affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

06 febbraio, 2022

Una escort fa il suo vero esordio alla Scala. 1- Le origini letterarie

Thaïs di Jules Massenet fu presentata a Parigi nel 1894 (poi la versione definitiva nel 1898) ma arriva al Piermarini, nell’originale francese, solo adesso, dopo la fugace apparizione del 1942 in italiano con Marinuzzi sul podio e la Favero e Bechi protagonisti... Beh, confesso che non la stavo proprio attendendo con grande ansia, tuttavia... a caval donato comprato etc.

Ma intanto: chi era costei? Ah, saperlo!

Le prime tracce risalgono all’antica Grecia, ai tempi di Alessandro Magno (seconda metà del 300 a.C.) al seguito del quale la prostituta Taide partecipò alla seconda guerra persiana.

Della stessa epoca e sempre in ambito greco abbiamo tracce di una (diversa) Taide in opere di Menandro, due delle quali (perdute) furono riprese più di 150 anni dopo (160 a.C.) da Terenzio nella sua commedia Eunuchus, dove Taide ha un protettore che la mette a disposizione di un soldato, che le fa preziosi e graditi regali (Cicerone citò questo particolare più di 100 anni dopo, nel suo De Amicitia).

Da queste fonti nel Medioevo nacque e si diffuse lo stereotipo Taide=puttana, che un tale Dante Alighieri abbracciò in pieno, tanto da citare una Taide nel Canto XVIII dell’Inferno, dove la incontra nel girone dei lussuriosi degli adulatori (!? il chiaro, anche se equivocato, riferimento è a Terenzio, via Cicerone). Peraltro il divin poeta non usa mezze parole per presentarcela:  

Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe»,
mi disse, «il viso un poco più avante,
sì che la faccia ben con l'occhio attinghe

di quella sozza e scapigliata fante
che là si graffia con l'unghie merdose,
e or s'accoscia e ora è in piedi stante.

Taïde è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse "Ho io grazie
grandi apo te?": "Anzi maravigliose!"

 

E a chi si chiede il perchè dell’attributo delle unghie di Taide faccio notare che nell’illustrazione (del Doré) lo stagno in cui sguazzano i tre arrapati per la prostituta non è (secondo Dante) acqua infernale, ma merda!

 

Massenet? No no, il suo esprit-de-finesse non gli permetteva di abbassarsi a queste sozzerie! Così prese lo spunto da un altro, e totalmente diverso, filone letterario che tratta di Taide: il filone cristiano, di storie fiorite (in Grecia, Siria, ...) dalla metà del primo millennio in poi, che ci narrano di una Taide che vive (siamo nel 4° secolo d.C.) ad Alessandria d’Egitto, dove è sì una prostituta in origine, ma alla fine - a mo’ di Maria Maddalena - si pente, espia le sue colpe e muore in... santità! Sì, la Santa Taide, ricordata sui calendari (magari come Santa Pelagia, che ha una storia simile o sovrapponibile) precisamente l’8 Ottobre!

 

Questa versione cristiana di Taide ebbe come campione nella Francia di fine ‘800 Anatole... France.  Che dapprima (1867) ne fece un poema in versi (La légende de Sainte Thaïs, comédienne) e poi (1889) un racconto, cui si ispirò Louis Gallet per stendere il libretto dell’opera per l‘amico Massenet.

 

France ideò il suo racconto sulla scorta di una versione medievale della storia di Taide, dovuta alla monaca Hrotswitha von Gandersheim, poco prima dell’anno 1000. In quel testo (teatrale) il co-protagonista (che dà anche il titolo alla storia) è il monaco Paphnutius (Paphnuce per France e Athanaël nel libretto di Gallet) che di fatto guida la donna perduta verso la rinuncia al mondo e la finale redenzione e santificazione.

 

Ma France non si limitò a romanzare la vicenda patetica e strappalacrime della prostituta pentita e redenta, ma vi introdusse, di sua invenzione, un fondamentale arricchimento della personalità del monaco Paphnuce, al quale fa compiere un percorso speculare a quello di Thaïs, il passaggio dall’ascesi alla libidine! Ecco quindi che il racconto (un po’ meno l’opera di Massenet, che ne annacqua questo aspetto) acquista un risvolto di assoluto rilievo e di aperta sfida alla religione: la drammatica commistione di santità e peccato, di fede e lussuria, di spiritualità e materialità.

 

Come giustamente si addice ad un racconto, France lo infarcì di divagazioni spesso poco pertinenti (o come minimo dispersive) con il cuore della vicenda narrata, ed altrettanto naturalmente esse vennero ignorate da Gallet al momento di predisporre il libretto per Massenet: ciò vale per le lunghe descrizioni dei sogni di Paphnuce e, come massimo esempio, per tutta la lunghissima scena del Banchetto (Capitolo II) di cui sopravviverà soltanto un breve spezzone nella scena a casa di Nicias.

 

Il lavoro si suddivide in tre soli capitoli, intitolati a specie vegetal-floreali: loto, papiro ed euforbia. Furono pubblicati in tre puntate su una rivista nel 1889 e poi raccolti in volume nel 1890.

 

I. Le Lotus. Il primo capitolo descrive con grande dovizia di particolari la vita della Tebaide, dove i monaci sono continuamente alle prese con tentazioni sataniche a sfondo sessuale, che combattono con digiuno e preghiera. Poi presenta il personaggio (e la personalità) di Paphnuce, Abate di Antinoe (o Antinopoli, sulla sponda destra del Nilo, di fronte all’odierna Mallawi, tra Minya e Asyut, circa 300Km a sud del Cairo) e la sua decisione di tornare - a 35 anni e dopo 10 di permanenza nel deserto - nella natia Alessandria per redimere Thaïs, da lui conosciuta (e desiderata) quand’era quindicenne, prima di essere toccato dalla fede, farsi monaco e dedicarsi al digiuno e alla preghiera. Questa decisione sopraggiunse dopo che la figura della donna gli era apparsa più volte in atteggiamenti esplicitamente adescanti. Invano un vecchio asceta, Palémon, da lui interpellato, cerca di dissuaderlo dall’impresa. Così lui si avvia - a piedi! - verso Alessandria, dopo aver affidato i suoi 23 discepoli ad un diacono.

 

Il viaggio è assai lungo (sarebbero almeno 500 Km) e per di più France - per ignoranza delle carte geografiche o per deliberata libertà letteraria - dopo averci descritto l’abate che si incammina sulla riva sinistra - libica - del Nilo (quindi dopo aver attraversato il fiume...) lo fa muovere, invece che verso nord, esattamente nella direzione opposta, tanto che dopo 6 giorni e almeno 500 Km di camminata il nostro arriva a Silsilé (Gebel-el-Silsila, circa 1000 Km da Alessandria!) dove si intrattiene con una Sfinge colà scolpita nella roccia e la libera da Satana (!)

 

Il 18° giorno del suo viaggio (presumibilmente avendo ripreso la direzione giusta, verso Nord) il nostro incontra un eremita agnostico e scettico, di origine greca, con il quale ingaggia una specie di tenzone filosofica, cercando di portarlo alla fede. Ma invano, così riprende il cammino e, in pochi giorni, eccolo in vista di Alessandria.

