affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

19 dicembre, 2015

Riecco la Giovanna: salvata dal rogo dai registi?


Mah, io mi convinco sempre di più che debba essere salvata – nel senso di tenuta lontana! - da registi cialtroni e da esegeti con la puzza al naso. Dichiaro subito: non considero assolutamente la Giovanna un capolavoro, chè altrimenti dovrei inventarmi qualche astruso neologismo per apostrofare Otello… Ma allo stesso tempo penso che sia sommamente sbagliato sostenere che tutto ciò che capolavoro non è sia per definizione ciofeca. In un’ipotetica piramide suddivisa orizzontalmente in tre sezioni, collocherei Giovanna nella parte alta di quella mediana, ecco. Quindi: tutto salvo che brutta, come la catalogò il pur sommo Massimo Mila, assieme ad altre cinque sorelle derelitte, tra le quali un’altra opera che si appresta ad aprire la stagione 2016 in uno dei principali teatri italiani (Attila, a Bologna).

Nel suo citato testo (dove si riassumono le lezioni universitarie da lui tenute negli anni ’60) Mila affianca a benevoli apprezzamenti di tono paternalistico autentiche stroncature di ferocia inaudita. Della cavatina Pondo è letal il nostro parla come di crollo (estetico); poi di perfetto esempio di oziosa coniugazione melodica a puro scopo edonistico, per blandire l’orecchio dell’ascoltatore e permettere al tenore l’esibizione delle sue facoltà; poi ancora di melodia sciocca e fatua; e infine pure… gaglioffa! Accipicchia: messa così si dovrebbe allora buttare nel cesso mezzo Verdi, dalla pira alla donna mobile, ai bollenti spiriti (tanto per restare alla invece santificata trilogia): non sono altrettanti pretesti per blandire l’orecchio dell’ascoltatore e permettere esibizioni delle facoltà del tenore?

Dopo aver liquidato di passaggio come poco significante la melodia della cavatina Sempre all’alba, Mila apostrofa come un caso di brutto-oltraggioso e come goffaggine e gagliofferia il coro dei demoni (al ritorno nel second’atto lo definirà futile barcarola). È vero che la bizzarra filastrocca di Solera è perenne oggetto di lazzi e sberleffi, ma in realtà rappresenta perfettamente gli stereotipi radicati nelle usanze del popolino, riassumibili nel concetto: ogni lasciata è persa… Quindi il testo e la musichetta di walzer che lo sorregge sono (per me) un mirabile esempio di equilibrio e di stile, mi verrebbe persino da spendere il termine poesia per definirli. Mila poi così si esprime sul duetto Son guerriera: un’atroce cabaletta (…) su un accompagnamento dozzinale; che dopo la parentesi del terzetto a cappella, viene ripresa dai tre che si mettono a berciare (…) sul suo sfacciato accento giambico.

Le due sezioni dell’aria doppia di Giacomo (atto II) sono (è sempre Mila) melense e oziose, melodicamente cincischiate. Cincischiata è anche la romanza di Giovanna (O fatidica foresta). Il duetto Giovanna-Carlo è affetto dal più vieto e superficiale dinamismo rossiniano (per Gino Roncaglia è uno dei momenti più stolidi dell’opera). Quanto al finale dell’atto II, esso mescola autentiche intuizioni drammatiche a obbrobriose banalità. Qui Mila si lascia purtroppo andare ad una miserabile considerazione di carattere ideologico: a proposito dell’ultimo intervento dei diavoli che cantano vittoria, scrive di brutale arpeggio, una specie di “Allarmi, siam fascisti!” Ora, che quell’inciso sia stato impiegato da tale Mario Ruccione (o chi per lui, e coscientemente o per pura combinazione) per supportare il testo dell’Inno fascista di Luigi Landi sarà pur vero, ma accadrà 90 anni dopo la composizione di Giovanna: e da quando in qua le colpe dei pronipoti ricadono sui bisnonni?

La marcia che apre l’atto III è da Mila benevolmente accreditata di essere un lontanissimo antefatto di quelle (…) del DonCarlo o dell’Aida, ma forse meglio come documento delle attività municipali del giovane Verdi per la banda comunale di Busseto (!) Più avanti affermerà che Verdi non aveva neanche tentato uno sforzo d’ambientazione storica (cioè, ndr: la banda comunale di Reims?!? Ah no, la Messa di Machaut!) Gli interventi di Giacomo (recitativo, romanza, declamato e aria) vengono liquidati come privo di interesse, con accompagnamenti convenzionali, senza importanza musicale, piuttosto banale melodicamente… Il concertato finale ha una realizzazione men che modesta (…) senza reale consistenza di valori né musicali, né drammatici.

