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consulta e zecche rosse

25 febbraio, 2011

Gli opposti estremismi del loggione scaligero


La recente (anzi, ancora in programmazione) Tosca scaligera ha dato adito a strascichi polemici - che per poco non hanno assunto risvolti cruenti (!) - che tuttora riempiono giga e giga di memoria dei server dei vari blog e forum, oltre che essere oggetto di qualche trafiletto di giornale, o di simpatiche trasmissioni della nostra cultur-radio. Come per il calcio e per la politica (altro sport nazionale, smile!) si formano fazioni e tifoserie totalmente impermeabili alle ragioni (!?) degli altri. Qualche flash.
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C'è chi si incazza se uno che gli sta dietro a sinistra si mette a gridare buuuh! perché – dice – lo disturba indebitamente, rovinandogli il timpano sinistro e la serata. Però se, contemporaneamente, un altro che gli sta dietro a destra si mette a urlare brava! da spaccargli il timpano destro, no, quello non disturba per nulla, nè rovina l'udito. Come si spiega l'arcano? Che il primo sarebbe un sabotatore della carriera dell'interprete e peggio ancora un infangatore del buon nome del teatro, mentre il secondo è un eroe che si sacrifica per la nobile causa della difesa della patria, e gli si dovrebbe erigere un monumento. Vale anche l'esatto contrario, invertendo incazzatura con apprezzamento e sabotatore con eroe.
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S'ode a destra uno squillo di pernacchie: alla Scala non si vede – e soprattutto non si sente – da almeno 40-50 anni, che una schifezza dietro l'altra. Perché il teatro è finito nelle mani di burattini manovrati da una odiosa cricca capital-global-markettar-star-sistemica che intende distruggere il bel-canto, per sostituirlo col bel-conto. E così anche il più sprovveduto e viscerale ignorantone - venuto a teatro per pura curiosità e che ha ingenuamente e incolpevolmente mostrato di gradire ciò che gli è stato propinato – passa per strumento involontario di creazione del consenso verso la cricca. Quindi un nemico da zittire, o da intimidire a suon di buuh.
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A sinistra risponde uno squillo di peana: l'ultima Tosca della Scala (come l'ultima Carmen, o gli ultimi Pagliacci) sono edizioni di riferimento millenario, mai ascoltato e visto nulla di più sublime; gli interpreti – musicisti e registi con loro - meritano di essere trasferiti seduta stante nell'empireo dei sommi aedi, da imbalsamare direttamente per non farli deperire. Eventuali dissenzienti sono per definizione dei sabotatori e come tali vanno perseguiti.
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Ci meravigliamo poi se le fazioni si ritrovano fuori dal teatro per la resa-dei-conti?
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Ora non c'è che da aspettare la prossima partita (però, vogliamo scommettere? non Death in Venice, che è di cricket, mica di calcio…) per assistere ad una nuova puntata di queste dotte e civili discussioni.
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Stagione dell’OrchestraVerdi - 24



Dopo Porgy&Bess, l'Auditorium torna ad ospitare musica americana. Non c'è, come ci si sarebbe potuto aspettare dato il titolo, il flamboyant Wayne Marshall, ma il meno appariscente (parlo dell'aspetto, non delle capacità, ovviamente) Giuseppe Grazioli.

 
Wonderful Town è una commedia musicale, la cui colonna sonora fu composta da un 35enne Lenny Bernstein nel 1953. Si tratta di 18 numeri disposti su due atti, più l'Ouverture e l'Entr'Acte della seconda parte. Gli 11 interpreti – tutti sfornati dalla Yale School of Music, si dispongono sul fondo, nella zona-coro, con ausilio di amplificazione; alla loro sinistra, guardando la scena, le percussioni; l'orchestra vede i contrabbassi in linea, proprio davanti ai cantanti; più sotto la linea degli strumentini e, a sinistra, la band degli ottoni, dove i corni sono sostituiti da 5 saxofoni. A destra timpani e pianoforte. Archi disposti con le viole al proscenio.

 
I tre protagonisti principali sono le due intraprendenti sorelle Ruth ed Eileen Sherwood, arrivate dall'Ohio (strappalacrime il loro why, oh why, oh) per far fortuna nella grande mela, e l'apparentemente cinico Bob Baker, uno scribacchino di una rivista di novelle. Attorno a loro altri figuri più o meno raccomandabili, che si agitano nel melting-pot di Manhattan, dove intrallazzi e imbrogli si mescolano ad attività più o meno pulite. Ne fa le spese la scatenata Eileen che, dopo aver portato al parossismo il Conga danzato dai cadetti brasiliani - che la sorella cercava di intervistare (!) - viene portata in gattabuia dalla buoncostume. Così finisce il primo atto.

 
Nella seconda parte, dopo il gustoso siparietto irlandese del carcere, abbiamo uno dei clou della commedia, il fantastico Swing, dove si mette in luce Fausto Ghiazza con arditi virtuosismi del suo clarinetto piccolo. Il lieto fine per tutti – Eileen che sfonda al Vortex Village e Ruth che si accasa (si fa per dire) con Bob - è garantito dall'ottimismo che non poteva certo mancare in uno spettacolo americano, anzi newyorkese, del frenetico dopoguerra.

 
Bravi i singers a rendere al meglio il clima della commedia, pur in assenza delle scene, che sono ingrediente determinante in questo tipo di spettacolo.

 
In orchestra, grande prestazione di tutti, in particolare di fiati e percussioni, che qui la fanno ovviamente da padroni, salutata da ovazioni proprio all'americana. Ma non finisce certo qui. A mo' di bis, ecco che Jennifer Feinstein (la simpatica Ruth della storiella) sulle note del Conga, guida i suoi in una travolgente passerella, con tanto di escursione in platea, in mezzo al pubblico che applaude battendo il ritmo. Ma è sul palco che succede dell'incredibile, una cosa che magari farebbe inorridire qualche vestale del tempio: i professori – tutti regolarmente in giacca a code o lungo - si alzano e, continuando a suonare, si scatenano a loro volta in frenetiche mosse, proprio da discoteca. Imitati persino dal timido e riservato Grazioli! Insomma, una vera e propria festa di popolo, di quelle che fanno bene alla salute, in tempi di faide di loggione e di rese-dei-conti sul sagrato del Piermarini.

 
Dal 3 marzo si torna a far sul serio, con Xian Zhang in un programma a dir poco sontuoso.
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23 febbraio, 2011

Tosca (di Bondy, purtroppo) alla Scala


Dopo Cavalleria-Pagliacci (o viceversa!) ecco ancora un classico del melodramma italico fine-800 alla Scala. Introdotto da una corposa presentazione del professor Michele Girardi (da non confondersi con Enrico Girardi, occhio…) un'autorità in merito, nel consueto appuntamento Prima della prima del 9 scorso. In effetti – sarò sadico, magari, in questa esortazione – ma prima di entrare in teatro a godersi (o a maledire) lo spettacolo, chiunque dovrebbe leggere - meglio ancora: studiare - analisi come questa (vedi pagg. 37 e seguenti) redatta proprio da Girardi, anni fa, per La Fenice. Di sicuro, dalla lettura di un'analisi come questa ci si farebbe un'idea concreta (meglio ancora se si buttasse anche uno sguardo alla partitura) di ciò che è l'originale, in modo da poter poi apprezzarne o censurarne la rappresentazione – scenica e musicale - con un minimo di cognizione di causa, e non sulla base di estemporanee e più o meno viscerali sensazioni. In caso contrario, meglio non far assurgere le proprie pur rispettabili, ma viscerali, sensazioni a giudizi assoluti, di condanna o santificazione che siano. (non parlo qui di giudizi – in un senso o nell'altro – a vario titolo interessati).