 

Dopo aver ripreso confidenza con le vie dell’opulenta e peccaminosa città (inclusa una quasi-lapidazione da parte di frotte di ragazzini...) Paphnuce ritrova facilmente la casa del suo vecchio amico Nicias, filosofo sibarita che lo accoglie a braccia aperte, insieme alle sue due schiavette, Crobyle e Myrtale, convinto che l’abate si sia de-abatizzato. Invece Paphnuce gli chiede solo di avere in prestito capi d’abbigliamento borghesi, da indossare per raggiungere il suo obiettivo: redimere Thaïs! Nicias gli rivela di esserne tuttora l’amante e lo mette in guardia dall’opporsi a Venere!

 

Vagando per la città arriva al porto occidentale, affollato di navi e barche di ogni tipo: ricordando i suoi sogni giovanili di andare per mare si addormenta, sfinito, su un fascio di cordame ed ha uno dei suoi frequenti sogni (o incubi) di cui poi cerca di individuare la provenienza, divina o infernale: la sfinge di Silsilè lo afferra con le sue fauci e, prendendo il volo, gli fa fare un... giro turistico che si conclude in un luogo desertico: lì c’è la porta dell’Inferno! Paphnuce guarda giù nell’abisso e vede una specie di girone dantesco popolato da infedeli che però si aggirano come nulla fosse sulla sponda di un fiume infuocato e indifferenti ad una pioggia di fuoco. Vi scorge Omero e Anassagora; e poi l’agnostico eremita incontrato durante il viaggio; e infine l’amico Nicias, in piacevole compagnia di Aspasia di Mileto (!) sul quale invoca - invano - una vera punizione divina...

 

Bruscamente risvegliato da un portuale, viene presto inghiottito da una gran folla che si avvia verso l’anfiteatro dove è in programma uno spettacolo con Thaïs! Paphnuce vi entra in compagnia di un filosofo scettico (un tipo non dissimile dall’eremita di Silsilé) ed assiste alla performance della commediante-mondana che impersona (Euripide? Sofocle?) Polissena condannata a morte dai greci per vendicare Achille. Dopo che lei ha offerto il petto alla spada di Pirro e si è teatralmente immolata, Paphnuce grida alla folla in delirio: questa donna sarà presto immolata a Dio resuscitato! Un’ora dopo bussa alla porta della sontuosa dimora di Thaïs.

 

II. Le Papyrus. Il secondo capitolo ci presenta - par-condicio - il personaggio e la personalità della protagonista. Raccontandoci con dovizia di particolari la vita di Thaïs fin dalla più tenera infanzia. Scopriamo che la piccola, figlia di un gestore di cabaret al porto di Alessandria e di una madre avarissima, era stata allevata di fatto da uno schiavo nubiano cristiano, che l’aveva fatta battezzare, iniziandola ai principii religiosi ma senza inculcarle alcun tabù a livello di rapporti umani (poco dopo l’uomo, in seguito alle persecuzioni dei cristiani, diventerà un martire della Chiesa, San Teodoro il Nubiano). Così lei ebbe le prime esperienze sessuali con suoi coetanei e in modo innocente.

 

Poi la sua vita cambiò con l’incontro con una vecchia donna che gestiva una compagnia itinerante di danzatori, ragazze e ragazzi che venivano affittati per deliziare le feste dei ricchi e dei notabili. Con lei si trasferì ad Antiochia (proprio ad un passo da casa...) dove divenne famosa come danzatrice e suonatrice di flauto. In effetti aveva intrapreso la professione di escort, accompagnando e concedendosi ai facoltosi clienti con la massima naturalezza, senza porsi alcun problema morale.


Poi arrivò l’amore, per il figlio del proconsole di Antiochia, che la piegò non senza pesanti insistenze. Amore però durato nemmeno sei mesi, dopodichè Thaïs tornò per un po’ alla sua precedente professione, per poi specializzarsi come attrice di prosa, fino a conquistare letteralmente il pubblico-bene di Antiochia, la cui crema la ricoprì d’oro, in cambio di... sì, proprio quello.

Fu così che, dopo anni trascorsi sulle rive dell’Oronte, ebbe nostalgia della sua Alessandria e vi fece ritorno, raccogliendo successi e... amori in quantità, ma non in qualità. Fra questi ecco proprio Nicias, che cercava di trascinarla nel suo agnosticismo e nella sua filosofia da carpe-diem, che lei peraltro cominciava ad aborrire, proprio in virtù del suo lontano passato da battezzata. Una notte, aggirandosi per Alessandria, si imbattè in una folla di cristiani che celebravano un loro martire: San Teodoro il Nubiano! Il ricordo dello schiavo che l’aveva fatta battezzare la distolse per un po’ dal vortice della sua vita mondana, portandola ad allontanare da sè anche Nicias.

Ma ben presto in quel vortice tornò a tuffarsi. Si era fatta costruire nella sua dimora una grotta delle ninfe, un ambiente esotico e orientaleggiante, dove spiccava una statuetta di Eros, dono di Nicias, e dove lei amava ritirarsi con gli amici a conversare; oppure, come quella sera, standosene a godere in solitudine il gran successo riscosso sulla scena, ma anche a meditare sul passar degli anni e sulla caducità delle cose terrene. Era la sera in cui Paphnuce l’aveva vista recitare Polissena. E adesso lui era lì, davanti a lei. Per manifestare il suo interesse per una donna così famosa e così bella.

I due all’inizio si abbandonano a banali schermaglie: lui dice di amarla di un amore a lei sconosciuto; lei lo irride, dall’alto della sua mondana esperienza in amori di ogni modo e maniera. Ma ecco che due rivelazioni rompono quell’atmosfera innaturale: dapprima lui, mostrandole il cilicio, si presenta come Paphnuce, Abate di Antinoé, suscitando nella donna sgomento e timore reverenziale, alimentati dal vivo ricordo dello schiavo nubiano divenuto martire; poco dopo è lei a rivelargli di essere stata battezzata, suscitando nel monaco un autentico entusiasmo, insieme alla certezza di poter ormai raggiungere il suo obiettivo di redenzione della peccatrice.

Ma la mondanità sembra riprendere il sopravvento: schiavi e schiave entrano per far bella Thaïs, che è invitata ad una gran festa conviviale in suo onore, dopo la strepitosa performance teatrale che l’ha vista trionfare poco prima. Paphnuce decide di non contrastarla, ma al contrario di seguirla alla festa, restando muto al suo fianco.      

Le Banquet. Qui France ci propina un’edizione moderna del platoniano Simposio, dove sedicenti filosofi di varie tendenze scolastiche si ritrovano (a casa di un notabile romano, ammiraglio della flotta di stanza ad Alessandria) e si confrontano dialetticamente - fra una portata e una bevuta - sui massimi sistemi (Dio per primo) e sui misteri della vita e della realtà. È un pretesto che lo scrittore impiega per mostrare la propria erudizione insieme ai propri orientamenti assai critici (e sarcastici) verso la Chiesa cattolica.

Fra i convenuti troviamo anche Ario, l’eretico condannato a Nicea, e un vecchio stoico che si rende protagonista di un autentico colpo-di-teatro, che tronca bruscamente il godereccio simposio: un suicidio in diretta!

La vacuità e la scostumatezza dell’atmosfera del banchetto, fra eresie religiose e autentiche orge, aprono ulteriormente gli occhi a Thaïs, ormai convinta a ritirarsi in un convento fuori città, verso occidente, come le ha promesso Paphnuce, che approfitta della situazione per trascinarla via da quei luoghi di perdizione. Ma prima lui le impone di disfarsi di tutto ciò che ricorda la sua vita passata nel peccato. Come? Dando alle fiamme tutto ciò che contiene la sua dimora! La donna vorrebbe salvare almeno la statuetta di Eros, che lei considera simbolo dell’amore naturale, non peccaminoso; ma Paphnuce, al colmo dell’ira, glie la strappa di mano e la scaraventa sul rogo!