Il quarto atto è considerato da Mila (con la prima parte del primo) la cosa migliore dell’opera. E meno male! Perchè anche qui non mancano accuse di cadute nella banalità convenzionale, di incompatibilità stilistiche, di superficiale ed edonistica ricerca della bella melodia. Ancora: recitativo banalevolgari ritmi orchestrali di accordi ribattutiprogressione volgarebrutale, di gusto discutibile… 
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Mah, credo che si possa tranquillamente negare alla Giovanna lo status di capolavoro senza per questo abbassarsi a simili (abbastanza) gratuite denigrazioni, ecco.

E la più chiara risposta alle denigrazioni dei critici alla Mila viene proprio dal fronte musicale di questa produzione scaligera (ieri sera quinta recita - primina del 4 esclusa) e da chi ne è responsabile in-primis: Riccardo Chailly. La cui direzione ha precisamente trasformato in pregi tutti i difetti attribuiti alla musica: nulla di ciò che si ode qui è banale, cincischiato, volgare, brutale o discutibile, poiché tutto ha un senso narrativo assolutamente coerente ed esteticamente nobile. A partire dalla Sinfonia, che in sé concentra mirabilmente sia i contenuti pubblici (storici, religiosi) del dramma, sia quelli legati alla sfera privata ed alla psicologia dei protagonisti. Se devo proprio trovare un pelo nell’uovo nella direzione del Maestro citerò due, massimo tre circostanze in cui il fracasso orchestrale ha parzialmente coperto le voci (di Meli, nella chiusa della cavatina d’esordio, e Álvarez, nelle arie del primo e second’atto). Per il resto, si merita alle mie orecchie un voto fra il buono e l’ottimo. Stesso voto da attribuire all’Orchestra, che ha risposto proprio come un unico strumento alle sollecitazioni di Chailly.      

Anna Netrebko non avrà un timbro di voce dei più gradevoli (quando sale agli acuti) ma la facilità con la quale supera gli ostacoli di una tessitura massacrante (nell’estensione e nelle perorazioni a voce piena, vedi finale terzo) e la potenza del suo strumento, che invade anche gli spazi siderali di un Piermarini, fanno di lei una Pulzella di valore assoluto.

Francesco Meli si conferma tenore di altissima qualità: non una sbavatura sul lato tecnico (intonazione e aderenza al testo) e grande attenzione a tutte le sfaccettature che la parte di Carlo presenta a livello di espressività. La voce non ha certo la potenza di decibel della Netrebko e ciò ha comportato (complice Chailly, come detto) qualche circoscritto problema di udibilità, ma parliamo di piccoli dettagli che nulla tolgono all’eccellenza della prestazione complessiva. E qualche attenuante Meli la può vantare a carico dei registi, che lo costringono a cantare spesso e volentieri sdraiato per terra, appoggiato su un gomito.

Carlos Álvarez, alla sua seconda prova dopo i forfait iniziali, non ha mancato di portare il suo contributo di grande esperienza e mestiere: anche per lui vale il discorso sulla potenza dello strumento fatto per Meli. In ogni caso il suo è stato un Giacomo più che convincente.

Bene i due comprimari: soprattutto Dmitry Beloselskiy, un efficace Talbot; e poi Michele Mauro, onesto Delil.

L’altro personaggio di importanza capitale è il Coro: e quello di Casoni ha mostrato ancora una volta la sua eccellenza in opere come questa; sempre compatto e preciso, sia quando si deve far udire – in modo arcano - cantando fuori scena, sia nelle irruzioni a tutta forza cui è chiamato da Verdi nelle grandi pagine di carattere retorico.

Insomma, una Giovanna per la quale mi sento di sprecare l’attributo di superlativa, ecco.       
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Superlativa sul piano musicale. Quanto ai registi, ciò che compare sul programma di sala sulla loro concezione dell’opera è talmente contorto e contraddittorio da farli apparire come due pesci fuor d’acqua che hanno preteso di mettersi a correre in un autodromo…

Raccontare la storia di un certo personaggio facendola vivere ad un nuovo soggetto che nulla ha a che fare con il personaggio in questione, ma che – causa turbe psichiche assortite - immagina, vorrebbe, millanta, crede o sogna di esserlo, e di lui (lei) veste i panni, è idea tanto geniale quanto frusta, ma soprattutto estremamente rischiosa. Principalmente perché il nuovo protagonista, affinché tutta l’operazione abbia un senso qualsivoglia, deve necessariamente comportarsi in modo difforme dall’originale, e l’ambiente (materiale e umano) in cui esso si muove deve necessariamente essere diverso da quello in cui si muove l’originale. In caso contrario l’idea registica va subito a meretrici, chè si riduce allora a far scimmiottare ad alcune controfigure le stesse gesta del protagonista originale e di chi gli stava attorno, dando luogo ad una semplice, banale, stupida e soprattutto peggiorativa imitazione, o al massimo ad una parodia.