Cast annunciato da mesi e mesi e – regolarmente – smontato pezzo per pezzo alla vigilia della prima. C'è ancora un intero mese di inverno, quindi sono da aspettarsi altre vittime (una già annunciata per Britten, ma scommetto che si salverà Francesconi) Però, fossi Mozart, Puccini, Gounod, Verdi e Rossini, non mi fiderei neanche di primavera ed estate: dentro il Piermarini le correnti d'aria devono essere sempre più sbifide.

La prima del 15 – tenuta rigorosamente segreta, come ogni altra replica, alla diffusione radio-tele-web (coda di paglia, come l'inversione Pag-Cav, caro Lissner?) – pare fosse passata secondo recente tradizione: fra irrisioni, più che contestazioni, alla regìa, e alcuni chiassosi, contestati buh per il povero Kapellmeister. Da taluni definito, in pratica, un maestro di cappelle, nel mentre altri lo hanno già elevato al rango di profeta (sarà forse per via della sua provenienza da luoghi biblici, smile!) Accoglienza mista che – sempre stando alle cronache – si era ripetuta anche alla seconda (che recuperava la Dyka) e alla terza, in cui era riemerso dal nulla il bel Jonas. Ieri? Invece, pure. Il loggione mi è parso diviso fra centro-destra (battimani fragorosi e bravi! a josa) e sinistra (secondo piano, in particolare, da cui sono piovuti pesanti buh ai principali protagonisti, direttore escluso peraltro). Che il loggione sia diventato uno specchio del Paese politico, diviso in fazioni ed opposti estremismi?

Ieri sera la prestazione di Omer Meir Wellber mi è parsa francamente apprezzabile, forse perchè alla quarta tornata l'affiatamento con orchestra e interpreti ha potuto migliorare. Qualche fracasso che personalmente trovo eccessivo (non le campane, come riportato da qualcuno per le precedenti recite) ma per fortuna mai a coprire il canto; per il resto una direzione rispettosa della partitura, quindi tutt'altro che da stigmatizzare, né tanto meno da buare. Certo, da qui a vedere in Omer il messia ce ne corre assai e del resto, avendo 30 anni, il nostro non può che migliorare ancora, a meno che non cada vittima della sindrome da notorietà precoce.

Zeljko Lucic è uno Scarpia indecente sotto il profilo della recitazione, ma ciò è quasi certamente da addebitarsi al regista (vedi sotto). Viceversa i suoni che sono usciti dalla sua bocca, pur non incantando, mi son parsi perlomeno dignitosi e lui non meritevole della porzione di buh arrivatigli insieme agli applausi. Imponente la sua entrata nel primo atto ed abbastanza efficace anche la sua prestazione nel secondo, forse con qualche eccesso di declamato/gridato. Per me, comunque, dovrebbe citare il regista per procurato danno di immagine.

Oksana Dyka, come già di recente in Pagliacci, ha mostrato doti naturali notevoli accompagnate da una certa immaturità. Paradigmatico il suo Vissi d'arte (unica aria su cui il pubblico è intervenuto, col loggione diviso fra brava! e buh) in cui ha sfoggiato gran chiarezza di suono, accompagnata da una certa monotonia nell'espressione (e da un singhiozzino anticipato, sul Signor, ah) Insomma, una dignitosa prestazione da parte di questa 33enne, per me meritevole di incoraggiamento.

Il divo-redivivo Jonas ormai lo si conosce, in tutto e per tutto: a voce spiegata, un autentico gigante; nei mezzo-forte e nei piano, o di gola o di testa. Sulla scena è l'unico a fregarsene (anche qui: nel bene e nel male) del regista: lui è sempre lui, Werther, Josè, Mario, tutti fatti con lo stesso stampino. Alla fine anche per lui il mix di bravo! e buh: in questo caso (per me) abbastanza appropriati in proporzione alle qualità positive e negative sopra descritte (smile!)

Bravo lo Spoletta di Luca Casalin, almeno come rapporto prestazione/difficoltà.

Renato Girolami era il Sagrestano, che il regista ha pervicacemente ridicolizzato. Da sufficienza la sua prestazione vocale.

Un discreto Angelotti è stato Deyan Vatchkov, mentre Davide Pelissero e il prezzemolo Ernesto Panariello si son guadagnati la pagnottina, nei panni di Sciarrone e Carceriere. Da elogio anche la prestazione della "pastorella" Barbara Massaro.

Sui suoi abituali standard il Coro di Casoni, integrato da bianche voci, che ben ha reso la scena madre del Te-deum, a dispetto della regìa.

Ecco appunto, la messinscena: il fatto che il MET e München già ci avessero messo sull'avviso nulla toglie alla sensazione di autentica pena che si prova assistendo a questa pagliacciata. Purtroppo, oltre a soffrire le contingenze di stagione, Tosca deve avere un qualche strano e arcano potere: risultare indigesta a parecchia gente. È rimasta famosa l'idiosincrasia di Mahler per quest'opera (non per Puccini, attenzione) da lui definita, al primo e forse unico ascolto, un lavoro magistralmente abborracciato, che qualunque apprendista-calzolaio era in grado di scrivere… e conseguentemente e coerentemente mai diretta in vita sua.

Ecco, Luc Bondy si deve esser fatto suggestionare dal giudizio di Mahler, e quindi ha deciso – bontà sua - di riscrivere Tosca. Interessante ed istruttivo quanto si ascolta in questa sua intervista, dove il regista spiega il suo approccio. Attorno a 1':10" il nostro afferma candidamente che il libretto (parla dell'omicidio di Scarpia) è stupido e che quindi lui (il genio!) ci ha dovuto mettere le mani, mostrandoci Tosca che minaccia di buttarsi dalla finestra (apperò!) Poco dopo (1':43") per giustificare le sue efferatezze, Bondy spara un'autentica carognata, affermando che Sardou fu spesso in disaccordo con Puccini riguardo a scelte del libretto, e proprio mentre si parla del finale secondo. Ciò è un clamoroso falso: ci furono, effettivamente, divergenze fra Sardou e i librettisti di Puccini, ma sempre il compositore si schierò con il drammaturgo, e convinse i suoi librettisti a seguirlo. La chiusa dell'atto è pari-pari, ma proprio nei minimi dettagli, come la descrive Sardou, non come ce la mostra Bondy! E lo stesso dicasi per il finale terzo, dove Puccini impose di rispettare il dramma di Sardou (Tosca che si getta dallo spalto) ai suoi librettisti, intenzionati a farne una ridicola, tristaniana Liebestod. Ancora, a 2':02" il candido Luc afferma "non è originale!", e poi "non è nulla di originale, né di speciale, in fondo è solo un'opera". E quindi rivendica il diritto di farne strame (?!) Insomma: parodia e dissacrazione elevate a principio assoluto. A 2':45" si incarta poi in un ragionamento senza capo né coda, affermando che Puccini non è Berg (ma l'ha ascoltata bene la scena della tortura, il nostro genio?) e che Schönberg era un ammiratore di Puccini, ma che fra loro ci fu sempre rivalità (sic!) Poi, bontà sua, riconosce che Tosca (insieme a Salome) è il top dell'opera, è molto buona, ma che ciò non basta (?!) Mah, o era ubriaco, oppure è del tutto fuori di melonera.

