affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

19 ottobre, 2015

Aida riesumata al… museo egizio

 

Il Regio torinese ha inaugurato la stagione 15-16 con Aida, di cui ieri pomeriggio (a teatro pieno come un uovo) è andata in scena la quinta delle ben 10 rappresentazioni in programma. Come recita la locandina, questo allestimento è idealmente apparentato con la riapertura, avvenuta a fine dello scorso marzo, del Museo Egizio.

Beh, a proposito di musei restaurati, lo è anche l’allestimento di William Friedkin (che conta ormai 10 anni di vita): perchè è proprio di quelli che gli amanti delle regìe intelligenti liquiderebbero con l’epiteto da museo. Quindi, per noi poveri pirla ma amanti dei musei, va a meraviglia! Perchè credo che pochi giudizi siano più azzeccati di questo, che il pluri-oscar-premiato regista americano dà in risposta ad una domanda di Guido Andruetto sul programma di sala, intervista riportata anche da Sistema Musica: “…diversamente da quanto avviene nel cinema, dove il ruolo del regista è sicuramente il più importante, in una produzione operistica la situazione cambia e, seguendo una scala gerarchica, viene prima il compositore, poi il direttore d’orchestra, il maestro del coro, il cast, e infine il regista, lo scenografo, il costumista, il coreografo, il direttore delle luci…” Imprimatur!

Sappiamo che Aida è opera bifronte, o bitematica, quanto a caratteristiche del soggetto: il quale ha un fondo squisitamente introspettivo (aperto e chiuso dal sommesso preludio e dall’accorata preghiera finale) rappresentato dalle pulsioni degli animi dei tre protagonisti, dilaniati da sentimenti opposti e inconciliabili. (Questa ideale congiunzione alfa-omega viene realizzata dal regista mostrandoci, ancora nel Preludio, i due protagonisti uniti, come saranno nella scena conclusiva.) Sul quale sfondo – principalmente nei primi due atti - si innestano e si stagliano, a mo’ di eruzioni vulcaniche, le retoriche manifestazioni politiche, i cori, le danze e le marce trionfali.

Ciò che purtroppo nessuna coppia regista-concertatore riesce a rendere compiutamente è la scena finale dell’atto II, che storicamente ha trasformato Aida in un gran circo equestre (o elefantino). La colpa è di Verdi-Ghislanzoni, ahiloro, che hanno preteso un po’ troppo dal pubblico: distinguere non una, e neanche due o tre, ma ben 7 (in lettere: sette!) diverse manifestazioni di stati d’animo che vi albergano. Cioè quelli delle tre componenti del coro medesimo: sacerdoti (preoccupazione per le sorti dell'Egitto); popolo (giubilo per la vittoria); prigionieri (rispetto per la magnanimità del nemico che ha restituito la libertà). Più quelle dei quattro protagonisti: di Amonasro che già medita la sua vendetta; e dei tre personaggi principali, ciascuno dei quali vive quel momento in modi del tutto diversi: Aida letteralmente disperata, Amneris al settimo cielo e Radamès che si rende conto del vicolo cieco in cui si è cacciato. Qui per fortuna non ci sono quadrupedi, ma resta pur sempre il gran bailamme di voci e strumenti che ti lascia esclusivamente la sensazione del kolossal, e poco altro.
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Un paio d’anni fa Gianandrea Noseda aveva avuto una delle sue (poche) disavventure professionali (leggi: aperte contestazioni) proprio in un’Aida (zeffirelliana) alla Scala. Ero quindi assai curioso di riascoltarlo in quest’opera alla guida dei suoi ragazzi e la registrazione della prima, andata in onda sabato sera su Radio3 (a proposito, dal 24 c.m. e per sei mesi il video sarà disponibile in rete sulla nuova piattaforma europea) mi aveva un filino confortato. Ma bisogna sempre diffidare delle riproduzioni meccaniche, e infatti devo dire che l’ascolto dal vivo non ha definitivamente cancellato quella macchia: direzione e concertazione apprezzabili, sia ben chiaro, ma qualche eccesso di foga è emerso ancora, e non solo nel famigerato finale secondo, ma ad esempio sul culmine del duetto Amonasro-Aida, con le voci pur possenti dei due totalmente coperte dal clangore orchestrale.

Encomiabile la prestazione del coro di Claudio Fenoglio, in tutte le diverse componenti umane e psicologiche che è chiamato ad impersonare.

Reduce dell’Aida scaligera sopra menzionata è Kristin Lewis: non mi era dispiaciuta allora e confermo il giudizio; qui poi è stata accolta da un gran successo, che si merita se non altro per aver migliorato parecchio, in pochi mesi, la sua pronuncia della nostra lingua!

Con lei (altra reduce) Anita Rachvelishvili, della quale non si scopre oggi la dotazione naturale, ma fa piacere avere conferma della sua maturazione artistica, cioè la capacità di espressione delle varietà e sfumature di sentimenti che caratterizzano l’enigmatico personaggio di Amneris. Per lei, un trionfo meritato.

Radames è Marco Berti, non nuovo nella parte, che in passato mi aveva fatto una discreta impressione: personalmente tenderei a confermarla (certo, lui canta tutto forte e le sfumature di espressione gli sono estranee) però i buh insistiti che (unico del cast) ha dovuto incassare alla fine mi son parsi francamente troppo punitivi.  

Un ottimo voto lo darei a Giacomo Prestia, che ha il ruolo di Ramfis ai primi posti del suo curriculum, e direi che si è confermato con una prestazione encomiabile, davvero autorevole (lui è il Richelieu di tutta la vicenda) come il ruolo richiede! Il Re era l’orientale In-Sung Sim, che dovrà migliorare parecchio per raggiungere livelli accettabili. Chi mi ha sorprendentemente deluso è Mark Steven Doss, di cui avevo un ottimo ricordo in diversi ruoli e che invece mi è parso un Amonasro perennemente impiccato e a disagio… peccato. Dino Prola (Messaggero) e Kate Fruchtermann (sacerdotessa) su standard dignitosi.

