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da stellantis a stallantis

26 novembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 12





Per il 12mo Concerto de laVerdi sale in cattedra l'Opera italiana. In realtà, principalmente ciò che nelle opere oggi rappresentate in teatro quasi mai si suona, si sente e si vede: balli e balletti.


Rossini e Verdi dovettero – a malincuore? – pagare un certo pedaggio per poter accedere con loro opere nel tempio parigino. Dove vigeva una bizzarra quanto ferrea regolamentazione artistico-estetica (sic!) che escludeva tassativamente la rappresentazione di opere che non contenessero siparietti di balletto. Non solo, ma il siparietto, si badi bene (tale Wagner non ci badò, credendosi protetto nientemeno che dall'Imperatore, e fu impietosamente impallinato) doveva necessariamente essere collocato a metà, più o meno, della rappresentazione, per dar modo a certi simpaticoni (che casualmente erano anche pseudo-azionisti del teatro, in quanto detentori di abbonamento perpetuo a numerosi palchi) di arrivare con comodo, dopo cena, per ammirare le danzatrici e… portarsele poi a letto, a fine serata.



Quindi, si sospetterà: se quello era lo scopo, del tutto estraneo a canoni artistici ed estetici (un'anticipazione, per dire, degli odierni happening a base di bunga-bunga… smile!) chissà quale ciarpame musicale sarà stato scritto alla bisogna, dai pur grandi Verdi e Rossini. E questo sospetto sembrerebbe avvalorato dal fatto che, fuori dalle mura del teatro imperiale parigino, quei balletti e quelle musiche furono spesso e volentieri espunti dalle rispettive opere, e quasi sempre per iniziativa, o con l'esplicito consenso, degli stessi compositori.

Nulla di più falso e bugiardo. I tre brani eseguiti qui dimostrano come Verdi e Rossini ci misero tutta la loro ispirazione e la loro maestrìa, pur sapendo già in partenza che si trattava di corpi estranei rispetto al contenuto drammatico delle opere in cui dovevano essere inseriti.

A mo' di esempio vorrei citare Le Quattro Stagioni, la cui profondità di ispirazione e il cui solido contenuto sinfonico sono appassionatamente messi in rilievo da Riccardo Muti, in questa serie di prove d'orchestra (Inverno e Primavera) con la Cherubini, oggi disponibile in DVD, dopo essere uscita lo scorso anno per iniziativa di Repubblica-Espresso.

Con il cimbasso che spunta come un airone in mezzo ai fiati, si apre con La Pérégrina, questo siparietto del terzo atto del Don Carlos (in corrispondenza dell'incontro fra il principe ed Eboli, creduta Elisabetta) che è scenicamente una specie di bizzarro miscuglio di Bella addormentata e di Rheingold (prima scena) dove i legami con la trama e i personaggi del dramma bisogna scoprirli munendosi di microscopio elettronico. Invece la musica è a dir poco sopraffina, degna del miglior Ciajkovski! Con un assolo del violino - associato alla dormiente Perla bianca avvicinata dal pescatore (Alberich, per caso? smile!) – che, nell'incipit, sembra ricordare la celebre introduzione del violoncello al monologo di Filippo:

Qui ha modo di mettersi in mostra Gianfranco Ricci, avanzato per l'occasione al posto di spalla.

Ecco poi le citate Stagioni: quasi mezz'ora di musica, splendida da ascoltarsi da sola, mortale quando eseguita all'interno del terzo atto dell'Opera, di cui spezza inesorabilmente il pathos drammatico. Sull'esecuzione di ieri, credo proprio che anche il Muti perfezionista di cui sopra avrebbe poco da ridire.

Apre la seconda parte Rossini con il Pas de six dal primo atto e il Pas de soldats dal terzo atto del Tell: quest'ultimo brano, davvero trascinante, si merita un'ovazione.

Subito dopo Damian Iorio ci ha presentato la Boutique Fantasque, Suite dalle musiche del balletto di Diaghilev-Massine (della serie: bambole meccaniche e marionette semoventi e semi-umane, à la dottor Coppélius, o Spalanzani di turno, per capirci) che Ottorino Respighi trasse nel 1918 dal tardo Rossini (dai cosiddetti Riens, inclusi nei Péchés de vieillesse per pianoforte). Un pezzo frizzante e orecchiabile, nelle sue 7 sezioni (più l'ouverture).

Tanto per riderci un po' sopra: ecco, qui come ouverture non c'è male; la miglior tarantella? Eccola! Questi cosacchi sono un po' pesantucci; qui invece una cosacchina in erba, portata via proprio come una marionetta; e questo è precisamente un forsennato Galop! laVerdi è ovviamente meno spassosa, ma più precisa (smile!)

Si chiude in bellezza, a mo' di encore, con la sinfonia dal ??? (Barbiere? Aureliano? Elisabetta?) Iorio, che ha introdotto i vari brani con qualche pertinente riferimento (peccato che la sua voce, senza amplificazione, arrivi neanche a metà sala) informa che la sinfonia viene eseguita impiegando una edizione recenteVero, non è certo quella ottocentesca di Ricordi (visto che i tromboni elisabettiani mancano) ma neanche quella del 2008 di Barenreiter (Gossett) come testimonia la presenza dei timpani, tanto per dirne una. Ma al pubblico, tutto sommato, ha fatto l'effetto di sempre: straordinario!

Prossimamente su queste scene… Porgy&Bess!



24 novembre, 2010

Barenboim tutto austriaco alla Scala


Prima di metter mano alla Walküre, con la quale aprirà la stagione a SantAmbrogio, Daniel Barenboim torna sul podio della Filarmonica per un concerto tutto austriaco: tre opere, che in comune hanno il labile legame della tonalità DO (maggiore per Schubert e Bruckner, minore per Mozart).
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Si comincia con Schubert e il suo Gesang der Geister über den Wassern. Goethe venne ispirato per questa poesia dalla vista mozzafiato della Staubbach-Wasserfall, nell'Oberland bernese:


 
E la chiuse con questi versi: Anima dell'uomo come somigli all'acqua! Destino dell'uomo come somigli al vento!

 
Una poesia che, pur nella sua brevità, rappresenta un autentico compendio della natura e dell'esistenza umana: l'acqua che viene dal cielo e ad esso ritorna, come l'uomo ha natura terrena, ma spirito celeste; la cascata, che rappresenta l'efficienza dell'uomo; la trasformazione dell'acqua in vapore acqueo, simbolo della creatività e dell'arte umana; il suo movimento rallentante, che rappresenta l'invecchiamento dell'uomo; le rocce, simbolo degli ostacoli che l'uomo deve superare; il torrente di montagna, simbolo dei pericoli che ci trascinano verso l'abisso; le stelle che si rispecchiano nel lago, che rappresentano l'incontro dell'uomo con la trascendenza e l'eternità; il vento che rimescola le acque, simbolo dell'esistenza umana soggetta a mutamenti a causa di influssi esterni.

