affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

23 novembre, 2015

Purcell a Torino

 

Ieri pomeriggio il Regio torinese ha ospitato la seconda recita (delle 5) di Dido and Aeneas di Henry Purcell.

Il cognome Purcell deriva – ma che strano! – proprio da porcello: colpa dei francesi che fin dal 1066 (Hastings) avevano imbastardito linguisticamente (oltre che biologicamente, ça va sans dire) i puri albionici. Lo stemma della famiglia recava precisamente tre teste di porco (da lì forse si ispirò Disney per i tre porcellini, chissà…)

Il libretto di tale Nahum Tate è ovviamente ispirato all’Eneide, rispetto alla quale presenta però una serie di scostamenti, il più marchiano dei quali è il personaggio di Enea, che qui ci viene presentato come un povero vanaglorioso, senza spina dorsale e in balìa di ogni circostanza (Purcell non gli dedica manco un’aria, che dico… un arioso, solo recitativi!) Per dire, quando alla fine si presenta a Didone per notificarle l’abbandono, al solo vederla ci ripensa, manda a quel paese Giove e l’incarico da lui ricevuto e implorante le promette di stare accanto a lei. Ma a questo punto – e anche qui Virgilio viene smentito alla grande - è lei che lo caccia senza misericordia, quasi a viva forza, offesa dal solo fatto che lui abbia potuto pensare di lasciarla.

E il motivo stesso dell’abbandono è assai diverso da quello, nobile e soprannaturale (in Virgilio) della chiamata divina a compiere un’impresa a dir poco storica (la rifondazione di Troia come… Roma). Qui è una volgarissima fattucchiera, che ha in odio tutte le coppie felici, ad organizzare, con i suoi accoliti, nubifragi e travestimenti (incluso un falso Mercurio che annuncia ad Enea il volere di Giove) per convincere il pusillanime troiano ad abbandonare l’amata, provocandone così il suicidio.

Qualcuno sostiene che queste libertà del librettista fossero legate a ragioni vagamente politiche: Enea potrebbe essere l’allegorica rappresentazione del meschino sovrano Charles II (targato Stuart) o magari di suo fratello nonchè successore James II, succubi di sbifidi consiglieri cattolici (correligionari del loro cugino Luigi XIV di Francia) nemici della protestante Albione(=Didone) e rappresentati nel libretto dalla figura della fattucchiera. Tutto ciò sarebbe plausibile nell’ipotesi (tuttora non certificata) che l’opera sia stata concepita e composta dopo la cacciata del suddetto James II e lo sbarco del nipote-genero arancione, il protestante-anglicano William III, sposatosi con Mary, figlia del deposto.

In compenso c’è una frase, cantata dal coro proprio all’inizio dell’opera, che parrebbe invece inneggiare allo straniero (Enea=William?) arrivato in Albione dopo averne impalmato la principessa (Didone=Mary) per la felicità del popolo: Quando i sovrani si alleano, qual felicità per i loro stati. Ciò andrebbe d’accordo con la supposta discendenza da Enea dei reali albionici, ma farebbe a pugni poi con la non commendevole figura del troiano come dipinta dalla coppia Tate-Purcell…

Mah, insomma, tutti questi pretesi riferimenti politici lasciano un po’ il tempo che trovano: ciò che rimane è la musica sopraffina di Purcell, erede spirituale dei Monteverdi, ma anche degli Charpentier e dei Lully.

Purtroppo del testo e della musica di Dido&Aeneas ci sono rimaste soltanto frammentarie reliquie, nella forma di un libretto di dubbia datazione (circa 1688-89) e di una partitura assai discordante da tale libretto (per difetto: tanto per dire vi manca l’intero Prologo, che chiama in causa Febo, Flora, ninfe e pastori per celebrare Venere e i piaceri della seduzione…) copiata da un anonimo attorno al 1750, quindi più di 60 anni dopo la presunta data delle prime rappresentazioni.