Comunque sia è stato per me un pomeriggio più che soddisfacente!

17 ottobre, 2015

Il Falstaff di Carsen-Gatti alla Scala


A quasi tre anni di distanza torna alla Scala il Falstaff inscenato da Robert Carsen: ieri sera è andata in onda la seconda rappresentazione, in un Piermarini per la verità lontanissimo dal tutto esaurito.

Sull’impostazione registica di Carsen avevo già espresso più di un dubbio (insieme a doverosi apprezzamenti) ai tempi, e questa ripresa non poteva certo cambiare le carte in tavola: spettacolo godibile, a dispetto delle gratuite ma tutto sommato innocue idee del regista.

Sul fronte dei suoni, la bacchetta è passata dalla mano di Daniel Harding (che aveva ben meritato allora, qui l’audio) a quella di Daniele Gatti: il quale si trova evidentemente a suo agio con questo Verdi che, proprio mentre fa una specie di summa di tutta la musica dal barocco ai suoi tempi, sembra guardare verso il novecento, di cui il maestro milanese è indiscusso epigono. Così ne risulta una lettura molto analitica, rigorosa al limite della freddezza, spigolosa quanto mai, ma di grande impatto. L’Orchestra, disposta da Gatti in modo inusuale (legni e corni all’estrema sinistra) risponde bene in tutte le sezioni al gesto secco e preciso del Direttore.

Del (primo) cast del 2013 sono sopravvissuti 4 dei 10 personaggi: il Ford di Massimo Cavalletti, che in questo frattempo mi è sembrato… cresciuto, insomma una prestazione più che discreta. Poi encomiabile anche Carlo Bosi, un Dr.Cajus ancora molto efficace. Note meno liete dal Fenton di Francesco Demuro, che in questi due anni non mi pare abbia affinato le sue qualità. Idem dicasi per Laura Polverelli (Meg Page) che fatica a farsi udire nei larghi spazi del Piermarini.

I nuovi erano capitanati da Nicola Alaimo, lungamente acclamato alla fine, che direi essersi meritato ampiamente il successo, esibendo gran voce (qualche schiamazzo lo si perdona a tutti) unita ad efficacia interpretativa.       

Personalmente deluso da Eva Mei (Alice): acuti quasi sempre urlati e centri-bassi inudibili. Decisamente meglio la Nannetta di Eva Liebau, e ancor più la Quickly di Marie-Nicole Lemieux, che non ha fatto rimpiangere la Barcellona di allora.

Senza infamia e senza voto i due buzzurri Bardolfo e Pistola (al secolo Patrizio Saudelli e Giovanni Parodi).

Alla sua altezza il coro di Casoni (solo la fuga conclusiva gli vale l’ottimo). Successo calorosissimo e ripetute chiamate ed applausi per tutti indistintamente, con punte per Alaimo e la Lemieux.

16 ottobre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 55


Eiji Oue fa il suo ritorno in Auditorium dopo quasi due anni (da un’ignominiosa Sesta di Mahler!) per dirigere Mozart e Shostakovich (più il prezzemolo Campogrande, stavolta austriaco).

Oue inizia proprio da spavento, dimenandosi sul podio con gesti da… pavone, o da clown, fate voi: Campogrande e Mozart ne sono vittime; poi per fortuna si placa e in Shostakovich ridiventa un direttore quasi normale.

Torna anche una vecchia conoscenza de laVERDI, Natasha Korsakova, che stavolta ci offre il Terzo Concerto del Teofilo. Denominato Straßburg, dal tema dell’Allegretto che compare nel Rondeau finale, che riproduce quasi alla lettera quello di una danza molto popolare a Vienna, si dice opera di tale Georg von Reutter, Maestro di Cappella di Corte ed infatti chiamata La Strasbourgeoise de Reuter.

La bellissima Natasha – in un lungo immacolato, come già nell’ultima sua apparizione qui nel 2013, si lancia nel veemente Allegro iniziale con grande foga, sciorinando una bellissima cadenza; per poi placarsi nel cullante Adagio (del cui incipit si ricorderà Ciajkovski, grande ammiratore di Mozart, nella chiusa dell’Andante della sua Quinta). Poi affronta con delicatezza e sobrietà il Rondeau, che si chiude proprio alla chetichella… 
                                                                               
Successo pieno ricambiato con due celeberrimi bis bachiani: la ciaccona in RE minore (debitamente accorciata, per non far notte) e la giga in MI maggiore.
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Eccoci quindi alla sterminata Leningrado di Shostakovich, udita qui quasi 3 anni fa con Caetani.

Sinfonia a programma, verrebbe da definirla, o meglio: una sinfonia nella quale fa irruzione la guerra. Che si materializza col sostituire al canonico sviluppo dei due gruppi tematici dell’Allegretto iniziale quel gigantesco quanto volgare episodio di marcia, un tema (mutuato da Lehàr, di cui Bartók si fece beffe nel suo Concerto per orchestra) reiterato in non meno di 11 varianti e chiuso da una colossale coda. Ma in un certo senso è comprensibile che anche un’austera Sinfonia debba prendere atto che… la guerra non è un pranzo di gala!   

Oue non si smentisce e stiracchia i tempi a suo piacimento, però la cosa passa quasi inosservata, al cospetto della sontuosa prestazione dei ragazzi, che in questo repertorio hanno pochi rivali. E allora un Auditorium piacevolmente affollato si spella le mani per i suoi beniamini, così anche il giallo ne approfitta per godersi gli applausi, convinto di averli meritati (stra-smile!)

10 ottobre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 54


Stanislav Kochanovsky arriva sul podio de laVERDI per un appuntamento tutto russo (sempre Campogrande a parte, che stavolta se la prende con i crucchi). Auditorium abbastanza affollato, dopo un paio di turni fiacchi.     

L’abusivamente cosiddetta Polacca di Ciajkovski, classica sinfonia da chiusura di concerto, stavolta è incaricata invece di aprirne la parte canonica, tornando qui in Auditorium dopo quattro anni (allora sotto la bacchetta di Xian).

