intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

23 agosto, 2009

Barenboim con la Divan ai Proms-09

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Venerdi 21 e sabato 22 i Proms hanno ospitato la West-Eastern Divan Orchestra, diretta dal suo co-fondatore Daniel Barenboim.

Questa orchestra è una vera e propria scommessa perenne, come può esserlo il tentativo di far convivere pacificamente e proficuamente nello stesso recinto cani e gatti, guelfi e ghibellini… israeliani e palestinesi! Provate a mettervi nei panni di un violoncellista palestinese, nativo di Gaza, il giorno dopo che un raid della IDF ha provocato la morte di decine di suoi concittadini, incluso magari qualche suo parente. O anche, nei panni di una flautista israeliana che ha perso amici e conoscenti grazie ad un attentato di kamikaze palestinesi a Jaffa. E tutti a continuare a suonare insieme. Insomma, roba da chiodi!

Bene, questo complesso di separati-che-più-non-si-può riesce a suonare decentemente – non dirò meravigliosamente, chè il senso delle proporzioni va sempre mantenuto – il Preludio e il Liebestod del Tristan e poi, più che decentemente in verità, la Fantastica di Berlioz! Alcuni strumentisti, un’ora dopo, ci fanno ascoltare il delizioso Ottetto di Mendelssohn, e un tirato Concerto da camera di Berg. Grazie davvero, di questi tempi!

Ma il grande appuntamento è il Fidelio del 22. Un Fidelio perfettamente nello spirito dei Proms, a metà fra la scampagnata e l’occasione di acculturamento delle masse.

Barenboim deve accattivarsi subito il pubblico della Royal Albert Hall (chissà perché il commentatore di Radio3 si è ostinato per tutta la sera a trasferire lo spettacolo nella Royal Festival Hall) e così - invece della canonica, ma troppo cerebrale, Overture in MI maggiore – apre con la Leonore III, tutt’altro cipiglio e presa sul pubblico. Dopodichè – e chissà perché… forse per non passare bruscamente dal fracasso del DO maggiore della Leonore al LA maggiore del N°1 ? - parte col N°2, che è in DO (minore, poi maggiore) e chiude però in piano. E così stempera un pochino il successivo passaggio al N°1. Tanto il pubblico – si pensa – non farà caso all’inversione innaturale del nesso logico della trama.

Intanto era successa però una cosa importante, anche questa tipica dello spirito maieutico dei Proms: Waltraud Meier aveva premesso all’Overture il racconto (in lingua inglese, come tutti i successivi suoi interventi durante l’Opera) del significato del Fidelio. Testi tutti scritti da Edward Said, il compianto co-fondatore (di origine palestinese) della Divan con Barenboim: si tratta appunto non già dei recitativi del Singspiel (sono stati tutti eliminati in questa esecuzione) ma di brevi riassunti della vicenda, via via che procede. Un modo come un altro – ma direi abbastanza efficace - per spiegare al pubblico il contenuto di ciò che sta ascoltando.

Appunto, la Meier. Qualcuno potrà storcere il naso sul suo essere un soprano di contrabbando, oltretutto appesantita dal fardello delle innumerevoli Isolde e Kundry che si porta sulle spalle, ma personalmente mi è piaciuta assai e in particolare nell’Adagio del N°9 – quella specie di straordinario concertato in SI maggiore con i corni, Komm, Hoffnung – davvero esposto mirabilmente, inclusa la salita al SI acuto e successiva discesa di due ottave piene, sull’erreichen. Poi ha un pochino pagato dazio, sui lunghi SOL della fine dell’aria, ma insomma… avercene!

Sir John Tomlinson è stato per me un Rocco efficacissimo. Gli rimprovero soltanto un eccesso – tutto da Proms – di gigionerìa ed enfasi retorica. Ma la voce è splendida e perfettamente attagliata al ruolo.

Onesti e dignitosi, la Marzelline di Adriana Kucerova e il Jaquino di Stephen Rügamer. Però bravi, con Tomlinson e Meier, nel difficile Mir ist so wunderbar.

Simon O’Neill era Florestan: mi è parso incerto – calante – nei primi passi della sua difficile aria di apertura, ma poi si è ben ripreso ed ha finito in crescendo. In particolare ottimo, con la Meier, nel famoso O namenlose Freude.

Il Pizarro di Gerd Grochowsky (sostituiva Peter Mattei, originariamente in locandina) ha fatto onestamente la sua parte, ma un poco di grinta in più non avrebbe guastato.

Deludente, perché a mio parere di voce troppo leggera, il Don Fernando di Viktor Rud, a sentirlo pareva che il Ministro si fosse fatto rappresentare per l’occasione da un suo giovane portaborse.

Efficaci i cori, sia nel sempre commovente O welche Lust, che nel finale.

Barenboim ha guidato i ragazzi della Divan da par suo: anche lui, come la Meier, magari fatica a de-wagnerizzarsi del tutto al momento di affrontare Beethoven, ma insomma l’esperienza e il mestiere gli consentono di portare a casa una prestazione di tutto rilevo.

Un’ultima nota sui Proms. Saranno pure una kermesse vacanziera, ma a confronto di certi desolanti panorami nostrani sono davvero su di un altro pianeta. Meno male che c’è la tecnologia radio-webbica che ci permette di goderceli, sia pure a distanza.
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21 agosto, 2009

Riccardo Muti, re di Roma (?!)

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Tale Francesco Muti (i refusi tipografici – penultima riga dell’articolo - fanno davvero ridere!) sta per diventare il nuovo Direttore Musicale dell’Opera di Roma.

Al di là di ogni possibile – e probabile – contestazione e sberleffo campanilistico-antiterronistico-leghista contro il Riccardone, una cosa è certa: per l’Opera di Roma si tratta del più importante passaggio degli ultimi 40 anni!

Che poi Alemanno si fregi di meriti che risalgono a Veltroni o addirittura a Rutelli, non cambia la sostanza dell’avvenimento.

Quanto ai contenuti artistici, Muti è persona troppo intelligente per riproporre – a Roma – le velleitarie e provincialotte iniziative (vedasi Wagner) che pretese di imporre alla Scala.
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17 agosto, 2009

Che 'l Numero non è Cagione propinqua & intrinseca delle Proportioni musicali, ne meno delle Consonanze; & quali siano le quattro Cagioni...