Ed è proprio ciò che succede con questa regìa, che invece di aggiungere valore ad un’opera che ne avrebbe (secondo i registi e gli esegeti con la puzza al naso) assai poco, finisce per sottrarre valore ad un’opera che non è assolutamente la ciofeca che costoro vorrebbero dipingerci. Insomma: ai due registi non è parso vero di poter sfruttare a proprio vantaggio tutte le facili stroncature di cui è fatto oggetto da sempre l’originale (il testo di Solera, ma anche la musica di Verdi) ed hanno quindi avuto buon gioco nel decidere – per loro stessa ammissione – di cambiargli i connotati! Permettendosi quindi di sbeffeggiare non solo il Solera, ma anche il Verdi, che il libretto di Solera aveva evidentemente apprezzato (e sappiamo quanto il cigno di Busseto fosse esigente in fatto di livello estetico dei testi da musicare.) Purtroppo per loro, non siamo ancora arrivati ad accettare che il testo e la musica originali vengano anch’essi modificati in relazione al Konzept registico, cosicchè i poveri registi sono costretti comunque con l’originale a farci i conti: e da qui nascono un’infinità di incongruenze e di stupidaggini, che finiscono per rendere il soggetto da loro manipolato ancor più criptico e paradossale di quanto l’originale non venga da loro dipinto.

Nel soggetto di Solera-Verdi il privato dei personaggi (con tanto di rapporti conflittuali e/o amorosi, di sentimenti e ipocrisie, di egoismi e pregiudizi e di schizofrenie assortite) occupa di certo una posizione preminente, ma non esclusiva, dato che si inserisce in un pubblico rappresentato dallo scenario politico della guerra dei 100 anni. Certo, l’opera non vuole essere un testo di storia per le scuole medie, nondimeno la Storia (per quanto falsificata, proprio a partire dal dramma di Schiller cui si ispirò Solera) ne è parte integrante e irrinunciabile, coinvolgendo comportamenti di popoli, eserciti, sovrani e comandanti (quindi testo e musica di cori e singoli). Così come la Religione, che mette il naso sia nel privato che nel pubblico e condiziona credenze, costumi, giudizi, e quindi comportamenti (leggi sempre: testo e musica) degli individui e delle masse. Insomma, accanto a quelli di natura privata e personale, gli aspetti relativi a tematiche di natura pubblica (politica, religiosa) sono fondamentali nell’originale di Solera-Verdi, dove l’individuo (tutti i protagonisti) opera e si muove all’interno di una società di cui subisce i vincoli e con le regole (politiche, religiose) della quale si deve continuamente confrontare. (È vero o no che si parla di Giovanna come di un passaggio che avvicina Verdi al GrandOpéra meyerbeeriano? e ci sarà pure un motivo…) 

Ebbene, tutti questi aspetti vengono distorti e ridotti a parodia dall’idea dei registi di mettere al centro della loro messinscena nemmeno più una persona, ma addirittura la sua patologia: ecco allora che tutto quanto ruota intorno a quella persona perde totalmente di pregnanza e persino di significato, essendo stato degradato a pura proiezione del subconscio di un individuo malato di mente: ciò che rimane allo spettatore è il racconto di un caso clinico più o meno interessante o disperato, ma nulla più. 

Emblematica della confusione generata nello spettatore dall’idea registica è la figura di Giacomo. Al quale i registi sono costretti (dal libretto di Solera che loro non si azzardano a modificare) a far assumere il magico ruolo di intermediario fra la realtà - di metà ‘800, dove in questa produzione è ambientata l’opera - e le fantasie della figlia (epoca 1429-31). Lui è infatti il padre sano della falsa Giovanna, malata di mente, quindi è chiamato contemporaneamente a prendersi cura della salute della povera figlia, ma anche a tenerle bordone diventando protagonista delle sue allucinazioni: andando a trattare per consegnarla agli inglesi di Enrico VI; poi accettando di svergognarla pubblicamente davanti a Carlo VII a Reims; infine consentendole di compiere la sua ultima impresa guerresca.

Ecco, ciò che lo spettatore fatica a comprendere sono le due trasformazioni della figura del padre (andata e ritorno, fra realtà e sogno della figlia). La prima è appena-appena percettibile allorquando si rialza il sipario (che durante la Sinfonia si era già alzato e poi riabbassato per mostrarci l’ambiente ottocentesco dove Giovanna malata è assistita dal padre): qui si odono i cori (nascosti in penombra dietro una vetrata) e poi qui arriva il dorato Re Carlo. Ebbene, del padre (vero) di Giovanna si intravede solo un braccio sporgente da una poltrona che dà le spalle al pubblico e sulla quale lui è evidentemente addormentato, poiché d’ora in avanti sarà anche lui parte delle allucinazioni di Giovanna. Ma mi domando quanti abbiano potuto afferrare questo dettaglio fondamentale della concezione registica. Peggio ancora la scena finale, dove si torna alla realtà di Giovanna malata e morente: qui testo e musica costringono i registi a far convivere la realtà (la poveretta assistita dal padre) con la fantasia: Re Carlo che assiste di persona, dovendo cantare insieme ai due e agli spiriti. Insomma, un bel… risotto. 