 
Schubert - che adorava Goethe (come dimostra la gran quantità di musica scritta sui versi del poeta) mentre stranamente era da questi del tutto ignorato (!?) - la musicò in varie versioni successive, dalla prima per baritono e pianoforte, fino all'ultima per 8 voci maschili (4 tenori e 4 bassi) e quintetto d'archi (2 viole, 2 violoncelli e un contrabbasso) che viene eseguita qui. Barenboim – dato che siamo nell'enorme Piermarini, e non nell'ambiente raccolto di una sala di musica - moltiplica praticamente per sei l'intero organico (strumenti e voci) il che forse toglie al lavoro un pochino della sua intimità, ma va bene così. Tutti bravi nel porgere questo non facile lavoro: precisamente 72 misure in 4/4, senza accidenti in chiave, ma che si allontanano spesso rispetto al baricentrico DO maggiore, in un proliferare di modulazioni che bene rappresentano lo spirito dell'opera di Goethe.

 
Poi Daniel si mette al pianoforte per interpretare – e contemporaneamente dando gli attacchi all'orchestra – il K491 di Mozart. Lavoro davvero tosto e difficile, che il Maestro abborda con gesti ed espressioni quasi di contrarietà, ma poi esegue da par suo (comprese le sue due cadenze) meritandosi applausi unanimi e convinti, che gli fanno tornare il sorriso. Un bravo ai legni, che in questo concerto fanno quasi squadra a sè, nel dialogare con il solista, specie nel finale Allegretto.

 
Si chiude con Bruckner e il suo TeDeum.


 
Si noti nel manoscritto la mancanza della parte dell'Organo, che è invece presente sulla partitura a stampa, sia pure indicata come "ad libitum". Barenboim ne ha fatto a meno, disponendo poi l'orchestra secondo l'usanza alto-tedesca (come già prima in Mozart) e facendo accomodare i solisti (Dorothea Röschmann, Ekaterina Gubanova, Joseph Kaiser e Kwangchul Youn) fra l'orchestra e il coro di Casoni. Onorevole prestazione per i solisti (Youn su tutti, direi) e grande, al solito, quella del coro.

 
Il motivo ostinato a quartine di crome discendenti negli archi è il supporto di gran parte dell'opera, uno di quei pilastri tipici del Bruckner sinfonico, che non a caso (DO-SOL-SOL-DO) apre e chiude la partitura:


E gli archi hanno mostrato compattezza e precisione. Menzione particolare per il primo violino (Daniele Pascoletti, credo) che nel Te ergo e nel Salvum fac ha una parte di rilievo (sulla scia del Benedictus nella Missa beethoveniana).

Gran trionfo alla fine per Barenboim: speriamo sia un buon viatico per dicembre…
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19 novembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 11


Concerto (quasi) tutto russo per il ritorno di Damian Iorio sul podio de laVerdi. 
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Si comincia però con un brano di rarissima esecuzione: il poema sinfonico L'infinito di Aldo Finzi, compositore italico vissuto – non proprio tranquillamente, essendo lui ebreo in epoca di leggi razziali - nella prima metà del novecento. Iorio ricorda brevemente la figura del musicista, prima di dare l'attacco. A proposito, è da segnalare la lodevole iniziativa dell'Associazione Aldo Finzi Diacronia che mette a disposizione gratuitamente le partiture del musicista, oltre ad organizzare eventi a scopo benefico.

 
Opera del 1933, ma chiaramente legata al tardo-romanticismo - a partire dall'ipertrofica orchestra, che comprende due arpe, celesta e pianoforte, oltre a percussioni di ogni risma - il poema sinfonico è strutturato in tre sezioni, le due estreme piuttosto lente e con sonorità assai tenui, che chiudono all'interno quella più mossa e rumorosa. La prima, Calmo in SI maggiore, tempo prevalente 3/4, rappresenta inizialmente una quiete, rotta soltanto da interventi dei corni; poi è un lento e progressivo crescendo, con reminiscenze mahleriane (nona sinfonia e Abschied) che culmina in un climax caratterizzato da una perorazione in fortissimo di corni e tromboni (che riprendono un analogo motivo esposto assai prima dalle trombe, ripresa poi dagli archi che tornano alla calma iniziale per preparare la seconda sezione dell'opera: Mosso, in DO minore, tempo 2/4 ma con diverse escursioni a 6/8 e 9/8; la sezione presenta ancora reminiscenze mahleriane e wagneriane, ed è caratterizzata prevalentemente da un ritmo in metro dattilo (croma-semicroma-croma) che stringe fin poi a diminuire verso la terza sezione, assai breve, ancora SI maggiore, Calmo in 3/4. Prima della chiusura torna – nelle trombe - il motto udito nella sezione iniziale, poi tutta l'orchestra (trombe tacendo!) esala in pianissimo l'ultimo accordo nella tonalità principale.

 
Un lavoro interessante, anche se non mi sentirei di scandalizzarmi per la sua scarsa notorietà. Di sicuro, se anche alla Scala (dopo laVerdi) si programma Il lago incantato di Liadov, allora anche all'Infinito di Finzi va accordato il permesso di soggiorno (smile!)

 
Impeccabile comunque l'esecuzione (al contrario di questa, della prima americana!)

 
Poi arriva Natasha Korsakova con il suo violino per interpretare il Concerto op.99 di Shostakovich. Natasha è indubitabilmente quella che in tutti i bar (maschilisti, ma ce ne sono di femministi?) si definirebbe una gran gnocca (non per nulla è testimonial di una nota casa di moda). E poi nel testo albionico della sua biografia si trovano queste perle: è di decenza (sic!) greco-russa (in effetti discende nientedopodomanichè dal grande Nicolai) e un tale che scrive su un giornale tedesco afferma di provare, ascoltandola, un'esperienza musicale peccaminosamente bella. Ohibò, vuoi vedere che suona nuda? mi son detto – confortato anche dalle foto sul suo sito - e ho subito riesumato il mio binocolo da marina da portarmi al concerto!

 
Poi, continuando a leggere la sua biografia, ho notato che il primo auditorium della lista di quelli frequentati dalla bella Natasha è proprio il nostro, quello di Largo Mahler, che viene prima di catapecchie di provincia come la Gewandhaus e il Concertgebow. E allora mi è venuto il sospetto che ci sia sotto qualche traffico più o meno losco, data la nazionalità della ragazza e i trascorsi filo-sovietici del management de laVerdi (smile!) In effetti lei è di casa in Italia ed ha pure suonato per il nostro Presidente, quello buono, intendiamoci (qui non si tratta di bunga-bunga, ma di musica classica, chiaro?) forse per via dei suoi (del Presidente intendo) trascorsi comunisti (ri-smile!) Battute a parte, la bella Natasha è pure brava, anche se ho personalmente trovato l'esperienza vissuta ascoltandola… tutto fuorchè peccaminosa (mi viene il dubbio che fosse quel cronista tedesco ad avere qualche problemino – o qualche birra - di troppo).