Per avere un‘idea delle dimensioni dell’opera, basterà dire che l’esecuzione (tempi medi) della sola partitura del 1750 occupa assai meno di un’ora (sono tre atti di circa 18 minuti ciascuno, come si può ad esempio constatare in questa edizione). Ragion per cui in occasione di rappresentazioni singole (cioè dove l’opera non è abbinata ad altre) come questa del Regio, si tende a rimpinguare il contenuto della partitura del 1750 con altra musica di Purcell o anche di altri autori o dello stesso concertatore, ma dello stesso stile-periodo. Così ha fatto anche il bravissimo Federico Maria Sardelli (una vera autorità in campo barocco) protagonista di questa produzione torinese, che occupa all’incirca 80 minuti, incluso un breve intervallo per cambio-scena fra le due parti del second’atto.

L’orchestra ha un organico ridotto agli archi più flauti a becco e percussioni (per le scene di tempesta) e basso continuo (cembalo, tiorba, chitarra, viola da gamba e arpa). Il pavimento della buca è opportunamente rialzato di circa un metro per ovvie ragioni di diffusione del suono negli ampi spazi del Regio. Il coro di Claudio Fenoglio (6+6+6+6) che ha funzioni di commento all’azione, proprio da coro greco, è pure dislocato sul fondo della buca, dietro gli strumenti.  

La messinscena (regìa, scene, costumi e coreografie) è curata da Cécile Roussat e Julien Lubek (con le luci di Marc Gingold) e proviene originariamente da Rouen. È proprio teatro totale, che integra le classiche parti testuali e musicali con interventi di danzatori, mimi e acrobati. Efficaci alcune scelte sull’interpretazione, evidentemente concordate con il concertatore, che prevedono di assegnare la parte della fattucchiera (qui una… piovra!) non ad un mezzosoprano ma ad un tenore e di appaiarla a quella del marinaio che all’inizio del second’atto sprona i troiani alla partenza, vanamente dissimulando i suoi tentacoli nella stiva della nave. Uno sdoppiamento ci mostra invece Cupido (un mimo che sottolinea con la sua presenza le scene principali) trasformato all’occorrenza nel controtenore impersonante il falso Mercurio che ordina ad Enea di salpare; lo vedremo poi alla fine allontanarsi in cielo… perdendo le sue piume!

Belle e semplici le scene, dominate dalla presenza del mare (fatto da onde di soffici velari) sul quale si erge una semplice struttura rocciosa (anch’essa sdoppiantesi o ricongiungentesi) dove si muovono i personaggi. C’è anche un piccolo effetto di magia barocca nel mostro (marino) che Enea infilza, facendone schizzare fumo e faville, per farne trofeo per Didone (second’atto, scena II). Ed è il mare (il velo stesso di Didone) che ingluvia (per dirla con DaPonte) la Regina dopo il suo sacrificio!

Belli ed appropriati i costumi, a colori vivaci che contrastano con l’azzurro degli sfondi. Efficaci le luci che ricreano le diverse atmosfere del dramma.

Insomma, uno spettacolo godibilissimo, illustrato da interpreti all’altezza, sia in buca (strumenti e coro, davvero tutti da encomiare) che sulla scena. Roberta Invernizzi impersona efficacemente la Didone fatalisticamente pessimista e languida che diventa però una furia (Away! Away!) al momento di scacciare Enea. L’altra Roberta (Mameli) è forse (per me) la migliore del cast, grazie anche alla parte che ne esalta la voce squillante e sempre ben intonata.

Benedict Nelson veste i panni del poco eroico eroe troiano: ha solo (si fa per dire) da declamare dei recitativi accompagnati e lo fa con sufficiente portamento. Bravo Carlo Vistoli ad impersonare il falso Mercurio che buggera Enea dando inizio al patatrac finale.