Ma ora le cose per i due si complicano, poichè tutto il vicinato scende in strada, svegliato dal crepitare del fuoco e dall’acre odore di fumo. E, all’apprendere che Thaïs sta per lasciare la città insieme ad un monaco, si ribella a quello che considera un torto: negozianti che si mantenevano vendendo ogni ben di dio alla mondana e vedono sfumare i loro futuri affari; mendicanti cui Thaïs non lesinava carità che ora scompaiono; cittadini acculturati che rischiano di perdere l’oggetto dei loro piaceri estetici; amanti passati e futuri che vedono dissolversi l’oggetto dei loro desideri... Insomma, ne nasce un vero e proprio tumulto generale, che prende di mira il povero Paphnuce, ritenuto responsabile del disastro.

Per sua buona sorte, ecco sopraggiungere l’amico Nicias, che calma i bollori della folla a suon di... monete d’oro e d’argento, consentendo a monaco e pentita di svignarsela, uscendo dalla città verso occidente. Lungo il cammino Paphnuce tratta la donna con grande e financo eccesiva severità, costringendola a marciare a piedi nudi sul sentiero che costeggia il deserto e il mare e rimproverandole continuamente le sue malefatte, che solo dopo una lunga penitenza in clausura potranno essere perdonate.

Poi, accorgendosi che i piedi di Thaïs cominciavano a sanguinare, istantaneamente fu preso da grande compassione e cominciò ad invocarla come Santa Thaïs. Sequestrò un asino ad un ragazzo per issarvi la donna per il resto del viaggio, che durò ancora un’intera notte. All‘alba si mostrarono in lontananza i primi segni del monastero dove erano diretti.  

Ora frotte di monache si apprestavano a compiere ogni specie di lavoro domestico, mentre altre rimanevano immobili in contemplazione. Un’anziana monaca venne incontro ai due: era Albine, romana e nobile di origine, poi dedicatasi a custodire le giovani donne che erano ospiti del monastero. Paphnuce chiese per Thaïs una cella isolata e personalmente ne chiuse il catenaccio della porta, prima di avviarsi sulla via del ritorno ad Antinoe.

III. L‘Euphorbe. Se il viaggio di andata (fatto a piedi) era stato lungo e sofferto, forse per temprare lo spirito e la carne in vista delle fatiche della conquista (solo spirituale?) di Thaïs, quello di ritorno - ad impresa positivamente completata - fu assai rapido, grazie ad un... barcone che da Athribis (poche decine di Km a nord del Cairo) risaliva il Nilo per trasportare merci verso i monasteri sparsi sulle rive del fiume.

La notizia della redenzione della donna fatale era già arrivata prima di lui ad Antinoe, e Paphnuce fu quindi accolto come un trionfatore. Si ritirò presto nella sua cella ma, invece di ritrovarvi serenità e pace cominciò a sentirsi come a disagio, senza comprenderne il motivo. Ben presto cominciò ad apparirgli in sogno Thaïs, dapprima nello splendore della grazia, ma successivamente con aspetto esplicitamente peccaminoso. La sua cella fu invasa da un branco di sciacalli, segno inequivocabile della presenza di Satana. Sconvolto, decise di tornare nel deserto per sottoporsi a privazioni in espiazione dei suoi peccati.

Così fece visita al vecchio saggio Palémon per chiedergli conforto e consiglio. Il vegliardo gli suggerì di evitare altre privazioni corporali e invece di visitare i tanti monasteri sorti nella Tebaide, per raccoglierne le esperienze e la scienza. Ma, come già prima di partire per Alessandria, Paphnuce fece l’esatto contrario: avendo visto in sogno una colonna con capitello a forma di testa umana, mentre una voce lo esortava a salire su quella colonna, si incamminò alla ricerca di rovine di templi profani e ne ritrovò uno in cui si era fermato durante il viaggio verso Alessandria: lì vi era proprio la colonna apparsagli in sogno, con la testa di donna sulla cui fronte spuntavano due lunghe corna.

Trovò nelle vicinanze un falegname che gli costruì una scala, che lui usò per andare ad appollaiarsi sulla sommità della colonna (ndr: era il sacrificio cui si sottoponevano gli stiliti). Persone di buon cuore gli portavano del cibo e la sua presenza in quel luogo abbandonato attirò ben presto frotte di suoi seguaci; e con loro anche ogni tipo di businessman, che offriva ristori e persino alloggi ai visitatori: insomma, il luogo diventò meta turistica, oltre che di pellegrinaggio e in meno di sei mesi vi sorse una vera e propria cittadina (ovviamente chiamata Stilopolis) con tanto di municipio, di milizia, di scuola e di tribunale! E con una vita diurna e notturna da far invidia alle città più grandi e... peccaminose.

Persino l’ammiraglio della flotta romana venne in visita in quel posto e riconobbe il monaco che era stato suo ospite ad Alessandria: la cosa non fece che aumentare la popolarità di Paphnuce, riconosciuto come il più gran santo in circolazione, a venerare il quale arrivava gente da ogni dove, per chiedergli miracoli in gran quantità. 

Ma ormai Paphnuce si rendeva conto si essere precipitato nel vortice del peccato, con la sua morbosa attrazione per la figura di Thaïs, che non l’abbandonava più. Udì in sogno una voce che lo adulava, invitandolo a far carriera nella gerarchia ecclesiastica e ad abbandonare la colonna... volando come un angelo. Stava già per farlo quando la voce sbottò in una gran risata, rivelandogli di venire dall’Inferno e non da Dio e di essere stata la sua guida per tutto il tempo. Capì allora di essere diventato schiavo di Satana, mentre si credeva invece ministro di Dio! E quindi decise di abbandonare quella maledetta colonna (scendendo per la scaletta!) e di tornare nel deserto a cercare... appunto, Dio.

Vagando sulla sabbia si imbattè in una grande necropoli e trovò rifugio all’interno di una tomba, nei pressi di un’oasi dove trovava acqua e qualche frutto per cibarsi: ne fece quindi la sua dimora e il luogo di espiazione dei suoi peccati. Ma anche lì non trovò pace: una voce lo tormentava di continuo e gli chiese di osservare le pitture murali che raffiguravano scene di vita della famiglia del nobile ivi sepolto. Notò una suonatrice di lira che si materializzò e con fare seducente lo informò di essere una delle tante reincarnazioni di Thaïs, cercando di adescarlo. I diavoli abitavano ormai quel luogo e uno addirittura gli strappò il cilicio e se lo portò via.

Paphnuce trovò un passatempo per dimenticare Satana dedicandosi alla torcitura di una nuova corda per sostituire il cilicio sottrattogli, ma il desiderio carnale lo opprimeva sempre più ed arrivò così ad accusare Dio di averlo abbandonato e ad implorare il figlio, Gesù Cristo, uomo come lui, di venirgli in aiuto: proprio l’eresia di Ario! sghignazzò la voce demoniaca che lo perseguitava da quando si era installato sulla colonna... e così stramazzò a terra come morto.

Fu risvegliato da monaci in cammino nel deserto per incontrare SantAntonio (105 anni) che veniva laggiù (dalle parti di Al Bahnasa, medio Egitto) per salutare i suoi discepoli. Paphnuce si unì a loro e raggiunse il luogo dell’incontro dove era già schierata una moltitudine di monaci in attesa del Santo, fra i quali riconobbe anche il vecchio Palémon. Paphnuce si inchinò ai piedi di Antonio, ricordandogli di aver redento Thaïs e chiedendogli la sua benedizione contro le tentazioni del demonio che non gli davano pace.