Il giovane Kochanovsky mostra di possedere già una notevole sicurezza e padronanza dei propri mezzi, dirigendo con gesto sobrio ma preciso ed efficace. La sua lettura della sinfonia è proprio nel segno della tradizione russa, senza facili forzature, specie nei movimenti esterni, dove il pericolo di cadere in eccessiva enfasi è sempre presente.
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Dopo l’intervallo la bella 30enne nizzarda Solenne Païdassi si cimenta con Stravinski e il suo Concerto in RE del 1931. Che è in realtà quasi una sinfonia concertante del violino con gli altri strumenti dell'orchestra.

Il solista è subito impegnato, nell’iniziale Toccata, da un problematico accordo di 11ma (MI-LA) sul RE basso:

Pare che Samuel Dushkin, che aiutò Stravinsky a districarsi con la parte di violino e fu il primo interprete del concerto, avesse in un primo tempo considerato ineseguibile quell’accordo, che Stravinski gli aveva proposto scrivendolo su un pezzo di carta fra una portata e l’altra in un ristorante di Parigi. Tornato a casa, il celebre violinista si rese conto che la cosa era non solo fattibile, ma addirittura quasi facile, e così quell’accordo verrà poi ripetuto all'inizio di tutti i movimenti!

Seguono ben due Arie: la prima più mossa, con frequenti contrappunti in pizzicato degli archi bassi. La seconda più elegiaca, con sommesso accompagnamento quasi esclusivamente limitato ai soli archi e con il motto dell'accordo iniziale che torna un paio di volte a separare le sezioni del brano. Nel Capriccio finale, dopo corno e fagotto, il nostro fa intervenire - a duettare con il solista - anche la spalla dell’Orchestra (nella fattispecie: Luca Santaniello) proprio come nel Concerto per due violini del sommo Johann Sebastian. Insomma, si sarà capito che lo Stravinski del 1930 si era assai… imborghesito, rispetto a quello di 20 anni prima (il Sacre, avete presente?)

La Solenne (ma guarda che razza di nome si deve ritrovare una ragazza all’acqua-e-sapone, nemmeno facesse Messa di cognome, strasmile!) dimostra tutta la sua classe, con un’esecuzione tecnicamente impeccabile di questo ostico brano, accolta da convinti applausi, che lei ricambia con una delle mille varianti del Dies Irae!
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Chiude la serata Scriabin con la sua Estasi (una spuria Sinfonia, che sarebbe poi la sua quarta, ma meglio forse chiamarla Poema sinfonico) venuta alla luce fra il 1905 e il 1908.

Quando venne eseguito il Poema dell’estasi Scriabin era il solo a credere che dovesse accadere qualcosa di straordinario. Solo lui si aspettava che dopo l’esecuzione tutto il pubblico morisse… di estasi. Ma poi siamo andati, lui compreso, al ristorante a cenare con altrettanto piacere che appetito (…) Insomma, la fine del concerto aveva dato l’impressione di un soufflé che si ammoscia.

Questo racconto di un amico del compositore spiega più di tante analisi il velleitarismo da cui era affetto Scriabin, che (peccato!) morì prima di aver potuto completare un’opera che avrebbe davvero fatto storia: poiché avrebbe dovuto semplicemente provocare la fine del mondo!

Ma intanto, di quale estasi si tratta veramente? La musica fu composta da Scriabin come una specie di colonna sonora di un poema (di 369 versi) da lui stesso vergato, il cui titolo originale (che avrebbe dovuto essere anche quello del brano musicale) era Poème Orgiaque! Insomma, ci sarà pure del misticismo, ma qui pare più che altro esserci del sesso bello e buono… Come del resto ci confermano le bizzarre indicazioni agogiche in partitura, che non sai mai se interpretare come lo stato d’animo che deve assumere l’esecutore, o come l’effetto che dovrebbe avere la musica sull’ascoltatore. Allora, a 4 prima del N°7: très parfumé (ecco, sappiamo che Scriabin vaneggiava di musica non solo colorata, ma anche profumata!) Subito dopo il N°7, ancora: avec une ivresse toujours croissante… E al N°8: prèsque en delire. Al N°15: avec une noble et joyeuse émotion. Al N°31: charmé. Il culmine del piacere post-orgasmo si raggiunge al N°34 della partitura, dove troviamo un’illuminante: avec une volupté de plus en plus extatique.

Non è quindi un caso se, insieme ad apprezzamenti sinceri, il brano abbia raccolto nel suo secolo abbondante di vita anche sferzanti sfottò e feroci sarcasmi! Ma cerchiamo di decifrarne almeno sommariamente struttura e contenuti seguendone un’esecuzione che ha fatto storia: Svetlanov con l’Orchestra dell’URSS.
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Si parte con un un’Introduzione in Andante languido, dove su un pedale di violini secondi, viole e fiati (un accordo a toni interi REb-MIb-FA-SOL che anticipa in qualche modo il famoso accordo mistico del successivo Prometeus) e con interventi dell’arpa, entrano tre strumenti che saranno poi protagonisti: dapprima (14”) il flauto, poi il violino solo (24”) che ne mima la tenue melodia e infine, supportata dai corni (45”) la prima tromba, che si presenta con un motivo che anticipa le velleità che ascolteremo più avanti.

Quella che possiamo chiamare Esposizione inizia (1’02”, Lento - Soavemente) con una melodia del clarinetto cui si aggiungono poi gli altri strumenti: è un passaggio sonnolento che culmina improvvisamente (2’04”) sull’Allegro volando, attaccato dal flauto cui rispondono i primi violini con quartine di semicrome. L’episodio si sviluppa fino ad un molto accelerando cui segue bruscamente (2’30”) un nuovo Lento, dove tocca al violino solo esporre una nuova melodia ripresa poi (3’09”, molto languido) dai flauti.