AVEGNA ch'io habbia detto di sopra, che i Suoni siano la Materia delle Consonanze, & i Numeri & le Proportioni la loro Forma; non si dee per questo credere, che 'l Numero sia la cagione propinqua & intrinseca delle Proportioni musicali, ne meno delle Consonanze; ma si ben la remota & estrinseca; come vederemo. Onde si debbe auertire, ch'essendo il proprio fine del Musico (come uogliono i Filosofi, massimamente Eustratio) il Cantare con modulatione; oueramente il Sonare ogni Istrumento con harmonia, secondo i precetti dati nella Musica; similmente il Giouare & il Dilettare; com'è quello del Poeta; hauendo ei sopra 'l tutto riguardo à cotal cosa; piglia primieramente l'Istrumento, nel quale ritroua le Chorde, che rendono i Suoni, apparecchiate; dopoi per poter conseguire il desiderato fine, introducendo in esse la forma delle Consonanze, riducendole in una certa qualità, & in un certo temperamento, pone tra loro una distanza proportionata, & le tira di modo, che percosse da lui, rendono perfetto concento & ottima harmonia. Et quantunque in questo concorrino quattro cose, come etiandio concorrono in ciascun'altra operatione; cioè, il Fine dell'attione, al quale sempre si hà riguardo; ch'è il Sonare con harmonia; ouero il Giouare & Dilettare; che si dice Cagion finale; lo Agente; cioè, il Musico, che si nomina Cagione efficiente; la Materia, che sono i Suoni mandati fuori dalle chorde; & si chiamano Cagione materiale; & la forma, ò Proportione, che si ritroua nelle distanze da un Suono all'altro; la quale si addimanda Cagione formale; nondimeno queste due ultime sono cagioni intrinseche; & l'Agente & il Fine, estrinseche della cosa: imperoche queste non appartengono ne alla natura, ne all'esser suo; & quelle sono essentiali di essa; conciosia che ogni cosa corruttibile è composta di materia & di forma; & la Materia si dice quella, della quale si fà la cosa, & è permanente in essa; come i Suoni, de i quali si fà la Consonanza; & la Forma è quella specie, ò similitudine, ò uogliamo dire essempio, che la cosa ritiene in se; per la quale è detta tale; com'è la Proportione nella Consonanza; & questa si chiama Cagione intrinseca, à differenza della estrinseca; la quale è (per dir cosi) il Modello, ò uogliamo dire Essempio; alla cui similitudine si fà alcuna cosa; come è quella della Consonanza, ch'è la Proportione di numero à numero. Nondimeno è da auertire, che di queste cagioni, alcune sono dette Prime, & alcune Seconde; & tal ordine di primo & di secondo si può intendere in due modi; primieramente, secondo un certo ordine de numeri, nel quale una cosa è prima & remota, & l'altra seconda & propinqua; Secondariamente si può intender secondo l'ordine compreso dalla ragione in una sola cagione; il quale è posto tra l'Vniuersale & il Particolare; imperoche naturalmente l'Vniuersale è primo, & dopoi il Particolare. Nel primo modo diciamo propriamente quella cagione esser prima, la quale dà uirtù & possanza alla seconda di operare; come si dice nella cagione efficiente, che 'l Sole è prima cagione (remota però) della generatione; l'Animal poi è cagione seconda & propinqua di tal generatione; percioche egli dà all'Animale la uirtù & la possanza di generare. Ma nel secondo, il Genere è il primo, & la Specie il secondo; la onde dico, che la prima & uniuersal cagione della Sanità è l'Artefice; & la seconda & particolare è il Medico, ouer il tal medico. E' ben uero, che la prima & la seconda cagione del Primo modo sono differenti dalla prima & dalla seconda del Secondo; percioche nel secondo modo non si distinguono in effetto l'una dall'altra; ne la più uniuersale, dalla meno uniuersale; ne questa della singolare; ma sono distinte solamente nell'intelletto: Ma nel primo modo sono distinte; conciosia che l'una è contenuta dall'altra; & non per il contrario. Et questi due modi (massimamente in quanto al Secondo) si ritrouano in tutti i Generi delle cagioni; percioche nella materiale il Metallo è prima cagione del coltello, & il Ferro la seconda, come nella formale (uenendo ad uno accommodato essempio secondo 'l nostro proposito) la prima cagione della consonanza Diapason è il numero 2 & 1. & la Seconda è la proportione Dupla; & cosi dell'altre per ordine. La Proportione adunque è la cagione formale, intrinseca & propinqua delle Consonanze, & il Numero è la cagione uniuersale, estrinseca & remota; & è come il modello della Proportione, per la quale si hanno da regolare & proportionare i Corpi sonori, accioche rendino formalmente le Consonanze. Et questo accennò il Filosofo, mentre dichiarando quel che fusse la Consonanza, disse, che è Ragione de numeri nell'acuto & nel graue; intendendo della Ragione, secondo la quale si uengono à regolare i detti Corpi sonori. La onde non disse, che fusse Numero assolutamente; ma Ragion de numeri; il che si può vedere più espressamente nelle Proportioni musicali, comprese ne i nominati corpi; imperoche non si ritroua in esse alcuna specie, ò forma di numero; conciosia che se noi pigliamo i loro estremi, misurandoli per il numero dopoi ch'è fatta cotal misura, tai corpi restano nella loro prima integrità & continuati, come erano prima; ne si ritroua formalmente in essi Numero alcuno, il quale costituisca alcuna proportione, ma si ben la Ragione del Numero. Percioche se ben noi prendiamo alcuna parte d'una chorda in luogo d'Vnità, & per replicatione di quella venimo à saper la quantità di essa & la sua proportione, secondo i numeri determinati, & per conseguente la proportione de i Suoni prodotti dalle chorde; come dal Tutto & dalle Parti; non potiamo però dire, se non che tali Numeri siano quel Modello & quella Forma de i Suoni, che sono cagione essemplare & misura estrinseca di essi Corpi sonori, che contengono le Proportioni musicali; lequali senza 'l suo aiuto difficilmente si potrebbono ri trouar nelle Quantità continue. La onde il numero è sola cagione di far conoscere & ritrouare arteficiosamente le Proportioni delle consonanze & di qual si uoglia Interuallo musicale; onde è necessario molto nella Musica, in quanto che per esso più espeditamente si uà speculando le differenze de i Suoni, secondo il graue & l'acuto, & le loro passioni; & con piu certezza di quello, che si farebbe misurando co i Compassi, ouero altre misure i Corpi sonori; hauendo prima conosciuto con l'esperienza manifesta, come si misurino secondo la loro lunghezza con proportione, & percossi insieme muouino l'Vdito secondo il graue & l'acuto; ma altramente di quello, che si considerano ne i Numeri puri secondo la ragione. Il perche dirò, per concludere, che si come il Numero non può essere à modo alcuno la cagione intrinseca & propinqua de tali Proportioni; cosi non potrà esser la cagione intrinseca & propinqua delle Consonanze; come hò dichiarato.