E sì che nell’originale di spunti interessanti per una regìa davvero di rottura ce ne sarebbero: ne cito solo un paio. Diavoli-Angeli: che fosse volontario o meno da parte del librettista, ecco un curioso ma significativo risvolto filosofico nelle figure di questi esseri ultraterreni: i primi (fate l’amore e non la guerra) sono dei pacifisti; i secondi dei biechi guerrafondai!

E poi la Madonnina (che te brilet dè luntan…): i registi ne mettono una statuetta di cartapesta (o di legno o coccio) da giardino (o presepe-gigante) in braccio a Giovanna, che se la porta dietro e poi la lascia al proscenio, sempre a portata di… sguardi del pubblico. Ecco, questa sarebbe anche un’idea condivisibile (a parte le dimensioni esagerate…) stante la devozione che la Giovanna di Solera (così come quella di Schiller) ha per la Vergine Maria, dalla quale ha avuto l’imbeccata per… arruolarsi. (Nella realtà la pulzella aveva invece ben tre sponsor, fra arcangeli e sante.) Però attenzione: in Solera (non in Schiller, ma qui chi fa testo, col permesso dei registi, è di diritto il librettista!) la Madonna è anche l’imbeccatrice di Re Carlo! Che si mostra a lei devoto altrettanto, se non più, della pulzella. E allora ecco che i registi hanno dimenticato di mettere in braccio al reuccio un’altra madonnina, un po’ diversa però da quella di Giovanna. Sì perché avrebbe dovuto avere un manto recante la union-jack, visto che ha ordinato a Carlo di arrendersi all’albionico invasore, cedendogli gentilmente il trono! La madonnina di Giovanna andava a quel punto rivestita con il tricolore, avendo manifestato invece patriottismo per la Francia. Poi, alla fine del primo atto, Carlo avrebbe dovuto strappare il manto traditore alla sua madonnina, e rivestire anche quella con il tricolore, oppure buttarla direttamente in un cassonetto per trastullarsi anche lui con quell’altra, da lì in avanti. Sarebbe stato un modo memorabile per spiegare al pubblico un aspetto della vicenda (secondo Solera) che viene normalmente ignorato e che soprattutto i registi hanno ignorato: una chiarissima allegoria dell’intreccio politica-religione, una delle problematiche capitali di tutta la storia europea dal medioevo ai giorni nostri…

Criticabili poi alcuni dettagli della messinscena. Mi limito a citarne solamente uno per tutti: mostrare scene cruente di battaglia contraddice spirito e lettera del libretto e della musica, nei quali esse vengono relegate a pochi accenni fatti da Giovanna alla fine del primo atto, o dagli inglesi all’inizio del secondo, o ancora da Giacomo con la sua cronaca nel finale. Tuttavia, quali che fossero le motivazioni (la censura magari, ma più verosimilmente i canoni estetici che il melodramma si auto-imponeva a quei tempi) sta di fatto che Solera-Verdi si guardarono bene dal mettere in mostra la benchè minima violenza o crudeltà. Che qui invece ci vengono propinate a piene mani alla fine del primo atto, compresa la vista di Giovanna che dà il colpo di grazia - calandovi nel petto a due mani e in modo invero orripilante il suo spadone - ad un soldato nemico già atterrato e indifeso.  
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Che dire? Che ancora una volta si sono buttati soldi del contribuente per mettere in piedi un allestimento tanto strampalato quanto pretenzioso. Una regìa di quelle che i soliti con la puzza al naso chiamerebbero museale avrebbe garantito alla produzione un price/performance assai migliore.

18 dicembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n°64


Si conclude con questo triplice appuntamento la lunghissima stagione 14-15 de laVERDI, stagione che – EXPO imperante – si è estesa fino ad includere quella che tradizionalmente era la parte iniziale (settembre-dicembre) della stagione successiva.

Come la WWII, anche questa stagione si chiude in Giappone, grazie all’ultimo sforzo di Nicola Campogrande e ad opere delle due principali potenze vincitrici della guerra: USA e URSS Russia. Sul podio il sempre effervescente John Axelrod.