 
Il Concerto di Shostakovich (qui il dedicatario David Oistrakh) – in 4 movimenti, un'eccezione alla regola classica – fu tenuto parecchio nel cassetto dall'Autore, che aspettò prudentemente che baffone Stalin e soprattutto il suo procacciatore artistico Zdanov togliessero l'incomodo, prima di decidersi a pubblicarlo (della serie: certe vacanze-premio in Siberia meglio evitarle, se possibile).

 
È un concerto di quelli tosti, dove c'è di tutto: grande ispirazione e religiosità nel Moderato notturno iniziale, un primo risveglio nel successivo Scherzo, dove il dialogo del violino con i fiati, chiamati via via ad interventi solistici, si fa serrato, particolarmente nella sezione centrale, sfociando nell'ostinato e poderoso finale. Il terzo movimento (Passacaglia) si apre con una cupa introduzione di timpani e corni (qualcuno ci vede un richiamo al motto della Quinta beethoveniana) seguita da un corale di matrice squisitamente russa, poi il violino sembra riprendere il languido discorso interrotto nel primo movimento, quindi assume un incedere più deciso e sonorità più marcate, per tornare a spegnersi, accompagnato dal mesto ritmare della tuba; per poi concludere con una lunghissima cadenza,dapprima di sapore quasi bachiano, e poi sfociante in una serie di passaggi di alto virtuosismo. E infine uno dei classici, inconfondibili, tarantolati Presto di questo autore, dove il solista e l'orchestra sembrano inseguirsi in una forsennata discesa senza freni, una reminiscenza del mahleriano Burleske (che dà il nome al movimento) fino al repentino schianto conclusivo.

 
La Korsakova ottiene un gran successo: la tecnica è sopraffina, il suono caldo e chiaro, ma soprattutto grande è stata la sensibilità interpretativa, in specie nei movimenti lenti ed in particolare nella cadenza. Forse qualcosa da ridire avrà la sua sponsor Laura Biagiotti, del cui pregevole lungo nero Natasha ha usato un paio di pieghe per asciugare il sottomento del suo (certo più prezioso ancora) violino!

 
Il bis che ci viene concesso è di quelli inusuali, poiché coinvolge anche l'arpa e pochi archi dell'Orchestra. Ma la brava Natasha si vuol prendere una soddisfazione che il suo ruolo di solista (che per definizione la porta solo a calcare le tavole del palco, e non quelle della buca) le nega per definizione: suonare con l'orchestra la Méditation, dalla Thaïs di Massenet.

 
Da ultimo ancora una sinfonia, la Terza, di Rachmaninov (e meno male che non ne ha scritte altre, smile!) Leopold Stokovski ne fu il virtuale dedicatario: ne diresse la prima con la Philadelphia nel 1936, a poche settimane dal completamento. L'insuccesso a quanto pare convinse il bizzarro direttore a dimenticarsene per 40 anni, dopodiché la riesumò per un'incisione londinese. Anche quest'opera contravviene apparentemente i sacri canoni formali: i 4 tempi sono qui ridotti a 3 (a compensare preventivamente quello in eccesso nel concerto di Shostakovich, smile!) e una specie di Scherzo, invece di inglobare un Trio, è lui stesso inglobato nell'Adagio centrale. L'immancabile pisciatina di cane del Dies-Irae – il compositore ne soffriva il complesso, evidentemente - vi fa capolino, in modo esplicito nell'ultimo tempo, ma più cripticamente anche prima.

 
Il primo movimento è in forma-sonata: inizia in tempo lento, e vi viene esposto il motto in LA minore, che richiama vagamente l'introduzione della Piccola Russia (la seconda di Ciajkovski) e che introduce l'Allegro, nel quale spicca un tema cantabile, in MI, dei violoncelli. Al centro dello sviluppo un crescendo porta ad un accordo che i tecnici definiscono iper-dissonante, che introduce la ricapitolazione e poi la coda, col secondo tema che modula in LA maggiore, nel rispetto dei sacri canoni formali.

 
L'Adagio, ma non troppo si apre con un richiamo del corno al motto iniziale, seguito da un assolo del violino, cui il violoncello risponde à-la-Sibelius. Affiorano poi incisi dalla quasi contemporanea Rapsodia su Paganini, insieme a vaghi ricordi del secondo concerto per pianoforte, misti a un po' di Meistersinger! Ecco poi l'Allegro vivace annegato all'interno del movimento, che sembra addirittura ispirarsi all'Apprenti Sorcier! Di sicuro un bel minestrone, non c'è che dire… Poi si rientra nei ranghi, per riscaldare il suddetto minestrone, come da buone tradizioni di famiglia. Eccola: un gran pot-pourri di idee assai poco originali.

 
L'Allegro conclusivo mescola il motto iniziale con il Dies-Irae, dà spazio ad esibizioni solistiche (fagotti) e contempla una specie di fugato mutuato dalla seconda. Momenti di stasi idilliaca, rotti da brusche scosse dei bassi e alternati ad esplosioni in cui si ricapitolano temi già uditi, in un'orgia di percussioni da un-tanto-al-kilo. E infine il lento e progressivo crescendo che porta alla marziale chiusura, carica di enfasi pari alla totale inconsistenza estetica.

 
Chi ha analizzato nei dettagli la struttura della sinfonia ne ha messo in risalto l'estrema complessità, i sotterranei legami fra temi e motivi, l'impiego di scale esatonali e octotoniche, di modalità frigie, di peremennost e nega, e così via discettando. Resta il fatto che, a mio modesto avviso perlomeno, tutto questo armamentario per così dire tecnologico non basta a fare grande un'opera, quando essa è carente alla base di narrativa (musicale, s'intende) esteticamente apprezzabile, salvo forse che per un regista cinematografico in cerca di colonne sonore.

 
Qualcuno si è anche azzardato a fare paragoni fra questa sinfonia e la Patetica di Ciajkovski… a me pare francamente patetica la velleità di Rachmaninov di scrivere sinfonie siffatte in pieno novecento. Ma per sua fortuna, in USA, dove ormai risiedeva dopo aver fuggito il comunismo, non c'era nessuno Zdanov a censurarlo (smile!)