ISTITVTIONI HARMONICHE DEL REV. M. GIOSEFFO ZARLINO DA CHIOGGIA,

Maestro di Capella della Serenissima Signoria DI VENETIA. Prima Parte. Capitolo 41. (MDLVIII)
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13 agosto, 2009

Zelmira al ROF: si potrebbe fare meglio?

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Nella regìa, senza dubbio. Giorgio Barberio Corsetti applica (ma sarebbe meglio dire: scimmiotta) canoni, metodi e procedimenti da Regietheater: roba che non desta più né scandalo, né sorpresa, avendo fatto ormai il suo tempo.

Siccome a noi, gente scafata del terzo millennio, una storia improbabile ambientata in tempi mitologici (e su un libretto che definire farraginoso è fargli un complimento) farebbe solo ridere (a proposito, si potrebbero ricavarci delle farse, tipo I due caporali di Lesbo o anche Totò, Saffo e i Polli d’oro) allora si porta il tutto ai giorni nostri, così che, invece di ridere, potremo piangere, coerentemente col genere di opera che Zelmira è, un dramma per musica. Guerrieri greci bardati con corazze ed elmi colla cresta? Ancelle agghindate con peplo e calzari allacciati sul polpaccio? Dico, scherziamo? No no, qui abbiamo il generalissimo Antenore e il suo feldmaresciallo Leucippo che guidano un commando di teste di cuoio armate di mitra e granate per impossessarsi dell’isola. I locali lesbici, fedeli di Ilo, sembrano degli incondicionales castristi, che alla fine abbatteranno il dittatore Batista (peccato che a Florez non mettano una bella barbona posticcia…) Quanto alle ancelle, oggi si chiamano badanti. Devono essere arrivate ieri sera in pullmann direttamente dall’Ukraina e dalla Moldova, ancora infagottate nei loro soprabitoni e copricapo da comunismo reale. Evvai! Così sì che ci sentiamo a casa nostra!

Poi: il ROF, causa tagli al FUS, ha dovuto fare il PAC (Piano Abbattimento Costi). Ha quindi acquistato un enorme specchio flessibile i cui costi si devono spalmare su tutte tre le opere in cartellone. Qui in Zelmira sale e scende per… chiedere a Barberio Corsetti, che dicono abbia una spiegazione pausibile, ma che si ostina a non rivelarla ad alcuno.

Per il resto, scene spoglie, con statuone di finte Venere di Milo che salgono e scendono, un drappo dorato con la scritta ψεῦδος (pseudòs, menzogna) che rovina a terra (la scritta) all’approssimarsi della fine della dittatura basata, appunto, sull’inganno, e immagini, riflesse dallo specchione, che ci dovrebbero dir qualcosa, ma in realtà servono solo a sviare l’attenzione dello spettatore (che si lambicca il cervello) dalla straordinaria musica del nostro Gioachino.

Sì, quanto a regìa si potrebbe fare – facilmente e ancor più a buon mercato - assai meglio.

Ma veniamo adesso al sodo.

JDF for president! Non avendo avuto il piacere di sentire un tale David (ero troppo piccolo ai tempi…) mi basta ed avanza ciò che mi regala il peruviano. Scarso nel recitare? Maybe, ma fra un Laurence Olivier che stonacchia e un manico di scopa che canta come JDF, non ho dubbio alcuno su chi scegliere! La sua è una vocina leggera? Appunto, perfetta per Ilo che, a dispetto del mestiere che fa (basta leggere attentamente i versi che gli sono riservati) è poco più che un ragazzo, ingenuo, innocente e dall’animo nobile e gentile. Sulla (in)fedeltà di JDF alla lettera della partitura rossiniana si può dir tutto, ma una cosa è certa: vivesse oggi, Rossini rifarebbe ciò che fece millanta volte quasi 200 anni fa: rimaneggiare la parte di un personaggio per adattarla alle qualità (evitandone accuratamente i limiti) dell’interprete di turno. Ergo, tutto a posto e… avercene! Al termine della sua aria-madre (Terra amica) il nostro viene gratificato da tre minuti netti di ovazioni e applausi, peraltro contrappuntate da una serie di stentorei buuh gridati da un unico spettatore, evidentemente il solo, fra i 1200 presenti, ad aver avuto la fortuna di ascoltare dal vivo il Rubini, o forse persino il David!

Gregory Kunde mi è parso addirittura migliore rispetto alla prima (udita per radio). È stato un Antenore di grandissima efficacia, nel portamento e soprattutto nel canto. Anche qui, si faccia avanti chi è sicuro di saper far di meglio. Alla fine della Scena VII, un’ovazione anche per lui, diciamo di un minuto, e qui il buatore solitario di poco prima è rimasto in silenzio (chissà, forse si era perso il Nozzari, ai tempi).

Kate Aldrich era stata oggetto, prima e dopo la prima, di critiche molto severe, che ne hanno contestato addirittura la scelta da parte della direzione del ROF. A me non era del tutto dispiaciuta neanche domenica, a dir la verità. Bene, ieri è stata però un’autentica sorpresa e confermo quindi il mio giudizio positivo, anche se non le canterò un peana. La parte non è tecnicamente impossibile, vero, ma la Aldrich è stata efficace – anche scenicamente – e mai in difficoltà. Dopo l’aria della Pasta anche per lei ovazioni a scena aperta, direi meritate. Sul perché sia stata preferita ad altre, non entro nel merito. Rilevo solo come sia facile sostenere che – là fuori – ci sono sempre dozzine di cantanti migliori: una considerazione di quelle che non costano nulla e vanno bene per qualunque circostanza.

Conferma ultra-positiva per Marianna Pizzolato, applauditissima alla fine. Che la sua voce sia adatta anche a interpretare il ruolo di Zelmira, è probabilmente vero, data la sostanziale somiglianza di tessitura dei due ruoli (non è difficile immaginare perché Rossini, in origine, avesse lasciato Emma in ombra, ampliandone solo successivamente il ruolo musicale, evidentemente per non disturbare la Colbran). Il duettino con Zelmira – più arpa e cor anglais - è stato la perla in un’interpretazione degnissima.

