intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

31 marzo, 2009

Sulla funzione terapeutica della musica

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Cari - futuri - strumentisti, sappiate che non siete qui per diventare degli intrattenitori, e non dovrete vendervi affatto. La verità è che non avrete alcunchè da vendere; essere musicisti non ha nulla a che fare col dispensare un prodotto, come vendere auto usate... Se fossimo una facoltà di medicina, e voi studenti di chirurgia, prendereste il vostro lavoro assai seriamente, poichè un bel giorno alle 2 del mattino qualcuno potrebbe arrivare al vostro Pronto Soccorso e voi gli dovreste salvare la vita... Miei cari amici, a voi un bel giorno, alle 8 di sera, capiterà invece che qualcuno entri nella sala da concerto e vi porti una mente confusa, un cuore distrutto, un’anima affaticata. Se ne uscirà ricostruito dipenderà, in parte, da quanto bene saprete operare la vostra arte.”

Così Karl Paulnack, pianista di discreta fama e direttore del Dipartimento di Musica del Conservatorio di Boston, in un’allocuzione di benvenuto ai nuovi allievi, corredata da testimonianze invero toccanti.

Indubbiamente una poetica - non certo nuova - risposta a chi reputa la musica colta (e l’arte in generale) essere mero intrattenimento e così giustifica, da un lato, la proposta di metterla in mano al mercato e, dall’altro, in tempi di vacche magre, decide tagli di risorse a ciò che è, secondo tale giudizio, superfluo.

Ma siamo sempre lì: se un malato non si vuol far curare, magari perchè neanche si rende conto di essere malato, a che scopo tenere aperti tutti questi costosi ospedali (leggi: teatri e sale da concerto) col relativo corredo di medici, infermieri e barellieri (leggi: direttori, strumentisti, cantanti e maestranze) solo per curare quattro gatti, che magari sono pure dei malati immaginari?

(forse, caro direttore, l’analogia musica-healthcare è da rivedere...)
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