfried, Wotan ed Alberich parevano altrettanti Papageni…); Erda e Brünnhilde con vestiti da oviesse (con tutto il rispetto) direttamente sfocianti in chilometrici tendaggi.

E poi trovate bambinesche e gratuite: Mime appeso come una scimmia nel finale atto I; Wotan che precede Alberich a Neidhöhle nell’atto II; Alberich che fa il gesto di strappare la lancia a Wotan; il drago impersonato da 5 mimi nascosti da un lenzuolo; Fafner che torna essere umano (chissà perché Wagner invece l’ha lasciato drago, anche da morto?); i 5 mimi di cui sopra che si armano di spade e mimano… Mime (formando con le armi anche una stella a 5 punte, proprio BR doc… roba da galera); Mime che si auto-trafigge scagliandosi sulla Nothung; dell’Uccellino in buca ho già detto; per finire con Siegfried che strappa il cappello a Wotan per ispezionargli l’occhio.

Amen.

17 novembre, 2012

Orchestraverdi – concerto n.10


Ruben Jais torna a guidare la sua Verdi Barocca con il monumentale Messiah. Questo è un appuntamento che sta ormai diventando una tradizione… britannica, dove (quasi) tutto si ripete ogni anno prima o sotto Natale: dalla disposizione del coro (ai lati della scena, a sinistra le voci acute, a destra le gravi); all'andirivieni dei solisti (che entrano per cantare le rispettive parti, ed escono alla fine dell'aria); al contenuto dell'opera (la prima parte completa e le altre due sforbiciate, in modo da creare due tempi di circa un'ora ciascuno); e per finire in gloria con il bis del celeberrimo Hallelujah!

Anche i solisti sono quasi tutti veterani di queste esibizioni oratoriali: Deborah York (già apprezzata poche settimane fa in Bach) e tre protagonisti di precedenti edizioni del Messiah, Sonia Prina, Cyril Auvity e Christian Senn.

Quest'anno il Coro è invece quello stabile della Fondazione, guidato da Erina Gambarini, che prende il posto di quello tradizionalmente legato all'orchestra barocca, l'Ensemble di Gianluca Capuano.

Esecuzione di ottimo livello e gran successo per tutti.

L'appuntamento stagionale n°11 (con anticipo del turno C per dar modo all'Orchestra di trasferirsi in Russia) avrà come clou uno Shostakovich… sovietico.

11 novembre, 2012

Un Rigoletto senza gobba!


Ieri sera alla Scala la terza rappresentazione (primo cast) di Rigoletto. Una produzione dal taglio zeffirelliano, piuttosto datata, a firma Gilbert Deflo, già riproposta anche un paio d'anni or sono e replicata ora per risparmiare sulla parcella di tale Luc Bondy (cui era andato l'incarico originario) e allo stesso tempo per risparmiare a noi poveri pirla un Konzept svizzero innovativo come quello dell'indimenticabile Tosca, peraltro già qui replicata in due stagioni (quando si dice il masochismo!)

Le novità di questo autunno piovigginoso, ma non freddo, sono il funambolico, ormai californiano (ciao Hugo!) Gustavo Dudamel e quel Kaufmann-de-noantri che risponde al nome di Vittorio Grigolo. Poi, accanto alla collaudata Elena Mosuc, un nuovo protagonista, George Gadnidze, che a giudicare da questo video si presentava, diciamo, ehm, con poca gobba e molta approssimazione (smile!)

Le figure dei tre protagonisti del cosiddetto dramma popolare meritano qualche considerazione preliminare.

Su quella del Duca gli esegeti sono divisi, tra quelli che non gli perdonano proprio nulla, e lo considerano un volgare libertino (com'era effettivamente il Francesco I di Francia di Hugo, e come erano, diciamolo pure, i Gonzaga di Mantova, sanLuigi escluso!) e coloro che invece (ah, il relativismo…) gli vogliono concedere una qualche attenuante, insomma una prerogativa di essere umano, prendendo a pretesto la vicenda presentata (da Piave) a cavallo fra primo e secondo atto.

Forse Verdi, che doveva essere uno disposto ai più ampi compromessi in materia (smile!) ha voluto tenere il piede in due scarpe, presentandoci un Duca che - dopo l'iniziale inequivocabile esternazione del Questa, o quella – si fa immelensire udendo Gilda dichiararsi innamorata di lui (che invece era abituato a prendersi tutte quelle che voleva, e meno innamorate erano, tanto meglio!) fino a straziarsi per il rapimento della giovane. Però, venendo a sapere che la stessa è proprio in casa sua, si fa subito richiamare dal Possente amor (una baldanzosa cabaletta!) per raggiungerla e… aggiungerla dongiovannescamente alla sua lista. Insomma, un tamarro qualsiasi che godette però della comprensione del compositore, che si fece scudo della censura austro-veneziana per risparmiarci la ripresa diretta della scena in cui il Duca è in camera a consolare la Gilda per l'affronto patito la notte precedente.