Ma Antonio non si curò di lui e invece si avvicinò ad un ragazzo di Antinoe, che Paphnuce ben conosceva, di nome Paul, un povero ritardato mentale che aveva però visioni soprannaturali. E ad Antonio che lo interrogava su ciò che vedeva in cielo, Paul rispose: vedo la Santa Thaïs che sta per lasciare questa terra. E poi, guardando fisso Paphnuce: vedo tre demoni che si stanno impadronendo di quest’uomo: sono Orgoglio, Lussuria e Dubbio.

Paphnuce fu colpito al cuore da quella rivelazione e fu preso da un irresistibile desiderio di rivedere la donna che aveva redento senza aver voluto e potuto possederla. Ormai in preda all’ossessione di farla sua maledì tutta la vita passata in privazioni e sacrifici al servizio di Dio, si diede dello stolto per aver rinunciato al piacere di un bacio di quella donna, più prezioso di tutte le celestiali, eterne beatitudini. Thaïs sta morendo, si ripeteva disperatamente, Thaïs sta morendo! Si mise a correre all’impazzata per raggiungerla. Saltò su un barcone sul Nilo e dopo qualche tempo fu finalmente in vista del monastero di Albine.

La monaca lo informò di ciò che era accaduto dopo la sua partenza: Thaïs aveva umilmente accettato la sua clausura e fu così che, dopo 60 giorni di penitenza, il catenaccio della sua cella, che lo stesso Paphnuce aveva sigillato, cadde da sè e la donna entrò nella comunità delle consorelle, allietandole con la sua arte, interpretando la vita e le opere di donne sante e sagge. Poi fu colpita da una febbre che l’ha consumata e da tre mesi va peggiorando, ormai vicina al trapasso. Arrivato al suo capezzale, Paphnuce invocò Thaïs, implorandola blasfemamente di vivere, di fuggire con lui per godere la vera felicità, quella terrena. Ma la donna ormai anelava al Paradiso e, dopo aver teso le braccia verso la visione di Dio, spirò.

Paphnuce la divorava ancora di desiderio e di amore carnale. Albine lo scacciò da lì, maledicendolo. E le sorelle, terrorizzate, se ne fuggirono via gridando: un vampiro, un vampiro
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Ecco, adesso conosciamo (più o meno) il soggetto ispiratore dell’opera. Vedremo quindi come Louis Gallet ne ricaverà il suo libretto.

(1. continua)

05 febbraio, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 15

Interessante accostamento nel programma del 15° concerto della stagione: é Oleg Caetani a proporci questa settimana due autori assai distanti nel tempo, ma accomunati da una visione, si potrebbe dire, religiosa della musica: Ildebrando Pizzetti e Anton Bruckner. Certo la religiosità di Pizzetti nulla ha a che fare con cattedrali barocche e dediche al buon Dio (copyright Bruckner Nona) trattandosi di interiore e pura spiritualità, ma ciò che arriva al nostro orecchio in entrambi i casi è manifestazione di rigore e integrità morale, tradotti in estetica dei suoni.

I Canti della stagione alta (titolo un poco criptico che l’autore si astenne sempre pudicamente dallo spiegare) è un Concerto per pianoforte e orchestra (composto da Pizzetti nel 1930) che solo epidermicamente si rifà ai modelli classici (tre movimenti chiusi da un Rondo): in realtà il pianoforte non è il solista in opposizione (o comunque in dialogo più o meno serrato) con l’orchestra, ma suona in comunione con essa, guidandone quasi costantemente il flusso sonoro.

La forma poi è assai più vicina al Durchkomponieren (melodia infinita...) che non a quelle classiche: il lungo primo movimento - Mosso e fervente, ma largamente spaziato (notare il fervente...) - si muove attorno alla tonalità di RE minore all’inizio per chiudere sul RE maggiore dopo diverse sognanti e languide peregrinazioni. Il secondo - Adagio - richiama in realtà un’atmosfera vicina a quella del primo, di gradevole cantabilità, muovendo dal SI minore, relativa del RE; svariando quindi nella sezione centrale lungo il circolo delle quinte a SOL e DO maggiore, dove udiamo un’improvvisata fanfara di corni, prima del ritorno a SI minore. Il Rondo conclusivo, formalmente assai eterodosso, ci porta finalmente in una serena e allegra atmosfera bucolica, che si muove ancora dal RE maggiore. Una sezione più dimessa prepara il ritorno dell’allegra scampagnata, che si amplia poi in improvvisate divagazioni. Dopo un ritorno del tema godereccio si arriva alla chiusura in un’inopinata, francamente enfatica oltre che maestosa esaltazione (à-la-Sibelius, per dire).

Ma qui dobbiamo aprire una parentesi, diciamo, piccante, che riguarda non già Pizzetti, ma il sommo (mio conterraneo bresà, ci tengo a dirlo) Arturo Benedetti Michelangeli. Il quale, nel 1943, chiese a Pizzetti di scrivergli una cadenza per il Concerto (che in origine non ne prevedeva alcuna) che il pianista contava di includere nel suo repertorio. Pizzetti la compose al volo, inserendola canonicamente nel movimento iniziale prima della ripresa del primo tema, e la inviò a Michelangeli, che ne fu (a detta dell’Autore) entusiasta, ma che poi non ebbe mai occasione di suonarla, non avendo più suonato per la verità nemmeno il concerto. Orbene, forse non tutti sanno che l’Arturo con-baffetti-da-sparviero (copyright Gianfranco D’Angelo) ebbe una burrascosa relazione con Marisa Borini (oggi ultra-novantenne) pianista e attrice nonchè moglie di un magnate (poi andato fallito) dell’industria dei pneumatici e soprattutto madre (con padre... alieno) della futura première-dame Carla Bruni maritata Sarkozy.

Ebbene, nel 1981 la Borini incise il Concerto di Pizzetti includendovi la cadenza dedicata al baffutello amante (prima di lei eseguita solo da Tito Aprea in tempo di guerra) con l’Orchestra radiofonica bavarese: la si può ascoltare qui a partire da 12’57” fino a 17’08” del primo movimento.  Come si può udire, è una cadenza lunghissima, che viene regolarmente ignorata: solo Ciccolini la eseguì nel 1987 a Napoli (RAI) e poi in questa registrazione francese da 12’39” a 16’43”. Ignorata anche in questa esecuzione storica del brano, suonato da una delle sue prime interpreti, Lya De Barberis sotto la direzione dell’Autore nel 1955 con la RAI di Torino. E dallo stesso Caetani in questa registrazione con la consorte. Invece il felicemente ritornato in Auditorium Roberto Cominati si è pregiato di proporcela!

Come detto, il Concerto è saldamente ancorato alla tonalità e alla melodia pura: e Cominati (che già ha interpretato il brano la scorsa estate a Parma con la Toscanini e che per sicurezza si è tenuto lo spartito sotto gli... occhiali) ha mostrato di essere in perfetta sintonia con l’estetica del compositore. Caetani da parte sua ha tenuto l’orchestra proprio al servizio e al seguito del solista, senza mai (finale escluso, ovviamente) prevaricarne il ruolo.

Caloroso successo che Cominati ripaga con due bis: questo Rachmaninov (figlio e presunto padre...) e questo serioso Händel.
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Del complessato compositore austriaco viene eseguita la Seconda Sinfonia, che qualcuno battezzò come Pausen-Symphonie, per le tante fermate che la caratterizzano.

