affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

08 settembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Domenica alla Scala apre la stagione 23-24.

Come ormai da lunga tradizione, l’Orchestra Sinfonica di Milano sarà ospite alla Scala per l’inaugurazione della nuova stagione 23-24.

Sarà il Direttore in Residenza - Andrey Boreyko - a salire sul podio per il secondo anno consecutivo, presentando un programma assai impegnativo, che affianca uno degli ultimi lavori di Gustav Mahler alla più rivoluzionaria delle Sinfonie beethoveniane
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Ecco quindi dapprima la cosiddetta Sinfonia-di-LiederDas Lied von der Erde – interpretato qui da due voci maschili, cosa piuttosto insolita, chè tradizionalmente al tenore (Tuomas Katajala) si affianca un contralto/mezzosoprano, anziché un baritono (Georg Nigl). L’esempio più famoso di esecuzione con due voci maschili riporta a Lenny Bernstein che incise il Lied con James King e Dietrich Fischer-Dieskau.  

Sul Lied si sono scritti fiumi d’inchiostro, ma forse la cosa più curiosa è quanto raccontò – in un’intervista radiofonica nel 1970 – William Steinberg, direttore d’orchestra americano che era stato assistente di Toscanini. Di quest’ultimo è ben nota l’avversione rispetto alla musica di Mahler (la cui Quinta fu da lui definita una boiata pazzesca!) Ma un giorno, proprio a Milano, mentre Steinberg provava il Lied, Toscanini entrò in sala e chiese di chi fosse quella musica. E, saputo che era di Mahler, si lasciò sfuggire un: “Mio dio, non pensavo che potesse scrivere così bene… 

Negli anni che vanno dal 1907 fino al 1909, anno di completamento dell’opera, a causa di varie disavventure - il licenziamento in tronco da Generalmusikdirektor della Hofoper di Vienna; la prematura perdita della maggiore delle due figliolette, Putzi; la diagnosi di una sia pur blanda disfunzione cardiaca; e soprattutto i tradimenti a sfondo prettamente sessuale della moglie Alma - Mahler avvertiva ormai come incombente e non più ignorabile il problema capitale dell’esistenza di ciascuno di noi, cosa che aveva abitato in qualche modo la sua mente fin dai tempi della giovinezza, ispirandogli anche tantissima musica, ma che lui ora incontrava direttamente, in prima persona.

Il Lied, praticamente una sinfonia - nell’accezione che questo termine aveva assunto nell’estetica mahleriana - insieme alla Nona e al torso della Decima rappresenta quindi l’autentico testamento spirituale di Mahler.

I sei testi dell’opera furono scelti da una collezione di poesie cinesi dei tempi della dinastia T’ang, secoli VII-IX (quando noi eravamo ancora sprofondati nel più cupo medioevo e il Rinascimento era lontano… secoli) tradotti da Hans Bethge (e prima di lui da altri letterati francesi).

Quando si dice… la globalizzazione culturale dello spazio-tempo. Qui vediamo gli ideogrammi (pseudo) originali delle due poesie da cui Mahler trasse l’ultimo Lied del ciclo, Der Abschied, e la prima pagina della partitura manoscritta del compositore: fra di essi ci sono nientemeno che 8.000 Km e 1.000 anni di distanza!

Va subito premesso che Mahler si permise (e con ottime ragioni…) di apportare personali modifiche/aggiunte ai testi cinesi, in particolare attenuando il loro pessimismo si fondo, addolcito da una visione meno negativa e più laicamente serena. In effetti va sottolineato come il primo impulso del compositore fosse stato di adesione acritica all’atmosfera quasi nichilista dei testi cinesi (il titolo dell’intera opera doveva essere Il canto dei dolori della terra, sopravvissuto solo nel titolo del primo Lied) ma come successivamente Mahler decise di addolcire il pessimismo orientale per introdurvi qualche sprazzo di serenità. Non certo un trionfo dell’ottimismo, ma perlomeno l’individuazione di elementi confortanti per l’individuo.

Come detto, i sei Lieder sono labilmente apparentabili ad altrettanti movimenti di Sinfonia, strutturati appunto secondo i criteri da Mahler impiegati per lavori di quel genere: i primi due (allegro e lento) di atmosfera piuttosto cupa o rassegnata, i successivi tre più (apparentemente) leggeri, in funzione di intermezzo, e l’ultimo, il più lungo ed articolato, decisamente lento, notturno, riflessivo, intimistico e quasi religioso.

Musica piena di moti ascendenti e discendenti che si alternano, ma anche si sovrappongono, perché l’esistenza è spesso gioia e dolore allo stesso tempo, come ben si vede, subito prima della coda, nel secondo Lied (dove peraltro la scala discendente (negativa?) va apertamente verso il forte, mentre quella ascendente (positiva?) va a morire in ppp:

Così nel primo Lied troviamo uno dei diversi, poetici riferimenti inseriti di suo pugno da Mahler (tornerà ciclicamente nell’ultimo Lied) alla terra che sempre rifiorirà a primavera (meraviglioso l’inciso del corno inglese…) seguito da una drammatica presa di coscienza della caducità umana:

Nel secondo ecco un rassegnato ripiegarsi di chi ha il cuore stanco e cerca riposo (anche questo scenario ricomparirà nell’ultimo Lied); e poi un’accorata implorazione, al sole dell’amore:

Infine qui, nell’ultimo Lied, un autentico ponte sonoro che sembra richiamarsi al famoso arco melodico che accompagna l’ammonimento Alles was ist, endet di Erda:

E, a proposito di Wagner, non manca una minuscola, ma chiara citazione, questo brevissimo inciso del quinto Lied, che viene proprio da lontano!

Ma anche la frase successiva (…sei kommen über Nacht) nelle parole richiama alla mente un altro dramma wagneriano (Walküre, primo atto, la notte dell’agnizione di Siegmund e Sieglinde): la ventata che fa sbattere violentemente la porta della stamberga di Hunding annuncia l’improvviso irrompere della Primavera (e la successiva romanza… Winter Stürme).

E Mahler ancora ricorre a Wagner nell’ultimo Lied, dove troviamo, nella melodia che torna due volte, prima in SIb e poi in DO maggiore, una chiara reminiscenza parsifaliana: la discesa da mediante a tonica che precede il lavaggio dei piedi di Kundry al puro folle (là in FA# maggiore):

Poi, troviamo sottili e quasi subliminali rimandi tematici. Ad esempio questo inciso dell’oboe che nel primo Lied sottolinea la morte, è ripreso significativamente dal canto che nell’Abschied (ancora un legame fra i due Lied estremi dell’opera) prefigura l’anelito alla pace per il cuore solitario:

Un richiamo fra il secondo e l’ultimo Lied riguarda l’affaticamento del cuore e degli uomini, due volte espresso nel secondo e ripreso nell’ultimo Lied (un semitono sotto, dove poi peraltro c’è speranza di consolazione):

Ma l’impronta determinante della vision esistenziale mahleriana resta impressa nell’ultimo Lied, Der Abschied. Esso merita particolare attenzione poiché nella sua conclusione, a dispetto del confuciano, assoluto pessimismo esistenziale dell’originale cinese (di Wang Wei), Mahler infuse un atteggiamento, per così dire, di laica e serena rassegnazione. E per far questo modificò appunto il testo, introducendo (mutuandolo precisamente da quello da lui già manipolato del primo Lied) molto azzurro nei cieli sconsolatamente bigi del poeta T’ang.

Laddove quest’ultimo chiudeva con due versi di disincantato e rinunciatario pessimismo:

La terra è uguale dappertutto –

E sempre sono bianche le nuvole!

Mahler scrive invece di suo pugno, riprendendo la sua variazione del primo Lied:

L’amata terra dappertutto –

Rifiorisce a primavera e verdeggia di nuovo!

Dappertutto e sempre, sempre –

Azzurri risplendono gli orizzonti!

Sempre… sempre… sempre…

Ecco, innanzitutto la Natura, di cui Mahler – nelle modifiche al testo originale e coerentemente con il suo rapporto d’amore per essa - rivaluta la benigna funzione materna e i caratteri consolanti: le nuvole bigie cinesi magari restano, ma all’orizzonte ecco aprirsi l’azzurro del cielo e il paesaggio illuminarsi, colpito obliquamente dai raggi del sole. E poi l’eterno verdeggiare a primavera, a testimonianza della vitalità del creato, di cui l’Uomo è in fin dei conti parte integrante.    