A 3’30” ecco una nuova sezione dell’esposizione, in Allegro non troppo, aperta da una fanfara di corni che introduce (3’31”) la tromba solista: la quale si presenta con un motivo che risentiremo nel seguito, una specie di promessa/minaccia di sfracelli. Ed infatti subito dopo (3’42”, avec un noble et douce majesté) la prima tromba viene affiancata dalla seconda per esporre quello che diventerà l’ossessivo tema principale dell’opera, che ci martellerà impietosamente i timpani fino alla fine.

Il quale si esaurisce per ora (3’58”, Moderato avec delice) su un’entrata dei violini che propongono un nuovo motivo ammiccante che, dopo un tristaniano intervento (4’20”) del corno, lascia spazio (4’31”) ad un breve crescendo dell’orchestra. Ancora il violino solo (4’50”) apre un nuovo episodio sognante, nel quale si inserisce (5’08”) il corno seguito dai flauti, che poco dopo (5’32”) sono chiamati ad emettere suoni, ehm… odorosi (très parfumé). Il climax sale ancora e si trasforma in vera e propria ubriacatura (5’44”, avec une ivresse toujours croissante) protagonista ancora il violino solo, poi l’intera orchestra che arriva (5’59”, presque en delire) vicina all’orgasmo, con (6’11”) tre eloquenti… barriti dei corni (!)

In Allegro (6’33”) torna quindi la tromba a perorare il suo tema eroico, che si sviluppa ora con un crescendo di atmosfere davvero… degno di miglior causa: passiamo (6’46”) ad Allegro drammatico, poi (7’15”) a tragico, dove il tema eroico si trasferisce trucemente, e barbaramente smontato, ai tromboni e alla tuba, finchè (7’34”, tempestoso) ricompare la fanfara dei corni seguita dal secondo motivo della tromba (li avevamo già incontrati nell’Allegro non troppo). Qui ha inizio un’autentica orgia sonora, con esplosioni in fortissimo dell’orchestra, poi ecco ancora (8’36”, avec une noble e joyeuse émotion) il tema eroico nelle trombe, che si sviluppa accompagnato da nuove esplosioni generali, finchè (9’38”) dei trilli di flauti e ottavino accompagnati dagli altri legni non portano ad una progressiva rarefazione dell’atmosfera, dove (9’51”) le trombe ripropongono il motivo esposto nell’Introduzione.

Qui (10’10”, Lento) si può collocare l’inizio della Ripresa, con il clarinetto che espone la sua melopea, seguito dall’intera orchestra (con interventi del violino solo) che conduce alla sezione in Allegro volando (11’28”) con gli svolazzi di flauti e violini e un breve crescendo generale, che si interrompe bruscamente per fare spazio (11’55”, Lento) al flauto che ripropone il motivo presentato nell’Esposizione dal violino solo; motivo ripreso poi (12’15”) dall’oboe, con l’orchestra che porta (12’52”) ad un molto accelerando nel quale la prima tromba ripropone dapprima (13’00”) il suo motivo dell’Allegro non troppo e subito dopo (13’10”) il tema eroico. Ancora una rarefazione, peraltro su ritmi concitati, dell’atmosfera ci porta (13’37”, molto più lento) ad una transizione in cui spiccano fanfare delle trombe che portano verso la sezione conclusiva dell’opera (14’02”, Allegro).

Sezione che inizia con un ritorno della sequenza (fanfara di corni e tromba solista) udita nell’Introduzione, che però adesso si sviluppa in modo abnorme, in particolare con l’intervento in contrappunto di tutti gli ottoni, fino a sfociare (14’43”) nel ritorno del tema eroico nella tromba. Ancora una pausa (14’56”, Charmè) ci porta con una progressione dei corni verso la definitiva perorazione del tema eroico (15’35”) nelle due trombe, che dopo un passaggio scherzando si chiude (15’57”, avec une volupté de plus en plus extatique) con una sognante sezione che prepara (16’52”) l’Allegro molto. Leggierissimo. Volando, che ora assume piglio e velocità ancor maggiori di quelle delle sue due precedenti apparizioni. A 17’06” la tromba solista ripropone il tema dell’Allegro non troppo e da qui inizia la finale perorazione con un colossale Maestoso (17’27”) dove il tema eroico è esposto con magniloquenza pari alla retorica dai corni. Un’ultima, lunghissima presa di respiro (18’41”) conduce alla conclusione su un emblematico accordo generale di DO maggiore.
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Che dire? Che questa mappazza il suo bell’effetto – estasi esclusa - lo fa sempre, soprattutto se a suonarla sono ragazzi affiatati e preparati come quelli de laVERDI, cui si è aggiunta per l’occasione la magica tromba di Giuliano Sommerhalder, che Kochanovsky ha chiamato non una, né due, ma ben tre volte alla singola!

05 ottobre, 2015

A Parma un Otello un po’… basso

 

Il FestivalVerdi2015 mette in scena in questi giorni un capolavoro assoluto del Maestro di Roncole: ieri sera seconda delle quattro rappresentazioni, in un Regio abbastanza affollato e… ben disposto.

La produzione ha avuto qualche vicissitudine non proprio tranquilla, con defezioni e cambi nel cast fino all’ultimo. E proprio il protagonista (delle prime due recite) Rudy Park è arrivato quasi all’ultimo momento e gli va dato atto di aver tenuto la barca a galla (a dispetto della sua mole, smile!)  

Lui ha un vocione quasi da… basso con estensione tenorile, che alle prime lascia un filino perplessi; ma poi si deve riconoscere che il suo Otello non è proprio malaccio: caso mai gli si può rimproverare un certo approccio monocorde (tendenza a cantare sempre forte) e quindi una scarsa varietà di accenti. Comunque il coreano si merita un’ampia sufficienza, ed anzi il pubblico lo accoglie proprio come un… salvatore della patria!    

Altro protagonista subentrato in corsa è Marco Vratogna: il cui Jago mi è parso di livello onesto: se non altro scevro da facili gigionerie. Voce chiara e sempre ben passante, anche nei difficili concertati dove personaggi diversi cantano insieme frasi indipendenti, che spesso si fatica a decifrare.      