Assai efficace, vocalmente e come presenza scenica, Carlo Allemano, l’octopus nei doppi panni della sbifida fattucchiera che si trasforma poi in marinaio aizzante i troiani a riprendere il mare. Un encomio anche per le altre interpreti (Kate Fruchterman, Sofia Koberidze e Loriana Castellano) che completano egregiamente il cast.

Alla fine lunghi e meritati applausi per tutta la compagnia, da una sala piacevolmente gremita (non proprio come per l’Aida, ma quasi!) il che testimonia dell’interesse dei torinesi (e amici) per le diverse facce della proposta artistica del loro Teatro. Fuori poi, c’è da risollevarsi il morale (pensando al deserto in cui è trasformata Bruxelles negli stessi momenti) di fronte all’affollamento incredibile del centro cittadino, complici la fredda ma bellissima giornata e il… cioccolato che scorre a fiumi e ti risolleva anche il fisico!  

22 novembre, 2015

Dopo mezzo secolo a Bologna una “solita” Elektra

 

Ieri pomeriggio la sala del Bibiena (con parecchie poltrone vuote…) ha ospitato la penultima recita di Elektra, un allestimento originale ispano-belga firmato da Guy Joosten, già passato – con altri cast - da Barcelona (2009) e Bruxelles (2010). Ecco (finchè ci resta…) una registrazione di assai mediocre qualità della rappresentazione del 17 con il cast (le due sorelle) alternativo.


Domanda: ma perché definirla solita? Semplice, perché chi ha avuto la responsabilità della parte musicale si è solitamente (e pure stolidamente, aggiungo io) attenuto alla poco onorevole tradizione che contempla di inferire alla partitura alcuni barbari tagli. E che ciò sia divenuto ormai uno standard universale è soltanto segno di incultura, perché qui non si tratta di saltare la ripetizione di una strofa in una cabaletta di Rossini o – nel sinfonico – di ignorare i due punti posti al termine di un’esposizione. No no, qui i tagli (che ho già in precedenza elencato, analizzato e stigmatizzato) costituiscono vere e proprie ferite al corpus dell’opera, ai suoi contenuti musicali e soprattutto alla caratterizzazione dei personaggi (in particolare della protagonista, ma non solo) che a fronte di questi tagli perdono buona parte delle peculiarità di cui proprio Hofmannsthal e Strauss li avevano arricchiti, rispetto al testo ispiratore di Sofocle.

Lo scarso rispetto per l’opera e per il pubblico è certificato dal fatto che il programma di sala (che contiene peraltro due pregevoli saggi di Franco Serpa e Guido Paduano) riporta il libretto in versione integrale senza però avvertire in alcun modo dei 6 tagli praticati nell’esecuzione. (Per fare un esempio, nel programma della Scala per l’edizione dello scorso anno erano chiaramente indicati i 5 tagli operati in quella produzione.)  

Le interpreti di Elektra - e i loro premurosi direttori - regolarmente adducono a giustificazione di quei tagli la pretesa sovrumanità degli sforzi che sarebbero richiesti per cantare l’opera nella sua interezza (per cui non si peritano nemmeno di studiarli, i passi incriminati, condizionando così già a-priori l’esecuzione). Al che non posso non ricordare quanto disse e fece il solido e coraggioso Gustav Kuhn che, anni fa - con un cast tutt’altro che da star-system e con la sua Haydn – portò con gran successo l’integrale in giro per il norditalia! 
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Lothar Zagrosek è un vecchio marpione che probabilmente applica il comodo adagio il meglio è nemico del bene, e così la sfanga (per me) con una risicata sufficienza. Lui sembra dar credito a quanto si dice di Strauss che durante una prova dell’opera avrebbe gridato agli ottoni di suonare ancor più forte, poiché continuava a sentire la voce di Elektra (!) Così chiede all’orchestra di darci dentro a più non posso e spesso e volentieri copre alla grande le voci.