 
E così, mentre lui magari se la ride, dalla sua residenza di Valhalla, ad andarci di mezzo sono i poveri professori che, dopo aver fatto una fatica bestia per suonare la sua pretenziosa sinfonia, ricevono a malapena due striminziti applausi di cortesia. Ecco, opere come queste andrebbero tolte dal repertorio per legge (smile!) Per di più, fuori continua a piovere, governo l…

 
Sempre Iorio con brani da opere italiane la prossima settimana.
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17 novembre, 2010

Gustavino in concerto alla Scala


Prima di chiudere (il 18 novembre) il ciclo della Carmen, per il quale non è che abbia raccolto consensi proprio estasiati (almeno stando a ciò che si racconta in giro… personalmente una serata della Dante lo scorso dicembre mi è bastata ed avanzata) il funambolico venezuelano, al momento re di LosAngeles, sale sul podio dei Filarmonici per un concertone di quelli classici.
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Dapprima è il 53enne Pierre-Laurent Aimard a fargli da sodale (quanto ad età potrebbe essergli padre) nel beethoveniano ImperatoreInterpretazione che rifugge da ogni enfasi ed esibizionismo: quasi tutta in punta di piedi (o di dita!) nulla di eroico o imperiale. E forse per questo da godere e ricordare (massimamente l'Adagio). L'orchestra fa il suo dovere, senza peccati né invasioni di campo, guidata da un sempre sorridente Dudamel (che sfoglia una partitura formato tascabile!) Accoglienza calorosa da parte di un pubblico folto, ma non oceanico e… niente bis.

 
Il campione di El Sistema di Abreu - che alcuni auspicano venga chiamato a ricoprire il posto, vacante da 5 anni, che fu di Muti, e prima di Abbado (della serie: meglio anche un ignorante di opera, che nessuno) – ha invece tutta quanta in mente la partitura della Settima di Bruckner, quattro movimenti per un totale di 443 + 219 + 402 + 339 = 1403 misure! Sinfonia già ascoltata qui dai filarmonici a gennaio scorso, sotto la guida di un pedante Christoph Eschenbach. Gustavo, che ha fuoco latino nelle vene, e ai professori trasmette allegria e non timore reverenziale, ne dà un'interpretazione asciutta ed equilibrata nei tempi (forse ancora un filino troppo lento, per me, l'iniziale Allegro moderato).

 
In particolare nell'Adagio - preso atto che anche lui non se l'è sentita di negare all'addetto ai piatti i suoi tre secondi di gloria - Dudamel ha mostrato una stupefacente maturità (o forse ha semplicemente preteso il pedestre rispetto della partitura, senza aggiungerci troppo di suo) evitando di cadere in qualunque retorica – Tod-in-Venedig - o in eccessivi deliqui.

 
I filarmonici hanno risposto onorevolmente: gli ottoni, tubette comprese, non hanno incespicato mai (sarà poco, ma spesso non c'è nemmeno questo) anche se si potrà storcere un poco il naso sulla qualità del suono. Discreti gli archi e ottimi i legni. Alla fine applausi nutriti, sporcati da un fischio e da un urlo (da interpretarsi come buh?) per un'orchestra che – da 5 anni senza una guida stabile ed autorevole – fa quel che può.

 
In complesso: accontentiamoci di una piacevole serata di grande musica, che tira su un poco il morale, abbattuto da questa insistente pioggia novembrina (per non parlar d'altro…)
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16 novembre, 2010

Wagner in Israele



L'avvocato Yonatan Livni, figlio – si noti bene – di un sopravvissuto all'Olocausto, ha registrato presso la cancelleria del Ministero della Giustizia israeliano la prima Associazione Wagner di Israele.

Lo scopo dell'Associazione è quello di promuovere e diffondere la conoscenza delle opere di Wagner in Israele, dove dal 1938 esiste un autentico ostracismo – di fatto, non di diritto – alla loro esecuzione pubblica (Barenboim e Mehta ne sanno qualcosa, per aver timidamente cercato di infrangere tale ostracismo).
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È vero che Wagner fu un acceso antisemita, ma qui non stiamo parlando dei suoi scritti o discorsi, ma della sua musica, afferma Livni, che aggiunge: Orff e Strauss (al contrario di Wagner, ndr) furono parte integrante dell'establishment nazista, eppure si eseguono tranquillamente in Israele. Ed infine osserva argutamente: Hitler adorava anche Mercedes e Volkswagen, eppure migliaia di quelle autovetture circolano in Israele, guidate da ebrei senza alcun problema. E conclude che è quindi ora di metter fine anche al bando di quest'ultimo prodotto germanico.
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Naturalmente le organizzazioni dei superstiti dell'Olocausto hanno annunciato che continueranno ad opporsi all'esecuzione di Wagner in Israele. Ma intanto il passo dell'avvocato Livni comincia ad incrinare un fronte che fino ad oggi pareva impenetrabile.
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Il destino di Wagner, a 130 anni dalla morte, avvenuta ben 50 anni prima dell'ascesa di Hitler al potere, è di essere considerato da molti (non solo ebrei) come l'ispiratore del nazismo e delle azioni criminali di Hitler. E la ragione di ciò non risiede certo nell'essere lui stato affetto da antisemitismo (fenomeno quasi normale e diffusissimo, nella società ottocentesca in cui Wagner viveva) ma nell'aver egli prodotto grandi opere d'arte (nelle quali, si badi bene, non si trova alcun intento, esplicito o implicito, né alcun programma politico di distruzione degli ebrei).

Purtroppo le convinzioni antisemite di Wagner diedero ad Hitler il pretesto per sfruttarne i capolavori per i propri abominevoli progetti: ed è questa la tragedia postuma dell'Artista Richard Wagner.

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12 novembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 10



Concerto di quelli davvero tosti questa settimana, diretto Antonello Allemandi. Auditorium però con parecchi vuoti: forse l'accoppiata Schumann-Bruckner incute più timore che interesse, chissà.

E purtroppo devo dire che stavolta gli assenti non hanno avuto del tutto torto. Forse Allemandi – direttore squisitamente operistico – non ha con queste partiture la necessaria dimestichezza e consuetudine, o ha avuto poco tempo per provare e metterle meglio a fuoco e a punto, fatto sta che la prestazione complessiva non mi è parsa delle migliori.

Si comincia con la Primavera di Schumann, una sinfonia francamente un po' sacrificata in questo ruolo di apripista; per di più, niente ritornelli, per non appesantire troppo la serata, come già Allemandi aveva anticipato in un'intervista al Corriere. Quindi – a maggior ragione – rischia di diventare un'opera di quelle che Bruckner (che sentiremo subito dopo) chiamava sinfoniette. In realtà a me è parsa diventare piuttosto una sinfoniotta, greve ed appesantita da sonorità bandistiche, con enfasi sparsa a dosi eccessive. Le sinfonie di Schumann, come quelle di Bruckner, hanno tratti di teatralità, verissimo, ma non sono il Trovatore, né Cavalleria rusticana!

Da Schumann a Bruckner si procede nel tempo di una trentina d'anni, ma si fa un gran salto all'indietro – fino a Beethoven, come minimo - quanto a rispetto e conservazione delle forme classiche. Per Bruckner – organista per anni e anni a Sankt Florian! - la Sinfonia è una cattedrale, con tanto di colonne e pilastri portanti (i diversi temi) che sostengono campate, navate, absidi e cupole. Naturalmente vi si trovano poi vetrate policrome, affreschi e miniature in quantità. Questa aderenza quasi patologica alle forme tradizionali (qualcuno la considera un effetto dei tanti complessi che affliggevano il nostro, come la comptomania) non servì peraltro a Bruckner per guadagnarsi la stima dell'esteta musicale Eduard Hanslick che, parafrasando le celestiali lungaggini con cui Schumann aveva glorificato la Grande di Schubert, gratificava le sinfonie di Bruckner dell'epiteto di interminabili lamentazioni. Incolpandone (tanto per prender comodamente due piccioni con una fava) quello che secondo lui era lo sbifido virus wagneriano, da cui Bruckner era stato (e questo è poco, ma sicuro) contagiato.