Ma è ancora una volta la musica a mirabilmente rappresentare questo insieme di presa di coscienza dell’inevitabilità della fine e di speranza nell’infinita ed eterna misericordia della madre terra, sempre pronta ad accogliere fra le sue braccia questo uomo, piccolo e infelice. Ecco come testo e musica mahleriani, correggendo il desolato originale orientale, evocano la serena contemplazione della madre-natura:

Sull’ultimo ewig il canto non si adagia più sulla tonica, ma si sospende sulla sopratonica RE; e nelle restanti 6 misure l’orchestra esala un DO maggiore orientalizzato dal LA di flauto ed oboe e dalle cinesizzanti volute della celesta, proprio a lasciare una sensazione di indeterminatezza, di qualcosa che si perde lontano.

Morendo completamente, si legge sulle ultime battute del Lied. Più semplicemente, Morendo recita l’ultima indicazione agogica sulla partitura della Nona. Sull’abbozzo manoscritto della Decima l’ultima indicazione è un La, che i musicologi decifrano come Langsam: adagio.

Così le ultime opere di Mahler chiudono sommessamente un’esistenza, e con lei anche una grande (non l’ultima…) stagione del sinfonismo.
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Sinfonismo che ebbe in Beethoven il suo grande alfiere, e la Quinta una delle sue punte di diamante, sulla quale non è certo il caso qui di spendere altre parole.

Non resta dunque che aspettare domenica per goderci questa nuova partenza di stagione.

02 settembre, 2023

Lettura estiva: Ross su Wagner

Per un wagnerite che si rispetti è quasi un dovere ineludibile leggere l’immenso tomo (900 pagine, escluse note varie!) del grande Alex Ross. Così mi son messo di buzzo buono all’impresa, in attesa di tornare all’attualità con la ripresa delle stagioni musicali (la Scala e laVerdi, in particolare).

Il testo è articolato in 15 macro-capitoli (quasi delle monografie, verosimilmente rielaborazioni di articoli scritti negli anni da Ross per il NewYorker, il che comporta qualche problema – vedi ripetizioni - riguardo l’organicità del contenuto) più un Preludio e un Postludio. Come suggerisce il titolo, non solo e non tanto si tratta di Wagner come fanno la maggior parte dei lavori che ormai da un secolo e mezzo si sono occupati del fenomeno più straordinario che ha caratterizzato lo sviluppo della nostra civiltà musicale (certo, troviamo dispersi nel libro riferimenti biografici e commenti o esegesi di opere e drammi) ma si esplorano alcune delle principali problematiche sollevate dalla figura del compositore e i riflessi che le sue opere (ma anche i suoi scritti filosoficihanno avuto sulla nostra società, e non solamente nell’ambito strettamente artistico. 

Preludio. La morte a Venezia.

Contiene una minuziosa raccolta delle più svariate reazioni seguite nel mondo alla notizia della scomparsa del tanto famoso e idolatrato quanto contestato compositore.

1. Rheingold. Wagner, Nietzsche e il Ring.

Sommaria esegesi del Ring, delle sue implicazioni filosofiche (Feuerbach > Schopenhauer) e del processo che portò alla costruzione del Festspielhaus a Bayreuth; intersecata con una dettagliata analisi degli sviluppi del rapporto fra il filosofo-discepolo e il musicista: dall’adorazione/adesione alla conflittualità/distacco (e riconciliazione post-mortem?)   

2. L’accordo del Tristan. Baudelaire e i simbolisti.  

A dispetto del titolo, ma coerentemente con il sottotitolo, il capitolo tratta diffusamente dei rapporti di amore-odio tra Wagner e la cultura francese in generale. A partire dal piano musicale, ovviamente, con ampi squarci sulla disastrosa esperienza del Tannhäuser (1861). Baudelaire vi ha un posto privilegiato, così come Mallarmé, ma largo spazio è dedicato al semi-sconosciuto Jean-Marie-Mathias-Philippe-Auguste, Comte de Villiers de l’Isle-Adam (!) E poi ai veri e propri pellegrinaggi, prima a Tribschen e poi a Bayreuth, di letterati francesi letteralmente fradici (Stabreim!) di wagnerismo! Ma un posto di rilievo occupa poi la pittura francese, in specie l’impressionismo: Cézanne, Monet, Gauguin, Manet, ma anche il parigino-di-passaggio VanGogh! Infine, la Révue wagnérienne e il simbolismo.   

3. Il cavaliere del cigno. L’Inghilterra vittoriana e l’America della Gilded Age.  

Dopo la Francia, che per Wagner ebbe amore (di pochi intellettuali) e odio dall’establishment, ecco l’Inghilterra, terreno di conquista di Wagner, gratificato nientemeno che da incontri del compositore con la Regina Vittoria. Pretesto per il titolo del capitolo è la cosiddetta Marcia nuziale dal Lohengrin, che divenne ben presto lo standard da suonare ai matrimoni reali britannici e poi anche a quelli (persino in America) di gente pretenziosa o altolocata. Ampio spazio viene dato ai rapporti fra la scrittrice George Eliot e il mondo dell’estetica wagneriana, vicina per certi aspetti a quella dei preraffaelliti d’Oltremanica. E dotte divagazioni riguardano lo scrittore-poeta Algernon Charles Swinburne, che modellò su Tannhäuser la sua (scandalosa) Laus Veneris; e William Morris, studioso dei miti norreni e quindi vicino al mondo del Ring, avendo scritto un poema epico su Sigurd(=Siegfried); e infine Matthew Arnold, autore di un poema su Tristano e Isotta. Da buon americano ben informato, Alex Ross si dilunga infine in una corposa analisi dell’esplosione del wagnerismo negli USA. Esplosione spiegabile con ragioni di business (ça va sans dire) oltre che di gusto e di propensione yankee per l’avventura, la grandiosità, il liberismo sfrenato e selvaggio (Siegfried!) E i vaneggiamenti di Wagner su un suo possibile trasferimento in USA (Minnesota, considerato alla stregua di un Eden!) non facevano che alimentare l’interesse per le opere del genio di Lipsia. La parte finale del capitolo è dedicata alla Gilded Age (l’Età dell’oro, gli ultimi 30 anni dell’800) e ad autori come Mark Twain, piuttosto sarcastici sull’idolatria per Wagner, ma alla fine conquistati dalla sua musica.

4. Il Tempio del Graal. Il Wagner esoterico, decadente, satanico.

Questo capitolo, dopo una sommaria esegesi dell’ultimo dramma wagneriano che ne mette in evidenza i (supposti) aspetti di natura esoterica, è dedicato all’influenza che esso (Parsifal, ma non solo… vedi Tristan) ebbe sull’ambiente artistico fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Ross premette che tale influenza fu determinata fondamentalmente dal diffondersi – a dispetto delle intenzioni di Wagner ed equivocando sull’interesse di quest’ultimo per filosofie e tradizioni orientali - della gratuita e banalizzante definizione di Parsifal come di una messa nera. È questa fasulla definizione che ha portato artisti di diversi orientamenti ad impiegare Parsifal (e Tristan) come materia prima nelle loro opere imbevute di esoterismo, spiritismo. occultismo, satanismo, etc. Seguono alcuni esempi, presentati sempre con gran dovizia di particolari. Altre due sezioni del capitolo sono riservate ai rapporti fra (le opere di) Wagner e la teosofia, e all’influenza di Wagner sugli irlandesi, difensori delle tradizioni celtiche, che individuavano nel Tristan.

5. Sacra arte tedesca. Il Kaiserreich e la Vienna fin de siècle.

La premessa del capitolo è – ovviamente – una concisa esegesi dei Meistersinger e degli effetti perversi (pur se indesiderati?) che lo sciovinista appello finale di Sachs ebbe molto più tardi sull’ambiente proto-nazista e sullo stesso Hitler. Si passa poi ad esaminare la complessa relazione fra Wagner e Re Ludwig di Baviera, relazione funzionale ad entrambi: al giovanissimo Re il mondo mito-fiabesco che alimentava le sue fantasie; a Wagner… illimitate risorse finanziarie! Ma non scevra da reciproche diffidenze ed incomprensioni: Wagner giudicava assurdo il progetto della costruzione di Neuschwanstein, il Re altrettanto pensava delle idee antisemite del compositore. Si passa poi ad esaminare gli effetti delle opere di Wagner nel periodo imperiale guglielmino (il Kaiserreich): effetti multiformi, che andavano dall’uso spregiudicato dell’arte wagneriana da parte dell’establishment, ai coloriti sbeffeggiamenti di buona parte degli intellettuali, come lo scrittore e romanziere Theodor Fontane. Seguono due sezioni del capitolo, dedicate all’ambiente di Monaco di Baviera, in prevalenza recalcitrante nei confronti di Wagner, e a quello di Vienna, dove invece Wagner acquistò ulteriore prestigio grazie anche alle innovazioni degli artisti della Secessione e di pittori-scenografi come Alfred Roller, oltre che di adepti musicisti, primo fra tutti Mahler. Si passa ora all’Italia, in una sezione tutta incentrata su D’Annunzio e sulle sue opere infarcite di riferimenti wagneriani (Tristan, soprattutto). Il capitolo non poteva chiudersi se non nel nome Mann: dei due fratelli, Heinrich e il minore Thomas. E di Thomas ovviamente viene analizzato il Buddenbrook, un vero e proprio Ring rivisitato, poi arricchito da riferimenti a Meistersinger, Tristan, Tannhäuser… ma anche lavori successivi, carichi di tematiche mutuate da Wagner.    