Però che il Duca sia tipo amabile e dall'innocente fascino conquistatore ce lo conferma tale Maddalena - volgare prostituta al servizio del fratello-magnaccia-sicario Sparafucile (però, che coppia!) - che se ne innamora quasi di amor filiale (in effetti non risulta chiarissimo dal libretto se i due si accoppino o meno…) fino a suggerire al fratello (integerrimo fino ad allora nel rispettare i contratti di 
business) di far secco, al posto del caro Duca del mio cuor (!) il primo che passa di lì (la povera Gilda, guarda caso!) pur di risparmiare il bel giovine che l'aveva ordinata come piatto del menu. La donna è mobile!

Ma che dire di Gilda? Una ragazza morigerata, per bene, che se ne sta castamente rinchiusa in casa da cui esce solo per andare alla messa? Ahi ahi. A parte che di messe galeotte è piena la cronaca, lei per amore dello sconosciuto che tutte le feste al tempio la tampinava, arriva a raccontar balle al preoccupatissimo genitore, nonché ad assicurarsi la complicità di tale Giovanna, che il padre aveva assunto in funzione di cerbera. Domanda: ma dopo che si è trovata in casa (se non direttamente in camera da letto) dell'innamorato - scoprendo che non era la topaia in cui diceva di vivere il suo bel Gualtier Maldè, studente squattrinato, ma il fastoso Palazzo Ducale di Mantova - che fa la nostra santarellina? Si allea subito col padre vendicatore, per far secco un tipo che le ha estorto in un sol colpo la fiducia e la verginità? Ma no, lei, pur di fronte a prove schiaccianti e flagranti della natura puttanesca del Duca, decide di sacrificare la sua propria vita per salvare quella del suo amato libertino! Beh, bisogna riconoscere che quella mattinata (!) trascorsa in camera col Duca doveva averle fatto proprio un grand'effetto…

Insomma, se il femminismo non ci fosse, qui bisognerebbe inventarlo (neanche Wagner arrivò mai a pensare a due redentrici per un sol uomo peccatore!)

Ovviamente, ciò che trasforma una improbabile tragicommedia in un capolavoro di dramma è… la musica del contadino di Roncole, che 160 anni dopo la prima apparizione ancora non ne vuol sapere di annoiare chi l'ascolta, persino a dispetto di esecuzioni, diciamo… da sottoScala, come quella ascoltata ieri.

Al protagonista Gagnidze, oltre che la gobba, manca proprio la capacità di calarsi nel ruolo, per cui quello che ascoltiamo è un Rigoletto da osteria, tutto uno schiamazzare e vociferare.  Persino l'espressione del viso (chissà se è proprio quella naturale del... cantante) è perennemente impostata sul ghigno truculento e incazzoso. La vendetta poi (complice forse Dudamel che l'attacca almeno a 183 invece che a 138 di metronomo, smile!) sembra una parata di bersaglieri. 

Vittorio Grigolo ha di sicuro l'appeal del Duca (intendo quello che serve in camera da letto…) Quanto alla voce… sarà meglio soprassedere! 

È invece da sottolineare la buona prova di Elena Mosuc, che restituisce musicalmente (soprattutto) oltre che attorialmente una pregevole Gilda. 

Alexander Tsymbalyuk, che in queste stesse settimane impersona lo sbifido Fafner, qui non ci fa propriamente la figura del drago: uno Sparafucile, il suo, piuttosto incolore ed anemico, ad esser buoni. Appena passabile anche la Maddalena di Ketevan Kemoklidze, che si è difesa come ha potuto nel finale quartetto, dove si sentivano la Mosuc e… sussurri sparsi.

Tutti gli altri onestamente all'altezza, anche se Monterone forse meriterebbe di più del prezzemolo Panariello; onesta anche la prestazione del coro di Casoni, non sempre pulitissimo (ma quanto c'entra il Gustavo?)

A proposito, si scopre che Dudamel non è ancora Toscanini (e neanche Gavazzeni, se è per quello): ma se lui dirige un'opera italiana ogni 200 sinfonie tedesche, che si può pretendere? 

Insomma, come antipasto per l'incombente anno verdiano, qualcosina di più Lissner poteva anche cucinarci; però pensando allo scampato pericolo svizzero, tutto sommato ci dobbiamo quasi consolare!