Una caratteristica curiosa della Quarta, dal punto di vista della sua concezione, è proprio di essere assolutamente ligia ai sacri canoni della forma sinfonica, essendo allo stesso tempo un'opera con una precisa ispirazione extramusicale (il medievale mondo cavalleresco, di cui il naïf Bruckner vorrebbe dipingerci qualche spaccato di vita). Tanto da recare il titolo, proprio appostovi dall'Autore, di romantica, dal che ci si sarebbe dovuti casomai aspettare una struttura assai libera e quindi vicina al poema sinfonico.

Ma la Quarta, oltre che la più famosa, è anche la sinfonia più controversa di Bruckner. Un Direttore che la voglia – o debba – presentare, ha già in partenza da risolvere un problemino da nulla: quale delle 7 (in lettere: sette, di cui 5 pubblicate) diverse versioni eseguire? O magari provare a inventarsene un'ottava, assemblando come si fa con un meccano i vari spezzoni esistenti? Neanche il Boris Godunov (smile!) è così complicato! Gli esperti e i critici nemmeno riescono a mettersi d'accordo fra loro su quali versioni (o singole parti) della sinfonia si debbano considerare autografe o quali apocrife, cioè farina originale del sacco di Bruckner, o frutto di interventi più o meno plausibili o strampalati, autorizzati o proditori, dei vari Löwe e Franz&Joseph Schalk. Non solo, ma non c'è nemmeno concordia sul come giudicare l'atteggiamento dell'Autore: chi dice fosse letteralmente alla mercè dei suoi allievi-sedicenti-servitori, e quindi si bevesse qualunque loro scempiaggine, e chi invece assicura che il nostro, un poveruomo ingenuo e credulone fino al ridicolo riguardo tutti gli aspetti dell'umana esistenza, fosse però testardo e irremovibile quando si trattava di approvare o meno degli interventi sulle sue partiture.

Il risultato è che uno stesso documento – manoscritto con correzioni, o partitura stampata e poi emendata – viene considerato da una corrente di pensiero come autentico, o approvato dall'Autore, dall'altra come indebita e truffaldina manipolazione perpetrata dalla solita cricca Löwe-Schalk. E questo spiega perché fra gli editori critici sono più le picche-e-ripicche che non le convergenze di vedute. Chi voglia addentrarsi in questo ginepraio può cominciare da wikipedia, che riporta un quadro sinottico delle varie versioni, e cita buona parte della prefazione di Hans-Ferdinand Redlich, penultimo editore critico della sinfonia, alla partitura Eulenburg del 1955. In quest'ultima versione (1887-1888) edita originariamente da Gutmann nel 1889 (poi da Redlich e ultimamente da Korstved nel 2004) la sinfonia è stata quasi esclusivamente eseguita fin verso la metà del secolo scorso. Poi le si affiancarono, prendendo il sopravvento, le edizioni di Robert Haas (epoca nazista, 1936-44) e Leopold Nowak (1953) basate sulla versione del 1878-1881, quella che Hans Richter diresse alla prima di Vienna, con i piccoli ritocchi apportativi subito dopo.

Ed è proprio la versione Nowak quella che viene eseguita qui (la locandina-manifesto e il sito dell'orchestra citano sbrigativamente solo l'anno 1878, il che potrebbe far pensare alla versione con il finale Volksfest e con lo scherzo del 1874, roba fuori dal mondo… per fortuna il programma di sala rimette le cose a posto). Questa versione differisce da quella di Gutmann-Redlich per molti ritocchi all'orchestrazione e per non presentare alcuni importanti tagli allo Scherzo e al Finale (quindi è la versione di durata più lunga).

Nel primo movimento (la cui dinamica è Ruhig bewegt, curiosa davvero, poiché sarebbe da tradurre tranquillamente mosso!) dopo il richiamo del corno solo sul tremolo degli archi (ripreso poi dagli strumentini) che dà la sveglia al borgo, arriva il tema principale, in MIb, che poi modula fino al FA, volendo rappresentarci i cavalieri medievali che escono pomposamente dal merlato castello per addentrarsi nei boschi circostanti:

Guarda caso, un tema ripreso anni fa nella colonna sonora di Guerre stellari. Vi si noterà il classico stilema 2+3 (a volte, specularmente, 3+2) che Bruckner usava come fanno i cani con le loro pisciatine, per delimitare il proprio territorio di influenza.

Siamo evidentemente in qualche bosco dell'Alta-Austria, poiché un nuovo tema è da Bruckner esplicitamente associato alla cinciallegra Zizi-Be, che sulle fronde di lassù simpaticamente cinguetta così:
Evidente qui il riferimento a personaggi ornitologici che popolano un movimento di una famosa Pastorale

L'Andante è di carattere piuttosto dimesso, un misto di cantilena e di preghiera, con un ritmo da pellegrino sulla via francigena, scandito dal pizzicato degli archi; anche se – conformemente agli stilemi di Bruckner – non vi mancano un paio di squarci di quiete e anche di crescendo, l'ultimo dei quali poderoso, dove sembra persino far capolino il wagneriano, severo tema del Patto, proprio verso la conclusione del movimento.

Il tema dello scherzo (La caccia, riscritto completamente nel dicembre 1878) ricorda da vicino i corni che udiamo all'inizio del second'atto del Tristan:

Qui, oltre ai corni, anche gli altri ottoni sono sottoposti ad un forsennato tour-de-force, solo brevemente interrotto dal secondo soggetto esposto dagli archi. Il breve Trio rappresenterebbe, stando a Bruckner, la pausa-mensa dei cavalieri-cacciatori!

Il Finale – quello scritto da Bruckner al terzo tentativo – si apre con un altro richiamo di corno e clarinetto, poi tornano le terzine dello scherzo e il tema chiude con la possente riproposizione dell'intervallo di quinta (SIb-MIb) dei corni, dove compare anche un colpo di piatti (più un intervento dell'ottavino) che tutti gli editori critici considerano spurio (come quello dell'adagio della settima) ma che (quasi) tutti i direttori pervicacemente insistono ad eseguire. Segue una transizione in DO minore (ah, i sacri canoni!) che tosto lascia spazio al secondo corpo tematico che chiude l'esposizione. Si passa poi allo sviluppo (sempre tutto in forma sonata!) Arriva poi la lunga ricapitolazione (vittima di interventi e tagli nell'ultima versione del 1890) fino alla solenne chiusa col gigantesco crescendo cromatico di tromboni e tuba che sfocia nel MIb dell'intera orchestra.