6. Nibelheim. Il Wagner ebreo e nero.

È il capitolo che tratta del nodo più controverso riguardante Wagner: l’antisemitismo. Dopo un flash iniziale (ripreso alla fine) in un ambito assai familiare a Ross (il problema razziale americano) si comincia ad entrare nel vivo con i riferimenti alle due versioni del famigerato libello Das Judenthum in der Musik, un autentico manifesto antisemita di Wagner. Che nella versione definitiva (1869) addirittura sembra prefigurare (o meglio: non escludere a priori) una soluzione violenta della reazione popolare alla progressiva giudaizzazione de mondo germanico. Seguono riferimenti ai personaggi di opere di Wagner che furono (e sono) comunemente descritti come rappresentanti (da esecrare!) dello stereotipo dell’ebreo: i Nibelunghi, Beckmesser, Kundry (ma non Klingsor…?) Segue una sezione che ricorda Houston Stewart Chamberlain, antisemita eterodosso che riuscì ad entrare nel cerchio magico di Bayreuth sposando Eva - figlia del Maestro e di Cosima - ed assumendo poi un ruolo centrale nel supporto alla soluzione finale per gli ebrei. Poi Ross ricorda come tanti ebrei diventarono invece estimatori di Wagner: a partire da Hermann Levi, scelto per dirigere nientemeno che la prima di Parsifal. E poi Theodor Herzl, uno dei padri del sionismo, che ebbe un ruolo decisivo nella prefigurazione dello Stato ebraico e che fu un grande estimatore di Wagner, soprattutto della figura di Tannhäuser. [Ndr: i detrattori di Wagner che ancor oggi ne vietano la musica in Israele evidentemente fingono di dimenticare queste ascendenze.] Il capitolo si chiude con alcuni interessanti riferimenti al wagnerismo afro-americano (l’influenza di Wagner su artisti – cantanti e scrittori - di colore).

7. Venusberg. Il Wagner femminista e gay.

Dopo un’introduzione che ricorda gli esperimenti e gli studi psicologici sugli effetti della musica di Wagner sulla sfera erotica, Ross si occupa dei rapporti del compositore con il sesso debole. Nei drammi wagneriani troviamo Brünnhilde e Isolde (fiere ed emancipate) e Ortrud (più strega che donna) e per il resto (Senta, Elsa, Elisabeth, Kundry) femmine in qualche modo relegate al ruolo passivo (fino alla morte…) di strumenti di salvezza per l’uomo. Ross analizza poi i riflessi che i ruoli delle donne wagneriane hanno avuto sull’arte (narrativa e figurativa) a cavallo del secolo e persino la spinta all’emancipazione indotta nelle interpreti di quei personaggi. Il capitolo tratta poi copiosamente anche delle fissazioni del compositore per vesti e tendaggi di seta e biancheria intima… ehm… equivoca e delle supposte tendenze androgine e misogine di Wagner; e persino [Ndr: qui Ross deve avere anche un personale interesse…] di quagli aspetti che vennero raccolti e sfruttati dai movimenti gay. E qui, ancora, ecco i riferimenti a Thomas Mann e in particolare a Morte a Venezia. Il capitolo chiude con lunghe considerazioni sulle capacità di psicanalisi di Wagner, che anticiparono di mezzo secolo almeno gli studi e i lavori di Freud&C.

8. La roccia di Brünnhilde. Willa Cather e il romanzo della diva.

Questo lungo capitolo è decisamente difficile da digerire e metabolizzare per noi, data la sua totale ambientazione americana. Cionondimeno ci fornisce un quadro quasi insospettabile, per noi europei, di quanto Wagner avesse già ai suoi tempi penetrato il mercato yankee. La scrittrice Willa Cather (1873, Virginia, poi trasferita in Nebraska, quindi in Pennsylvania e infine a NYC) divenne famosa per il suo romanzo (1915) intitolato Canto dell’allodola, di cui è protagonista una giovane cantante wagneriana, che si appresta ad interpretare il ruolo di Fricka. Ciò dà lo spunto a Ross per una sommaria esegesi della Walküre (second’atto in particolare). Interessante la chiusa del capitolo, dove Ross cita un altro romanzo della Cather (La casa del professore) che fa esplicito – e assolutamente wagneriano - riferimento al ruolo di Religione e Arte come strumenti di elevazione spirituale per l’Uomo.

9. Fuoco magico. Modernismo, 1900-1914.

Altro capitolo assai ostico, che prende spunto dallo spezzarsi del filo del destino nel Prologo di Götterdämmerung per paragonarlo ai movimenti artistici che nei primi 20 anni del XX secolo costituirono l’ondata modernista, che rompeva con la tradizione romantica (quindi paradossalmente anche con… Wagner, del quale si strumentalizzava soprattutto la famosa esortazione Kinder! macht Neues!) anche sotto la spinta delle innovazioni tecnologiche che mettevano a disposizione dell’artista nuovi strumenti espressivi e nuovi canali di divulgazione di massa del suo prodotto artistico. Wagner rimase tuttavia ben presente sulle scene, ad esempio contribuendo con la sua musica ad alimentare nuove forme di spettacolo (di danza, soprattutto) e allo stesso tempo ricevendo da queste nuove forme contributi per la rappresentazione dei suoi drammi (Isadora Duncan, dopo aver offerto spettacoli di danza su musiche di Wagner fu chiamata a Bayreuth per le coreografie di Tannhäuser). Il teatro di Wagner fu pesantemente toccato dal modernismo, tanto che la figura del Regisseur cominciò ad acquistare importanza crescente, grazie anche all’impiego di nuove tecnologie, soprattutto della luce, come teorizzò e praticò, facendo scuola, Adolphe Appia. Parimenti influenzata da Wagner (dalla sua concezione dell’Arte come strumento di elevazione spirituale) fu la pittura di quegli anni, di cui Kandinski fu esponente di spicco. Ross passa poi a trattare l’influenza wagneriana sulla letteratura modernista anglo-americana, dilungandosi in particolare sulle figure di Joseph Conrad, Ford Madox Ford, David Herbert Lawrence ed E.M.Forster, tutti in qualche modo debitori (magari senza esserne adepti) dei drammi di Wagner. Non manca una sezione dedicata alle scrittrici-femmine, e qui è Virginia Woolf ad occupare il centro della scena. Il capitolo si chiude con un doveroso e significativo omaggio a Marcel Proust.