Dopo che Campogrande si è congedato con il suo sayonara è Rachel Kolly d'Alba (che torna in Auditorium a quasi quattro anni di distanza dalla sua precedente apparizione) a presentarci un particolare concerto per violino: la Serenade di Lenny Bernstein, che lei ha già inciso con l’Orchestra di cui Axelrod è Direttore musicale.

Composta su commissione della Fondazione Koussevitzky, esordì alla Fenice nel 1954 con il dedicatario Isaac Stern come solista e l’Autore alla testa della IPO; si ispira al Simposio di Platone, dove si celebrano le magnifiche e progressive sorti dell’Amore. È strutturata in cinque parti, che ripercorrono, senza rispettarne rigorosamente la sequenza, i lavori del Simposio (in realtà una prosaica mangiata&bevuta) evocando i principali interventi di sette dei convenuti, i cui nomi compaiono in testa a ciascun movimento del concerto (le frasi accanto ai nomi non sono di Bernstein, ma sintetizzano il senso dei diversi interventi):

I Lento – Allegro
Phaedrus: Amore è un dio potente, antichissimo e meraviglioso
Pausanias: Ci sono due tipi di amore, e solo uno è positivo (quello omosessuale)

II Allegretto
Aristophanes: Una volta i sessi umani erano tre (maschio, femmina e andrògino)

III Presto
 Eryximachus: Esiste un amore di vita ed un amore di morte

IV Adagio
    Agathon: Diamo una definizione dell'amore: esso è il più buono e il più bello degli dèi

V Molto tenuto - Allegro molto vivace
   Socrates: La meta finale è la contemplazione della Bellezza divina
   Alcibiades: Io non farò l'elogio dell'amore, ma quello di Socrate

Bisognerebbe entrare nella mente di Bernstein per cogliere le oscure sensazioni da lui provate alla lettura del Simposio e poi dalla sua penna tradotte in musica. Il compositore in effetti lasciò alcune note in proposito, che furono redatte però a-posteriori, e che chiariscono più che altro le relazioni di carattere musicale fra i diversi movimenti del concerto. Questa è comunque musica che si può apprezzare anche senza necessariamente rifarsi al platonico testo. E la bella rossocrociata-rossocrinuta Rachel non ci priva di un’esecuzione davvero ispirata, e ben supportata dagli archi e percussioni guidati da uno che il pezzo l’ha studiato nientemeno che con… l’Autore! Poi un impegnativo encore del prediletto Ysaÿe, del quale la nostra ha pure inciso un album.
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Chiude il concerto un simpatico abbinamento di sapore natalizio: gli Schiaccianoci della premiata coppia Ellington-Ciajkovski. Abbinamento anche fra i due gruppi di esecutori: ai ragazzi de laVERDI (che stanno con Ciajkovski) si affiancano quelli della Tomellieri Jazz Band, che interpretano l’arrangiamento di Ellington.

Come ci aveva anticipato Axelrod nella presentazione del programma, le due versioni della Suite Op.71a vengono presentate in un geniale incastro: ciascun numero viene eseguito dall’Orchestra in versione originale e subito dopo dalla Band in versione Duke! Axelrod è bravissimo nell’esaltare i contrasti fra le due facce della medaglia: estrae dall’orchestra un suono sottile, etereo, leggerissimo, proprio come in un mendelssohniano sogno natalizio, che contrasta piacevolmente con il suono necessariamente corposo dei fiati della Band, dove Tomellieri&C si superano in strepitosi virtuosismi.

Applausi a scena aperta dopo ciascun numero. Quindi si ripete l’Ouverture, la cui versione-Duke viene accompagnata dal pubblico con battimani stile-Radetzky a Vienna! E ancora il pubblico (Auditorium letteralmente gremito!) non ne vuol sapere di andarsene, attaccando un applauso ritmato… così ecco un nuovo travolgente doppio-Trepak a chiudere una serata da incorniciare.
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Ora aspettiamo, dopo una breve pausa natalizia, l’esordio della nuova stagione 2016 (che coprirà l’anno solare): apertura a fine dicembre con il tradizionale appuntamento con… l’inno europeo.   

12 dicembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n°63


Il concerto di questa settimana è davvero particolare, per contenuti e… brevità quasi aforistica. Sul podio John Neschling, la cui sospetta combinazione nome-cognome ne tradisce la nazionalità: brasiliana. Pubblico limitato agli irriducibili intimi: fra le numerose assenze, notata quella di Nicola Campogrande, che ormai da mesi saliva regolarmente sul podio per ricevere gli applausi di prammatica per i suoi divertimenti targati EXPO.  

Abbiamo quindi tre poemi sinfonici (o affini): due di Respighi ad incastonarne uno di Sibelius. Questo però secondo la locandina ufficiale, chè la voce di Ruben Jais ci ha avvertito che la sequenza di esecuzione avrebbe più strettamente rispecchiato la cronologia di composizione: che va dalla fine ‘800 (per il finlandese) al 1930, passando per il 1920 (per l’italiano).