Aurelia Florian mi è parsa una Desdemòna (pronunciato all’albionica, niente di offensivo, smile!) a corrente alternata. Vociferante nei passaggi acuti e poco udibile nell’ottava bassa, si è però riscattata… prima di morire, con apprezzabili salice e Avemaria.  

Questi i protagonisti-chiave. Il resto della ciurma (vedi locandina) cerca di fare onorevolmente il suo dovere e per mio conto ci riesce abbastanza. Buona la prova del coro di Martino Faggiani e bravissimi i piccoli di Gabriella Corsaro.

Daniele Callegari (anche lui assoldato a rimpiazzare l’originale Bignamini) ha diretto con mestiere la ruspante Filarmonica Arturo Toscanini, forse eccedendo talvolta con indebiti fracassi. Buona però anche la sua concertazione con le voci sul palco.


Solo due parole sull’allestimento del venerabile Pier Luigi Pizzi. Che di questi tempi è da giudicarsi semplicemente scandaloso, avendoci presentato l’Otello precisamente come è scritto in libretto e partitura!

02 ottobre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 53


Il terzo concerto della stagione autunnale de laVERDI, diretto da Gustavo Gimeno (che torna in Auditorium dopo due anni) ha un’impaginazione insolita ed interessante. Peccato che ieri sera a goderne fossero proprio pochi intimi…

Dopo l’ennesima invenzione expositiva di Nicola Campogrande (con la Cina… vittima di turno!) ecco la schumanniana Ouverture dalle musiche di scena per il Manfred. Che è in realtà un compendio dell'intero dramma, quasi un poema sinfonico. Dopo l'introduzione lenta si presenta, in MIb minore, un tema agitato, che ben rappresenta l’instabilità psichica del personaggio di Byron. Esso si sviluppa poi nella relativa FA# maggiore, per introdurre il tema elegiaco, femminile, legato ad Astarte, l'amore proibito, origine di tutti i complessi esistenziali del protagonista (e, potremmo dire, pure dei suoi due autori!) Da qui in poi, secondo i canoni della forma-sonata, i temi si sviluppano, si intrecciano, si confrontano e scontrano, fino a quando il tema di Astarte, canonicamente scivolato nella tonalità di impianto – momentaneamente virata a maggiore - conduce ai lenti accordi di MIb minore della mesta conclusione.

L’attacco dell’Ouverture presenta una sola battuta (4/4) con agogica Rasch (Impetuoso) e metronomo 132 semiminime. Ciò significa che le tre strappate dell’orchestra (altrettante semiminime, in realtà coppie di crome legate) dovrebbero occupare meno di un secondo e mezzo. Dopo la corona puntata che chiude la prima battuta, si passa a Langsam (Adagio) con metronomo più che dimezzato (63). Bene, ora ascoltate come fa suonare quella prima battuta il sommo Furtwängler ai Berliner nel dicembre del 1949: il contasecondi di youtube ci dice: in 3 secondi! Cioè a 60 di metronomo. Insomma, il sommo ha bellamente ignorato il Rasch e ha fatto anche l’attacco in Langsam! Ohibò. (Però con i Wiener ha cercato di rimediare…)

Ora, dato che Gimeno ha più o meno (per far rima) rispettato il Rasch, dobbiamo concludere che è meglio di Furtwängler? Beh, di polenta ne deve mangiar molta ancora, però almeno non si diletta a correggere le partiture altrui! E così l’Orchestra gli ha fatto fare una bella figura.
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Rolf Martinsson, classe 1956, è già stato ospite qui in Auditorium all’inizio del 2014, quando Xian presentò la prima italiana di A.S. in memoriam. Da quel successo nacque l’idea de laVERDI di commissionargli (insieme alla Tonhalle-Orchester di Zurigo e ad altre orchestre) questo ciclo di Lieder (Ich denke dein…) su testi di Rilke, Eichendorff e Goethe. Il ciclo è dedicato al soprano Lisa Larsson, divenuta la musa del compositore, che lo ha presentato in prima a Zurigo lo scorso gennaio. Ecco qui la stessa Larsson in occasione della terza presentazione del lavoro, lo scorso marzo al Concertgebouw, con Albrecht sul podio: 1-LiebesLied, 2-BlaueHortensie, 3-DieLibendeSchreibt, 4-Mondnacht, 5-NäheDesGeliebten. Questa di Milano sotto la bacchetta di Gimeno (guarda caso c’entra un po’ anche lui con il Concertgebouw, avendovi suonato come percussionista) è la quinta uscita del ciclo, diretto già da Storgårds e Manacorda, oltre al citato Albrecht.

Non è dato sapere se è una novità assoluta, riservata agli amici milanesi, ma Martinsson ha deciso di cambiare la sequenza dei brani, portando in testa il rumoroso Nähe Des Geliebten e chiuso quindi con lo straussiano Mondnacht (con tanto di violino e violoncello solisti).

Che dire? Un salto all’indietro di almeno un secolo? A partire dai testi: Rilke (1907 e 1906); Eichendorff (1835) e Goethe (1807 e 1795). Alcuni dei quali (Eichendorff e Goethe) già più volte musicati da famosi romantici dell’800, a cominciare da Schubert e Mendelssohn. E nella musica in effetti c’è un po’ di Mahler, di Strauss, parecchio Schönberg, di cui Martinsson è cultore (qui però è uno Schönberg ancora non seriale!) e magari qualcosa di Scriabin, con ampi squarci di atmosfere nordiche, ma anche incursioni a… Broadway e Hollywood! Insomma, una specie di gradevole amarcord, che i maligni potrebbero derubricare a facile scopiazzatura, o considerare tuttalpiù adatto ad accompagnare qualche pretenzioso reality