Domanda: ma se un'opera non ti va a genio, mio caro Luc, perché non ti limiti semplicemente ad ignorarla, come fece il saggio Gustav? Occupati d'altro, di cioccolatini ad esempio, invece di accanirti su un oggetto che disprezzi. Questa regìa fu sonoramente contestata al MET nel 2009, poi a Monaco nel 2010: si disse, ad opera di nostalgici di Zeffirelli. Ma buare è ancora nulla: qui ci vorrebbero punizioni e multe severe per chi si macchia di simili nefandezze. Come gridava Bracardi? In galera!

A Milano il nostro – mostrando pure una buona dose di vigliaccheria (leggi: non avere il coraggio delle proprie scelte) – ha edulcorato o eliminato i particolari più dissacranti (chi non ha visto dal vivo le recite del MET e di Monaco, o si è perso la diffusione di arte, può trovare ampi documenti su youtube che testimoniano delle scelte al limite della provocazione fatte dal regista svizzero) credendo così di farla franca a buon mercato (o pensando che il pubblico italiano sia fatto da trogloditi bigotti, non abbastanza intelligenti per capire un genio come lui). In pratica, dal suo mix dissacrazione+parodia ha tolto la dissacrazione. Quindi indovinate voi cosa è rimasto…

La sua vittima principale, quanto a rappresentazione dei personaggi, è il povero Scarpia, che non è propriamente un comprimario insignificante, ma nientemeno la zeppa che sostiene l'intera volta strutturale dell'opera. Nel primo atto, in chiesa, alla fine del Te Deum, lo Scarpia di Bondy evita (come faceva al MET) di palpeggiare la statua della Madonna (forse perché qui siamo a Milano, a duecento metri dalla Madunina) ma le si avvicina fin quasi a baciarla sulla bocca! Sarebbe questo il modo di rappresentare la sua perversa personalità, il suo abietto uso della Religione e della Politica per soddisfare la sua concupiscenza (Tosca, mi fai dimenticare Iddio)?

Nella scena iniziale del secondo atto, avevamo visto (al MET e a Monaco) Scarpia farsi pompinare non da una, ma da tre puttane, regolarmente pagate in contanti dallo Spinelli… ops, dallo Sciarrone di turno. Alla Scala il blowjob è censurato (c'è paura del mite Tettamanzi, per caso?) ma il risultato non cambia. Bondy – da svizzero, pur zurighese – dovrebbe conoscere un po' di italiano; altrimenti, chieda al primo che passa per la strada di spiegargli cosa canta Scarpia, in modo da farsi un'idea di quale pasta sia fatto il barone siculo al servizio dei borboni appaltato dal Vaticano. Ha più forte sapore la conquista vïolenta che il mellifluo consenso. Che è la splendida, fulminante e concisa rappresentazione dell'originale di Sardou: Une femme qui se donne, la belle affaire... J'en suis rassasié, de celles-là!... Mais ton mépris et ta colère à humilier... ta résistance à briser et à tordre dans mes bras!... Pardieu, c'est la saveur de la chose, et ta résignation me gâterait la fête!... Queste parole, Luc Bondy, che non può non conoscere il francese, le ha lette? Ha idea di cosa raccontino della personalità di Scarpia? Evidentemente no: lui, come ha del resto candidamente ammesso nell'intervista di cui sopra, del libretto (e della musica?) dell'opera che deve allestire, non si cura, essendo una cosa stupida.

Ancora Scarpia: Io di sospiri e di lattiginose albe lunari poco mi appago. Non so trarre accordi di chitarra, né oroscopo di fiori, né far l'occhio di pesce, o tubar come tortora! Bramo. La cosa bramata perseguo, me ne sazio e via la getto, vòlto a nuova esca. Ora, cosa vediamo noi in tutta la scena della tortura? Uno Scarpia che fa il cascamorto con Tosca, che le fa precisamente l'occhio di pesce e che comicamente tuba come tortora. Roba da matti… anzi, da Berlusconi, con il terzo piano di (quello che dovrebbe essere) Palazzo Farnese ridotto a scantinato da bunga-bunga, vomitevole.

Quanto a Floria, Bondy ne ha attenuato, a Milano, i caratteri di schizoide, nevrotica, volgare e pure scema e vanesia che le aveva appioppato al MET. Resta la stupidaggine dello sfregio al dipinto della Maddalena (a proposito, scusate: ma qualcuno ha imposto che abbia sempre la tetta sinistra al vento? Ronconi, Carsen e adesso Bondy così ce la rappresentano) E resta l'assurdo finale secondo: dopo aver pugnalato Scarpia nelle palle (il libretto, si sa, è stupido e prescrive una sola coltellata al cuore) gli dà un'altra coltellata, precisamente sull'unico colpo di piatti previsto in partitura, proprio al cuore (altrimenti il bruto farebbe una fine atto come Amfortas nel Parsifal) e poco dopo, altre due coltellate (l'ultima a due mani, orripilante) sulle parole muori, muori, muori! Poi fa per buttarsi dalla finestra (appunto, a proposito della stupidità del libretto… di Bondy!) quindi ci ripensa e si stende stanca, ebete ma soddisfatta sul sofà, ad asciugarsi il sudore col ventaglio dell'Attavanti (?!)

E pensare che Puccini nel comporre Tosca ci ha messo tutta la sua inventiva e la sua pignoleria, arrivando a scrivere in partitura particolari come questo:
Di cui Bondy si sbatte altamente i coglioni, come di tutto il resto… Il terzo atto è addirittura stravolto nella sua originaria drammaticità. Non parlo della partita a scacchi fra Mario e il carceriere, roba da avanspettacolo. No, è che per Bondy i due protagonisti si comportano come se fossero consapevoli che l'imminente esecuzione sarà proprio vera e non simulata: già la scena rimane sempre avvolta nella totale oscurità (la fantastica alba su Roma dev'essere stupida cosa, ovviamente) e poi Cavaradossi che appallottola e getta via il salvacondotto, i due che cantano il Trionfal come fossero al funerale… insomma, siamo al totale ribaltamento della situazione emotiva costruita dal libretto (e dall'originale di Sardou) il che priva il finale del drammatico colpo di scena determinato dalla non simulazione della pena. E, coerentemente con la stupidità della sua regìa, Bondy fa salire Tosca lungo una scala, con studiata compostezza e la fa lentamente scomparire in una torre. Penoso.

E che dire delle scene di Peduzzi? Ma perché continuano (no anzi, continuiamo noi!) a pagarlo per le sue scenografie sempre uguali? Per restare solo alla Scala negli ultimi anni: Tristan, Carmen, Casa di morti, Tosca: tutto uguale! Muraglie da archeologia industriale, cupe e deprimenti. Sant'Andrea, Palazzo Farnese, Castel Sant'Angelo: non c'è differenza alcuna fra una basilica barocca, una quasi-reggia rinascimentale ed un castello di origine adriana, il tutto è ridotto peggio delle più sconce stazioni del metro del Bronx.

Quanto ai costumi della Canonero, sono almeno vagamente plausibili, e ciò va tutto a suo merito.

Non aggiungo altro, salvo la constatazione che la stagione – iniziata così-così con Wagner e proseguita cosà-cosà con il dittico – non mi pare si stia riprendendo alla grande con questa Tosca, passabile sul fronte musicale, ma deprimente su quello scenico. E ci attende ora una Morte… già depauperata del primattore.

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Girovagando attorno a Tosca.

Sui cambi d'abito.