Orbene, il fracasso non è certo mancato, ma da solo non basta; così come la pesantezza e l'enfasi (i 24 minuti di durata del Finale ne sono chiaro indizio). In compenso, la cinciallegra è parsa piuttosto una quaglia, e la caccia un colossale happening alla easy-rider. Qualche crepa anche nella coesione all'interno e fra le diverse sezioni dell'orchestra. Insomma, a me è rimasto un pochino di amaro in bocca.

Per il prossimo appuntamento si torna in Russia, con antipasto italiano.

09 novembre, 2010

Gergiev-Kavakos aprono la stagione dei Trepper Philharmoniker



Con un programma tutto russo è stato Valeri Gergiev ad inaugurare la stagione della Filarmonica della Scala. Fosse per lui, i fabbricanti di bacchette da direzione d'orchestra andrebbero inesorabilmente falliti. Ma lui non ne ha bisogno poiché di bacchette ne ha 10, quante le dita delle sue mani, che muove vorticosamente, come fossero ali di colibrì. Ospite di riguardo Leonidas Kavakos, che invece si guarda bene dal suonare a mani nude (smile!)

 
Prima del concerto, in un Piermarini esaurito - bene, bene! - Ernesto Schiavi, Direttore artistico della Filarmonica, insignisce Gergiev del titolo di Socio onorario dell'Orchestra, in omaggio ai suoi 20 anni di consuetudine con i filarmonici, iniziata nel 1990 con un concerto di contenuto assai vicino a quello odierno.

 
Che come antipasto prevede Il lago incantato, un breve (neanche 8 minuti) poema sinfonico di Anatoli Ljadov, sottotitolato Leggenda. Non è propriamente il classico brano con cui spesso si apre fragorosamente un concerto (qui ci poteva stare a meraviglia, per dire, l'ouverture di Ruslan&Ludmila) per consentire a qualche ritardatario di prender posto senza disturbare troppo, o per richiamare all'ordine il solito indefesso chiacchieratore, o magari per consentire a qualche appisolato-precoce di rimettersi in linea. No, questa è musica fatta apposta per prender sonno, cullati dagli arpeggi… dell'arpa (smile!) dagli arabeschi carillon-eschi della celesta e dalle semicrome dei violini, mutuate dal wagneriano Waldweben. Cosa simile fu perpetrata già lo scorso maggio da laVerdi all'Auditorium, con esiti ugualmente imbarazzanti. Francamente, la barcarola di Offenbach è (in questo genere) davvero imbattibile… ma qui ci voleva – evidentemente – il passaporto russo!

 
Si comincia a far sul serio (ecco, per la verità qui qualcuno potrebbe obiettare…) con l'Opus 35 di Ciajkovski. Che il concerto sia diventato famoso (almeno da noi) grazie allo spot brandy-brindereccio dei mai abbastanza rimpianti Vianello-Mondaini è peraltro cosa da non demonizzare, datosi che il buon Piotr per primo, per fargli una bella campagna pubblicitaria, si servì nientemeno che dei favori di tale Carmen (una escort di cui il nostro gay si era maledettamente infatuato, smile!):


 
Kavakos cavalca a meraviglia questa partitura – che ai tempi fu considerata ineseguibile – passando disinvoltamente dalla leziosità dell'iniziale Allegro, alla struggente malinconia della Canzonetta, al vorticoso e impervio Allegro vivacissimo che chiude l'opera. L'orchestra lo spalleggia a dovere, eccetto forse alcuni interventi troppo invadenti dei due corni. Trionfo per lui, ricambiato da un lungo bis distensivo quasi a disintossicarsi dalla droga ciajkovskiana.

 
A bilanciare l'impalpabilità e i tratti morfeici del Liadov che aveva aperto la serata, la chiusura è un Ciajkovski che – perlomeno nei due movimenti esterni della sua Quarta - più assordante e fracassone non si potrebbe. Questa sinfonia è – con l'eccezione di parte dei due movimenti interni – una specie di distillato di retorica del dolore, un romanticismo che in certi momenti parrebbe in avanzato stato di decomposizione, ma che sa ancora scatenare forze smisurate. Diciamo la verità, il Ciajkovski serio verrà fuori più avanti, un 15 anni dopo, allorquando tutti i suoi nodi esistenziali arriveranno fatalmente al pettine, con la Patetica. Qui invece siamo in buona misura all'affettazione, all'autoflagellazione piuttosto gratuita; assai poco giustificata, fra l'altro, dai casi dell'esistenza (per dire, l'idea della sinfonia venne a Ciajkovski nell'inverno del 1876, cioè assai prima della crisi seguita al matrimonio immediatamente naufragato con Antonina, e quando il compositore stava pensando anche all'Onegin). Una cosa simile accadrà al Mahler della sesta (rispetto alla nona, per intenderci). In effetti, perlomeno a me, questa sinfonia lascia proprio l'impressione di un gigantesco fuoco di paglia: ti dà l'illusione di un'eruzione vulcanica ma poi, in quattro e quattr'otto, non ne resta che poca cenere, che se ne vola via con la prima folata di vento.

 
Detto tutto il male possibile (smile!) dell'opera, va invece dato a… Valery quel ch'è tutto suo, di diritto. Una lettura strepitosa, per me, con punte di diamante nei contro-soggetti, come il passaggio in SI maggiore del primo movimento, dove i legni dialogano con i violini in una specie di gioco a rimpiattino; o l'emozionante entrata, nel secondo movimento, del tema in SOL maggiore (un tema in sè insulso, che scende e sale banalmente da tonica a dominante) che davvero è parso emergere come una venere dalle acque, pieno di freschezza e leggerezza; e la prima irruzione dell'oboe nello scherzo, dopo il generale pizzicato degli archi; e poi il tema della betulla del finale, che nelle mani di Gergiev trasloca dagli archi a tutti gli ottoni con un crescendo mozzafiato.

In due parole: un trionfo.

 
Quanto alla Filarmonica, quando viene strigliata a dovere da un Kapellmeister che evidentemente non tollera approssimazioni e facilonerie, mostra di non essere poi così da discarica come molti la descrivono. Ecco perché la nomina, da parte del Teatro alla Scala - che è allo stesso tempo cliente e fornitore unico dell'orchestra (per le due stagioni concertistiche) oltre che datore di lavoro dei professori (per la stagione opera-balletto) - di un Direttore musicale, che la prenda per mano (e magari pure per le orecchie, quando serve!) si mostra ogni giorno di più come improcrastinabile.

08 novembre, 2010

Le Nozze (d’argento) di Figaro al Maggio


Un Figaro quasi ventennale è tornato a maritarsi a Firenze (dove debuttò nel 1992, dopo Vienna). È quello ideato da Jonathan Miller (e qui ripreso da Gianfranco Ventura) ormai alla terza apparizione fiorentina, dopo quella del 2003.