In ogni caso si tratta di musica gradevole, che non ti esaspera e che puoi ascoltare quasi (ehm, sì, molto quasi) come fosse… i Ruckert o i Vier Letzte, ecco. Brava la Larsson, che esibisce una bella voce corposa e buon portamento (non per nulla è interprete apprezzata di Mahler e Strauss!) e così ringrazia il compositore (presente in sala e salito sul palco) per la dedica dei 5 canti.  
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Chiude la serata l’enigmatica Quinta di Prokofiev. Queste musiche composte in piena guerra sotto Stalin ti lasciano sempre il dubbio (vale pure per Shostakovich) sulla sincerità dell’ispirazione: la libertà cui il compositore allude sarà quella da Hitler o anche e soprattutto quella da Zdanov? E nella retorica del grandioso corale verso la fine dell’Andante introduttivo, quanto c’è di affettato e di ammiccante al potere? Meno ambiguo lo Scherzo, con quel caratteristico ritmo da treni sferraglianti o magli di industria bellica interrotto dal Trio per una meritata pausa di riposo. Ispirato ma anche piuttosto cupo l’Adagio, che ha tratti espressionisti e ricorda l’ultimo Mahler, chiudendo con una evanescente cadenza del clarinetto. Il finale Rondo riprende ciclicamente il tema dell’Andante iniziale ma poi si rimette a correre come un treno, impegnando tutti (ottoni in primis) allo spasimo, fino all’esilarante conclusione sul terzo tempo della battuta.        

Eccellente la prestazione dei ragazzi, che questa musica hanno quasi nel sangue, eredità del venerabile Delman e di altri maestri russi (Barshai, Fedoseyev, Caetani) che si sono succeduti negli anni alla guida dell’Orchestra. Successo quindi caloroso e meritati applausi per tutte le singole sezioni dell’Orchestra (che di Gimeno potrebbe anche farne… a meno? strasmile!)  

18 settembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 51


È un programma tutto nordico (EXPO a parte) quello con cui Jader Bignamini ha aperto la sessione autunnale della stagione 2015: si tratta di lavori collocati in un arco di tempo di circa 50 anni, da 3/4 dell‘800 fino a 1/4 del ‘900.

In apertura, per la serie dedicata alla Fiera, Nicola Campogrande presenta il Brasile: che a noi – stando a lui – farebbe una strana impressione, perché non vi troviamo tracce di samba o di bossanova. Ecco finalmente spiegato perché a me fa una stana impressione l’Inno di Mameli: neanche la più piccola reminiscenza di funiculìfuniculà!
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La parte seria (smile!) del concerto è aperta da Andrey Baranov, che ci delizia con il celebre Concerto per violino di Jean Sibelius. Del quale si è sempre – come qui – eseguita la seconda, definitiva versione del 1905. Ma ovviamente ne esisteva una prima (1902-4) malamente accolta dal pubblico perchè peggio ancora suonata dal solista: versione che l’Autore aveva immediatamente ritirato e severamente proibito di eseguire, pur non distruggendone l’originale. Soltanto 25 anni orsono gli eredi hanno deciso di consentirne una sola esecuzione e registrazione, protagonista Leonidas Kavakos con la Lahty Symphony diretta da Osmo Vanskä. Ascoltandola si può facilmente constatare la maggior complessità, difficoltà ed ampollosità di questa prima versione, che spinse evidentemente Sibelius alla decisione di alleggerirla assai, sia cassando interi passaggi (una quarantina di battute nel solo primo movimento, quasi 10 minuti di musica nel complesso) sia prosciugando di parecchio l’orchestrazione, così da non sommergere il suono del solista sotto quello dell’orchestra.

Preso in mezzo tra tardo-romanticismo e prime avanguardie novecentesche, il buon Jean cercò di uscire dall’angolo con qualche innocente strappo alle regole classiche, che si materializza in specie nell’Allegro moderato, dove la forma-sonata viene alquanto strapazzata, sia nella struttura che nella scelta delle tonalità. Ma siamo, appunto, ad innocenti scappatelle, nulla di paragonabile a ciò che gli Schönberg a Vienna e i Debussy a Parigi stavano combinando o tramando, col trarre conseguenze radicali dal cromatismo del Tristan. Non parliamo dell’Adagio centrale, che affonda abbondantemente le radici nell’800 (Bruch, Wieniawsky, Lalo, per tacere di Mendelssohn); mentre un barlume di moderato modernismo affiora nell’Allegro conclusivo, con le sue melodie appena-appena impertinenti.

Baranov si conferma interprete di valore, non solo dal punto di vista della tecnica pura (cosa non ha saputo cavar fuori, nel primo bis, dall’ultimo Capriccio paganiniano!) ma anche e soprattutto da quello della sensibilità e della cura dei particolari: emerse, tanto per fare un esempio, dal diverso pathos con cui ha proposto i ritorni del tema principale dell’Allegro moderato.

Così il trionfo è stato enorme e i bis sono diventati due, al tellurico Paganini succedendo il severo Bach della Sarabanda dalla seconda Partita, in RE minore. 
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Il Peer Gynt di Grieg ha avuto una storia abbastanza strana: fu Ibsen in persona a chiedere al musicista (di 15 anni più giovane) di comporre delle musiche di scena per il suo omonimo dramma in versi del 1867, che lo stesso scrittore aveva originariamente escluso dovesse/potesse essere mai rappresentato a teatro. E così la musica di Grieg – che lo impegnò ben al di là delle sue iniziali e ottimistiche previsioni – servì per tenere a battesimo, giovedi 24 febbraio 1876 a Christiania (oggi Oslo) quel lavoro che poi divenne una pietra miliare della drammaturgia europea.

Il poema originale (a sua volta partorito… a rate, fra Roma, Ischia e Sorrento) consta di 5 atti per complessive 38 scene (3-8-4-13-10) ed è un costrutto a prima vista bizzarro, che manda a quel paese Aristotele e le sue unità, e dove il realismo più prosaico si mescola con elementi surreali, fantastici, grotteschi, filosofici e tragici. C’è dentro un po’ di Faust (Ibsen mette in bocca a Peer, storpiato, il famoso Das Ewig-Weibliche ziehet uns hinan!), di Don Quixote, di Rodomonte e persino di… Barone di Münchausen, ecco. Va da sé che l’intendimento di Ibsen fosse (anche) di mettere alla berlina stereotipi, comportamenti, pregiudizi e stupidità del mondo a lui contemporaneo. Ed è indubitabile che il lavoro sia una spregiudicata e corrosiva radiografia dell’individuo e insieme della società ottocentesca, non solo scandinava: tutto il quarto atto ne è una grottesca parodia, che prende di mira il colonialismo, quello spregevole degli schiavisti ma anche quello culturale degli esploratori tedeschi (la Sfinge che parla crucco… che poi è il direttore del manicomio!) Chissà se possiamo anche trovare una morale in tutto ciò, visto che il protagonista, dopo mille avventure, una più fallimentare dell’altra, troverà pace solo immergendo il capo nel… ventre della caritatevole Solveig, madre e sposa!