10. Notung. La prima guerra mondiale e il giovane Hitler.  

Il capitolo si apre con il Capodanno 1914, alle ore 00:00:00 del quale scadevano i diritti sulle opere di Wagner e sull’esclusiva di Bayreuth per Parsifal. Al Gran Liceu di Barcellona il dramma sacro fu programmato per le ore 23:00 (corrispondenti alla mezzanotte in Germania) ma effettivamente iniziò alle 22:30, in modo tale che attorno alla mezzanotte (di Barcellona) suonassero le campane che accolgono Gurnemanz e il puro folle nel tempio del Gral! La predilezione dei catalani per Parsifal ovviamente derivava dalla convinzione che Monsalvat sia in realtà Montserrat, sulle montagne sopra Barcellona. In quel 1914 nacquero i primi dissapori nella famiglia Wagner, con l’allontanamento di Isolde: il Festival programmò solo due recite di Parsifal [più due Holländer e un ciclo del Ring, ndr] dopodichè chiuse i battenti per esattamente dieci anni. Ross tratta ora dell’atteggiamento delle opinioni pubbliche riguardo alla guerra (e riguardo a Wagner): in Germania e nel mondo tedesco ai supporter del conflitto non parve vero di poter usare termini wagneriani per descrivere la missione della virtuosa e religiosa Germania contro le depravate e secolari nazioni nemiche. Ciò spiega l’uso di nomi wagneriani per definire azioni belliche, linee del fronte o armi letali. Altrove, come in Francia e in Italia, non si esitò a boicottare Wagner, ritenuto l’ispiratore del militarismo e del bellicismo tedesco. In USA si passò da una debole difesa dell’artista Wagner ad una messa al bando di tutto (e tutti) ciò che sapeva di germanico. In altri casi, come la Gran Bretagna, gli intellettuali furono meno drastici, anzi riconoscendo che opere wagneriane, come il Ring, in effetti prefiguravano l’ascesa e la caduta del Reich, come quella di Wotan&C. Ross ricorda anche personaggi del mondo dell’arte che continuarono a ispirarsi a Wagner durante e dopo il conflitto, come il volante D’Annunzio e come Proust. Una sezione del capitolo è riservata al movimento futurista e dadaista: vi spicca anche Filippo Tommaso Marinetti, wagneriano fino all’osso e poi divenuto uno dei più feroci critici dei drammi del Maestro, primo fra tutti il Parsifal; insieme a futuristi che invece continuarono a inneggiare a Wagner. Il capitolo si chiude, insieme alla guerra, con riferimenti wagneriani (Siegfried) alla pugnalata alla schiena (in sostanza, tradimenti) che avrebbe inopinatamente determinato la sconfitta del Reich. Peccato che il traditore (Hagen) avesse poco prima dato il suo nome proprio all’operazione militare che avrebbe dovuto celebrare la vittoria di Siegfried! Il vittimismo legato al sospetto della pugnalata diventerà il motore del nazismo, e quindi ecco apparire sulla scena Adolf Hitler, del quale vengono ricordati i primi incontri con i drammi wagneriani ed anche leggende metropolitane fiorite attorno ad essi.

11. L’anello del potere. Russia e Rivoluzione.  

L’apertura del capitolo tratta dei rapporti fra il wagnerismo e il marxismo, rapporti assai multiformi, quante furono le interpretazioni politiche delle opere di Wagner e le sfaccettature del movimento socialista. Un’attenzione specifica è riservata ad uno dei più famosi e controversi socialisti-wagneriani: George Bernard Shaw e alla sua interpretazione del Ring in chiave squisitamente anti-capitalista. Successivamente Ross passa ad occuparsi della ricezione di Wagner nella Russia pre-rivoluzionaria. Dopo aver trattato della scarsa considerazione per Wagner di importanti letterati russi (Dostoevski e Tolstoi, in particolare) Ross rievoca i successi parigini di Sergej Djagilev e dei suoi Ballet russes, che si proponevano dio realizzare ciò che Wagner aveva prefigurato nell’opera: un sostanziale Gesamtkunstwerk, unione armoniosa di musica, danza e pittura. E i tre protagonisti della produzione del Sacre erano tutti in qualche modo debitori a Wagner: Stravinski per la musica, il danzatore Nijimsky per aver danzato nel Venusberg del Tannhäuser e lo scenografo-pittore Roerinch che ammirava tanto Wagner da aver disegnato – per suo piacere privato – bozzetti della Walküre e poi quelli per un Tristan. Dopo aver ricordato i legami dei simbolisti russi con il mondo wagneriano, Ross esamina il trattamento riservato a Wagner dai bolscevichi all’indomani della Rivoluzione. Trattamento positivamente condizionato dalla pace separata di Brest-Litovsk, alla quale seguirono numerose rappresentazioni wagneriane a Mosca e Pietrogrado. Naturalmente erano i tratti rivoluzionari di Wagner (drammi e anche scritti filosofici) che vennero fatti propri dal regime per proletarizzare la cultura. Uno spazio importante è riservato alla figura di Vseviolod Mejerchol’d, il regista che aveva introdotto grandi innovazioni nella produzione teatrale (storico un suo Tristan del 1909) e al quale purtroppo il regime bolscevico, dopo la prima parentesi di apertura alla creatività seguita alla rivoluzione, tarpò le ali reintroducendo rigide regole dall’alto. E anche Wagner ne fece le spese, praticamente messo al bando fino alla morte di Stalin, con la breve parentesi (‘39-‘41) del Patto di non aggressione URSS-Germania. Il capitolo si chiude tornando appunto in Germania, al periodo di Weimar. Dove Wagner rimase in uno stato di sospensione, fra detrattori e ammiratori trasversalmente dislocati a destra e sinistra. Fra gli altri personaggi citati da Ross, troviamo i due mariti della vedova di Mahler: l’architetto Walter Gropius, fautore della wagneriana unione delle arti in architettura; e lo scrittore Franz Werfel, che svaluta Wagner a favore del rivale italiano Verdi. Non mancano infine riferimenti a Bertold Brecht e Ernest Bloch, che ebbero rapporti altalenanti con l’eredità di Wagner.

12. L’Olandese volante. Ulisse, La terra desolata, Le onde.

Altro capitolo assai impegnativo per chi legge, poiché Ross, occupandosi di tre letterati (del mondo anglo-americano) e di loro rispettive opere, si dilunga in citazioni e riferimenti quasi enciclopedici, che a volte finiscono per far perdere il filo del discorso e l’essenza stessa delle argomentazioni presentate. In sostanza, si tratta sempre dell’influenza (diretta o spesso indiretta e mediata) del pensiero e dei testi wagneriani su opere letterarie, qui di James Joyce, Thomas Stearns Eliot e Virginia Woolf. Dell’irlandese errante Joyce viene commentato Ulisse, il romanzo che ha chiari riferimenti nel mitologico Odisseo e nell’Ebreo errante, entrambi indicati esplicitamente da Wagner come ispiratori del Fliegende Holländer. Il romanzo ha due protagonisti, Stephen e Bloom, che schematicamente rappresentano il contro e il pro rispetto a Wagner, quindi la parallela attrazione-repulsione dell’autore di fronte all’illustre modello. Dell’americano Eliot (che non nascose le sue convinzioni antisemite) trapiantato in Europa si analizza La terra desolata, vagamente ispirata dal Tristan ma anche da Parsifal. Le onde di Virginia Woolf presenta chiari riflessi wagneriani, a partire dall’apertura che richiama scopertamente Rheingold, per poi proporre una chiusura parsifaliana. Ma è ancora Joyce a chiudere il capitolo con il wagneriano (Tristan e Ring soprattutto) Finnegans Wake.

13. La morte di Siegfried. La Germania nazista e Thomas Mann.  

La figura di Mann appare in questo capitolo a più riprese e nelle sue diverse sfaccettature riguardo la politica e il giudizio sul rapporto Wagner-Hitler: negli anni 15-18 Mann sostenne apertamente la guerra, tifando ovviamente per la Germania; poi, con La montagna incantata, tornò a prefigurare una società tollerante e basata sull’amore. Ebbe la presunzione di poter impedire la strumentalizzazione nazista del Maestro da parte del futuro Führer (anni 20); quindi arrivò la presa d’atto che era meglio starsene lontano da quel tipaccio (traslocando in USA, per dire, anni 30); e infine tentando di recuperare la reputazione di Wagner (anni 40) distrutta dal suddetto Hitler e dai suoi epigoni. Buona parte del capitolo è ovviamente riservata ai rapporti di Bayreuth con il nazismo (e con Hitler): l’arrivo di Winifred Williams (accanita sostenitrice del nazismo e di Hitler personalmente) e il suo matrimonio con Siegfried Wagner favorirono la progressiva deriva del Festival verso un sempre più chiaro fiancheggiamento del regime. Contemporaneamente l’apparato nazista (del quale facevano parte wagneriani incalliti) impiegava sempre di più la mitologia wagneriana per esaltare il ruolo e la missione storica della Germania. Si diffondevano discutibili e gratuite teorie che stabilivano la diretta influenza delle idee di Wagner (antisemitismo incluso) su Hitler, sfruttando l’enorme popolarità ed autorevolezza del sommo artista per portare acqua al mulino nazista. Siegfried Wagner cercò blandamente di correggere l’immagine razzista che stava acquisendo Bayreuth, con l’appello (che verrà ripreso dai figli nel 1951) Qui si fa solo arte. Hitler visitò Bayreuth per la prima volta nel 1923, subito prima del tentato Putsch della birreria; vi ritornò nel 1925, dopo la prigionia durante la quale i pezzi grossi del Festival (Chamberlain, Winifred…) gli diedero continuo supporto materiale e morale. Si fece amico di Wieland e Wolfgang, nipoti di Wagner e futuri direttori del Festival dal 1951, che lo chiamavano amichevolmente zio Wolfe (zio lupo!) Nel 1933 tornò da capo del governo! La protezione di Hitler portò a Bayreuth vantaggi e svantaggi: l’indipendenza artistica dalle idee dei gerarchi nazisti più reazionari; ma anche difficoltà finanziarie, legate alla progressiva evaporazione di gran parte del pubblico. In compenso Wagner divenne lo standard ai raduni del Partito a Norimberga, dove regolarmente veniva rappresentato Die Meistersinger, vero e proprio monumento musicale del nazismo. Ross ritorna ancora su Thomas Mann per trattare di Giuseppe e i suoi fratelli, una vera e propria tetralogia basata non sui miti ma sulla Bibbia; e infine sul Doktor Faustus, che Ross così battezza: un’allegoria della crisi spirituale della Germania. L’ultima sezione del capitolo elenca due diversi trattamenti riservati a Wagner prima e dopo la Seconda guerra mondiale: a differenza di quanto era avvenuto nel 14-18 la cultura tedesca (e Wagner in particolare) non venne demonizzata: Ross cita ad esempio Toscanini che rifiutò di dirigere a Bayreuth ma portò Wagner in giro per il mondo e persino fra gli ebrei di Palestina! Dall’altra parte, nacque una corrente di pensiero ancor oggi viva e vegeta che invertiva il nesso causa-effetto fra Wagner e il nazismo: Wagner era diventato la causa e il nazismo l’effetto! Il capitolo si chiude con una miscellanea di notizie su Wagner e i campi di sterminio e l’Olocausto.  