Viene il sospetto che lo faccia di proposito, per coprirne anche le manchevolezze. E a proposito di voci e di tagli: Elena Nebera, la protagonista, è la dimostrazione lampante che non basta accorciare la parte per uscirne indenne! Anche tagliando altri 10 minuti di musica, il risultato sarebbe stato comunque deludente, poiché il difetto – ahilei – sta proprio nel… manico: ottava bassa inudibile, zona centrale dal timbro sgradevolmente vetroso, acuti spesso urlati (Elektra sarà pure nevrastenica, ma dovrebbe pur sempre cantare).

Anna Gabler è la sorellina per bene, ma è solo di pochissimo meno peggio di Elektra: anche lei soffre di afonia in basso e quando sale agli acuti la voce perde di rotondità.   

Natascha Petrinsky veste i panni della madre assassina-adultera e – pur senza toccare vette eccelse - per lo meno sa cantare con proprietà e discreto portamento.    

I due maschi hanno parti decisamente secondarie e se la cavano allabellemeglio, meglio comunque il vendicatore Thomas Hall (voce profonda e ben impostata) dell’usurpatore-assassino, impersonato da un vociferante Jan Vacik.

Tutti gli altri interpreti fanno il loro dovere come da contratto sindacale, a partire dalle cinque ancelle che devono aprire l’opera con i loro cicalecci. Il coro di Andrea Faidutti si fa udire nel finale schiamazzando come da partitura per portare Orest in trionfo.

Insomma, una prestazione musicale che fatica (sempre secondo me) a guadagnarsi la sufficienza. Non così per il pubblico, che applaude indistintamente tutti (non saprei dire se un paio di ululati verso la Nebera fossero di disapprovazione).
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Il regista Joosten non manca di impiegare triti e ritriti stereotipi del Regietheater, cominciando dalla trasposizione dell’azione negli anni di Hitler, con le ancelle trasformate in secondine armate di mitraglietta e Aegisth travestito da dittatore ubriacone.

Alcune invenzioni di Joosten sono del tutto perdonabili, come il far ricomparire due volte – ovviamente senza aprir bocca! - la quinta ancella (l’ammiratrice di Elektra): dapprima durante lo scontro fra Elektra e la madre e poi a felicitarsi con lei dopo il compimento della vendetta. O come nel mostrarci Orest che arriva (visto solo dal… pubblico) proprio durante la scena madre fra le due donne. O ancora la smaccata ostensione dell’ascia, che mai e poi mai si dovrebbe vedere, secondo il libretto.

Ma l’invenzione più strampalata riguarda la scena che fa seguito all’agnizione Elektra-Orest. Manco a farlo apposta, proprio laddove viene praticato il taglio dei versi sui quali Elektra ricorda il suo equivoco rapporto con il padre, ecco che il regista ce la mostra in rapporto equivoco (stile Maddalena-Cristo) con il fratellino!

Tuttavia l’impostazione generale di Joosten (grazie anche alle scene e ai costumi di Patrick Kinmonth e alle luci di Manfred Voss) non fa eccessivi danni, anzi direi che la guida degli interpreti sul piano attoriale sia senz’altro da apprezzare. Con qualche riserva sugli eccessi riservati all’usurpatore, trasformato in macchietta da avanspettacolo, mentre assai centrata (perché equilibrata) mi è parsa la resa della figura (spesso eccessivamente bistrattata o indebitamente nobilitata) di Klytämnestra.

Alla fine, che dire: ascoltare quest’opera ti dà sempre una grande emozione (grazie a Strauss) a dispetto delle mutilazioni di cui è vittima e delle mende degli interpreti.