Quanto a Grieg, la sua colonna sonora (Op.23) come pubblicata da Peters (ma ne esistono diverse varianti, dato che venne rivista nel 1891) contiene 24 numeri (3-7-3-6-5) e comporta anche parti cantate da solisti e dal coro. Grieg estrapolò a distanza di qualche anno le due Suite (op. 46 e 55) eseguite qui in Auditorium, che raggruppano in totale 8 dei 24 numeri, per una durata complessiva di circa 35 minuti, proprio un terzo di quella delle musiche di scena complete. Lo specchietto sottostante presenta in grandissima sintesi i contenuti del dramma di Ibsen e quelli delle tre partiture di Grieg.


Come si noterà, le due suite (soprattutto la prima) presentano sequenze di brani abbastanza avulse da quella delle scene del dramma. E il famoso mattino, che apre la prima suite (e che chiunque fischietta sotto la doccia) evoca non già un’aurora boreale, ma… tropicale!


Con decisione saggia, Bignamini ha separato le due esecuzioni con l’intervallo e con il concerto di Nielsen, scongiurando così il pericolo di… saturazione che una musica pur così piacevole si porta dietro. Impeccabile come sempre l’Orchestra, in tutte le sezioni.
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Fra le due suite di Grieg il flautista Andrea Griminelli ci ha proposto il quasi sconosciuto Concerto di Carl Nielsen, datato 1926. Nielsen fu coetaneo di Sibelius (che però gli sopravviverà di più di 25 anni…) e cercò assai più del finlandese di affrancarsi dal tardo-romanticismo, pur non abbracciando le moderne (a quei tempi) innovazioni provenienti da Vienna e dintorni. Il Concerto eseguito qui ne è testimonianza abbastanza chiara: pur rimanendo sostanzialmente ancorato ai canoni della tonalità, Nielsen si sforza di trovare soluzioni originali sia nella forma – il concerto ha due soli movimenti - che nei timbri orchestrali.

Come dimostra subito la stridente dissonanza che caratterizza l’Introduzione, fra la linea melodica (in RE minore) di legni e archi alti che si appoggia su un protervo MIb di archi bassi, corni e fagotti:


E si noti allo stesso tempo come il MIb e il LA ci sbattano in faccia il diabolico tritono: ecco, non è propriamente un attacco classico!
Seguiamo l’esecuzione del grande Jean-Pierre Rampal, che di Griminelli è stato maestro e mentore.
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L’Allegro moderato, a parte il motivo introduttivo dell’orchestra, si articola su tre principali temi:


La forma è piuttosto libera e i tre temi vengono presentati in sequenza, con sviluppi contestuali; verranno poi citati nella lunga cadenza solistica che precede la coda conclusiva.

6” Introduzione orchestrale; a 17” entra il flauto solista che ripropone il tema introduttivo, variato. Senza soluzione di continuità ecco (33”) l’esposizione dell’impertinente tema (A) in MIb minore, subito riproposto (47”) una quinta sopra (SIb minore) dopo un fugace intervento orchestrale. Altra riproposizione di (A) dal DO# (55”) ed un’altra ancora (1’08”) dal LA.

Dopo un rallentando del solista che chiude sul FA, a 1’26” ecco l’orchestra (violini e legni) proporre, in FA maggiore, il tema (B) assai più elegiaco del precedente: sarà lui a monopolizzare la prossima sezione. Ben presto il flauto (1’35”) si fa carico del tema, portandolo a SIb maggiore, quindi tornando, dopo breve divagazione (2’10”) al FA maggiore di partenza. A 2’17” inizia un dialogo stretto fra solista e oboe, che si scambiano un breve inciso, che a 2’29” è ripreso dal clarinetto: è lui che ora dialoga in modo assai fitto con il flauto, attraverso una serie di rimpalli a base di terzine di semicrome, una specie di cadenza a due, si potrebbe definire.

Si arriva così (3’09”) alla ripresa del tema (B) nei violini, tonalità DO maggiore; tema poi rinforzato pesantemente (3’22”) dall’intervento di corni, fagotti e bassi. A 3’38” ecco un episodio aperto bruscamente dai timpani, protagonista il trombone basso, che aizza il flauto a ripetuti singhiozzi che introducono una transizione veloce verso il ritorno (4’05”) del tema (A) sul LA. Ancora un serrato dialogo flauto-trombone basso che porta (4’17”) il tema (A) all’oboe e ai violini-viole (sul SI) raggiunti ancora pesantemente da corni e trombone basso.

Finchè, improvvisamente (4’27”) ecco fare irruzione il maestoso tema (C) in MI maggiore, in legni e corni; tema poi (4’47”) trasferito al solista che lo sviluppa in modo elegiaco finchè (5’36”) non viene, da oboi e fagotti, richiamato… all’ordine, cioè al tema (A) che il flauto porta gradatamente a spegnersi (6’11”) su un LA. Qui abbiamo una breve cadenza solistica, bruscamente interrotta (6’36”) da ottoni e timpani che conducono ad una transizione orchestrale in cui fa capolino ancora il tema (A) prima che il flauto solista (6’58”) con perentori trilli chieda… la parola: sta per iniziare infatti (7’09”) la lunga e articolata cadenza principale.