Si apre quindi con Il Cigno di Tuonela, la cui prima stesura, seguita da qualche aggiustamento, causa cambi di destinazione del brano, risale al 1893. È il secondo (o terzo, a seconda della collocazione) dei quattro numeri della suite titolata Lemminkäinen, dal nome di un personaggio della principale mitologia finnica, la Kalevala (alter-ego delle Edda norrene).  

Il cignone nero protagonista del brano è quello che maestosamente circumnaviga l’isola di morti di Tuonela, e che il prode quanto incallito sciupafemmine Lemminkäinen dovrebbe far secco per ottenere la mano di una principessa. Invece è lui che fa la fine del cigno del Parsifal, trafitto con una freccia avvelenata da un pastore cieco che poi lo riduce pure a spezzatino. Però sua madre recupera i pezzettini galleggianti sull’acqua (prima che il cigno se li ingoi) e li re-incolla con l’attak, rimettendolo in sesto meglio di prima (!? evabbè… i miti.)

Sono meno di 10 minuti di musica proprio… nordica, in cui ha una parte di spicco il corno inglese, che Paola Scotti mostra di saper suonare divinamente. A lei vanno i meritati applausi di pubblico e colleghi.
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Ecco poi Ballata delle gnomidi (1920). Il testo letterario che Respighi musicò è un poemetto di 13 strofe in settenari a rima incrociata, vergato dall’avvocato-musicomane partenopeo Carlo Clausetti, un dirigente della Ricordi. Il soggetto è assai curioso e un tantino macabro, con risvolti hardcore. Siamo in una comunità di gnomi, dove si svolge una specie di rituale sadico-erotico: due gnocche gnome scelgono un maschietto sfigato e lo trascinano in camera da letto per un triangolo erotico, culminante nello schiattamento del malcapitato. Il mattino successivo lo portano in corteo funebre, con seguito di gnomi smoccolanti, fino ad una roccia a strapiombo sul mare turchino, nel quale lo scaraventano senza tanti complimenti. Poi si danno, insieme agli gnometti superstiti, ad una danza sfrenata (Salome docet).

Mah, forse Respighi doveva pagare un debito all’editore, o magari dovette sottostare ad una qualche forma di ricatto da parte del Clausetti, chissà: non altrimenti si spiega un’iniziativa così bizzarra. Che però fa il paio con il bartokiano Mandarino, composto 7 anni più tardi.

Che la musica evochi puntualmente le improbabili vicende uscite dalla fervida fantasia di Clausetti sarebbe tutto da dimostrare: certo ci troviamo una prima sezione rapida (saranno gli gnomi che si agitano quando le due ninfomani sequestrano la vittima?); poi una sezione più lenta che con poca fantasia possiamo immaginare riguardi ciò che accade nell’alcova, dai preliminari di petting alle… ehm, effusioni orgasmiche; un improvviso Allegro con intervento di ottavini, flauti e violini, seguito da un crescendo concluso da alcuni schianti dell’orchestra potrebbe ricordarci il grido selvaggio dello gnomo che tira le cuoia. Ad esso segue l’unica sezione esplicitamente sottotitolata in partitura (la marcia funebre) che potrebbe benissimo evocare un’avanzata di panzer (o, trattandosi di Respighi, di legioni romane sulla via Appia?); quindi un tonfo che magari accompagna il corpo dello gnomo scaraventato in mare, con gli immancabili colpi di timpano a dargli il… colpo di grazia. Infine la danza delle gnome-sado-ninfomani seguita dal sabba selvaggio che chiude la storiella. Possiamo anche riconoscere alcuni temi che tornano a mo’ di Leit-motive, ad evocare i diversi personaggi.

Ma in sostanza non sorprende che il brano – a dispetto del magistero di Respighi in fatto di strumentazione - sia caduto presto nel dimenticatoio, nel quale per quanto mi riguarda (lo considero più fumo che arrosto) potrebbe tornare rapidamente, eccola. Ai ragazzi va l'encomio per l'abnegazione dimostrata.
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Chiude la serata Metamorphoseon (1930) una composizione di circostanza, commissionata dalla Boston Symphony di Koussevitsky per celebrare i 50 anni dalla sua fondazione. Come il successivo bartokiano Concerto per Orchestra, composto 14 anni dopo per la stessa Boston Symphony, è il pretesto per far risaltare le qualità solistiche delle sue prime parti. Il che di conseguenza si ripercuote sugli interpreti ad ogni nuova esecuzione: così anche qui sono i bravissimi ragazzi de laVERDI a mettersi in gran mostra. 