20 novembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n°60


Riecco Jader Bignamini in Auditorium per dirigervi un programma assolutamente classico, Campogrande a parte (…ma ormai sta diventando un classico pure lui!) Sala quasi stracolma, evidentemente questa offerta super-tradizionale paga…  

Un programma tutto in… RE maggiore, aperto dal 29enne fiammingo - con nome russo - Yossif Ivanov, che fa ritorno qui dopo un lustro esatto per proporci un monumento del repertorio classico: il Concerto Op.61 di Beethoven. Il lunghissimo Allegro ma non troppo iniziale è affrontato d Ivanov con una certa qual spigolosità, poi la sua invidiabile tecnica e il bellissimo suono del suo Stradivari vengon fuori alla grande nella cadenza (la celebre di Kreisler). Convincente la resa del centrale, sognante Larghetto, dove il solista dialoga a più riprese con le eccellenti prime parti dei fiati (clarinetto, corno e fagotto) e spigliato e brillante il Rondò finale, il cui ritornello viene dal solista esposto a distanza di ben due ottave.

Bignamini tiene benissimo a bada un’orchestra in organico di archi… mahleriano, lasciandola sfogare solo nei tutti del finale. Successo pieno e bis con l’ennesimo Dies Irae, chissà se indirizzato agli autori dei massacri parigini, la mente dei quali veniva proprio dalla patria di Ivanov…      
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Chiude la serata una sinfonia pastorale, ma non quella per eccellenza (Beethoven) bensì la Seconda di Brahms, del quale sono invece state cassate (rispetto al programma originario) le Variazioni su un tema di Haydn.

Qui Bignamini non risparmia più nulla (nemmeno l’iniziale ripetizione dell’esposizione) e mette in risalto tutti i chiaroscuri (dinamici ed agocici) della partitura: delizioso in particolare l’Allegretto, con i suoi improvvisi scarti di tempo, e strepitoso davvero il conclusivo Allegro con spirito, chiuso da una (fin troppo!) forsennata coda, con gli archi prima chiamati a due autentici salti mortali (seguiti dalle due pause di minima) e poi con gli ottoni e gli altri fiati a sparare l’abbacinante raffica di crome che sigilla la sinfonia. Trionfo assicurato. 

13 novembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 59


C’è ancora molta Russia in Auditorium. Il concerto di questa settimana, diretto da John Axelrod, dopo le divagazioni di Campogrande sull’Inno dell’Oman, e una novità assoluta di Boccadoro, presenta due lavori del primo ’900, che per diverse ragioni hanno lasciato il segno nella storia della musica. 
   
Lavoro commissionato da laVERDI, Orbis tertius si struttura in cinque aforismi, dichiaratamente ispirati al modello di Webern. Ma, certifica l’Autore, completamente diversi (e ‘tte credo!) Devo dire che… si lasciano ascoltare volentieri, ecco. Quando capiterà di ascoltarli ancora, altra questione è.
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La parte russa del concerto inizia con Scriabin e il suo Prométhée, o Poema del Fuoco, o 5a Sinfonia, del 1909-11. Un lavoro impregnato di simbolismo e teosofismo, come ben lascia capire la stessa illustrazione pubblicata a fronte della partitura, commissionata al simbolista belga Jean Delville:


Vi compaiono: la lira, che nasce da un fiore di loto (la vagina o mente dell’Asia); poi i due triangoli intrecciati (materia e spirito, ma anche la stella di Davide, simbolizzante Lucifero); al centro il volto di Prometeo, con i penetrantissimi occhi, contornato dalle fiamme e con la fiamma grande centrale al posto del terzo occhio e in corrispondenza della quarta corda della lira; all’esterno l’intero Universo, con stelle e galassie; in alto i raggi promananti dal trascendente.

Un lavoro tanto ambizioso quanto ambiguo, in tutti i sensi: non è propriamente una Sinfonia (ha un solo movimento e rispetta in modo assai vago e contorto la forma-sonata); non è un Concerto (a dispetto della presenza del solista al pianoforte); e non è una Cantata, anche se prevede (ma non sempre viene impiegato) un coro.