Qualcuno si è - del tutto a torto – scandalizzato per il fatto che l'abito indossato nel terzo atto da Tosca in questa edizione è visibilmente diverso da quello che la cantante indossa nel secondo. Perché a torto? Perché la cosa è invece naturale e direi quasi doverosa (e infatti quasi tutte le produzioni ce la propongono così). In effetti chi ha presente il dramma di Victorien Sardou (cui si ispirarono Giacosa-Illica per il libretto del melodramma) può essere tratto in inganno, poiché in Sardou il colloquio finale fra Scarpia e Tosca non avviene a Palazzo Farnese e nel bel mezzo di una festa in onore della regina, ma proprio a Castel Sant'Angelo, nell'appartamento di Scarpia, a due passi dalla prigione dove è detenuto Mario e a tre dalla piattaforma sulla quale verrà fucilato. Tosca vi è stata portata dopo la drammatica serata-nottata nella casa di campagna dell'amato (atto III) durante la quale lei ha rivelato il nascondiglio di Angelotti, poi suicidatosi. Lei veste (verosimilmente) ancora gli abiti da cerimonia che indossava precedentemente (atto II) a Palazzo Farnese, a meno di ipotizzare un suo passaggio da casa a cambiarsi, prima di andare da Mario, cosa peraltro inverosimile, data la fretta che Tosca ha di cogliere in flagrante i supposti trescanti (e poi è tutto sommato ininfluente sulla questione dibattuta qui). Dopo aver ucciso Scarpia (fine atto IV) Tosca si reca immediatamente alla prigione di Mario (inizio atto V) e quindi non può certo avere un abito diverso da quello indossato nei tre (o come minimo due) atti precedenti. Si noti che Tosca non fa cenno alcuno a Mario di eventuali preparativi da lei fatti in vista della fuga (non ne avrebbe avuto materialmente la possibilità): si limita a dire che loro hanno da 4 a 7 ore di margine (prima che si scopra l'ammazzamento di Scarpia) per abbandonare lo Stato e che non avranno problemi a raggiungere Civitavecchia, disponendo della carrozza che Scarpia ha (meglio: disse di aver…) messo a loro disposizione.

Invece sappiamo che il libretto del melodramma prevede che il colloquio, seguito dall'accoltellamento, fra Tosca e Scarpia avvenga appunto a Palazzo Farnese, al piano superiore a quello in cui è in corso la festa per la regina, di cui Tosca è stata la protagonista canora. E quindi Tosca, prima del terzo atto dell'opera, deve necessariamente spostarsi (di circa 1 Km) da Palazzo Farnese a Castel Sant'Angelo. Una volta lì, cosa racconta a Mario? Cito dal libretto: (mostrando la borsa) io già raccolsi oro e gioielli… una vettura è pronta. Questa frase, del tutto assente in Sardou (vettura a parte) e inventata di sana pianta dai librettisti di Puccini, ci dice senza la minima ombra di dubbio che Tosca, dopo aver abbandonato Palazzo Farnese e prima di recarsi a Castel Sant'Angelo, è passata da casa, a recuperare oro e gioielli (non poteva di certo averne portato con sé una borsa piena a Palazzo Farnese, quando l'ultima cosa che poteva immaginare era la brutta piega che avrebbe preso la serata!) e procurarsi una carrozza. E quindi non può non aver ragionevolmente approfittato di questa sosta anche per cambiarsi d'abito, togliendosi quello (verosimilmente ingombrante, scomodo ed appariscente) della cerimonia regale, per indossarne uno più adatto all'imminente viaggio (che sarebbe in verità una fuga in piena regola).

La richiesta di grazia alla regina

A proposito di inesattezze (un assoluto dilettante come me ci gode un mondo a prendere simpaticamente in castagna qualche autorità…) nel peraltro interessante ed approfondito scritto del prof. Giulio Paduano pubblicato sul programma di sala, si sostiene che l'onnipotenza di Scarpia sia tratto innovativo della situazione operistica rispetto a Sardou (…) in Sardou la posizione di Scarpia è subalterna (…) Tutto questo orizzonte è sgombrato nell'opera di Puccini per lasciar posto ad un incontestato diritto di vita e di morte, a proposito del quale non fa aggio neppure il potere della regina; è nominato sì: da lei Tosca può ottenere la grazia per Mario, ma Scarpia ha il potere di far sì che arrivi troppo tardi. In poche parole, Paduano cerca di convincerci che Illica-Giacosa-Puccini siano più convincenti di Sardou, portandoci un esempio che… dimostra proprio il contrario! Vediamo perché.

Nel dramma di Sardou Tosca è, come sappiamo, a Castel Sant'Angelo, quasi all'alba. Pur avendo una carrozza a disposizione (come le garantisce Scarpia) Tosca dovrebbe: uscire dal castello, andare a Palazzo Farnese (e fin qui son pochi minuti); ma poi farsi aprire, buttare letteralmente giù dal letto la regina (!?) convincerla a firmare la grazia e tornare al castello in tempo per bloccare l'esecuzione. Francamente una mission impossible, come la poveretta deve subito constatare, convinta dell'inutilità dei suoi sforzi dalle parole di Scarpia che l'avverte che la grazia arriverebbe con almeno un'ora di ritardo. Cosa forse esagerata quantitativamente, ma ben plausibile nella sostanza, dato che Scarpia potrebbe far impiccare Mario, detenuto lì accanto, nel giro di pochi minuti.

Invece nel libretto italico le cose stanno in modo assai diverso ed assai meno plausibile: perché, nonostante Scarpia cerchi di dissuadere Tosca affermando che a Mario resta solo un'ora di vita, è pur vero che Tosca si trova a distanza di pochi metri dalla regina (terzo e secondo piano dello stesso Palazzo Farnese); e la regina è probabilmente ancora sveglia, o si sta appena preparando a ritirarsi, dopo la festa; e soprattutto, se convinta da Tosca, potrebbe addirittura convocare Scarpia seduta stante per ingiungergli di non dar corso all'impiccagione, se non addirittura di far immediatamente riportare lì il Cavaradossi in carne ed ossa. E del resto – a differenza del dramma di Sardou - Scarpia non ha Cavaradossi lì accanto (il condannato è per strada verso Castel Sant'Angelo) e non potrebbe quindi farlo giustiziare in pochi minuti. Perciò il fattore-tempo, addotto dal barone per far desistere Tosca, qui è assai debole: su questo punto è Sardou ad essere impeccabile quanto a plausibilità e realismo, molto meno i librettisti di Puccini.

Il terzo atto, prima e dopo

Sempre sul programma di sala di questa edizione di Tosca, compare un interessantissimo articolo di Pier Giuseppe Gillio, che riporta documenti inediti riguardanti la prima versione del libretto del terzo atto, ad opera di Luigi Illica, con successivi interventi di Giuseppe Giacosa. Versione che fu ampiamente tagliata e drasticamente modificata per arrivare a quella finale.