Il titolo tradisce vagamente la struttura dell’opera, che è un tema con (12) variazioni, che Respighi chiama modi, con un’abile ambiguità terminologica, che serve anche a indicare il ricorso a modi musicali antichi (sappiamo della predilezione dell’Autore per il canto gregoriano). Anche questo brano pare più ricco di affettazione e pedanteria scolastica che di genuina ispirazione: insomma, lascia un retrogusto come di vino… maderizzato, cioè invecchiato male.

Però la prestazione dell’Orchestra e dei singoli, chiamati a virtuosismi acrobatici, è come benzina sul fuoco dell’entusiasmo tanto da far sembrare la sala come stracolma di pubblico osannante.

08 dicembre, 2015

È arrivata la Giovanna!


Ecco, è già passato un altro SantAmbrogio, il terzo consecutivo a mettere al centro dell’attenzione dei melomani (e dei pettegoli) un’esponente del gentil sesso: dopo Violetta (la donna redenta) e Leonore (la donna salvatrice) è ora la volta di Giovanna, emblema della compromissione fra Religione e Politica.

Ecco, insieme al rapporto conflittuale padre-figlia (una costante nella produzione verdiana) questo a me pare il nocciolo fondamentale del libretto di Temistocle Solera, e non è escluso che fosse proprio questa tematica ad attirare l’interesse del mangiapreti Verdi. Andando assai al di là del testo ispiratore di Schiller, Solera fa scomodare la mamma (immacolata) di Gesù per indirizzare le sorti della guerra dei 100 anni. Ma per sottolineare come tutte le parti in causa strumentalizzino la Religione per i propri interessi, ecco che addirittura la Vergine fa il doppio gioco! Ordinando in sogno al Re di Francia – ma che bella figura il neoguelfo Solera fa fare ad un sovrano! - di regalare il suo trono agli invasori albionici, e contemporaneamente ispirando le gesta patriottiche anti-albione della pulzella.

Altro elemento, diciamo così, di critica socio-religiosa è la figura di Giacomo, che impersona il bigottismo del popolino, credulone perchè (non per sua colpa) ignorante: un padre snaturato che, insieme a se medesimo, vende la figlia al nemico - dopo averla umiliata con un barbaro processo in piazza - come castigo per sue supposte colpe di impurità. Ma è un padre che… rinsavisce giusto in tempo per consentire alla figlia di tornare a combattere e vincere, col che Solera fa anche passare il concetto che le guerre alla fin fine non sono i sovrani e i potenti a vincerle, ma le umili persone del popolo, che per loro si sacrificano sui campi di battaglia.     

Come detto, il soggetto del lavoro di Verdi è il frutto di ben due manipolazioni: quella che Friedrich Schiller operò, disinvoltamente quanto deliberatamente, sulla realtà storica al momento di stendere il suo dramma Die Jungfrau von Orleans. Eine romantische Tragödie; e quella operata da Solera sul testo di Schiller, fonte dichiarata del libretto. I principali oggetti di tali manipolazioni sono assai schematicamente riassunti nella tabella che segue. Che a mio avviso conferma la mirabile abilità del nostro librettista nel creare una drammaturgia perfettamente tagliata sulle caratteristiche e le esigenze espressive di questo Verdi, che sarà ancora acerbo fin che si vuole, ma che (parlo per me) è nondimeno entusiasmante:

storia
Schiller
Solera
Giovanna: la famiglia
3 fratelli – 1 sorella
2 sorelle
figlia unica?
Giovanna: la chiamata divina
Arcangelo Michele, Santa Caterina, Santa Margherita
Vergine Maria
Vergine Maria
Giovanna: ruolo e azioni belliche
motivazione delle truppe – suggerimenti di strategia ai comandanti – pietà per le vittime delle battaglie  
partecipazione attiva agli scontri – foga sanguinaria - nessuna pietà per chi si arrende (Montgomery)   
visione di battaglie cruente - evocazione delle sue imprese da parte degli inglesi sconfitti
Giovanna: inizio della parabola discendente
dopo l’incoronazione di Carlo VII a Reims, comincia a considerare conclusa la sua missione
incontra un cavaliere nero, che le consiglia di abbandonare le armi, avendo compiuto la sua missione di portare Carlo sul trono
prima dell’incoronazione di Carlo VII a Reims, comincia a considerare conclusa la sua missione e pensa di ritirarsi in campagna
Giovanna: vita sentimentale e amori
nulla
ha un pretendente che lei ignora - in battaglia si innamora (alla maniera di Isolde con Tristan!) di Lionel, ufficiale inglese, poi prova senso di colpa 
si innamora di Re Carlo, poi prova senso di colpa
Giovanna: la prigionia
catturata dai borgognoni e riscattata su cauzione (raccolta aumentando le tasse in… Normandia!) dagli inglesi, che la fanno prigioniera di guerra
accusata dal padre di un patto col diavolo, per ottenere onori materiali, viene esiliata - catturata dai soldati di Isabella (madre ma avversaria di Carlo) e consegnata agli inglesi – rifiuta di sposare Lionel
accusata dal padre di un patto col diavolo, per ottenere l’amore del Re  – consegnata dal padre agli inglesi e da questi imprigionata
Giovanna: la morte
condannata dopo processo per eresia – arsa sul rogo
liberatasi da sola dalla prigione inglese - morta in battaglia dopo aver salvato Carlo
liberata dal padre dalla prigione inglese - morta in battaglia dopo aver salvato Carlo
Re Carlo
accettazione dello status-quo con gli inglesi
accettazione dello status-quo con gli inglesi
la Vergine lo ammonisce a deporre le armi
amante di Agnès Sorel
amante di Agnès Sorel
innamorato di Giovanna
padre di Giovanna
Jacques d’Arc
Thibaut d’Arc
Giacomo
inizialmente contrario ai propositi guerreschi della figlia – si riconcilia con lei dopo i successi militari
accusa la figlia di stregoneria, provocandone indirettamente la cattura da parte di Isabella
sospetta che la figlia abbia venduto l’anima al diavolo e promette agli inglesi di consegnargliela – la accusa di impurità – la consegna agli inglesi – poi la riabilita e la libera