14. La Cavalcata delle Valchirie. Il cinema, da Nascita di una nuova nazione ad Apocalypse Now.  

Pensando ai rapporti fra la musica e il cinematografo ai tempi dello sviluppo di quest’ultimo, viene sempre alla mente il classico pianista (da strapazzo o… Shostakovich!) che solo soletto strimpella motivi più o meno pertinenti con le immagini proiettate sullo schermo. Ross invece ci ricorda che già nel 1915 a LosAngeles il film muto americano Nascita di una nuova nazione (smaccatamente pro-confederati) veniva accompagnato da vere e proprie orchestre sinfoniche, di 40-50 elementi! E va da sé che molte colonne sonore, a partire da quella, saccheggiarono anche la musica sinfonica per supportare le più svariate situazioni. E ovviamente Wagner era una fonte inesauribile di materia prima da utilizzare all’uopo: nel citato film, Rienzi e la Cavalcata delle Valchirie la facevano da padroni, ma Ross ci notifica che da allora almeno mille pellicole si sono servite di Wagner! E se ne sono servite in varie forme, anche contraddittorie, un po’ come era accaduto per la letteratura o la pittura: adozione entusiastica delle innovazioni wagneriane o parodia-condanna delle stesse. Allo stesso modo con cui aveva esaminato nei precedenti capitoli l’influenza di Wagner sulle arti prima dell’avvento del cinematografo, ora Ross si dilunga in dotte e documentatissime (a volte perfino eccessivamente dettagliate) osservazioni sull’influenza del Maestro sul mondo del cinema, vista in ottica artistica e in ottica geografica. Quindi si parla di USA, di Francia, di GranBretagna, Germania, Russia (Eisenstein) e anche Italia (massimamente e ovviamente Visconti, ma anche Fellini e Lina Wertmüller). Dopo aver analizzato l’impiego (sui due fronti contrapposti) di Wagner durante la WWII, Ross chiude in bellezza – per così dire – con Apocalypse now dove la Walkürenritt accompagna (appropriatamente?) le allegre scampagnate degli elicotteri yankee, così diligentemente impegnati a inondare i Vietcong di… democrazia al napalm.

15. La ferita. Il wagnerismo dopo il 1945.

Il capitolo finale del lavoro di Ross ci porta nel gran mare della contemporaneità, un autentico vortice di immagini, apparizioni, sorprese, illusioni e delusioni che personalmente fatico a sintetizzare in poche righe. Mi limito a citarne la conclusione, che Ross affida alle Figlie del Reno: Traulich und treu ist’s nur in der Tiefe… 

Postludio

Ross chiude con una ricostruzione del percorso – dalle stalle alle stelle – da lui compiuto nel suo approccio a Wagner. Con una conclusione (personalmente la condivido al 100%) che perfettamente si attaglia a quella – indecifrabile - del Ring

La visione svanisce, il sipario cala, e ci trasciniamo di nuovo in silenzio nel mondo così com’è. 

24 agosto, 2023

ROF-44 in piazza – Petite Messe Solennelle

Confesso che l’idea di recarmi una quarta volta in pochi giorni alla decentrata quanto cacofonica (applico all’architettura alle vongole una categoria della musica…) Vitrifrigo Arena (arrivandoci e ripartendoci in auto da Rimini) senza invece fare almeno una volta quattro passi per la bella Pesaro (arrivandoci comodamente in treno) è stata la molla principale che mi ha convinto a rinunciare alla presenza dal vivo per la PMS e a godermi, oltretutto a-gratis (limitazioni incluse, ovviamente…) lo spettacolo dalla Piazza del Popolo, dove da anni viene regolarmente diffuso in streaming il concerto che chiude il Festival. Almeno 5-600 le persone che hanno seguito così l’evento.

Un paio di osservazioni, diciamo così, tecniche, sull'esecuzione: la prima riguarda il famoso Prélude Religieux che, dopo due esecuzioni nella versione spuria (quella orchestrata dal compianto Alberto Zedda) è tornato – opportunamente, direi proprio - all’originale nel solo organo, magistralmente suonato da Nicola Lamon. (Qui un mio post del 2014 sull’argomento.) L’altra riguarda l’associazione dei solisti alle parti cantate dal coro: Rossini l’aveva prevista in alcuni numeri, forse perché il coro delle prime esecuzioni era davvero ridotto all’osso; qui al ROF, come sempre, anche ieri i solisti non si sono aggregati.

Ovviamente (va sempre ripetuto) l’ascolto tecnologico non permette di formulare giudizi compiuti sui suoni, ma qualcosa si può comunque osservare, ad esempio le agogiche tenute dal Direttore. E qui devo dire che il profeta-in-patria Michele Mariotti, che tornava al ROF dopo 4 anni (Semiramide 2019) e debuttava nella PMS non mi ha del tutto convinto: avendo tenuto tempi (per me) troppo sostenuti e slentati, come del resto testimoniano i 90’ netti di durata dell’esecuzione (se confrontati ad esempio con i 78’ di questo impeccabile Chailly).    

Sui suoi standard di eccellenza l’OSN-RAI, che invece suonava per la seconda volta (al ROF, s’intende) la Messa, avendola già eseguita nella precedente apparizione del 2018. 

Il Coro del Ventidio Basso diretto da Giovanni Farina era al primo approccio di quest’opera, dopo aver cantato di recente in due Stabat Mater (2017-21) e non ha tradito le attese. Invero trascinanti, in particolare, i monumentali passaggi fugati del Cum Sancto Spiritus e del Credo (l’Allegro cristiano!) dove finalmente Mariotti ha allentato un po’ le briglie…

Tutti da elogiare i solisti, a partire da Vasilisa Berzhanskaya, di ritorno al ROF dopo due anni: nel 2021 aveva trionfato come Sinaide nel Moise e a seguire aveva cantato lo Stabat Mater nell’edizione in forma scenica diretta da Bignamini. Davvero rimarchevole la sua prestazione, culminata nell’accorata implorazione dell’Agnus Dei.

Bene anche Rosa Feola, debuttante al ROF, che ha illustrato con calore il Crocifixus e l’O Salutaris. Le due si sono anche distinte insieme nel Qui Tollis.

Dmitry Korchak faceva parte del quartetto protagonista della penultima apparizione della PMS, nel 2014, sotto la direzione di Zedda. Efficace, stentoreo e cesellato il suo Domine deus.

Giorgi Manoshvili era al suo primo impegno importante al ROF. Più che buono il suo Quoniam, per profondità e portamento. Voce potente, ma magari qualche decibel in più non guasterebbe, proprio sulle note più… basse.