La didascalìa che Illica aveva steso per presentare l'inizio dell'atto (largamente espunta nell'edizione definitiva) reca una minuziosa descrizione dei rintocchi di campana che si odono dopo la canzone del pastorello (che mancava in questa originaria versione). E si può verificare sulla partitura come Puccini vi abbia tenuto fede, peraltro dilatandone poi l'estensione. Illica scrive: Lontanissimo, nell'estremo fondo, da San Pietro Montorio viene fioco fioco il suono di campana che chiama a mattutino. In effetti la chiesa si trova a sud di Castel San'Angelo, a circa 1.500m in linea d'aria. In partitura Puccini segna questo suono con indicazione lontanissimo e con una successione di 3, poi 4, poi 5 minime (siamo in 4/4) separate da una pausa di minima. La nota è SI naturale sotto il rigo della chiave di violino. Prosegue Illica: subito, dopo breve intervallo, vi risponde la piccola campana del convento di Sant'Onofrio, nel medio fondo, a destra. In effetti Sant'Onofrio si trova a circa 500m a sud-ovest di Castel Sant'Angelo, quindi giustamente a destra, guardando dal castello. Puccini indica meno lontano e segna il suono come una successione di semiminime (campana piccola!) di RE naturale, intervallate da pause di semiminima. I primi cinque rintocchi si alternano-sovrappongono a quelli di San Pietro Montorio. Ancora Illica: poi, sola ancor, e più accelerata, la campana della Chiesa de' Miracoli, vicinissima, a sinistra, batte mattutino. Qui Illica si prende una certa libertà, in quanto la chiesa è sì a sinistra (sta a nord-est del castello) ma non è proprio vicinissima (è a circa 1.000m di distanza). Puccini indica vicino e segna il suono come tre serie di 3, 4, 5 semiminime consecutive (più accelerata!) separate da una pausa di semiminima. Come si vede, una rappresentazione musicale assolutamente fedele alla descrizione del librettista, descrizione poi espunta dal testo dato alle stampe.

Puccini poi estende la presenza dello scampanìo fino a far intervenire, prima dell'aria di Mario, anche il campanone di San Pietro, segnato come MI naturale gravissimo in minime.

Di qualche interesse anche l'orario degli avvenimenti. Nel libretto definitivo il terzo atto si apre poco dopo le tre del mattino, come si può dedurre dal fatto che l'esecuzione avviene alle 4 (suonano le 4 del mattino, è scritto in didascalìa) e prima il carceriere ha avvertito Cavaradossi con il famoso vi resta un'ora. Invece Illica, nella stesura originale, posticipava tutto di ben due ore (suonano le ore sei, si legge sul libretto originario al momento dell'esecuzione di Mario, dopo il famoso inno latino, che Puccini sbeffeggiò come trionfalata, cassandolo senza pietà). Credo che tutto sommato abbia avuto ragione Puccini a restar fedele ai tempi di Sardou, anche per ragioni, come dire… astronomiche: non dimentichiamo che siamo al mattino del 18 giugno, praticamente al solstizio d'estate!

Di grande interesse anche la versione originaria dell'epilogo. Illica ne voleva fare un finale à la Lucia, o Linda, o Macbeth (così scriveva Eugenio Checchi nel 1897, come ci informa sempre l'articolo di Pier Giuseppe Gillio). In realtà a me pare che il modello più calzante fosse il wagneriano Liebestod. Tosca tesse le lodi dell'amato rivolgendosi a donne preganti; poi chiude con questi versi, rivolti ad un immaginario gondoliere: Non è morto – Sai. Dorme… è stanco. Via tutti, via tutti! – L'onde dei tremuli – Canali baciano – Le vecchie istorie – Le vecchie glorie… - Non cantar gondoliero… piano, piano… - Voglio un grande silenzio a noi d'intorno – Silenzio eterno con eterno amore… (E Tosca, col cadavere di Mario in grembo, rimane immobile col dito sulle labbra nell'atto di imporre silenzio al fantastico gondoliero che essa vede nel suo pensiero). Roba da chiodi! Un monumento a Puccini per aver dato retta a Sardou, e definito 'sta roba come aria del paletot.
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18 febbraio, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 23


La Nona di Mahler va in scena questa settimana all'Auditorium. La dirige lo yankee John Axelrod, già visto e udito da queste parti più volte (e sempre con alto gradimento). Qualche settimana fa aveva diretto questo autentico testamento mahleriano con l'Orchestra Nazionale RAI e – almeno all'ascolto radio – mi aveva fatto un'ottima impressione (a parte un attacco anticipato di una battuta dato al flauto piccolo nella coda del finale…)

 
Prima del concerto, la consueta conferenza di presentazione delle sinfonie mahleriane, ieri affidata al venerabile Quirino Principe. Ascoltando il quale non si può non restare ammirati da tanta sapienza…

 
Una curiosità: forse H.L. de La Grange esagera un poco, ma se oggi abbiamo la Nona, è grazie al rifiuto che Mahler oppose ad un'allettante offerta del Teatro Colon di Buenos Aires, che lo aveva invitato laggiù per la stagione invernale (15 maggio – 15 agosto 1908). Mahler invece scelse di passare l'estate a Toblach e lì, nella sua Häuschen, mentre componeva il Lied, buttò giù i primi schizzi della sua ultima (completata) sinfonia.

 
Ascoltare questo capolavoro è sempre un'impresa, per cervello e cuore, credo altrettanto dura quanto quella di eseguirla e di dirigerla. Per questo non è consigliabile eccedere: personalmente avevo ascoltato per l'ultima volta la Nona quasi un anno fa (8 marzo 2010, alla Scala, con Salonen) e ancora ne avevo lo straordinario ricordo. Perché davvero, cuore e cervello ne escono ripagati con gli interessi!

 
Spesso si considera questa sinfonia come opera di un individuo distrutto e morente, che vi scrive il proprio epitaffio. Le cose stanno in modo un tantino diverso: Mahler era stato sì raggiunto, nel 1907, dai tre colpi del destino (diagnosi della disfunzione cardiaca, morte della piccola Putzi e abbandono della Hofoper) come figurativamente anticipato – ma soltanto nell'immaginazione a-posteriori di Alma – nel finale della Sesta, e di certo aveva preso coscienza che la fine avrebbe potuto ormai bussare alla sua porta in qualunque momento, ma non era affatto un uomo sfiduciato, era anzi un artista che si manteneva in buona efficienza e piena attività. Caso mai la sua Nona – così come il Lied e i frammenti della Decima – ci mostrano la sua intima convinzione che, pur sulle macerie lasciate da quei terremoti, ci fosse ancora la prospettiva di una nuova vita, sia pure da viversi nella consapevolezza della sua precarietà.

 
A me pare che il Mahler post-1907 sia un artista che, di punto in bianco, scopre dentro di sé tutti i problemi esistenziali (e materiali) che fino a quel momento aveva avvertito - e mirabilmente rappresentato in musica – soltanto al di fuori della sua propria persona. Ed è la sua stessa produzione artistica a chiarircelo: l'Ottava sinfonia (1906) chiude il ciclo della produzione del Mahler testimone del mondo; da lì in avanti, la sua musica sarà quella del testimone di se stesso, naturalmente in rapporto al mondo e all'aldilà.

 
E John Axelrod, come ce l'ha proposta, questa testimonianza? Con grande energia, direi, accentuando i contrasti di tempo, sia quelli macro (fra i movimenti esterni e interni) che quelli micro (all'interno dei singoli movimenti, paradigmatico il Rondò). Forse qualche eccesso negli schianti dei timpani, per il resto un'esecuzione tecnicamente dignitosa, non esente da piccole pecche, magari dovute anche alla disposizione inusuale dei contrabbassi (schierati frontalmente fra percussioni e ottoni). Pecche di certo eliminabili nelle prossime repliche, e che non hanno comunque influito sul giudizio del pubblico, che ha tributato – dopo il lungo silenzio seguito al morendo degli archi - un grande trionfo a direttore e professori.