Eccellente il Leucippo di Mirco Palazzi: voce potente (l’unica a non perdersi sotto le bordate del poderoso coro nel finale primo) dizione precisa e portamento sicuro.

Alex Esposito è stato per me un ottimo Polidoro, nella sua cavatina come nei concertati, dove la sua voce è sempre passata alla grande.

Dignitosi gli altri due interpreti: Francisco Brito e Sàvio Sperandio.

Bravissimi, compatti e sicuri i coristi di Paolo Vero, a volte fin troppo invadenti nei confronti dei solisti.

Veniamo ora al Kapellmeister. Roberto Abbado ha diretto con apparente distacco, forse con tempi a volte blandi (adeguandosi involontariamente alla debolezza del dramma?) ma complessivamente la sua mi è parsa una direzione efficace, rispettosa dei cantanti, mai coperti dall’ottima orchestra del teatro bolognese. Non ho ieri notato neanche quelle piccole sfasature percepite domenica fra buca a banda in scena. Quindi: voto ampiamente positivo.

Alla fine gran trionfo per tutti, una decina di minuti di applausi e ovazioni.

Per finire, torniamo alla domanda: si potrebbe chiedere e fare di meglio? Se sì, allora perché mai non si trova nessuno – al di fuori del ROF – che ci si provi? Non vorrei proprio (parliamoci chiaro) che l’unica seria alternativa sia prendere Zelmira, seppellirla in una cripta, a futura memoria, assieme ad altri cimeli e reliquie della storia delle umane arti, metterci una grossa pietra sopra, e non pensarci più…
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PS: due parole – per ciò che possono contare – sulle altre opere in cartellone al ROF-09 (La Scala di Seta e Le Comte Ory) udite via etere. Francamente due delusioni. Forse scarsa cura nella preparazione? E/o interpreti mandati troppo precocemente allo sbaraglio?
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10 agosto, 2009

Zelmira al ROF (in radio)

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In attesa di sentire e vedere dal vivo, qualche impressione sulla prima del ROF, ascoltata ieri sera su Radio3 (presentazione, cronaca e interviste di Giovanni Vitali).

Prima però bisogna inquadrare quest’opera all’interno della produzione rossiniana. A differenza delle (precedenti e successive) opere buffe, la Zelmira è – lo dice il sottotitolo – un dramma per musica, genere che trova le sue remote origini nel ‘500 e che avrà il suo più grandioso e definitivo sviluppo nei drammi di Wagner. E se le definizioni hanno un senso, bisogna pur riconoscere che non dovremmo essere qui di fronte ad un libretto che è puro e magari insulso supporto per i gorgheggi dei cantanti, ma ad un impianto drammatico che dovrebbe avere un suo autonomo spessore, per supportare il recitar cantando, che è alla base di questo genere di teatro musicale. Certo, i tempi del Rossini napoletano non erano più quelli di Monteverdi - meno ancora di Cavalli - e la supremazia dei cantanti (per le specifiche caratteristiche dei quali venivano scritte le opere, Zelmira inclusa) si faceva sentire comunque, comportando – anche per l’opera seria – abbondanza di parti virtuosistiche o di altissimo impegno (più di due ottave di forchetta dell’estensione) e corredo di abbellimenti, ghirigori, trilli, gruppetti e quant’altro.

Ma in Zelmira, ahinoi, l’impianto del dramma è assai contorto, sconnesso e… poco drammatico! E per di più dà per scontata la conoscenza di retroscena e fatti accaduti prima di ciò che si vede in teatro. Ecco, appunto, se Zelmira fosse stata oggetto di attenzione da parte di Wagner, come minimo avrebbe avuto, in testa, un Prologo con qualche norna/parca/sibilla a raccontarci l’antefatto – l’assalto di Azorre, il tranello di Zelmira, l’uccisione dell’invasore, la presa del potere di Antenore in combutta con Leucippo, et cetera, in modo da rendere più chiari a tutti noi i retroscena che spiegano ciò che si vede e sente nel primo atto. In carenza di ciò tutto il peso dell’opera grava esclusivamente sulla musica (e quindi sulle spalle di Rossini) e lo spettatore è fatalmente portato a disinteressarsi del (peraltro debole) dramma per concentrarsi sulle arie e sulle imprese di tecnica canora da guinnes dei primati dei vari interpreti.

Va però sottolineato come Rossini abbia da parte sua fatto il meglio per conferire a Zelmira i tratti di opera seria: introduzione quasi wagneriana, niente recitativi secchi ma sempre musica e declamato, un continuo musicale in cui sono incastonate le arie assegnate ai vari personaggi.

Ebbene, ieri sera gli interpreti – pare a me, ma i numerosi applausi a scena aperta del pubblico lo confermano – hanno risposto alla grande.

Juan Diego Florez ha superato di slancio tutte le difficoltà della parte improba, a partire dai RE e DO acuti, eseguiti con grande naturalezza e chiarezza. Ma anche Gregory Kunde non è stato da meno, pur con qualche difficoltà negli acuti. I due tenori – nella diversità della tessitura e del timbro - hanno assai bene interpretato la natura dei rispettivi personaggi (Ilo e Antenore).

Bene la Kate Aldrich, nella parte di Zelmira, effettivamente più da mezzo che da soprano. E con lei benissimo Marianna Pizzolato, una Emma assai efficace.

Più che dignitosi tutti gli altri, a partire da Alex Esposito (Polidoro).

Roberto Abbado ha condotto i bravi bolognesi col giusto piglio. Impeccabile il coro di Paolo Vero (in particolare i Sacerdoti!)

Buuh a josa per la regìa: prevedibili, da quanto descrittoci sul konzept dallo stesso Giorgio Barberio Corsetti (ma sarà meglio giudicare dopo aver visto di persona…)
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08 agosto, 2009

L’ultima Turandot dell’Arena-09

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Anticipando di giustezza l’arrivo di nuvole minacciose, che oggi non promettono nulla di buono (l’Aida di stasera la vedo assai a rischio…) Turandot ha chiuso ieri il suo ciclo di rappresentazioni all’Arena 2009.

Non entravo là dentro da almeno 35 anni (un Nabucco, l’ultima volta, se la memoria non tradisce) e devo dire che – fatta tutta la tara possibile sulle rappresentazioni en plein air – anche solo lo spettacolo offerto dal luogo e dal pubblico è sempre impressionante.