Grandi applausi per tutti e conclusione in… gloria. 
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Bene, archiviato anche il 44, ci si prepara al 45, che dovrà essere proprio speciale, essendo naturalmente la colonna portante dell’evento Pesaro: capitale italiana della cultura 2024… E l’annuncio divulgato già la sera dell’11 lo conferma, almeno sotto l’aspetto quantitativo: 4 titoli (e non 3 come uso ormai consolidato) e cioè Ermione (terza produzione, dopo 1987 e 2008); Bianca&Falliero (quarta apparizione, dopo 1986, 1989 e 2005); Barbiere di Siviglia (diventerà recordman di apparizioni, 7, dopo 1992, 1997, 2005, 2011©, 2014 e 2018); e infine L’Equivoco stravagante (quarta presenza dopo 2002, 2008 e 2019).

Uno sforzo davvero notevole, cui si aggiungerà la chiusura del Festival con Il Viaggio a Reims che celebrerà i 40 anni da quella produzione del 1984 entrata nella storia grazie alla stratosferica coppia Abbado-Ronconi.

Ora non resta da fare che un’implorazione… no, che dico, un’intimazione ai politici locali (e non):

riportate il Festival in città, cazzo!

21 agosto, 2023

ROF-44 live - Eduardo&Cristina

Il mio personale percorso a ritroso nella presenza alle tre opere del cartellone ha riservato l’ultimo posto (dulcis-in-fundo?, haha) al titolo principale di questa edizione del ROF: Eduardo&Cristina, già visto e udito – via etere/RAI - alla prima dell’11 e sul quale avevo anticipato qualche mia peregrina osservazione alla vigilia, e senza aver ancora potuto leggere il programma di sala. Il quale reca altre preziose e fondamentali considerazioni dei due curatori dell’edizione critica, Malnati e Tavilla.

Per affinità di… origini etniche (copyright Francesco Lollobrigida) segnalo subito il commento scritto a caldo dopo la prima dalla mia conterranea Roberta Pedrotti, della quale condivido ampiamente i giudizi del tutto positivi sul piano musicale; e, diciamo, ehm, politically correct, quelli meno entusiastici (o almeno dubitativi) sull’allestimento.  

Do quindi spazio in primo luogo alla messinscena, o meglio, all’idea di base di Stefano Poda, che pare farsi scudo dell’esempio rossiniano (dove una stessa musica può supportare indifferentemente il diavolo e l’acqua santa…) per proporci un approccio registico che si dovrebbe adattare – parole di Poda medesimo, riportate sul programma di sala - a questo Rossini così come a Tristan&Isolde, o a Romeo&Giulietta oppure anche ad Orfeo&Euridice(Osservo però che trattasi di drammi finiti in tragedia, a differenza del centone rossiniano, che chiude in gloria.)   

Tradotto in termini Pod-iani, in scena non va in onda il soggetto originale, ma una libera interpretazione delle mille materializzazioni del concetto amore-morte. Che artisticamente, secondo il regista, si traducono in immagini di corpi umani mostrati (staticamente/sculturalmente o dinamicamente/carnalmente) nelle più diverse posture associabili a pulsioni erotico-spirituali dell’insieme anima-corpo di ogni essere umano.

La componente freddamente materiale di ciò è il fondo-scena occupato da un gigantesco bassorilievo in cui appare un’accozzaglia di sezioni di corpi umani (teste, petti, cosce e glutei alla rinfusa, tipo deposito di macelleria) e dalle quinte laterali costituite da enormi scaffali occupati da manichini di gesso raffiguranti corpi ignudi. Quella dotata di anima e corpo è invece rappresentata da mimi (quasi sempre completamente nudi, salvo minuscoli cache-sexe) che si muovono ieraticamente sul palcoscenico ad esternare (per noi poveri pirla che non saremmo in grado di raffigurarcele) le segrete pulsioni che animano la psiche dei personaggi del dramma.

Naturalmente Poda ci notifica quando in scena arrivano personaggi del soggetto reale (i protagonisti e i componenti dei cori) che, per ragioni forse anche di… ehm… indisponibilità alla nudità in pubblico, sono ricoperti di costumi che ne identificano lo status e la fazione.

Insomma, un’idea come tante altre che serve al regista per scaricarsi della responsabilità di mostrarci qualcosa che abbia una sia pur minima attinenza con il soggetto dell’opera. Evabbè, uno potrebbe obiettare che per questo ci sono già le esecuzioni in forma di concerto, senza scomodare (con relativi costi) scenografi, coreografi, costumisti, addetti alle luci (tutti qui distillati, e retribuiti, nel solo… Poda!) e figuranti assortiti e per di più correndo il rischio che lo spettatore, tutto preso a decifrare quegli alati simboli, finisca o per annoiarsi o per perdersi anche quanto di buono c’è nella musica…

Ma, si sa, ai festival tutto è concesso, dalle più grandi trasgressioni alle più comode e ammiccanti paraculate, e qui abbiamo un esempio cumulato dei due approcci (!?)
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Confermata invece l’impressione a caldo lasciata(mi) dall’ascolto tecnologico. 

Daniela Barcellona è tornata qui con una prestazione di grande classe, che il pubblico (anche ieri parecchi vuoti in sala…) ha accolto trionfalmente. Forse la voce non ha più la penetrazione di un tempo, ma la nobiltà dell’emissione, il portamento e la sensibilità interpretativa sono sempre da incorniciare.

Anastasia Bartoli non è stata da meno, confermando l’ottima impressione suscitata alla prima. La voce è adamantina, senza sbavature o vetrosità, gli acuti sempre squillanti e gli abbellimenti virtuosistici e le colorature impeccabili. Le due hanno poi strappato applausi a scena aperta nei duetti e nei concertati.

Enea Scala dal vivo mi è parso meno efficace rispetto alla ripresa tecnologica: la voce non sempre passa adeguatamente, gli acuti a volte sono staccati con fatica e gli abbellimenti non proprio impeccabili. Comunque ha ricevuto un interminabile applauso dopo la sua grande aria del primo atto.

Matteo Roma si è pure ben comportato in tutti i suoi interventi, e in particolare nella sua aria (che nell’edizione critica viene escluso sia di Pavesi, ma sospettato possa essere proprio di Rossini…) meritandosi calorosi applausi. Così come Grigory Shkarupa, voce davvero imponente, come la presenza scenica. Applaudi a scena aperta anche per lui dopo l’aria di Pavesi del second’atto.

Applausi e ovazioni anche per il Coro del Teatro Ventidio Basso, diretto da Giovanni Farina, che ha una corposa presenza in quest’opera, nobilitata da una prestazione di alto livello, sia nel complesso, che nelle due sezioni chiamate a sostenere le scene più drammatiche.

Di Jader Bignamini non posso che ripetere tutto il bene possibile. Lui è arrivato più tardi di altri alla ribalta della Direzione, dopo lunga gavetta in orchestra (clarinetto in MIb a laVerdi) ma ormai è lanciatissimo sulla scena internazionale: da Detroit (dove è di casa) al resto del mondo. Anche per lui grande successo, insieme a qfello della prestigiosa OSN-RAI, inclusi i due continuisti Giulio Zappa e Jacopo Muratori (fortepiano e cello).

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Ecco, chiudo così i miei commenti sul cartellone principale di questo ROF. Che però deve ancora terminare: a parte le due ultime recite, ci sarà il gran finale della Petite Messe Solennelle, che ho deciso di seguire da… (non troppo) lontano. 

19 agosto, 2023

ROF-44 live - Aureliano

Il mio secondo passaggio al ROF-live ha avuto come oggetto Aureliano in Palmira, la produzione del 2014 firmata da Mario Martone, produzione che avevo abbastanza duramente criticato al suo apparire; critiche che la ripresa di Daniela Schiavone non ha per nulla fugato.

Come scrissi allora, in effetti si tratta di una messinscena di sconsolante banalità, priva di una qualunque cifra interpretativa: sembra il compitino in classe di un ragazzino cui si è fatta leggere la favola della regina Zenobia. Una cosa fra la scimmiottatura di Zeffirelli e la parodia di un filmaccio di Maciste. La scena dei pastori, in particolare, è di un deprimente… realismo: tre caprette che entrano sul palco a brucare stoppie! Velleitaria l’idea di mettere in scena il continuo (la brava Hana Lee al fortepiano): sarà pure più vicino ai cantanti, ma è 30 metri più lontano dal pubblico!