 
Il prossimo appuntamento qui è col grande Lenny.
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11 febbraio, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 22


Scorpacciata di Mozart per l'appuntamento di questa settimana. Sul podio un ragazzino, o poco più, Trisdee na Patalung, che va ad infoltire la schiera di giovani direttori provenienti dalle più impensabili (fino a poco tempo fa) aree del pianeta. Lui arriva dalla remota Thailandia, dove è direttore dell'Opera di Bangkok, nata da pochi anni e, oltre a dirigere orchestre e cori, compone (anche sinfonie!) e suona il pianoforte (si è già cimentato nelle bachiane Golberg). Non è nuovo al pubblico italiano, avendo diretto al ROF, all'Orchestra Nazionale RAI, alla Haydn di Trento e Bolzano. Al contrario di ciò che fanno altri direttori, giovani e vecchi, il suo è un modo di dirigere assai composto, niente agitar di braccia o contorsionismi, ma un gesto secco e preciso, quasi esclusivamente di avambraccio, efficace quanto misurato. Credo che anche da questi aspetti esteriori si intraveda una serietà di approccio che lascia ben sperare per il futuro, che il ragazzo ha ancora tutto davanti a sé.

Il programma è aperto dalla celeberrima K525, che prevede solo l'organico del quintetto degli archi: laVerdi schiera, ad occhio e croce, il 70% del suo complesso, disposto con violoncelli arretrati e viole al proscenio (Konzertmeister è Nicolai von Dellingshausen). Patalung tiene tempi abbastanza svelti, offrendoci un'esecuzione fresca e piacevole di quest'opera che ancora oggi divide i critici sul giudizio da darne: ma che sia una cosa seria o uno Spass a rovescio, a noi importa poco, se possiamo godercela al meglio!

Segue il Concerto per flauto e arpa, dove si esibiscono Cesare Bindi e la prima arpa dell'Orchestra, la bravissima Elena Piva. L'incipit ispirerà quello della Nachtmusik, scritta quasi 10 anni dopo:

Ed anche il tema del'Allegro finale si riconosce nella Romanze della K525:

Bindi-Piva ci regalano un'interpretazione impeccabile, coniugando al meglio la delicatezza e il virtuosismo di questa mirabile pagina. Le tre cadenze, che Mozart non scrisse, sono (se non vado errato) quelle di Carl Reinecke. Calorosa accoglienza e diverse chiamate per solisti e direttore.

Dopo l'intervallo, un'altra prima parte dell'orchestra, Fausto Ghiazza, interpreta il celeberrimo K622. Nonostante sia alla terza esibizione con laVerdi come solista in questo concerto (la prima 10 anni fa!) il bravo Ghiazza tradisce un po' di emozione al momento di presentarsi al proscenio. Ma appena attacca il MI, il nervosismo si scioglie e da lì è tutto un fiume di note inebrianti. Un autentico trionfo alla fine, con urla e schiamazzi da stadio, che convincono Ghiazza a proporre, a mo' di bis, la sezione conclusiva del celestiale Adagio, una delle pagine di musica che lasciano sempre sbalorditi:


Si chiude in bellezza con la Sinfonia in Sol minore. Patalung ne dà un'interpretazione nervosa, accentuandone i chiaro-scuri, aderendo in sostanza alla visione tragica di questo capolavoro, più che a quella apollinea. Rispetta tutti i ritornelli, in particolare nel conclusivo Allegro assai, ma di sicuro non ci annoia, anzi. Un bravo! a lui e a tutta l'orchestra per averci regalato una serata di grande musica.

Prossimamente un capolavoro assoluto del novecento.


09 febbraio, 2011

Tannhäuser in pellegrinaggio a Reggio Emilia



Dopo essere stato al centro dell'inaugurazione di stagione a Bologna, questo Tannhäuser (quasi) tutto tedesco è approdato al Valli di Reggio Emilia. Ieri sera seconda e ultima recita, dopo quelle di Bologna, accolte abbastanza tiepidamente (ad essere magnanimi…) E chissà se questa fama non proprio eccelsa non sia responsabile del desolante numero di vuoti che si notavano in platea e soprattutto nei palchi (unica consolazione: parecchi i volti giovani).

Apro con qualche considerazione superficiale e – come ama dire Amfortassemiseria. È ciò che magari si può pensare a prima vista di questa produzione. Intanto, Guy Montavon firma la regìa dell'opera: per intenderci, è come se Lissner in persona mettesse in scena, che so, la prossima Tosca alla Scala (smile!) O come se Moratti si mettesse a fare anche l'allenatore dell'Inter (ri-smile!) Montavon è svizzero trapiantato in Turingia e Tannhäuser è ambientato proprio lì, guarda caso. Peccato che il buon Guy abbia perso l'orientamento, confondendo est con ovest. E così, stando ad Erfurt, invece di guardare a 40Km di distanza a occidente, verso Eisenach, la Wartburg e l'Hörselberg, si è mosso, sempre di 40 Km, verso est, traslocando poeta, trovatori e femmine assortite in quel di Weimar, vicino e dentro la biblioteca mezzo distrutta dall'incendio di 7 anni fa. E chi se ne frega? si dirà… sempre in Turingia siamo e poi: Padrissa non ha per caso teletrasportato tutto e tutti a Bollywood?

Nel fare contemporaneamente il sovrintendente e il regista c'è però qualche vantaggio, apprezzabile nei momenti di crisi: se il manager si accorge che i quattrini scarseggiano, l'artista provvede seduta stante a tagliare i costi della produzione, a cominciare da quelli della scenografia (e magari a quelli del suo doppio-stipendio?) Ecco quindi che sul palco non c'è quasi nulla, e quel poco che c'è è roba che pare recuperata in discarica. Qualche filmato o diapositiva da proiettare su lenzuola e zanzariere, e il gioco è fatto. Se poi la genialità della regìa comporta la presenza di qualche comparsa straordinaria, basta usare il personale (già pagato comunque) dei servizi logistici del teatro, come pompieri e affini.

Certo, messa così, farebbe cadere le braccia, diciamocelo pure. Invece, dietro questa facciata poco promettente, c'è pure qualcosa (per non dire molto) di buono!

La presenza di biblioteca (nel secondo atto) e libretti vari (da subito) indirizza l'attenzione verso una delle problematiche fondamentali (anche se non unica) dell'opera Tannhäuser e della produzione wagneriana in generale: il ruolo di arte e artista nella società. E la scelta della versione da eseguire – quella di Dresda, quindi senza baccanale – mette del tutto in secondo piano le problematiche di natura strettamente religiosa o etico-morale, come il rapporto sesso-religione e carne-spirito.

Il libretto rosso che Tannhäuser si porta dietro è una specie di diario, di brogliaccio di appunti (Beethoven pare ne avesse sempre uno con sé, e Wagner… pure) dove l'artista segna gli spunti e le idee per le sue opere. Venus ne strappa le pagine su cui l'artista ha appuntato il suo anelito alla libertà (dalla claustrofobia del Venusberg, ma in fondo da se stesso e dal proprio auto-isolamento). Pure Elisabeth si porta dietro un libretto (giallo) che è a sua volta un diario, ma non dell'artista, bensì di una sua fan, di una che è stata colpita dalle prime opere dell'artista e le ha documentate, insieme alle sue reazioni. Se ne libera, consegnandolo proprio all'artista, perché lei è adesso irresistibilmente attirata dai contenuti del libretto rosso (che peraltro mai aprirà, custodendolo quasi come una reliquia, dopo la cacciata di Tannhäuser, allo scopo di riconsegnarglielo al suo ritorno da Roma) E altri libretti vengono consegnati ai cantori perché vi appuntino le idee per le rispettive composizioni per la tenzone. La quale tenzone avviene nella biblioteca di Weimar, distrutta dal rogo di libri, che è l'immagine della Wartburg rimasta orfana delle opere dei cantori e di Heinrich in particolare. E nella quale un secondo rogo vorrebbe distruggere il libretto rosso, simbolo dell'arte depravata di Tannhäuser; libretto che invece Elisabeth, appunto, si incarica di conservare. E che, non vedendo tornare Tannhäuser, consegnerà addirittura a Wolfram, quasi a investire il nobile e innamorato cantore della missione di perpetuare la nuova arte che tanto l'ha colpita e portata in uno stato di contraddizione spirituale che si risolverà solo con il sacrificio. Wolfram non saprà che farsene, e sarà ancora Heinrich a riprenderselo nel suo vaneggiamento finale. Ma proprio mentre il sipario cala (sulla doccia scozzese che purifica l'artista) scopriremo che quel libretto rosso è oggi conservato in un moderno scaffale, e viene preso da un ragazzino che mostra di interessarsene più che ad una bella palla colorata!