Meglio ancora poi, se anche la performance è di buon livello, come mi pare sia stata questa, giudicata nel suo complesso.

Intanto l’allestimento dei levantini Alexandrov&Okunev, del 2003, conferma la sua grande efficacia e soprattutto la sostanziale fedeltà a lettera e spirito della partitura. Grandiosità e sfarzo – amplificati dalle dimensioni smisurate della scena, che disperdono un poco l’attenzione - non distolgono però più di tanto la concentrazione dello spettatore sui personaggi in scena, anzi (e qui è merito degli interpreti e del concertatore) dentro ai personaggi medesimi.

Ma il colpo grosso in fatto di ambientazione lo fa il programmatore del calendario arenile. Alle 22:15 (per la verità con un 40 minuti di ritardo sui tempi scenici, ma siamo disposti a perdonarla) sull’Arena, proprio in faccia al pubblico, pochi gradi ad ovest della gigantesca sfera che è il simbolo di questa edizione di Turandot, sorge la Luna! Piena! Quasi da brivido…

Qualche fugace annotazione critica su regìa, scene e costumi.

Il Principe di Persia e Calaf che si incrociano, proprio mentre il primo va al supplizio, e si scambiano un cinque, mi è parsa una trovata un poco gratuita e banalizzante: che il morituro e il futuro vincitore si potessero conoscere per via delle comuni prerogative reali è possibile, ma neanche Gozzi, che io sappia, lo aveva prospettato.

La Turandot che compare nel primo atto non è la principessa, muta ma in carne ed ossa, ma una specie di altissimo spaventapasseri alato e dotato, in luogo della testa, di un occhio di bue da almeno 2000W, che abbacina anche il pubblico, oltre che il povero Calaf. Mah… Colpa mia forse, ma mi è sfuggito come l’automa abbia poi espresso visivamente il suo definitivo e sprezzante pollice verso nei confronti del persiano.

Ping, Pang e Pong sono assai bene caratterizzati: tre figure enormi, con bonze evidenti e portamento da dignitari un poco complessati, come vuole il libretto. Se si può qui fare un appunto, non traspare dal loro abbigliamento e dalle loro movenze quale sia il rispettivo incarico a corte: cioè chi sia il contabile, chi il cuoco e chi l’approvvigionatore. Importante? Se no, allora perchè la puntigliosa indicazione di Simoni?

Calaf non si limita ai tre canonici e fatidici colpi, ma continua a colpire il gong come un ossesso, in sincrono con le poderose bordate della grancassa, fino alla fine dell’atto: effetto plateale, ma anche qui siamo un po’ al Kitsch, effettivamente.

L’imperatore appare dentro la sfera che si schiude, su uno sfondo di oro sfavillante: un effetto notevole e appropriato, solo che la posizione è piuttosto bassa (da terra) e ciò non solo contrasta con le indicazioni del libretto, ma finisce per far annegare la figura del figlio del cielo, oltretutto coperto per parte del tempo dai piumaggi agitati da paggi e cortigiani che gli si pongono ai fianchi.

Nella scena degli enigmi: il finale è perfetto, con Turandot che incombe su Calaf, quasi a soffocarlo: ma prima c’è forse troppo movimento, con la principessa che scende anzitempo la scaletta (del drago che la trasporta) e si aggira sulla scena e Calaf che sale lui sulla scala da cui è scesa Turandot. Qui si perde forse un po’ di drammaticità.

Turandot: ad un naïf, come me, dovendo visivamente rappresentare i progressivi mutamenti della principessa - da glaciale ad infuocata – verrebbe di vestirla di bianco-argenteo all’inizio (il libretto parla di tutta una cosa d’oro, per la verità) e poi, tolti i veli, scoprire un rosso sempre più ampio e vivo. Ma forse ciò sarebbe troppo banale. In Arena vediamo invece Turandot comparire in tenuta rosso-sangue e poi, alla fine, restare in bianco-argenteo (?!)

Liù muore, il suo cadavere viene sollevato, Timur si avvicina… tutto ok. Poi però vediamo un secondo feretro accodarsi al primo e con lui allontanarsi, mentre, al lato opposto della scena, Liù torna viva e vegeta e sorregge Timur portandolo via con sé. Qui c’è francamente un pizzico di Regietheater e, come sempre in questi casi, qualcuno dovrebbe spiegare…

Ed ora gli interpreti.

Fiorenza Cedolins è una Liù davvero protagonista… persino da morta, come si è visto. Ed anche da morta si merita dei bravo a scena aperta. Grande interpretazione e ottimo livello del canto, direi la mattatrice della serata.

Francesco Hong conferma le sue buone doti di canto ma anche di presenza scenica, a dispetto della statura e della rotondità delle fattezze. Al termine del suo stentoreo (e francamente non disprezzabile) vincerò riceve un’ovazione, che dico, un tumulto di folla di ben 150” (provate a contare fino a 150, neanche al Lucianone…) Il tavolato del parterre dell’Arena fatica a reggere sotto i colpi di 3.000 tacchi che lo percuotono freneticamente. Roba da far impallidire il MET e il suo pubblico dei matinée del sabato, che al confronto è più gelido di Turandot.

Cristina Piperno è una Turandot a corrente alternata. Buona nella parte alta (con qualche urlatina, peraltro) ma insufficiente, per di più in ambiente outdoor, nell’ottava bassa, quasi inudibile. Ma non per questo non si merita la mia sufficienza (inutile qui rimpiangere Gina Cigna, per dire).

Filippo Bettoschi, Enzo Peroni e Stefano Pisani sono i tre dignitari: cantano assai bene le loro parti e le interpretano scenicamente ancor meglio. Bravi tutti!

Marco Spotti è un efficacissimo e potente (nella voce) Timur. Anche per lui un meritatissimo trionfo.

Angelo Casertano, da gran veterano dei palcoscenici, se la cava da par suo in Altoum, una parte circoscritta, ma essenziale nell’impianto pucciniano.

Angelo Nardinocchi ha un compito limitato, ma non agevole (apertura di opera, tanto per dire) nei panni del Mandarino e direi che merita un ampio riconoscimento.

Francesco Napoletano fa il suo onesto dovere come il povero Principe di Persia, che invoca ancora Turandot, mentre lo portano via per mozzargli la testa.