Come quasi tutte le sorelle, anche questa sinfonia fu ripetutamente sottoposta dall’Autore a revisioni e modifiche al punto che ancor oggi non c’è accordo fra musicologi ed editori-critici su una corretta catalogazione delle versioni, due delle quali (1872 e 1877) sono considerate come principali, ma ciascuna di esse presentando al suo interno ulteriori differenziazioni. La più macroscopica novità che presenta la versione 1877 rispetto alla prima del 1872 sta nella sequenza dei movimenti interni (cosa che capiterà poi alla Sesta di Mahler): in origine veniva prima lo Scherzo, che poi fu retrocesso dopo l’Andante.

Chi voglia inoltrarsi nel ginepraio delle versioni e sotto-versioni e varianti delle sotto-versioni può (ad esempio) affidarsi a William Carragan, che è l’ultimo - per ora - estensore di un’edizione critica dell’opera, arrivando dopo gli storici Robert Haas e Leopold Nowak. Oppure consultare questo minuzioso compendio.  

Bruckner è ancor oggi spesso considerato come palloso e velleitario (Brahms ebbe a liquidare la sua musica come ciarpame) e anche questa sinfonia al primo ascolto lo conferma: di lui in genere si apprezzano spezzoni della Quarta e della Settima, null’altro... Ma a pensarci bene, anche Die Kunst der Fuge di Bach può risultare ostica, cerebrale e in definitiva noiosa... Ovviamente nessuno è obbligato ad accettare, men che meno esaltare, ciò che non riesce a digerire.

In questa Sinfonia c’è proprio la plastica dimostrazione del processo costruttivo (delle sue cattedrali) di Bruckner: le innumerevoli pause che si incontrano sono come i momenti di riposo che un costruttore si prende tra uno stadio e il successivo dell’edificazione. Fino a quando può contemplare il prodotto finito e... rendere grazie a Dio per aver avuto la ventura di portarlo a termine.

Caetani (mi) ha sorpreso optando per la versione originale del 1872 (edizione Carragan, presumo) francamente più immatura (e pedantesca, basta pensare ai da-capo del Trio...) della successiva, dove un po’ tutti i movimenti furono ripuliti e migliorati assai.

In ogni caso tanto di cappello a tutti per aver offerto una prova maiuscola, accolta con grandissimo calore da un pubblico non oceanico ma entusiasta.

28 gennaio, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 14

Il settimanale appuntamento con laVerdi - Claus Peter Flor ancora sul podio - ci riserva una Carmen tutta speciale.     

Prima di un Bizet arrangiato è però la 50enne tulipana Quirine Viersen (tornata in Auditorium dopo quasi tre anni) a proporci il Primo Concerto per violoncello di Haydn. (Qui la sua incisione discografica.)

Brano (apparentemente?) facile che la simpatica Quirine ci porge con un rigore che confina con la freddezza. Ma, a parte che Haydn non è... Schubert, questa è evidentemente una sua dote innata, confermata anche dal seriosissimo bis che ci regala: il Bach della Sarabanda dalla prima Suite in SOL maggiore BWV1009. 
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Il compositore russo Rodion Shchedrin è l’autore di una particolarissima Suite della Carmen. In origine (fine anni ’60) era musica destinata ad accompagnare un balletto sulla sigaraia rubacuori, di cui era coreografo il cubano Alberto Alonso e protagonista sulle scarpine la moglie del compositore, la star Maya Plisetskaya.

La particolarità del brano sta nell’impiegare esclusivamente archi in misura... smisurata (ma chi mai ne ha 70? Flor ne dispone di metà) e una batteria sterminata di percussioni (percosse da 4 strumentisti) oltre a 5 caldaie di timpani:

Shchedrin fece un (sapiente?) taglia-e-cuci sulla partitura di Bizet, ricavandone tredici numeri di balletto. Del quale si può apprezzare qui un’edizione cubana (con replay...) I protagonisti sono, ovviamente, i vertici del triangolo: Carmen, DonJosè ed Escamillo. Al fianco dei quali compaiono Zuniga (capo del Don) e un personaggio nero: il destino.

La sequenza degli eventi diverge poco o tanto da quella dell’opera originale e di conseguenza anche la musica salta avanti e indietro (e persino fuori!) rispetto alla partitura di Bizet (si veda più sotto uno schematico sunto della struttura del brano con riferimenti all'esecuzione citata): due numeri (8-Bolero e 10-Torero-e-Carmen) vengono rispettivamente da L’Arlesienne (Farandole) e da La jolie fille de Perth (Danse bohemienne). A parziale giustificazione per questa escursione extra-moenia di Shchedrin va ricordato che quei due numeri furono pubblicati nella partitura edita da Choudens nel 1877 (due anni dopo la prima, a Bizet ormai nella tomba) come parte di un balletto (!) in tre parti da inserire all’inizio dell’Atto IV: al numero 25 (Coro À deux cuartos) erano stati appesi tre numeri presi da altre opere di Bizet e arrangiati da Ernest Guiraud: 25B (Farandole); 25C (Coro di Vaccarès, a bocca chiusa, sempre da L’Arlesienne); e 25D (Danse bohemienne).

Che dire: musica di sicuro effetto, ci mancherebbe. Ma personalmente mi sento di affermare che, eseguita senza la coreografia, perde un po’ del suo fascino. Per carità, non voglio sostenere che avessero ragione i censori sovietici che ne decretarono l’ostracismo con l’accusa di lesa-maestà nei confronti di Carmen e di Bizet... ma insomma è musica che si finisce sì per gustare (data l’indubbia maestrìa con la quale Shchedrin l’ha confezionata) ma a livello epidermico o poco più.

Naturalmente vanno elogiati i ragazzi de laVerdi per aver ancora una volta mostrato tutte le loro qualità, e il pubblico (davvero scarsino, ahinoi) non ha mancato di salutarli con applausi e ovazioni.
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Balletto Carmen

(*) L’Arlesienne
(**) La jolie fille de Perth

22 gennaio, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 13

La cosiddetta Tragica di Gustav Mahler occupa tutto lo spazio del 13° appuntamento in Auditorium (domenica pomeriggio la replica). Come già accaduto a settembre 2020 - Quarta - e a novembre 2021 - Nona - per ragioni legate alle perduranti regole di distanziamento (parliamo qui degli occupanti del palcoscenico) l’orchestra è necessariamente ridotta nei ranghi e quindi la sinfonia viene eseguita nella trascrizione di Klaus Simon per ensemble cameristico (Qui la registrazione della prima del 2019).
Sulla Sinfonia è stato scritto un fiume di parole (e anch’io mi sono permesso di aggiungere la mia goccia). Le più autorevoli restano per me quelle scritte da Ugo Duse, che personalmente reputo il più convincente studioso di Mahler, e che già ho riportato in un post di commento all’ultima esecuzione (2014) della Sinfonia (originale) qui in Auditorium.
Sul podio il Direttore Musicale, al quale la sinfonia pone un problema prima ancora di iniziare le prove: quale sequenza dei movimenti scegliere fra le due possibili, entrambe a suo tempo proposte dallo stesso Autore, la cui volontà definitiva non è mai stata chiarita fino in fondo (forse perchè Mahler per primo non la chiarì mai nemmeno a se stesso...)