Eppure mantiene intatta tutta la sua freschezza e piacevolezza, a dimostrazione del fatto che regìe (cosiddette, con intento minimizzante se non spregiativo) tradizionali si conservano negli anni assai meglio di tante che vanno alla ricerca di qualche recondito significato dell'opera, su cui costruire Konzept improbabili o del tutto strampalati.

Che le Nozze – come il loro antesignano ispiratore Mariage – contengano impliciti o ammiccanti riferimenti a fenomeni di tipo socio-politico-cultural-eroto-psicologico lo si comprende e lo si apprezza perfettamente proprio dalla rappresentazione originale, senza bisogno che qualche regista in cerca di notorietà a buon mercato ce lo venga a spiegare con trasposizioni di vicenda e personaggi nel tempo e nello spazio. (Si perdonerà tranquillamente l'invenzione di Miller di presentarci due pargoletti della Contessa, uno ancora in fasce…)

Sapientissima poi è la direzione attoriale: già dall'entrata di Figaro&Susanna, e giù giù fino al gigantesco rimpiattino finale, magistralmente reso col semplice impiego di tre colonne, dietro cui far nascondere di volta in volta i personaggi. E va dato atto a tutti gli interpreti di aver assolto al meglio il compito relativo alla presenza scenica. (Qualche eccesso di palpeggiamenti non ha fatto scadere lo spettacolo in avanspettacolo.)

Sul fronte musicale, detto dei tagli alle due arie dell'Atto IV (Marcellina, scena IV, Il capro e la capretta e, per par-condicio, Basilio, scena VII, In quegli anni) arie che Massimo Mila definiva argutamente scritte per obblighi di natura sindacale, dirò che la direzione del nordico Arild Remmereit mi è parsa forse un po' troppo freddina (smile!) ma non del tutto disprezzabile: insomma, nel complesso positiva, a meno di non cercare il proverbiale pelo nell'uovo. Del pari rimarchevole la prestazione del Coro di Piero Monti e delle sue due soliste Sarina Rausa e Nadia Sturlese, tutti chiamati ad un compito peraltro non proibitivo.

Nel mio personalissimo cartellino (la vittoria delle azzurre del tennis mi ha richiamato alla mente il grande Rino Tommasi) la palma della migliore va alla Contessa Rachel Harnisch, quasi perfetta ed acclamatissima nella sua aria della scena VIII dell'atto III.

Vocina piccola, ma gradevole, quella della Susanna di Olga Peretyatko, cui mi sento di perdonare un paio di urletti di troppo.

Ruxandra Barac ha interpretato un Cherubino efficacissimo scenicamente, vocalmente discreto (nella sua Canzona della terza scena dell'atto II) ma non più.

La Marcellina di Laura Chierici (che non ha un sindacato a proteggerla, smile!) e la Barbarina di Paola Leggeri (che invece ha cantato – meschinella – la sua cavatina) se la son cavata onestamente.

Quanto ai signori, i due protagonisti principali meritano un plauso, anche se non sembrano dotati di voci particolarmente potenti (in particolare il Pietro Spagnoli del Conte, peraltro assai bene impostato). Vito Priante è stato un Figaro forse poco sanguigno e troppo sempliciotto, ma il pubblico non ha mancato di gratificarlo ampiamente.

Gli altri: Umberto Chiummo come Bartolo, Gianluca Floris (anche lui non iscritto a sindacati) in Basilio, Antonio Feltracco in Curzio e il fin troppo avvinazzato Giuseppe Di Paola in Antonio l'hanno sfangata onorevolmente, nelle scarse parti solistiche, ma soprattutto nei concertati.

Alla fine grandi applausi per tutti, in un Comunale pieno come un uovo, cosa che non può non far piacere, oltretutto in un pomeriggio (peraltro piovigginoso) dove il teatro doveva competere con pedatori viola e velleitari rottamatori.

05 novembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 9


Dopo tanto Mahler (ma siamo solo a metà… si riprende con l'anno nuovo) l'agenda de laVerdi ci propone una parentesi russa: Rimsky e Stravinsky.

 
A proposito di musicisti russi, laVerdi è con il lutto (virtuale) al braccio, per la scomparsa – lo scorso 2 novembre - del suo Direttore Emerito, Rudolf Barshai.

 
Ieri sera sul podio è il sessantunenne Muhan Tang, uno dei pochi (ancora) direttori cinesi in circolazione da noi (ma laVerdi ne ha preso una tutto per sè…)

 
Si comincia con la Suite da Lo Zar Saltan di Rimsky, di cui avevamo avuto un antipasto nel 15° concerto della stagione scorsa, con l'esecuzione, allora, del solo ultimo brano (Le tre meraviglie). La Suite incorpora in sostanza tre Introduzioni: all'atto I (partenza e addio dello Zar) all'atto II (la Zarina e il figlio galleggiano sul barile) e all'ultima scena dell'atto IV (le 3 meraviglie). Sono tutte aperte dalla celebre fanfara, che rappresenta una specie di motto dell'intera opera:

Fanfara che ritorna più volte nell'ultimo brano, come separatore fra le tre meraviglie. A proposito delle quali, il motivo che introduce i guerrieri è una chiara citazione – il primo tema del Principe Kalendar - dalla Sheherazade (di una decina d'anni anteriore) che si ascolterà più tardi:

Ed in effetti l'opera ha, con Sheherazade, parecchie affinità di ambientazione, nel fantastico mondo orientale.

 
E l'orientale Tang ne cava un'interpretazione coinvolgente, mettendo in luce la smagliante tavolozza di colori della suite.

 
Un po' di trambusto per riconfigurare (smagrendola) l'Orchestra: ottoni tutti concentrati a destra (corni in alto, trombe sotto ai fagotti e tromboni-tuba all'estrema) per lasciare il violino solista con le spalle sgombre da strumenti troppo invadenti. E quindi arriva il fiammingo (a dispetto del nome) Yossif Ivanov a suonarci – con uno Stradivari della bella età di 311 anni, dal suono cupo e pastoso - il Concerto in RE per violino di Igor Stravinsky. È in realtà quasi una sinfonia concertante del violino con gli altri strumenti dell'orchestra. (Qui una recente esecuzione ai Proms con Shaham). Attacca con un problematico accordo di 11ma (MI-LA) ripetuto all'inizio di tutti i movimenti. Nel primo (Toccata) fa curiosamente capolino anche un inciso che ricorda un motivo dell'Oberon di Weber!

 
Seguono le due Arie: la prima più mossa, con frequenti contrappunti in pizzicato degli archi bassi. La seconda più elegiaca, con sommesso accompagnamento quasi esclusivamente limitato ai soli archi e con il motto dell'accordo iniziale che torna un paio di volte a separare le sezioni del brano.

 
Ma il concerto non fa che confermare i lunghi sguardi all'indietro di Stravinsky, che qui si rifà nientemeno che a Bach (magari un po' anche a Paganini…): nel Capriccio finale dopo corno e fagotto, il nostro fa intervenire - a duettare con il solista - anche il Konzertmeister (nella fattispecie: Luca Santaniello) come nel Concerto per due violini del sommo Johann Sebastian.