Un bravo incondizionato ai cori di Marco Faelli, sempre precisi e taglienti, a volte addirittura troppo invadenti, a coprire le voci dei protagonisti. Un bravi anche al corpo di ballo di Maria G. Garofoli.

Daniel Oren, che salta e grugnisce proprio come negli anni ’70, quando arrivò in Italia (ricordo come fosse ieri una sua Prima di Mahler al Conservatorio, letteralmente sfregiata dalle sue escandescenze) ha per questa (ma non solo) opera una particolare predilezione. Al di là dei balzelloni e di qualche rantolo, ha diretto con grande equilibrio; meritevole il suo smorzamento del suono dei corni, nell’assurda, innaturale, alfaniana fanfara che porta al quadro finale. Un trionfo anche per lui e per i professori.

In definitiva, una bella serata di musica, in uno scenario incantevole e sempre emozionante (bisognerà che non lo trascuri come ho fatto in passato).

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PS. Per chi vuol approfondire, da tutti i punti di vista, il fenomeno Turandot, consiglio tre fulminanti analisi di Anselm Gerhard, Emanuele d’Angelo e del prof. Michele Girardi, apparse nel programma di sala della Fenice per la stagione 2007.
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06 agosto, 2009

Abbado a Milano: sul programma può ancora cambiare idea…

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Lo scorso aprile ci fu grande fermento per l’annunciato ritorno di Claudio Abbado alla Scala. Il maestro, in cambio di soli 90.000,00 (in lettere: novantamila/00) alberelli da piantare a Milano, aveva deciso di tornare in Scala per eseguirvi Mahler e per la precisione l’Ottava, l’unica sinfonia del compositore boemo da lui mai diretta nel teatro milanese.

È di pochi giorni fa un quasi clamoroso ripensamento: Abbado non farà l’Ottava – che però il sito web del Teatro continua imperterrito a proporre, ma la Seconda, che fu la prima sinfonia mahleriana diretta da Abbado alla Scala nel remoto 1963.

Le ragioni addotte da Abbado e amplificate da Lissner sono diverse e tutte valide e inconsistenti allo stesso tempo.

Datosi che manca ancora parecchio per arrivare a giugno 2010, esiste un’ulteriore possibilità di ripensamento: Abbado potrebbe dirigere la Terza, che è pur sempre un mattone come le altre due, con tanto di solisti e cori. Una buona ragione cabalistica esisterebbe anche per questa scelta: fu la sinfonia con cui il Maestro inaugurò la Filarmonica della Scala nel 1982.
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05 agosto, 2009

Musica all’aperto: aspettando Turandot all’Arena

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In questi giorni il sito web da me più visitato è quello delle previsioni meteo: per venerdi 7 (sera-notte) a Verona. Ho un paio di biglietti di poltronissimagold per Turandot – costoso, e per questo ancor più apprezzato, omaggio di colleghi di lavoro – e davvero non vorrei che l’incontinenza di giovepluvio mandasse tutto a monte!

Trattandosi dell’Arena e non di un normale teatro al chiuso, viene spontaneo far mente locale alle particolari modalità di fruizione di un’opera in un simile ambiente. E così, bighellonando in rete, mi sono imbattuto in alcuni post relativi all’usanza - che sta prendendo piede grazie ai blackberry, smartphone, iPhone e simili, e ai servizi di Twitter (che permette di inviare messaggini sotto i 140 caratteri via web) – di scambiarsi impressioni, notizie, pareri, sensazioni in tempo reale, proprio mentre si assiste ad un’opera o ad un concerto. Addirittura ci sono iniziative di istituzioni musicali che inviano messaggi informativi - alla parte di pubblico dotata delle citate diavolerìe tecnologiche - durante la rappresentazione: un’estensione esponenziale della pratica, ormai invalsa quasi ovunque, di sottotitolare gli spettacoli, su un grande schermo posto sopra la scena, o su piccoli schermi incastonati in ogni poltrona del teatro. Che è diverso dall’aggiungere immagini o anche accessori spettacolari ad una performance.

C’è un blog che fa del sarcasmo su questa moda dilagante, affibbiandole un nome assai appropriato: Twitter Art Channel (TACi); qui riporta alcuni messaggini arrivati da Twitter proprio durante una rappresentazione di Turandot, il luglio scorso al MET: roba da matti, non si sa se ridere o piangere! Ma sappiamo che il pubblico dell’opera e dei concerti è tutto tranne che formato da esperti e conoscitori di ciò che viene rappresentato o suonato. Per loro, in fin dei conti, è un modo per cercare di capirci qualcosa senza - pensano loro - disturbare più di tanto (ma comunque non poco) il resto del pubblico. Poi: come si faccia a seguire un’opera o una sinfonia mentre si scrivono domande o si leggono risposte, sta a loro spiegarlo… informarsi prima – o dopo – è troppa fatica, si sa.

Da parte mia, giurando qui di non fare uso – in teatro di sicuro… - di alcun tipo di allucinogeno tecnologico, mi auguro soltanto, oltre al supporto dell’anticiclone, di non trovarmi accanto qualche esemplare di spettatore cibernetico: credo che accenderei il telefonino per chiamare il 118…
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04 agosto, 2009

Seattle meglio di Bayreuth?

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Dal prossimo 9 al 30 agosto l’Opera di Seattle mette in scena una specie di Festival di Bayreuth della WestCoast: tre cicli completi del Ring, una produzione propria risalente al 2001 e già riproposta nel 2005.

Fondata in tempi relativamente recenti (1963) l’Opera di Seattle inscenò il suo primo Ring già nell’estate del 1975 (quell’anno, lì nei paraggi, un ragazzino fondava la Microsoft!) e per nove estati consecutive: un record per gli USA, se si esclude il MET di NewYork. In seguito ha prodotto altre due edizioni del Ring, otre ad altre opere di Wagner e non solo.

La caratteristica saliente della produzione che viene riproposta quest’anno consiste nel rispetto più rigoroso della lettera (oltre che dello spirito, si può immaginare) delle partiture wagneriane. Quindi abbiamo le Figlie del Reno che si vedono nuotare nell’acqua, il drago con tanto di coda, corna e pelle squamosa, l’incudine di Mime che si spacca in due sotto il fendente di Nothung, e così via. Tutto l’opposto delle regìe moderne e post moderne (rare volte intelligenti, molto più spesso presuntuose e falsificanti) che vanno di moda proprio a Bayreuth e praticamente ovunque in Europa.