Simon prescrive un organico di 1 flauto, 1 oboe, 2 clarinetti, 1 fagotto, 2 corni, 1 tromba, 2 percussionisti, arpa, armonium, pianoforte e il quintetto base degli archi, estendibile a 20 esecutori. Flor lo rimpolpa assai: negli archi (portati ben oltre il massimo suggerito); e nei fiati (tutti - salvo tromba e fagotto - incrementati di un’unità). Quanto alla vexata-quaestio della sequenza dei movimenti, Flor (come Simon peraltro) resta fedele alla versione originale, quindi con lo Scherzo in seconda posizione (e anche con due sole martellate nel finale).

Come ho già avuto modo di osservare in occasione delle precedenti esperienze con le partiture arrangiate dal musicista tedesco, la decisione di rinforzare l’organico previsto presenta evidenti pro e contro: se consente, da un lato, di avvicinare di più (ma purtroppo mai di raggiungere!) il suono dell’orchestra a quello immaginato da Mahler, dall’altro priva in parte l’ascoltatore di quella interessante esperienza consistente nello scoprire da vicino la rete dei reconditi e intricatissimi componenti della musica del compositore boemo (un po’ come vedere, al di sotto dell’involucro epidermico di un corpo, oltre allo scheletro osseo, anche il sistema venoso, la rete muscolare e nervosa).

Detto ciò resta l’elogio incondizionato da fare agli esecutori (soprattutto ai fiati, comunque ridotti a presenze solistiche, in particolare alla tromba di Alex Elia) per aver saputo ricreare in modo apprezzabile quel sesquipedale mondo sonoro che è la Sesta mahleriana! Manco a dirlo - date le caratteristiche del brano e questa modalità esecutiva - è stato l’Andante (a mio giudizio) ad aver convinto di più.

Grande successo per tutti e ripetute chiamate per Flor, da parte di un pubblico non oceanico ma entusiasta.

19 gennaio, 2022

Giulietta&Romeo ante-Shakespeare (?)

La Scala, dopo lo Shakespeare originale, ne mette in scena uno... di là da venire: I Capuleti e i Montecchi di Romani-Bellini infatti poco o nulla ha a che fare con il Bardo di Stratford, ispirandosi invece alla leggenda originale italiana che lo anticipa di un secolo buono. (Sulle origini del testo rinvio ad un mio commento scritto per una produzione bolognese del 2018). E infatti le prime parole che si leggono (a firma di Claudio Toscani) sul programma di sala del Teatro recitano: Dimenticare Shakespeare!

Invece, neanche a farlo apposta e precisamente a smentire la premessa, ecco che il regista Adrian Noble viene proprio dal mondo di Shakespeare (è stato direttore della prestigiosa Royal Shakespeare Company). E infatti già le foto sul sito del teatro lasciavano presagire il... peggio: Pertusi in clergyman! (Del resto anche molte fonti della nostra quotidiana intelligenza ignoranza distribuita presentano il personaggio come Frate Lorenzo...)

Il regista albionico cerca una difficile quadratura del cerchio, sostenendo (come titola il suo intervento sullo stesso programma di sala) che il soggetto sarebbe la stessa storia vista da angolazioni differenti (Shakespeare e Romani, ndr). Il che non giustifica però il presentarla mescolando le due angolazioni! Un esempio, proprio citato dal regista in chiusura del suo intervento, riguarda l’uccisione del fratello di Giulietta da parte di Romeo (che viene mostrata proprio all’inizio): che sarebbe null’altro che uno spiacevole incidente di gioco fra ragazzini, dove si fatica a trovare il vero responsabile. Eh no, caro Adrian, lo rivela lo stesso Romeo che il responsabile è proprio lui: solo che si trattò di una regolare uccisione avvenuta durante un conflitto armato fra due eserciti!

 

Ecco, evidentemente per deformazione professionale (e magari con un pizzico di spocchia british) il regista prova a convincerci di una cosa che è già chiara a tutti coloro che perlomeno conoscono la tragedia di Shakeapeare ed hanno letto non distrattamente il libretto di Romani: la prima supera il secondo di parecchi piedi! Peccato però che tutta l’opera musicata da Bellini si basi sul povero testo di Romani e non su quello ricco del Bardo. E che quindi trasferire parti del secondo sul primo è operazione simile a quella di mescolare lasagne al forno e vellutata al curry in un unico piatto da servire a tavola: ‘na schifezza.

 

Fin dalla scena mostrata alla fine della Sinfonia (quella dove si contrabbanda una scazzottata fra ragazzacci - Shakespeare - per un episodio di guerra in piena regola - Romani) è chiaro come il regista sia schiavo di Shakespeare, che appunto ambienta tutta la vicenda in una faida locale fra bande di bad-boys di buona famiglia, ignorando del tutto l’aspetto squisitamente e prevalentemente politico del testo di Romani, dove la storia di Verona è parte di un quadro assai più grande: le lotte fra Guelfi e Ghibellini come scontri fra le due Istituzioni dominanti nel mondo di allora: il Papato e il Sacro Romano Impero.

 

L’ambito locale e familiare - Shakespeare - viene sottolineato dal regista ad ogni piè sospinto: innanzitutto tramite la ripetuta presenza in scena del cadavere del figlio di Capellio (nel second’atto addirittura di due, uno morto e un secondo... morto che cammina). Ora, se nella prima scena dell’opera la cosa può anche starci, dal momento che Romeo ricorda quel fatto (giustificandolo però con lo scenario bellico in cui esso si verificò) poi diviene francamente stucchevole.

 

Andiamo avanti: l’ambientazione è negli anni ’30 del ‘900 e i costumi (armi automatiche incluse) dei ceffi che si aggirano in scena ricorda cosche mafiose dell’America di Al Capone e Joe Aiello: Guelfi e Ghibellini? Hahaha!

 

Torniamo a Lorenzo: Shakespeare - ed è una geniale intuizione - lo inventa frate, e come tale lo fa agire: super partes, dedito alla difesa di un sincero amore fra due giovani e alla ricerca della composizione del conflitto fra i rappresentanti veronesi dei due partiti politici che si fronteggiano. Come tale possiede anche le credenziali per celebrare matrimoni... segreti. Ora, nel testo di Romani Lorenzo è uno speziale, un medico al servizio della famiglia di Capellio, che prende le parti di Giulietta e cerca di facilitarne il legame amoroso con Romeo. Domanda: perchè mai il regista vuole anche qui chiamare in causa Shakespeare e mostrarci Lorenzo nei panni di un religioso, che in tutta l’opera non ha una sola occasione per esercitare la sua missione? (Salvo farsi il segno della croce di fronte al cadavere del fratello di Giulietta nella prima scena del second’atto!) A parte il fatto che un medico-di-famiglia è cosa del tutto plausibile, mentre assai meno lo è un prete-di-famiglia... a voler credere al regista si dovrebbe pensare che Lorenzo sia un agente ghibellino travestito da prete per meglio infiltrarsi come quinta colonna nel quartier generale dei Guelfi... roba da ridere!

 

Infine, quasi a discolparsi per le sue malefatte, il regista si inventa uno squarcio di attualità politica, ispirandosi al Patria oppressa del risorgimentale Verdi: così ci mostra - in miniatura - una scena simile a quella proposta da Livermore nel recente Macbeth: famiglie di poveri rifugiati bistrattate da militari violenti e spietati. E come colonna sonora, cosa sceglie? La mirabile introduzione (col clarinetto solista) alla seconda scena dell’atto secondo. Peccato però che quella musica celestiale evochi sì uno strazio, ma per nulla pubblico, bensì privatissimo: quello di Romeo che si sente abbandonato da tutti e da tutto!