Ecco un Konzept che – a mio modestissimo avviso – centra nel modo più convincente l'intima essenza di questo dramma wagneriano. Che per il resto è sufficientemente contorto… e sofferto, come dimostrano ampiamente i mille rimaneggiamenti cui Wagner lo sottopose, mai trovandosene soddisfatto. A cominciare dalla ricerca del nesso causa-effetti riguardo al protagonista. Alla fine del secondo atto, dopo lo scoppio dello scandalo, Montavon ci presenta un fondale con la gigantografia – scattata dopo il rogo - dell'interno della Herzogin Anna Amalia Bibliothek; a fianco, una scritta, invero capitale: Il Poeta non appartiene né al mondo degli dei, nè al mondo degli uomini.

Chissà se è una frase (ad effetto) scritta dal megalomane Wagner in qualche suo libello (potrebbe benissimo trovarsi in Comunicazione ai miei amici) o confidata – che so – a un Liszt o a Mathilde, in un momento di particolare esaltazione… Sta di fatto che ben rappresenta il destino del povero Tannhäuser (e del Wagner anni-40?) che non riesce ad integrarsi da nessuna parte (né a Parigi, né a Dresda). Ma è colpa solo della società? Perché, nel prevalente MI del Venusberg, lui canta in REb, poi in RE e poi in MIb; e in compenso, nel prevalente MIb degli inni di Wolfram&C, se ne esce con un blasfemo MI naturale! Insomma, una specie di bastian-contrario, un artista maledetto che potrà trovare pace solo al cimitero, insieme alla sua ammiratrice e redentrice, la santa Elisabeth. (Quanto all'artista Wagner, dovrebbe spiegarci lui perché l'Ouverture presenta da subito il coro dei pellegrini in MI naturale, che pare una bestemmia se rapportato al MIb impiegato allo scopo nell'Opera: che sia così solo per meglio raccordarsi con il Venusberg su cui si apre il sipario, è spiegazione troppo banale.) Insomma, di strada per arrivare a Parsifal, Wagner ne dovrà fare ancora tanta…

A proposito di rimaneggiamenti, è interessante la soluzione che Montavon ha dato al finale, presentandoci una specie di misto fra quello che oggi è di fatto lo standard-di-Dresda (comparsa fisica di Venere e funerale di Elisabeth) e l'assetto dell'Ur-Tannhäuser, dove il Venusberg è solo un'allucinazione di Heinrich e di Elisabeth si ha solo un lontano riferimento alle stanze della Wartburg, illuminate per la sua camera ardente. Qui in teatro Venus soprattutto si sente (qualcuno può anche intravederla, dato che lei canta – spartito sul leggìo! - nel palco di barcaccia di sinistra) mentre delle esequie di Elisabeth resta solo il canto del coro, che ne tesse il necrologio.

Detto dell'allestimento minimalista, vengo agli interpreti, dove le note (smile!) non sono magari altrettanto liete, pur se non mi sento assolutamente di parlare di fallimento.

Intanto Reck: il 50enne direttore ha dato una lettura asciutta e… minimalista (smile!) della partitura, evitando enfasi e fracassi (salvo, ma doverosamente, nella scena corale del secondo atto). I suoi tempi, a partire dall'Ouverture, mi son parsi abbastanza vicini a quanto Wagner prescrive (in Tannhäuser ci sono minuziose indicazioni metronomiche). Mai ha coperto le voci, e già questa non è qualità da poco. L'Orchestra ha risposto assai bene, sia nella buca, che dietro le quinte.

Il Coro, diretto qui da Lorenzo Fantini, ha confermato la sua preparazione: eccellente sia nei piano dei pellegrini, che nei fortissimo dei nobili di Turingia.

Tannhäuser era Richard Decker: la voce non è proprio male (ricorda vagamente, anche nell'espressione, Domingo) ma francamente è parso in difficoltà (proprio di intonazione, credo) nella scena iniziale, chiusa con un Maria non propriamente da ricordare, il che ha fatto temere il peggio. Si è invece poi progressivamente ripreso ed ha concluso senza danni anche l'ultimo, tremendo sforzo del racconto di Roma. Assieme ad applausi, ha ricevuto un paio di buh (da un'unica fonte in platea, peraltro) che mi son parsi un pochino eccessivi.
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La Venus di Patrizia Orciani è stata molto applaudita, anche se non è andata esente da qualche pecca (da urletto) negli acuti.

Chi non si meritava i due fischi (sempre dallo stesso punto della platea) in mezzo ad un mare di applausi, era Orla Boylan, interprete di Elizabeth. Per me, una prestazione più che degna, se non proprio eccellente.

Mattatore della serata Martin Gantner, davvero un grande Wolfram, voce calda ma chiara e luminosa, proprio come si addice al leggendario Minnesanger.

Dignitosa la prova di Enzo Capuano, nei panni del Langravio, e notevole – pur nella limitata estensione – quella del pastorello, la davvero brava Guanqun Yu.
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Insomma, direi che – per quanto visto e sentito ieri – certe critiche seguite alle precedenti recite mi paiono immeritate. L'unica che mi sento di fare io è all'orario di inizio. Va bene che la Marcegaglia ha ormai bisogno di sfruttare anche i nostri minuti (smile!) ma cominciare alle 18, invece che alle 20, non credo avrebbe fatto precipitare il nostro PIL.

08 febbraio, 2011

Chailly - non Carydis - con la Filarmonica della Scala .


Pochi giorni prima del concerto, la Filarmonica ha annunciato la defezione di Constantin Carydis per il 7 febbraio. Indisposizione è la giustificazione ufficiale (capita, siamo in pieno inverno…) Senza spiegazioni (salvo forse che l'una non può far a meno dell'altro) il forfait anche di Anna Vinnitskaya (la partner solista per il concerto di Ciaikovski).

 
A salvare capra e cavoli è stato Riccardo Chailly – un discreto maestro sostituto (smile!) – che ha confermato metà del programma, il concerto ciajkovskiano, suonato da un altro interprete di tutto rispetto, Arcadi Volodos, mentre ha rimpiazzato l'impegnativa Decima di Shostakovich con la più abbordabile Settima di Dvorak. Senza sconti sul prezzo del biglietto (ari-smile!)