Ma davvero insopportabile è la trovata finale: per mostrare a tutti che la sua è una regìa impegnata, Martone che ti inventa? Mentre i protagonisti stanno cantando il concertato conclusivo, lui fa scendere un pannello su cui viene proiettata sopra la storia vera (!?) di Zenobia. Così il pubblico si impegna per leggere il pistolotto e si perde tutto il finale! Pistolotto che si conclude con un riferimento di tutta attualità: ciò che accade oggi in Medioriente, e in Siria-Iraq in particolare, altro non è se non uno strascico antimperialista di quelle vicende di 2000 anni fa; insomma, i criminali tagliagole dell’ISIS sono i nipotini di Zenobia! 
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Avanzo qui un’altra considerazione, seguita da una domanda: dato che il trasferimento dal Teatro Rossini all’Arena (palcoscenico assai più vasto con in più la passerella che circonda l’orchestra) ha costretto necessariamente ad apportare modifiche piccole o grandi alla messinscena, non sarebbe stato il caso di cogliere l’occasione – che non tornerà tanto presto - per proporre dell’opera, anzichè la versione completa e lunghissima, quella più breve, pur prefigurata come la prima dall’edizione critica di Will Crutchfield? Il che avrebbe anche avuto un senso dal punto di vista filologico, nel rispetto degli obiettivi del Festival che ormai, chiuso definitivamente - con Eduardo & Cristina - il ciclo delle prime, deve necessariamente percorrere vie nuove. 

In effetti l’ascolto integrale dell’opera lascia intuire le ragioni del suo scarso successo lungo gli anni, e degli innumerevoli tagli cui è stata regolarmente sottoposta: a dispetto del grande spessore della musica, incredibilmente innovativa se pensiamo al 1813, la sua lunghezza smisurata e la scarsa consistenza del soggetto (si pensi solo allo stucchevole succedersi di battaglie, tregue, trattative cui seguono altre battaglie…) la rendono difficilmente digeribile nella versione completa.

Opera altamente innovativa, appunto, e non a caso Rossini dedicò alla composizione di Aureliano tempo e fatica insoliti per lui, in quei primi e vorticosi anni della sua produzione. Un chiaro indizio di ciò è il trattamento riservato alla Sinfonia: a differenza dei suoi successivi imprestiti (ad Elisabetta e Barbiere, opere dove non ha alcun riferimento ai contenuti)  motivati quasi esclusivamente da fretta e mancanza di tempo, qui la Sinfonia è parte integrante dell’opera, anticipandone alcuni motivi peculiari: l’introduzione lenta in MI maggiore, che udremo (trasposta in MIb) nel second’atto, allorquando Arsace si inoltra nei boschi dopo essere fuggito dalla prigione di Aureliano; la sezione finale del primo tema (in MI minore); il cantabile in SOL maggiore (seconda sezione del secondo tema) e il successivo famoso crescendo e cadenza conclusiva che chiudono il primo atto.

Insomma, Rossini qui fece le cose con il massimo impegno e la massima cura, e i risultati si sentono! E se ne rese conto lo stesso Autore che, a dispetto dello scarso successo delle prime rappresentazioni alla Scala, pescò abbondantemente nell’Aureliano per successive opere; a parte la sinfonia, ne riutilizzò, rielaborandole ma senza renderle irriconoscibili, alcune melodie: il coro iniziale (Sposa del grande Osiride) fu impiegato nel Barbiere per la cavatina d’esordio di Lindoro (Ecco ridente); la cabaletta di Arsace (Non lasciarmi in tal momento) divenne parte dell’aria di Rosina (sempre nel Barbiere); e di lì a poco anche il Sigismondo mutuerà più di uno spunto dall’Aureliano.
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Ieri sera il pubblico (Arena non proprio esaurita) ha tributato un grande successo alle due voci femminili del cast: Sara Blanch, una Zenobia che non fa rimpiangere la sontuosa Pratt del 2014; la perla è stato il suo MIb sovracuto (Per donarvi libertà) che ha fatto impazzire gli spettatori; e poi l’Arsace di Raffaella Lupinacci, che nel 2014 impersonò la più modesta (come parte) Publia, quest’anno affidata alla promettente Marta Pluda: due perle le sue desolate esternazioni dopo le batoste subite in battaglia. Ma anche insieme, le due hanno scatenato l’entusiasmo del pubblico, culminato in un interminabile applauso dopo il duetto finale, chiuso sulla passerella, sopra il podio del Direttore.

Alexey Tatarintsev ha a sua volta riscosso consensi: più per gli stentorei acuti (DO e REb) sparati con grande sicurezza, che non per la prestazione complessiva, dove ha mostrato ancora qualche limite, che potrà superare continuando a impegnarsi con studio e dedizione.

Degli altri, detto del discreto ritorno di Marta Pluda, una menzione va ad Alessandro Abis, che ha dato risalto alla parte limitata quantitativamente del Gran Sacerdote. Bene anche il Licinio di Davide Giangregorio, mentre come Oraspe (nel 2014 era quel Dempsey Rivera poi prematuramente scomparso) Sunnyboy Dladla ha mostrato qualche carenza di penetrazione della voce, pur chiara e ben impostata. Elcin Adil si è dignitosamente comportato nella piccola parte del pastore.

Su buoni standard il coro del Teatro della Fortuna di Mirca Rosciani, che ha qui una parte assolutamente di rilievo.

Del Direttore ateniese George Petrou devo confermare la buona impressione fatta alla prima alla radio: gesto sobrio, attacchi puliti, agogiche sostenute e dinamiche settecentesche, come si addice a questo dramma serio; qualità messe in luce già dall’esecuzione della famosa Sinfonia. L’Orchestra Rossini si merita a sua volta un encomio per la brillantezza del suono e la compattezza mostrata in tutte le sezioni.

In definitiva, un meritato successo per tutti, ferme restando (ma qui parlo per me soltanto) le perplessità sull’allestimento. 

17 agosto, 2023

ROF-44 live – Nedda di Borgogna


Il mio tour per le visioni live (tipica frase nell’idioma italico…) delle tre opere in cartellone di questo ROF è organizzato a ritroso: quindi ho iniziato ieri (in un’Arena occupata per non più dell’80%) da Adelaide di Borgogna, che è una nuova produzione, la seconda nella storia del ROF dopo quella del 2011, allora affidata a Pier’Alli. La registrazione video (mutilata della Sinfonia) è disponibile su youtube e fu effettuata al Teatro Rossini proprio alla rappresentazione del 16 agosto, quando ero anch’io presente e alla quale si riferiscono alcune mie note di commento. 

Il titolo del post si spiega ovviamente in riferimento alla regìa di Arnaud Bernard. Che ha impiegato il trucco, vecchio quanto il… teatro, di mostrarci appunto un soggetto di teatro-nel-teatro, con totale commistione fra l’ambiente (falso e bugiardo per definizione) del teatro e quello, vero, prosaico e a volte miserevole, della vita di ogni santo giorno. Così lo spettacolo è infarcito di mille dettagli che nulla hanno a che vedere con il serioso soggetto originale, ma molto con l’avanspettacolo: screzi fra cantanti e fra interpreti e regista, intoppi di ogni tipo alle prove dell’opera e soprattutto privati amoreggiamenti e tradimenti. Insomma, per tornare al titolo del post, vediamo in scena un soggetto di cui è esempio preclaro il lavoro di Leoncavallo.

 

Peccato che per quest’ultimo il soggetto intendesse programmaticamente presentare la citata commistione fra teatro e vita. Nulla di più lontano quindi dalle intenzioni e dagli obiettivi di Rossini e del suo librettista Giovanni Schmidt. Ergo possiamo dire, senza tema di smentite e rimanendo perfettamente seri, che questa produzione è una (simpatica perchè incruenta?) pagliacciata!

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Venendo a cose serie, il povero Francesco Lanzillotta è stato vittima di un incidente stradale, in moto, che gli è costato qualche frattura. Perciò ha dovuto dare forfait per le tre restanti recite e sul podio è salito il promettente Enrico Lombardi che, come spesso accade a chi viene inopinatamente catapultato alla ribalta (e così anni fa fu proprio per Lanzillotta chiamato a sostituire Chung), ha sfruttato a meraviglia l’occasione per confermare le sue doti, con una direzione sicura e autorevole.


L’OSN-RAI lo ha assecondato (o forse… guidato?) nell’impresa. Così come il coro di Farina del Ventidio Basso, cui ci verrebbe da rimproverare qualche (ehm…) sfasatura, non fosse che fosse la volta bbuona anch’essa parte dei trucchi del regista!!!