Ecco, una regìa strampalata quanto pretenziosa, del tutto irrispettosa del soggetto da mettere in scena, che piacerà solo a chi fa di ogni erba un fascio e non distingue fra Romeo&Juliet e I Capuleti e i Montecchi. A giudicare dall’accoglienza indifferente ma non ostile del pubblico all’uscita del team registico, vien da pensare che siano in molti ad ignorare tale differenza.

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Per nostra fortuna i suoni hanno ampiamente riscattato le immagini. 


Dato che il famigerato Covid ha tradito il Kapellmeister titolare Evelino Pidò (che avrei ascoltato volentieri dati i suoi precedenti, come questoè toccato alla quota-rosa Speranza Scappucci di sostituirlo, anticipando di qualche tempo il suo debutto al Piermarini. E al proposito dico che il suo esordio qui mi è parso del tutto positivo, come ha inequivocabilmente sentenziato la trionfale accoglienza del pubblico. Avevo di lei un buon ricordo dal ROF di quasi 6 anni fa, quando lei era ancora - appunto - poco più che una speranza. Che mi sento di dire sia evoluta (ormai è in vista dei... 49 a dispetto della presenza da ragazzina) in piacevole realtà.


Va detto che lei è arrivata a prove già inoltrate e non ha dovuto partire da zero, ma la sua è stata una prestazione davvero convincente: precisione nel gesto e negli attacchi, moderazione nei non pochi fracassi che il pur elegante Bellini non ci risparmia, attenzione a non coprire mai le voci, dettagli di espressione sempre ben curati: un rapporto evidentemente ben avviato con l’Orchestra, che ha risposto al meglio in tutte le sezioni e nelle parti solistiche che impreziosiscono la partitura.

 

Detto della proverbiale compattezza e precisione del Coro di Alberto Malazzi, vengo alle cinque voci protagoniste.

 

Su tutti Lisette Oropesa: il soprano cubanamericano ha ormai raggiunto una sicurezza e continuità di rendimento eccellenti e anche ieri ha sciorinato la sua voce calda e rotonda, negli acuti pieni e in quelli smorzati, oltre ad una grande espressività che ne ha fatto una Giulietta quasi perfetta.


Accanto a lei si è ben portata Marianne Crebassa che ha creato un Romeo duro e autoritario nei momenti di scontro con i Guelfi ma anche tenero e sentimentale negli approcci con Giulietta. Forse la voce, proprio femminile, non è quella che personalmente preferirei per il ruolo (certo non dico ci vorrebbe per forza una voce cavernosa, sia chiaro...) ma non posso che elogiarne la prestazione e la presenza scenica.

 

Jinxu Xiahou (che ha rimpiazzato René Barbera) è stato un Tebaldo più che dignitoso, in una parte non proibitiva (al massimo tocca, se non erro, il SI naturale) che però lui ha reso in maniera apprezzabile: è giovane e avrà modo di crescere ancora.

 

I due bassi Jongmin Park (Capellio) e Michele Pertusi (Lorenzo) hanno dato il loro valido contributo all’insieme. Va da sè che il navigatissimo Pertusi abbia mostrato più sicurezza e controllo della voce rispetto al più giovane Park, a volte troppo schiamazzante.

 

In definitiva, una proposta bifronte, che però (a mio modesto giudizio) ha mostrato il lato-A proprio dove più è importante (del suo lato-B farei sinceramente a meno...)

14 gennaio, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 12

Dopo le feste di fine-inizio anno riprende la stagione principale de laVerdi con un concerto tutto russo. Causa restrizioni Covid e acciacchi di stagione direttore e solista al pianoforte sono diversi da quanto annunciato nel programma originario della stagione (Axelrod e Zilberstein): sul podio c’è (per la prima volta con l’Orchestra milanese) il 32enne Vincenzo Milletarì e alla tastiera la rediviva (in Auditorium, dopo più di 8 anni) Valentina Lisitsa.

Allievo di Riccardo Muti, il tarantino Milletarì (sì, con l’accento sulla ì) è ormai lanciato nel panorama internazionale, ed evidentemente si merita il successo per la sua preparazione e il suo entusiasmo, che sono testimoniati da questo esempio bolognese dello scorso anno, dove lo ascoltiamo e vediamo presentare e dirigere famosi brani del repertorio classico e romantico. Dirige con gesti ampi ma mai affettati o gigioneschi e usa la mano sinistra (à-la-Abbado) per dettare le sfumature espressive: è piacevole anche solo da vedere e - a giudicare da ciò che si è udito - deve anche essere efficace nella preparazione dell’orchestra.
Ad aprire il programma è la pochissimo eseguita Overture su temi russi e circassi, composta nel 1963 da Dmitri Shostakovich per celebrare il centenario dell’incorporazione volontaria (ma forse meglio sarebbe dire annessione, 1864) del Kirghizistan nell’Impero russo. Il compositore era proprio reduce da un viaggio (fatto anche per ritemprare lo spirito oltre che il corpo...) in quel remoto paese asiatico ed aveva preso l’impegno di comporre qualcosa per l’occasione. Così in poche settimane scrisse il brano, che ebbe la prima esecuzione a Mosca giovedi 10 ottobre, 1963 e la prima in Kirghizistan nella capitale Bishkek (allora Frunze) sabato 2 novembre dello stesso anno.
Musica quindi di circostanza, ma pur sempre di mano di qualcuno che sapeva il fatto suo e come sfruttare al meglio il materiale musicale disponibile: nella fattispecie un paio di temi popolari kirghizi (Tyryldan, creatura mitologica e Op Maida, canzone della trebbiatura) e uno siberiano (Ekh, brodyagi vy, brodyagi, O voi vagabondi) della regione di Omsk, che Shostakovich orchestra da par suo, costruendo un brano godibile e peraltro scevro da facili trionfalismi (non tutti i kirghizi erano stati entusiasti della Russia un secolo prima ed erano entusiasti dell’URSS del ‘900). 
Shostakovich non fa economia di risorse e prescrive (come minimo!) un pacchetto di archi di 66 (18+14+12+12+10) esecutori (neanche Strauss...) che da soli riempirebbero tutto il palco dell’Auditorium (qui laVerdi ne schiera praticamente la metà).

Il brano (meno di 10’) si muove sulle tonalità vicine di DO maggiore e della dominante SOL. Presenta una lunga introduzione di 41 battute in tempo Moderato, chiusa un assolo del primo flauto; poi ecco la corposa parte centrale, in Allegro non troppo, aperta dal primo corno. Dopo che l’orchestra si è sbizzarrita nella presentazione dei temi popolari, ecco arrivare una pausa di riflessione (Adagio) con 4 battute dei soli archi; quindi segue in tutta l’orchestra una progressiva accelerazione del tempo, che passa da Allegro a Presto per la brillante chiusura.

Per essere la prima volta che laVerdi la affronta, devo dire che l’esecuzione è stata vibrante e convincente: un brano che merita di certo maggior presenza nei programmi concertistici.
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Ecco poi la Suite (seconda delle tre, del 1919) da L’Uccello di Fuoco di Stravinski. (Rimando ad un mio commento sulla struttura del balletto e delle Suite). Anche qui non si scherza con la prescrizione relativa agli archi (60) ma i ragazzi si fanno in... quattro e rimediano alla grande.

Questo è poi uno dei brani che l’Orchestra conosce a menadito ed anche ieri l’esecuzione è stata impeccabile. Merito certamente anche di Milletarì, che ha ben interpretato soprattutto le dinamiche stravinskiane (emozionante l’attacco dell’Introduzione, con il magma sonoro degli archi bassi dal quale emergono gli spettrali incisi di tromboni, fagotti e clarinetti). Come sempre spettacolare il finale e in particolare quelle ultime 8 battute dove i fiati (ottoni in primo piano) creano un muro di suono di abbagliante luminosità.