La produzione di Seattle rischia di restare, anche in USA, l’unica concepita su dei sani presupposti. Quest’anno è infatti andato in pensione (meritatamente) lo storico allestimento di Otto Schenk al MET, che farà posto nel 2010 al nuovo di Robert Lepage (siamo curiosi di capire come sarà, anche se già sappiamo che l’uso della tecnologia più avanzata delle immagini è il punto di forza del regista canadese).

Interessanti le guide video alla produzione di questo Ring, esplorabili sul sito della Seattle Opera.
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03 agosto, 2009

Musica alla radio: i PROMS-09

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Sono partiti il 17 luglio e si concluderanno il 12 settembre: quasi due mesi di appuntamenti; un autentico fiume di musica di ogni genere: camera, sinfonica, corale, operistica; con interpreti – direttori, solisti, cantanti, orchestre - tutti di altissimo livello internazionale. Una kermesse impressionante che non ha pari al mondo e dove la quantità non penalizza affatto la qualità.

Per chi non può permettersi di passare lassù 8 settimane e mezza c’è una totale copertura radiofonica della BBC, solo in piccola parte ripresa da Radio3 (che ha doverosamente anche altro da proporre).

Il sito web della programmazione PROMS consente di esplorare lo sterminato programma per date (giorno o settimana) ma anche per autore e per interprete, oltre a presentare guide e note sui programmi. I quali, oltre ad essere irradiati in diretta, vengono via via memorizzati e resi disponibili all’ascolto on-demand (tramite il link Listen-to-this-Prom sulla pagina del giorno interessato) normalmente per i 7 giorni successivi alla performance. Sulla destra della pagina ci sono i due link per l’ascolto delle dirette (click sul link Listen: Radio3) e delle registrazioni (click sul link BBC Proms 2009).

Quest’anno il nostro Gianandrea Noseda (che mi sta particolarmente a cuore, essendo io un suo concittadino) è ospite dei Proms con due concerti, i prossimi 5 e 6 agosto. Mercoledi (anche su Radio3, alle 20:30) con un programma che culmina con la sesta di Mahler. Giovedi (20:30) con l’italiana di Mendelssohn e composizioni di Rossini e Respighi, oltre che di Maxwell-Davies. In entrambi i concerti Noseda dirige la BBC Philharmonic. Prima del concerto di giovedi 6, alle 18:45, si potrà ascoltare un’intervento del Maestro sul programma (“italiano”) della serata.

A proposito di Noseda, gli dedica un articolo anche il Timesonline, che già dal sottotitolo mostra un po’ di spocchia albionica e di disistima non tanto per l’Italia, ma per chi oggi ne è il principale rappresentante politico: Berlusconi. Insomma, Noseda avrebbe il compito di risollevare l’immagine italica che l’attuale nostro PM avrebbe fatto precipitare…

Tornando ai Proms, è da non perdere, sabato 22 agosto (20:30, anche su Radio3), un Fidelio in forma di concerto, diretto da Barenboim con la sua orchestra israelo-palestinese e con Waltraud Meier nella parte di Leonore.

Ma l’offerta è davvero sterminata e nessuno potrà dire di non trovarci qualcosa di interessante.

Buon ascolto!
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02 agosto, 2009

Il Parsifal di Gatti a Bayreuth09

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La definirei proprio un’esecuzione di buon livello, da parte di tutti: cantanti, orchestra e maestro. Credo che il cast di questo Parsifal sia il migliore in senso assoluto del Festival 2009.

Gli unici appunti che si possono muovere (ma sapevamo tutto in partenza) sono la voce troppo tenorile di Detlef Roth (Amfortas), quella a volte un po’ metallica di Mihoko Fujimura (Kundry) e alcune voci troppo urlate delle ragazze-fiore. Christopher Ventris si conferma Parsifal di alto livello, così come Thomas Jesatko nei panni di Klingsor. Gli altri (Titurel e cavalieri) dignitosi alla meta.

Kwangchul Youn ha avuto nel primo atto una clamorosa amnesia, in corrispondenza del passo che inizia con Jenseits im Thale. Ha evidentemente dimenticato le parole e perso totalmente il filo del discorso. Ha ripetuto due-tre volte uno stesso verso, e si è udita distintamente la voce angosciata del suggeritore che cercava di rimetterlo in carreggiata. Cosa che però è avvenuta solo dopo una trentina di misure, verso la chiusa del passo (den fand er nun). Peccato per questa macchia, perché il coreano ha confermato la sua ottima scuola e la buona predisposizione, oltre che la tenuta fisica, necessaria a coprire il ruolo di Gurnemanz. (La cosa è talmente strana, che mi viene persino il dubbio che ci sia di mezzo la tecnologia di streaming, che abbia impacchettato male i bit da trasmettere…)

Daniele Gatti mi è assai piaciuto, ancor più dello scorso anno. Ha ristretto ulteriormente i tempi rispetto alle sue precedenti interpretazioni di Parsifal, pur non mancando di mettere in risalto tutta la solennità e, dove appropriata, la retorica di questa partitura. Spero che le critiche – nemmeno tanto velate – che ebbe in Germania nel 2008 (anche perché tutti gli occhi erano allora puntati sul regista!) vengano adesso ritirate. Se sul podio nell’Orchestergraben può continuare a salire un Peter Schneider qualunque (con tutto il rispetto) allora Gatti dovrebbe dirigere lassù a vita.

Come l’ha presa il pubblico? Alla fine del primo atto (dove a Bayreuth, per Parsifal, si dovrebbe mantenere rispettoso silenzio) si sono subito uditi dei battimani (per gli esecutori, c’è da esserne certi) subito però subissati da clamorosi buuh, che non posso altro che immaginare indirizzati all’allestimento di Herheim, che sarà un’opera d’arte fin che si vuole, ma che - parliamoci chiaro - è tutto fuorchè il Parsifal di Wagner! E di peggio è successo al termine del secondo atto, allorquando si è udito, chiaro, stentoreo, un irriverente pfui! a precedere le ovazioni per gli interpreti. Forse la gente si sta un po’ stufando di allestimenti intellettualoidi e presuntuosi, che fanno colpo (più spesso scandalo) al loro apparire, ma che poi perdono presto di interesse, ma in compenso – per ammortizzarne i costi – vengono propinati per anni a migliaia di spettatori che ne farebbero volentieri a meno. Per gli artisti solo grandi applausi e acclamazioni.