 

Prima di dire delle voci soliste, va premesso che – come sempre - dal vivo le cose appaiono (o si sentono, nella fattispecie) sotto-dimensionate rispetto a quanto contrabbandato dalle riprese tecnologiche (microfoni-in-bocca). Ma i maschi (e insomma, diamogli ciò che è loro diritto naturale, una volta tanto) hanno tenuto gagliardamente botta: primo fra… due Riccardo Fassi, un Berengario che si sentiva anche da… Rimini; ma anche l’Adelberto di Renè Barbera, che ha sfoggiato tutto ciò che gli è concesso da madre natura.

 

Non proprio così le due femminucce (Peretyatko e Abrahamyan) protagoniste della relazione LGBTQ+, che hanno mostrato qualche problemino nella cosiddetta ottava bassa

 

Ma infine per tutti c’è stato un meritato trionfo (insomma, 7-8 minuti totali) che ripaga il cast (un po’ meno il regista…) dell’abnegazione dimostrata nell’affrontare disgrazie, sia quelle programmate che quelle materializzatesi on-the job.

14 agosto, 2023

ROF-44 via radio - Adelaide


Adelaide di Borgogna è una nuova produzione, la seconda nella storia del ROF dopo quella del 2011, allora affidata a Pier’Alli. La registrazione video di quell’esordio (mutilata della Sinfonia) è disponibile su youtube e fu effettuata al Teatro Rossini proprio alla rappresentazione del 16 agosto, quando ero personalmente presente e alla quale si riferirono alcune mie note di commento.

 

Come nelle due serate precedenti, anche quella di ieri va apprezzata sul piano musicale: il cast si è rivelato assai agguerrito e ben assortito in tutti i ruoli principali.

La protagonista è Olga Peretyatko, veterana del ROF (esordì in Desdemona nel 2007) e sempre di casa a Pesaro, a dispetto della travagliata relazione con il profeta-in-patria Michele Mariotti. Voce calda e omogenea in tutta la tessitura, solidi acuti e brillanti colorature. Il (la) deuteragonista Ottone è oggi quella Varduhi Abrahamyan che qui ha già interpretato Malcolm (2016, La Donna del lago) e Arsace (2019, Semiramide): ieri ha davvero superato il difficile esame, mostrando di padroneggiare questo ruolo fra i più importanti nella gamma rossiniana degli en-travesti

Gli altri due personaggi maggiori (e… maschili) sono il Berengario di Riccardo Fassi (Polibio nel 2019 e Stabat Mater nel 2021) e l’Adelberto di Renè Barbera, che esordì nel 2015 come Giannetto (Gazza ladra e Stabat) e l’anno successivo fu Narciso nel Turco. Entrambi hanno brillantemente superato la prova: il primo sciorinando la sua solida voce baritonale e l’autorevolezza del portamento; il secondo confermando le sue qualità di tenore dalla voce chiara, sempre ben impostata, e dagli acuti stentorei.

Completano il cast gli esordienti Paola Leoci (Eurice), applaudita anche alla sua breve arietta del second’atto; Valery Makarov (Iroldo) e Antonio Mandrillo (Ernesto).

Buone notizie anche da Francesco Lanzillotta, ritornato al ROF dopo il suo positivo debutto del 2017 (Torvaldo&Dorliska) che ha guidato la sempre impeccabile OSN-RAI; e dal Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina.

Quindi meritato successo per tutti.

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Prossimamente commenterò lo spettacolo, affidato alla regìa del neofita (al ROF) Arnaud Bernard. Bossini e il regista ci hanno a parole fatto capire che l’idea portante dello spettacolo è un teatro-nel-teatro presentato in modo iper-realistico. 

E che c’è una sorpresa finale di sapore LGBTQ+!¾?@#§£$...... 

13 agosto, 2023

ROF-44 via radio - Aureliano

Ieri a Pesaro è stata la volta di Aureliano in Palmira, una produzione del 2014 firmata da Mario Martone, oggi ripresa da Daniela Schiavone. Produzione che – ahimè – mi lasciò piuttosto perplesso (per non dir di peggio) come commentai severamente su queste pagine. (Chissà se il ri-allestimento ha portato… consiglio, staremo a vedere più avanti.)

Viceversa il lato musicale (almeno a giudicare dalla diffusione radio) ha suscitato impressioni più che positive.

Il Direttore George Petrou, specialista del barocco (con il suo ensemble è stato recentemente ospite alla Scala con Carlo il Calvo) mi è parso perfettamente a suo agio con questo Rossini che lui (intervistato da Oreste Bossini) ha definito romantico (beh, insomma…) Il suo approccio non mi è parso poi tanto distante da quello di Will Crutchfield, l’editore critico della partitura, che diresse appunto nel 2014: tempi piuttosto sostenuti e austeri, come si addice a questo lavoro del pesarese (che ci aveva dedicato gran cura, per il suo esordio in Scala); e grande attenzione alla gestione degli innumerevoli recitativi accompagnati che costellano la partitura, caratterizzandola proprio come opera seria.     

L’Orchestra Rossini l’aveva già preparata a dovere e poi suonata 9 anni fa con Crutchfield ed evidentemente ha fatto tesoro di quell’esperienza. Il coro invece allora era quello di Bologna (prima del divorzio dal ROF) ed oggi gli è subentrato meritoriamente quello del Teatro della Fortuna, diretto da Mirca Rosciani.

Molto positive le prestazioni delle voci, a partire dall’ispanica Sara Blanch (uscita dall’Accademia 10 anni orsono) che ha sfoggiato le sue grandi doti virtuosistiche e i suoi acuti per rivestire al meglio il personaggio della Principessa amante e guerriera. Ottima anche la prestazione di Alexey Tatarintsev (due anni fa efficace Éliézer nel Moïse) che ha sciorinato la sua voce squillante e penetrante e alcuni iper-acuti staccati quasi con facilità. E poi Raffaella Lupinacci, passata dal ruolo di Publia del 2014 a quello ben più impegnativo di Arsace: che lei ha sostenuto con pieno merito, in tutte le diverse sfaccettature di questo complesso personaggio. All’altezza dei loro compiti gli altri comprimari.

Franco successo quindi per l’intera compagnia.

12 agosto, 2023

Apertura del ROF-44 via radio(-TV)

Partito ieri il clou del 44° Rossini Opera Festival con la prima assoluta (a Pesaro) di Eduardo&Cristina nella nuova (ancora da pubblicare) edizione critica della Fondazione. Lo spettacolo inaugurale è stato trasmesso in diretta da Radio3 e in differita di 75 minuti da RAI5.

L’impressione a caldo lasciata(mi) dall’ascolto tecnologico (spero verrà confermata dal vivo…) è decisamente positiva, grazie alla direzione dell’ormai navigatissimo Jader Bignamini, coadiuvato al meglio dalla prestigiosa OSN-RAI e dal Coro del Teatro Ventidio Basso, diretto da Giovanni Farina, da anni compagini stabili del ROF.

Ottima nel suo complesso la compagnia di canto: Daniela Barcellona, davvero una veterana del ROF (vi debuttò nell’ormai lontano 1996!) ha messo tutta la sua esperienza, oltre che la voce sempre solida, al servizio di Eduardo.

Al suo livello Enea Scala (anche lui da quasi tre lustri ospite a Pesaro) che ha ben meritato come Re Carlo: voce sempre ben impostata e squillante e acuti sicuri.

Una piacevole sorpresa (per chi non la conosceva) è venuta da Anastasia Bartoli (figlia d’arte, di mamma Cecilia Gasdia, soprano di valore prima di assumere incarichi… gestionali all’ArenaVR) debuttante al ROF. Voce dal timbro caldo e corposo, in tutta l’estensione, è stata una Cristina quasi perfetta, anche sotto l'aspetto attoriale.

Bene Matteo Roma (dal 2019 ospite al Festival) come Atlei, per il quale l’edizione critica ha scovato un’aria (Da nume sì benefico i miseri mortali) per la scena 5 del primo atto.

Altrettanto dicasi per Grigory Shkarupa (34enne di SanPietroburgo, esordiente al ROF in un cartellone principale) che ha prestato a Giacomo una voce ben tornita e profonda.


Per tutti ampi consensi, a scena aperta e alle uscite finali. 
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Lo spettacolo di Stefano Poda? Aspetto di ragionarci sopra un po’… e poi di vederlo dal vivo prima di esprimere un giudizio più equilibrato. Così d’acchito dovrei coinvolgere uno psichiatra con specializzazione in ossessioni sessuali e disturbi dell’io profondo (!?!)