Ma tutta l’esecuzione è da apprezzare e giustamente alla fine il Direttore ha fatto alzare una ad una tutte le prime parti, che qui hanno compiti anche solistici di grande spessore; poi tutta l’orchestra ha meritato convinti applausi e ovazioni.
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La serata si chiude con l’inflazionato Primo Concerto per pianoforte di Ciajkovski. La sempreverde (48 appena compiuti!) ukraina trapiantata in USA, ma ormai cittadina-del-mondo, si presenta con uno dei suoi proverbiali abiti lunghi e... larghi, questo con una fantasia floreale multicolore. Lei che è regina del web (milioni e milioni di accessi solo al suo canale youtube...) dove la possiamo apprezzare in questa esecuzione del concerto in terra mexicana, ne dà una lettura piuttosto sobria e contenuta, ma senza risparmiare alla tastiera qualche salutare mazzata negli enfatici passaggi in ottave dell’Allegro iniziale e del finale del concerto.

Le si potrà perdonare qualche sbavatura (ha l’attenuante della chiamata all’ultimo momento...) ma il fraseggio e le sfumature sonore che sa cavar fuori dallo strumento sono da favola. Successo travolgente ricompensato con due encore: un indiavolato Chopin e un marziale Rachmaninov.

31 dicembre, 2021

laVerdi 21-22. Concerto 11

laVerdi ha aperto mercoledi 29 la seconda parte della stagione 21-22, con il tradizionale Concerto di Capodanno. Quest’anno su ben 5 turni, fino al 2 gennaio, anche per ovviare alla limitata disponibilità di posti, circoscritta alla sola platea (ora comunque occupable al 100%) dato che la balconata è interamente sequestrata dai coristi (con ampio distanziamento).

In programma, come da tradizione, la Nona beethoveniana diretta da Claus Peter Flor e con le voci di Sabina von Walther, Sonia Prina, Patrik Reiter e Thomas Laske, dislocate al proscenio. A dirigere il coro... remoto Luca Scaccabarozzi. Quote rosa dell’orchestra in... rosso (anche questa non è più una novità).

Che dire? Anche ascoltandola (ieri sera) per l’ennesima volta, la Nona per eccellenza fa sempre un grande effetto, con il suo titanismo dell’iniziale Allegro ma non troppo, la vulcanica eruzione dello Scherzo (dove Flor ha risparmiato uno dei ritornelli) e lo strappalacrime Adagio molto e cantabile, con quell’attacco del secondo tema che i secondi violini, lì al proscenio, sembravano proprio... implorare.

Il finale travolgente ha completato l’opera, con le quattro voci soliste in buona evidenza. Su tutte, per me, Sonia Prina (quasi irriconoscibile al suo ingresso, con capigliatura argentea!) Poi il tenore, bella voce penetrante (io personalmente prediligo però gli... eroici) e il soprano. Il basso-baritono invece mi è sembrato un po’ troppo... leggero, ma soprattutto con voce poco corposa, priva forse di armonici.

Sempre eccellente la prova del Coro, il cui suono pareva arrivare dal... solito posto: chissà se grazie alla pannellatura che sovrasta il palco o a qualche aiuto... amplificante?

Alla fine trionfo per tutti e applausi ritmati da carica dei bersaglieri.

30 dicembre, 2021

Barenboim a Vienna per Capodanno


Dopo 8 anni Daniel Barenboim torna a dirigere (per lui è la terza volta) il tradizionale Neujahrskonzert arrivato all’edizione n°83 (la prima fu nel 1939 e l’unica sospensione nel 1940) al Musikverein, tornato ad aprire i battenti al pubblico dopo lo streaming mutiano del 2021.

Sabato diretta audio su Radio3 (ore 10:50). In TV registrata su RAI2 alle 13:30. RAI1 (12:20) come ormai da anni ci porta alla Fenice da Fabio Luisi.

17 dicembre, 2021

laVerdi 21-22. Concerto 10

L’ultimo concerto di questa prima parte di stagione vede il ritorno (dopo 2 anni) sul podio dell’Auditorium del giovane e poliedrico Jaume Santonja (percussionista in origine, poi compositore, ha fondato l’ensemble AbbatiaViva per il quale ha arrangiato anche Mahler) per dirigere un programma interamente dedicato a Ciajkovski.   

Con lui entra in scena la bella 36enne russa Alëna Baeva per proporci un pezzo forte, ma che dico... fortissimo del repertorio violinistico: l’Op.35 del 1878 (eseguita qui con la Sinfonica di Düsseldorf nella storica sala del Concertgebouw).

Il simpatico Eduard Hanslick ebbe a recensire il Concerto in questi termini:  

“Il compositore russo Ciajkovski non è sicuramente un talento ordinario, ma piuttosto gonfiato, con un'ossessione da genialoide senza sensibilità nè gusto. Tale è anche il suo ultimo, lungo e pretenzioso Concerto per violino. Per un po' si muove sobriamente, musicalmente e non senza carattere. Ma presto la volgarità prende il sopravvento e si afferma fino alla fine del primo movimento. Il violino non viene più suonato; viene stirato, strappato, bastonato. L'Adagio torna al suo miglior comportamento, per rappacificarsi con noi e convincerci. Ma ben presto sbrocca per far posto ad un finale che ci trasferisce nella brutale e miserabile allegria di una festa russa. Vediamo precisamente facce selvagge e volgari, ascoltiamo bestemmie, sentiamo odore di vodka. Friedrich Vischer una volta osservò, parlando di immagini oscene, che puzzano alla vista. Ecco: il Concerto per violino di Ciajkovski ci porta per la prima volta a fare la pessima constatazione che ci può essere musica che puzza all’orecchio.”

Basta sostituire la vodka con un brandy ed ecco che il Concerto torna protagonista di feste e brindisi:

Sempre Hanslick dava un giudizio mixed su Bizet e le sue opere, considerate per metà come operette. E invece, guarda caso, Ciajkovski amava l’autore di Carmen à la folie. Come dimostra proprio il tema principale dell’Allegro moderato del Concerto, preso di peso da Don José:

La bell’Alëne in verità ci ha propinato suoni che per le nostre orecchie (purtroppo assuefatte a molto peggio) appaiono come profumati e inebrianti. Poi la sua tecnica sopraffina fa anche restare a bocca aperta e il publico ha accolto la sua prestazione con meritate ovazioni, ricambiate da aforistico bis (forse... Ysaye?)
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La seconda parte del concerto è costituita dalla Prima Sinfonia, originariamente composta 12 anni prima del Concerto per violino, ma poi rimaneggiata più volte, fin al 1874. Come ho scritto parecchi anni fa in occasione di un’esecuzione qui in Auditorium, si tratta di un’opera assai acerba e velleitaria, come è tipico (e non solo in campo musicale) di molte prime esperienze.

Tuttavia oggi la possiamo apprezzare proprio perchè dopo di lei sono arrivate cose decisamente migliori. Ieri sera mi è parso che Santonja non sia riuscito sempre a controllare al meglio le dinamiche: spesso i fiati (ottoni in specie, ma non solo) hanno coperto eccessivamente il suono degli archi. A convincere di più è (come sempre, per me) lo Scherzo che sovrasta gli altri movimenti sia per inventiva che per equilibrio.

In ogni caso il successo non è mancato. Ora aspettiamo l’inizio della prossima parte di stagione (dal 29 dicembre con la Nona di Capodanno).