La quale è caratterizzata dal fatto che lo strumento solista è sempre accompagnato da (almeno) un altro: inizialmente dal timpano, che fa da sfondo a veloci sestine culminanti nella proposizione (7’40”) del tema (A) dal LA, ribadito subito dopo dal SOL. A 8’04” subentra il tema (B) mentre il timpano tace, lasciando il ruolo di compagnia al clarinetto, che ancora ingaggia con il solista un botta-e-risposta a base di biscrome, e successivamente (8’22”) si alterna con lui nell’esporre il tema (C) contrappuntato da biscrome sincopate. Intervengono alla fine anche il fagotti, prima che il solista (8’43”) porti la cadenza a conclusione.

A 9’02” si passa a SOLb maggiore con corni, fagotti e clarinetti che riespongono, con grande calma e per terze (un po’ à la Brahms) il tema (B). A 9’25” ancora il solista ripropone il tema (C) con una divagazione variata (9’39”) al tema (A) seguito da un’impennata (9’53”) fino al SI sovracuto, da cui discende poi per terzine, fino d adagiarsi sul SOLb, dove (10’17”) i violini ancora ricordano il tema (B), ripreso (10’31”) dal solista che si incarica quindi di chiudere sommessamente, sul SOLb maggiore.

Come si vede, una brano dalla struttura assai libera, che lascia spazio alla fantasia e quasi all’improvvisazione: interessante e gradevole, senza aver pretese di imporsi come capolavoro.

Veniamo ora all’Allegretto, un poco (sic). Dopo una corposa revisione della sezione finale, con la quale Nielsen pose rimedio all’affrettata versione originale della stessa (licenziata solo per non mancare l’appuntamento con la prima esecuzione) la struttura del movimento si presenta come uno spurio rondo: A-B-C-A’-B’-C’-D, dove D in realtà non è un tema autonomo, ma è una vera e propria sezione, basata sul ritorno reiterato del tema (A) ma dove ricompare, variato, nel trombone basso, anche il tema (C) del primo movimento. La tonalità principale è SOL maggiore, ma la chiusa sarà in MI maggiore.


Ecco, a 11’29” i soli archi, cui poco dopo si aggiunge un pedale del corno, introdurre il movimento, con secche semicrome scandite sul primo e terzo ottavo della battuta (2/4). A 11’43” il solista espone lo sbarazzino tema (A) in SOL maggiore, ripreso subito come in parodia dal fagotto, che prosegue il suo dialogo con il flauto. Flauto che poi procede ad una transizione (con intervento del corno) che porta, dopo un breve rallentando (12’21”) al secondo tema (B) nella (fugace) tonalità di SI maggiore.
                                                 
Il tema è ripreso (12’28”) dai violini che innescano una corposa transizione orchestrale, dove il solista si limita a brevi incisi; transizione che chiude con un progressivo rallentando e diminuendo, che conducono ad un bizzarro cambiamento di tempo (12’56): Adagio ma non troppo, sul quale il solista espone il tema (C) assai languido e praticamente atonale, che si muove per lo più su gradi contigui. Il flauto lo sviluppa tornando (13’48”) dopo un inciso del corno, a SOL maggiore, poi procede fino ad esaurirne la spinta, con un ulteriore rallentamento. A 14’55” un poderoso tremolo degli archi, accompagnati in fortissimo dai fiati porta alla riproposizione variata del tema (C) bruscamente contrappuntata da tre interventi in staccato dell’orchestra.

Una cadenza del clarinetto ci riporta (15’30”) in Allegretto, con la riesposizione del tema (A) ancora in SOL maggiore. Questa ricomparsa del tema appare però piuttosto offuscata, scurita, insomma quasi intristita, tanto che la melodia del flauto è costantemente calante come pure l’accompagnamento del violino solo. A 15’59” l’orchestra propone una breve transizione, che porta (16’09”) alla riesposizione (in DO) del tema (B). Mentre gli archi (16’18”) ripropongono i sussulti dell’introduzione, il solista insiste sul SOL acuto, poi (LA-SOL) sembra esplodere in un lamento; quindi un perentorio rullo del timpano ci riporta al tempo Poco Adagio.   

Qui (16’32”) un altro poderoso tremolo dei violini introduce la ripetizione del tema (C) negli archi bassi e viole, subito ripreso dal solista in forma variata e portato praticamente a… morire.

Qui (17’04”) ha inizio la corposa sezione conclusiva del concerto. Siamo ora passati in Tempo di marcia (6/8) e sono i clarinetti, supportati dai fagotti, a proporre, per terze, una variante del tema (A) ancora (per poco) in SOL maggiore. Sì, perché a 17’18” il flauto solista riprende il tema modulando a MI maggiore e ingaggiando quindi un botta-e-risposta con l’orchestra, che (17’45”) propone negli archi un nuovo motivo per terzine, presto ripreso (17’52”) dal solista, quindi ancora dagli archi.

A 18’03” ecco l’entrata del trombone basso, che sosterrà un ruolo da protagonista: dapprima ribadendo il tema (A), poi mentre il solista si libra in continui svolazzi e gli archi ribattono l’incipit del medesimo tema, riproponendo (18’09”) sempre in MI maggiore una forma allargata del tema (C) del primo movimento! Chiusa (18’23”) con un glissando dal pianissimo al fortissimo dopo il quale il flauto, con l’accompagnamento del timpano che ritma il tema (A) si imbarca in una cadenza sulla quale (18’35”) interviene ancora il trombone in glissando.

A 18’49” sono gli archi a riesporre un frammento del tema (A) cui segue una transizione dove orchestra e solista si confrontano; quindi (19’09”) ecco una specie di rincorsa dell’orchestra, che porta (19’18”) all’ultima cadenza solistica (sempre col timpano a tener bordone) finchè si arriva (19’26”) alle sei battute conclusive, rallentando e diminuendo.

Che dire: anche qui nulla di veramente straordinario, ma il prodotto di un sano artigianato musicale.
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Griminelli non ha tradito le attese e la sua ormai consolidata fama internazionale, rendendoci gradevole questo brano che, soprattutto a chi lo ascolta per la prima volta, potrebbe risultare un filino indigesto. Per lui accoglienza calorosissima ricambiata con un bis forse dedicato al suo indimenticabile Maestro.