 
Del concerto di Ciajkovski se ne hanno piene (in senso buono!) le orecchie e anche per un solista non è facile apportarvi novità clamorose (salvo non mettersi ad imbrattare la partitura). Più facile – di questi tempi – è il rischio di sovraesposizione o di gigionismo (mi viene in mente il Lang Lang dell'ultimo MI-TO, tanto per non far nomi, ma cognomi…) Volodos mostra di cosa è capace la sua straordinaria tecnica; si prende anche un paio di libertà, ma abbastanza veniali. Chailly, da parte sua, lo supporta bene, sia nei fracassi che – soprattutto – nei passaggi intimistici, come l'Andantino semplice, dove flauto e violoncello solisti si mettono in bella mostra, giustamente chiamati per un applauso speciale. Volodos ci regala anche un paio di bis, con Vivaldi-Bach e la Malaguena di Ernesto Lecuona.

 
Dopo l'intervallo ecco la Settima sinfonia (la seconda, stando al primitivo catalogo predisposto dallo stesso autore, che considerava evidentemente puri esercizi accademici le prime 5) di Antonin Dvorak. Opera composta su invito londinese, ma anche sull'onda del rinnovato interesse per la sinfonia, promosso dalle ultime imprese del grande Johannes. Che il buon ceco non esitava a citare a destra e manca, come dimostra il secondo tema del primo movimento, che è un chiaro tributo all'amico-sponsor, di cui è copiato quasi alla lettera il tema dell'Andante del Secondo Concerto per pianoforte:



Ma Dvorak non dimenticava nemmeno Beethoven, a giudicare da una cadenza dello Scherzo, che ricorda assai il tracotante tema dell'Egmont:



 
E anche nel secondo movimento (Poco Adagio) l'assolo del corno (discesa mediante-tonica-dominante) mostra la sua chiara ascendenza brahmsiana (dall'Adagio del concerto per violino). A proposito di questo movimento, Dvorak, dopo le prime esecuzioni e prima di mandare la partitura alle stampe, lo accorciò considerevolmente nella sezione centrale, tagliandovi una quarantina di battute (francamente pleonastiche e ripetitive) portandolo così da 150 a 110 misure (e da quasi 13' di durata a molto meno di 10'). Oggi si può però ascoltare l'originale, riesumato in vista dell'edizione critica (?) presso Bärenreiter.

 
Brahms fa infine capolino anche nell'Allegro conclusivo, in quell'inciso giambico chiaramente mutuato dal primo movimento della Sinfonia in DO minore:
Insomma, nessuno denuncerà Dvorak per plagio reiterato... ma qui non è proprio tutta farina del suo - pur ricco - sacco! (Certo la decima del Dimitri è di altro spessore…)

 
I Filarmonici e Chailly ci fanno comunque un bel regalo, con un'esecuzione più che dignitosa, accolta da unanimi consensi.
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06 febbraio, 2011

Fidelio passa da Ravenna



D'inverno Rimini (Nord) è – più o meno – così…

Ma non ditelo ai crucchi (smile!) chè sennò non tornano più da queste parti, dove invece portano anche cose serie, come il Fidelio che passa in questi giorni da Ravenna, al Teatro Alighieri. Trattasi della produzione bolzanina - già lassù collaudata - dell'accoppiata Kuhn-Schweigkofler (gli stessi creatori di una notevole Elektra, un anno fa) rinforzata da interpreti austro-tedeschi.

Teatro lodevolmente stipato e pubblico che ha fatto onore allo spettacolo.

Allestimento intelligente ed interessante, con scene minimaliste di Walter Schütze e luci di Claudio Schmid: una semplice pedana vuota, circondata dai protagonisti, in costumi vagamente moderni, che vi salgono sopra via via che arriva il loro turno di intervenire nel plot. In più solo qualche sgabello e dei pali (tipo lap-dance) che scendono di tanto in tanto dall'alto, ad esempio per ricordarci simbolicamente che ci troviamo in una prigione. Programmaticamente Schweigkofler gestisce la parte attoriale secondo canoni da commedia dell'arte, il che a volte finisce per debordare in avanspettacolo, ma mai in modo volgare. Sotto questo punto di vista devo dire che tutti hanno svolto lodevolmente il loro compito.

Sul piano musicale, cito in ordine di apparizione:

Jaquino era Alexander Kaimbacher: voce leggera ma chiara e gradevole, come quella della Marzelline  di Rebecca Nelsen. Insieme hanno costituito una coppia assai efficace. Molto applaudita, in particolare, la Nelsen. Il tenore ha anche fatto pro tempore il mago da circo, esibendosi in alcuni tipici trucchi (anelli che si separano e si uniscono, spade a trafiggere inesistenti corpi, fuochi fatui che si sprigionano dalle mani) durante la marcia del primo atto, che Kuhn ha tirato in lungo eseguendo puntualmente il ritornello.

Leonore era Anna Katharina Behnke. Un'ottima prestazione, la sua (notevole l'Abscheulicher) in cui trovo un unico neo congenito, per così dire, un eccesso di vibrato sulle note alte che personalmente gradisco poco. Alla fine, grande accoglienza per lei.

 
Il Rocco di Ethan Herschenfeld è più che dignitoso, anche se la voce è poco penetrante e più baritonale che da basso. Nel quartetto iniziale forse è mancato a lui e agli altri tre succitati un tocco di pathos in più che non avrebbe guastato.

 
Don Pizarro era Thomas Gazheli. Prestazione notevole, sia sul piano attoriale (un ennesimo Gouverneur con handicap fisico – tutore alla gamba sinistra – e personalità schizoide) che su quello del canto, dove è stato eccellente nei momenti di grande violenza, mentre l'eccessivo macchiettismo ne ha un poco compromesso le frasi da cantare a mezza voce. Trionfo comunque per lui.


Il Florestan di Andreas Schager (mi) ha molto convinto: voce bella e chiara, non certo da heldentenor, ma per me appropriata al personaggio. Bravo anche ad emettere correttamente i suoni, nella sua aria tremenda di esordio, pur costretto a farlo da posizioni non proprio rilassanti (tipo flessioni sugli avambracci…) Applausi convinti anche per lui.

 
Infine, più che dignitoso il Don Fernando di Sebastian Holecek, voce potente e presenza autoritaria, come si addice al personaggio del lungimirante Minister.

Rouwen Huther e Ruggiero Lopopolo han fatto dignitosamente la loro parte di solisti, in mezzo al coro dei prigionieri.

 
Impeccabile, sia nel commovente coro del primo atto, che nelle finali esternazioni di giubilo, il Vienna Philharmonia Choir guidato da Walter Zeh.

 
Gustav Kuhn non ha resistito alla tentazione di infilare la Leonore 3 subito prima del Finale. Scelta sempre discutibile, nonostante Mahler… Schweigkofler ha cercato di catturare l'interesse del pubblico facendo sedere i prigionieri sulla piattaforma ad assistere alla proiezione di foto dell'Archivio Provinciale di Bolzano (scattate dopo la seconda guerra mondiale) in memoriam, si potrebbe dire, dei tempi in cui i reclusi vivevano serenamente in famiglia. Un diversivo che solo in parte, a mio modestissimo avviso, ha messo riparo ai danni arrecati all'azione dalla lunga cesura imposta dal quarto d'ora sinfonico. Detto questo, un bravi! a direttore e ai professori della Haydn di BZ-TN per l'esecuzione invero trascinante e fragorosamente applaudita a scena aperta.

 
A parte questa discutibile scelta, Kuhn ha ben reso la duplicità del dramma: quasi commedia leggera nel primo atto, tutto in punta di piedi (Pizarro a parte) e giusta pesantezza nel secondo, condotto con serietà davvero tutta beethoveniana. Anche per lui e per l'Orchestra un gran trionfo finale.

 
Conclusione: una bellissima serata di musica, che conferma l'ottimo livello di queste produzioni, spesso definite con sufficienza come provinciali. Avercene!