Il lavoro prevede(rebbe) piuttosto l’impiego (ma anche qui è raro che ciò avvenga) di un particolarissimo strumento, notato sul rigo più alto della partitura col nome Luce:


Uno strumento che – unico fra tutti – non smette mai di suonare per tutte le 606 battute dell’opera! In realtà i suoi suoni sono appunto… luci colorate: nella mente fervida e mistica del sinestetico Scriabin suono e luci vanno insieme e ad ogni suono si associa un colore, secondo questa tabella di corrispondenza, che segue il circolo delle quinte:

nota
colore


DO
rosso
SOL
arancione
RE
giallo
LA
verde
MI
azzurro verdastro
SI
blu
FA# - SOLb
blu scuro
DO# - REb
violetto
SOL# - LAb
lilla
RE# - MIb
blu metallico
LA# - SIb
grigio metallico
FA
rosso scuro

Uno speciale strumento a tastiera (tipo organo) si dovrebbe incaricare di illuminare uno schermo, o meglio ancora di avvolgere tutto l’ambiente, con la luce del colore indicato dalla nota in partitura. Come si può osservare dall’esempio riportato sopra, lo strumento Luce può suonare contemporaneamente due note, permettendo con ciò di realizzare combinazioni diverse di colori. Ad esempio l’incipit (FA#-LA) deve produrre una luce blu con riflessi verdi. Ecco come si può presentare il tutto in questa esecuzione (successivamente montata in film) della premiata coppia Abbado-Argerich, con i Berliner nella Philharmonie.

Sul fronte musicale, il brano ha fatto assurgere a fama imperitura (quasi quanto quella del Tristanakkord) il cosiddetto accordo mistico, formato da sei note che (nella forma poggiante sul DO) sarebbero DO-FA#-SIb-MI-LA-RE:


Le sei note sarebbero (liberamente) ricavate dalla serie degli armonici naturali (dall’ottavo in su): come si vede si tratta di una successione di quarte di tre specie: aumentata (=tritono), diminuita (=terza maggiore) e giusta. Ora, che un accordo definito mistico comprenda non uno ma ben due tritoni (il diabolus!) sembrerebbe a prima vista una presa in giro bella e buona, se non proprio una bestemmia in piena regola, ma in realtà la cosa si spiega filosoficamente, e pure religiosamente, con le credenze che attribuiscono pari dignità a Dio e a Lucifero, ecco.

Abbassando il LA a LAb si avrebbero note della scala a toni interi. Per i patiti del metodo di analisi di Allen Forte, si tratta dell’insieme di suoni 6-34 che può essere visto come un sottoinsieme spurio della scala ottotonica. Nelle prime battute assume la forma LA-RE#-SOL-DO#-FA#-SI (il colore verdognolo…) Ecco qui, sempre percorrendo il famigerato circolo delle quinte, le sue 12 trasposizioni - con i relativi colori della nota-base:

    
Scriabin parlò del suo accordo mistico come di accordo del pleroma (occhio, da non confondersi con perizoma, perchè sappiamo che la musica del nostro è assai infarcita di… sesso): un accordo che ci dovrebbe far intravedere (anzi… intrasentire!) ciò che i nostri comuni sensi non ci permettono di afferrare: date voi i connotati che preferite a quest’oggetto misterioso. In effetti la parentela con le scale a toni interi e ottotonica toglie alla musica basata (verticalmente ed orizzontalmente) su quelle note gran parte dell’attrazione tonale, conferendole un che di arcano e… metafisico. Insomma, anche Scriabin si era inventato – come i tre viennesi e Debussy - una sua personale via verso l’atonalità.