Con questo Parsifal si chiude il ciclo (delle prime) del Festival 2009. Dimenticando le non poche défaillances, tutto sommato valeva la pena di passare 7 pomeriggi-sere all’ascolto: Wagner (per me, almeno) rappresenta sempre una nuova esperienza!
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Il Ring di Bayreuth09 (IV)

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Götterdämmerung

Che dire… Uno scampato pericolo? Poteva andar peggio? Salvata la faccia?

Era cominciata come era finito Siegfried, con i due protagonisti a mostrare l’aspetto peggiore delle loro qualità. Poi, miracolosamente, le cose sono lentamente migliorate e alla fine ne è uscito un Crepuscolo dignitoso, pur nel livello non eccelso che da anni caratterizza il lato C (quello del canto, cioè il più importante!) di Bayreuth.

Christian Franz ha continuato a urlacchiare per tutto il prologo e il primo atto. Nella scena con Gunther, dopo l’assunzione del filtro, addirittura in modo sguaiato, avendo evidentemente travisato del tutto l’effetto della pozione: che non è un superalcolico che fa ubriacare, ma soltanto un anestetico della memoria, lungi dal revocare per l’interprete il dovere di cantare. Poi ha cominciato a migliorare nel secondo atto, e nel terzo ha raggiunto un livello di dignitosa decenza, fino alla nobile esposizione del ricordo di Brünnhilde.

La quale Linda Watson nel prologo e primo atto, per me fu disastrosa: voce chioccia, urlati gli acuti, stonacchiamenti vari, il tutto culminato nel finale della scena con Siegfried(Gunther), dove mi sono segnato un improperio che non riporto per decenza. Poi anche lei, col passare del tempo, sempre meno peggio e diciamo pure benino, nella scena madre del secondo atto e poi, con König e Lukas, in un efficacissimo terzetto della camera di consiglio che decreta la morte di Siegfried. Ma la gradevole sorpresa arriva nel finale, dove Brünnhilde deve prendere in mano la situazione e torreggiare su tutti: qui devo dire che la Watson se l’è cavata più che onorevolmente, legando bene ed evitando urla e emissioni forzate. Il che dimostra che – se vuole e si impegna – può anche essere una buona Brünnhilde.

Brava la Waltraute di Christa Mayer, che ha cantato con grande pathos, e nella scena con Brünnhilde spiccava ancor più a confronto delle manchevolezze della Watson.

Gutrune e Gunther (Edith Haller, che fa anche la 3a Norna e Ralf Lukas, già udito come Donner) mi sono piaciuti abbastanza: voci solide e piene, niente (o pochissimi) urli o sgradevoli vibrati.

Hans-Peter König è un grande Hagen. Devo dire che al Maggio, nell’allestimento Fura-Mehta lo avevo assai apprezzato anche dal punto di vista della presenza scenica.

Anche in una parte ristretta, Andrew Shore ha dato il meglio: un Alberich davvero impeccabile!

Norne e Ondine dignitose, senza infamia nè lode, ad eccezione della citata Haller, che ha avuto però la chance della parte solistica.

E ora Thielemann che, nella generale eccellenza della sua direzione, non riesce ormai più a rinunciare ai suoi effetti speciali, ottenuti scrivendo di suo pugno sulla partitura originale dei segni (generalmente di pausa o rallentamento) che Wagner non si era minimamente sognato di annotare. Alcuni (come il chiaro rallentamento alla prima entrata del tema dell’eroismo di Siegfried, nei 6 corni, nel Prologo o quello in prossimità dell’apertura del primo atto) si possono anche tollerare, perché non guastano poi più di tanto l’atmosfera generale. Ma altri personalmente non li digerisco, e non per un malinteso principio di censura a chiunque si macchi del delitto di lesa maestà verso l’autore, ma perché li ritengo musicalmente dannosi, o addirittura fuorvianti nella comprensione dell’intero Ring. Vediamo.

Nella cosiddetta marcia funebre Thielemann rallenta vistosamente al momento di suonare il terzo inciso (tema della morte) subito prima dell’esposizione della seconda sezione del tema dei Wälsi: una scelta invero arbitraria, chè potrebbe allora applicarsi a molti altri passaggi. Ma peggio accade poco dopo, laddove ricompare il tema dell’eroismo di Siegfried (una variante appesantita del tema di Siegfried giovane) già udito – con carattere appena un po’ meno enfatico - nel Prologo. Orbene, nella seconda sezione, poderosamente esposta da ottoni e fagotti, Thielemann introduce un’arbitraria e per nulla impercettibile pausa dopo il primo quarto (LAb-SOL/FA in corni e trombe) e le due successive terzine (SIb-LAb-SOL / LAb-SOL-FA): un effetto per nulla gradevole all’orecchio e carico di un’enfasi retorica del tutto pleonastica e per me controproducente.

Ma il peggio è la pausa di una semiminima che il nostro si inventa prima delle fatidiche ultime sette misure, cioè in corrispondenza della fine del tema del Crepuscolo e l’inizio del tema cosiddetto della Redenzione. Lì c’è condensata l’essenza dell’intero Ring: un mondo muore, nel rogo del Walhall e nell’esondazione del Reno, e un altro mondo nasce, appunto sperando di redimersi. Wagner, dopo la discesa crepuscolare negli strumentini e prima del tema della redenzione, si limita a non mettere alcun segno di legato con le note precedenti. Ma non scrive né una pausa, né tanto meno una corona puntata, e neanche una piccola virgola di respiro. Evidentemente a significare che fra il vecchio mondo che muore e il nuovo che rinasce speranzoso non c’è soluzione di continuità, come ci conferma l’analisi delle prime 4 delle ultime 7 misure, dove sono condensati tutti i cromosomi del mondo morente. C’è poi un altro riferimento inquietante legato al tema della Redenzione: che era apparso molto prima (Walküre, atto III) in SOL e adesso chiude il Ring in REb. Cioè degradato di un tritono, il fetente diabolus in musica! E non è finita; un rapido censimento dei sopravvissuti al grande amba-aradam ci dice che, a parte l’insignificante Gutrune e la folla anonima dei Ghibicunghi, lì restano a cominciare il nuovo corso: le Figlie del Reno e Alberich! Ecco perché quella pausa è per me filosoficamente inaccettabile, come sarebbe far eseguire testo e musica del 1852 o quelli del 1856.

Quanto all’accoglienza in teatro, è stata assai perplessa – è parso di cogliere – alla fine del primo atto… poi, col progredire della carburazione dei due protagonisti, grande trionfo. Meglio così.
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