 
Ivanov ci mette tutto l'ardore e il virtuosismo necessari per farci digerire questo pezzo non proprio facile, meritandosi applausi scroscianti dal (non oceanico) pubblico dell'Auditorium. Che lui ripaga con un bis paganiniano (il 13mo capriccio dell'op.1).

 
Ecco poi il gran finale, con la celebre Sheherazade, formalmente denominata Suite sinfonica, in realtà qualcosa che sta a metà fra sinfonia in 4 movimenti (Preludio – Ballata – Adagio – Finale, come li voleva chiamare l'Autore, secondo un'idea poi abbandonata) e poema sinfonico, con tanto di programma esterno (Il mare e la nave di Sinbad – Il Principe Kalendar - Il Principe e la Principessa – La festa di Baghdad, il mare e il naufragio) e di motivi che ritornano ciclicamente, anche se Rimski ci tenne a precisare che si tratta solo di spunti musicali impiegati in diverse circostanze, nulla a che vedere con i Leit-motive di marca wagneriana.

 
Per la verità non sembrerebbe proprio così, a partire dal famoso assolo di violino (che ha permesso a Luca Santaniello di dare il meglio di sé) inizialmente in MI minore, che impersona invariabilmente la protagonista, introducendoci le diverse storie da 1000&1notte che la furba Sheherazade racconta al sultano, per sfangarla ogni volta:


 
Le due terzine evidenziate formano la base di uno dei temi del primo movimento (il mare su cui veleggia la nave di Sinbad) che si contrappunta all'altro, subito esposto all'inizio, e poi sapientemente variato:
È il tema che rappresenterebbe il sultano cattivone, ma poi anche la nave di Sinbad. Fra la sua iniziale esposizione (in cui Tang mette tutta l'enfasi dovuta) e quella del motto di Sheherazade sentiamo i fiati emettere cinque accordi che ci richiamano i quattro del Sogno mendelssohniano (e che torneranno proprio in chiusura dell'opera).

 
Il secondo movimento, dopo l'introduzione del violino solo, vede il fagotto, seguito poi dall'oboe, esporre il tema di Kalendar (la cui reminiscenza abbiamo ascoltato prima nel Saltan):

L'altro tema che gli fa da contraltare è questo, con l'incipit che ricorda vagamente il Sultano:
Tema che viene sviluppato in modo strepitoso, su un tempo Allegro molto. Il fagotto ha ancora modo di mettersi in evidenza, con alcune cadenze solistiche sulla seconda sezione del primo tema, che poi riprende il sopravvento fino alla chiusura.

 
Il terzo movimento – una classica love-scene - non apre con il motto di Sheherazade, ma direttamente con il delizioso tema principale:

Esso occupa la prima parte del movimento, ed è caratterizzato anche da ampi svolazzi del clarinetto e poi del flauto a chiuderne le apparizioni. Poi ecco un delicatissimo intermezzo, dove compare un nuovo tema più mosso e grazioso:

Al quale subentra per poco il primo tema, chiuso da una cadenza dell'oboe. Dopo una pausa ecco riapparire il motto di Sheherazade, sempre nel violino solista di Santaniello, che ci costruisce qui anche degli arabeschi di biscrome. L'arpa di Elena Piva (che è opportunamente dislocata in posizione avanzata, vicina al violino di spalla che deve accompagnare nei diversi assolo) poi oboe e clarinetto ancora a descrivere ampie arcate sonore, indi il corno, solo, a proporre il primo tema; infine è il secondo che riprende il sopravvento e porta alla conclusione, con una lunga e splendida cadenza.

 
Il movimento finale inizia, come il primo, con il tema del sultano, ma ora in tempo Allegro molto. Ecco però subito dopo, in Lento, il motto di Sheherazade, che il violino espone in corda doppia (e tripla per gli accordi finali) quindi con maggiore corposità di suono rispetto alle precedenti apparizioni. Ancora si scatena il tema del sultano, Allegro molto e frenetico, cui il violino solista risponde con il motto di Sheherazade, adesso in corda tripla (e quadrupla sugli accordi finali) come a ribadire la capacità di resistenza della sultana alla ferocia del marito.

 
Attacca ora (Vivo) la strabiliante festa di Baghdad, una vera orgia sonora in cui il ritmo della musica cambia di sovente, da 2/8 a 6/16 a 3/8, come chiaramente indicato in partitura:

Su questo ritmo sentiamo inizialmente un tema che ricorda vagamente gli italiani saltarelli del ciajkovskiano Capriccio e della quarta
di Mendelssohn, ma poi Rimsky introduce, sapientemente variati, praticamente tutti i temi già ascoltati in precedenza: ed ecco l'orgia sonora, con l'ottavino e i due flauti (Massimiliano Crepaldi, Valeria Perretti e Ninoska Petrella) – in particolare - chiamati a virtuosismi a dir poco pazzeschi, bruscamente interrotti da una corona puntata (di una croma) scritta a cavallo della barra di separazione fra le battute, che Tang tiene proprio corta, neanche il tempo di tirare il fiato. È un momento di emozione grandissima, poi subito (Più stretto) la sarabanda riprende più infuocata che mai, per poi sfociare (Allegro non troppo maestoso, in 6/4) sulla vista della nave che veleggia sul mare aperto fino a …schiantarsi sullo scoglio su cui si erge la statua del cavaliere di bronzo!

 
La favola volge al termine, e Sheherazade/Santaniello ancora fa sentire il suo motto (sempre in MI minore) prima che il tema del sultano, ora cupo e lento negli archi bassi, ci dia quasi l'impressione che il cattivone si stia addormentando, ormai dimentico delle sue sanguinose intenzioni. Ecco i cinque accordi mutuati dal Sogno, e poi Sheherazade può a sua volta infilarsi serenamente sotto le lenzuola, cullata dal suo motto, ora trasfigurato in MI maggiore, seguito dall'accordo in pianissimo dei fiati e dai pizzicato degli archi, che chiudono l'opera.

 
Assieme al Capriccio spagnolo e alla Grande Pasqua russa, Sheherazade era considerata dallo stesso Autore come il culmine del suo periodo nazionale: Con questi tre lavori la mia orchestrazione raggiunse un grado considerevole di virtuosismo e di luminose sonorità pur senza essere influenzata da Wagner, ma entro i limiti della convenzionale configurazione dell'orchestra di Glinka. Queste tre composizioni presentano anche una considerevole riduzione nell'uso del contrappunto; il suo posto è preso da un forte e virtuosistico sviluppo di ogni genere di figurazione che sostiene l'interesse tecnico delle mie composizioni.

 
Che ne sia convinto o no, il pubblico riserva all'opera – e naturalmente a Tang e ai magnifici interpreti - il grande successo che si merita da più di 120 anni.

 
Prossimamente si torna in Mitteleuropa, con due possenti sinfonie.