La prima, vista ieri sera (malamente, managgia alla RAI) in TV, mi permette di fare una stringata considerazione sull’allestimento di Moshe Leiser e Patrice Caurier. I quali hanno sintetizzato il loro Konzept con la definizione Immaginario eroico ed estasi isterica. In sostanza i registi hanno scoperto che un medico, nientedopodomanichè maestro di Freud, tale Jean-Martin Charcot, che si occupava di matti&affini, aveva cominciato a studiare, proprio negli anni in cui Verdi componeva la Giovanna, i comportamenti di persone (soprattutto donne, guarda caso) isteriche ed epilettiche. Ecco, la loro Giovanna è una delle pazienti matte-da-legare del dottor Charcot, una che sogna di far massacri ISIS-like in nome della Madonna! E quindi il padre fa precisamente il suo civico dovere a denunciarla alle autorità e all’opinione pubblica, prima che la fuori-di-melonera possa far troppi danni! Oh, più attuale di così, parbleu

Non si capisce però come mai, visto che anche il reuccio Carlo ha le visioni della Madonna, non ci venga mostrato pure lui nelle vesti di un matto (no, per la verità le vesti erano proprio da matto, ecco); ed anche Giacomo, diciamola tutta, tanto tanto equilibrato non sembrerebbe (i suoi atti dimostrano il disordine della mente). Insomma, i registi avrebbero potuto sviluppare meglio il loro concetto e presentarci direttamente una gabbia-di-matti (quella dove in realtà andrebbero rinchiusi loro, stra-smile!) 
                                                        
Leggo che anche il real-timer Amfortas ha trovato ridicolo l’allestimento. 
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Sul fronte musicale, attestato che ciò che è portato alle nostre orecchie da diavolerie tecnologiche assortite, di originale e genuino ha poco o nulla, mi sentirei – salvo smentirmi, se sarà il caso, dopo l’ascolto nature – di parlare di prestazione complessiva più che onorevole, naturalmente con alti e bassi che non mancano mai, per definizione. Fra i primi metterei sant’Anna, che mi è parsa proprio a suo agio nella parte (quella vera, non la matta!) anche se nel concertato di fine atto III mi ha dato l’impressione di essere affaticata (e mi pare si sia anche risparmiata un paio di frasi) e sanFrancesco, che mi azzardo a definire il miglior tenore (oggi, quasi) in circolazione: voce sempre ben impostata e grande cura dell’espressione. Fra i secondi colloco il povero Devid Cecconi, cui va doverosamente accordata l’attenuante di essere stato catapultato in scena quasi a sua insaputa, causa il perdurante forfait di Alvarez, già mancato sia alla generale che alla prima-giovani. 

Proprio al centro collocherei Riccardo II, che mi sembra abbia tenuto una prudente equidistanza fra gli opposti eccessi nell’impiego di armi più o meno improprie, tipiche di questo Verdi d’assalto: la vanga (nei diversi a tutta forza e negli accompagnamenti da banda del pignataro) e il cesello (nei momenti di introspezione e di intimità). Certo, detta così potrebbe significare un complimento (mirabile equilibrio) o una stroncatura (né carne, né pesce): personalmente cercherò di sciogliere il dubbio dopo l’ascolto dal vivo… E con Chailly metto anche il coro (di Casoni) che è un autentico personaggio di primo piano in quest’opera, e che spero migliori ancora con le prossime recite.