Si diceva della struttura del brano in relazione alla forma-sonata: gli analisti sono abbastanza concordi nell’individuare (ma non in modo unanime) le classiche sezioni di esposizione-sviluppo-ricapitolazione-coda (più magari un‘introduzione). Che hanno a che fare con la comparsa e i ritorni dei motivi principali e magari rispecchiano vagamente la struttura del programma filosofico dell’opera: i sette passi del cammino involutivo-evolutivo della razza umana, mutuato da La dottrina segreta di Helena Blavatsky (vedi qui a pag. 300)


Come si vede, le note del rigo Luce sono quelle della scala a toni interi, mentre le sezioni della (spuria) forma-sonata più o meno corrispondono alle macro-fasi evolutive della Blavatsky.

Invece la concatenazione tonale è del tutto avulsa dai principi classici, proprio in forza dell’atonalità di fatto del brano. È il FA# che apre con l’accordo mistico e chiude con una imperiosa quanto inaspettata triade perfetta: insomma, parrebbe che il FA# (che sta precisamente al centro, o al culmine, della nostra scala cromatica) rappresenti, per l’Uomo ancora acerbo (all’inizio del poema) la placenta, il brodo di coltura per la sua successiva evoluzione; e poi, alla fine, si ripresenti (con la triade perfetta maggiore, dove il SI# dell’accordo mistico, il diabolus, sale al consonantissimo e dominante DO#) come manifestazione sensibile del pleroma.
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Esploriamo ora nei tratti principali la citata esecuzione di Abbado-Argerich, seguendone il percorso filosofico-cromatico.

I - Luce: blu-verde (FA#-LA). A 33” l’accordo mistico introduce l’universo al tempo dell’alba dell’Uomo, dove (52” e poi 1’10”) arriva Prometeo (corni) ad innescare la miccia che porta poco dopo all’affermazione (nelle trombe) dell’Io (2’01”, i tritoni) e poi della volontà (2’03”, la scala ascendente). A 2’15” è la ragione (o la consapevolezza) a presentarsi nei flauti prima che esploda (2’29”) l’Uomo (tema mutuato da quello della volontà) le cui gesta sono affidate al pianoforte, sempre contrappuntate dal motivo della ragione. A 3’04” ecco un motivo gioioso, ancora seguito da quello della ragione. Il solista (Uomo) continua la sua opera (3’58”) ora in modo scintillante, fino a raggiungere…

II - Luce: lilla con sfumature rosso scuro (LAb-FA). (4’19”) la voluttà, poi la delizia (riferimento erotico, 4’38”) e infine il desiderio (4’45”, violino solo).

III - Luce: grigio (SIb). Dopo un colpo di timpano, ancora la volontà in evidenza (4’56”) nella tromba, seguita da momenti di emozione e rapimento (nei legni) alternata a squarci di abbandono nel violino solo (il primo a 5’22”). Ora il pianoforte (maestoso, a 5’33”) espone il motivo della creatività (derivato da quello di Prometeo) in un lungo passaggio che si chiude a 6’17”, dopo un tonfo minaccioso nel timpano, cui segue un nuovo intervento sognante del violino. Si continua per un po’ in un clima languido, ancora con il pianoforte e i legni protagonisti, con riapparizioni del motivo della ragione, finchè un nuovo, secco colpo di timpano (8’11”) che fa seguito a tre rintocchi dell’arpa, interrompe questo idillio.

IV - Luce: rosso (DO). Si passa infatti alla fase conflittuale e dopo due richiami in quarta giusta (MI-LA) di tromba e corno, la nuova entrata del pianoforte (8’36”) segna di fatto la fine dell’esposizione e l’inizio dello sviluppo. Vi troviamo la riproposta del tema della volontà in forma quasi tonalmente armonizzata, che anticipa ciò che udremo nelle trombe proprio in chiusura d’opera. Lo sviluppo è assai lungo e articolato, persino bellicoso (sic) e caratterizzato a frequenti ritorni del richiamo della volontà: a 9’18” lo udiamo nei corni e poi nella tromba; quindi più avanti ancora (dopo comparse del tema della ragione) nei tromboni, poi (da 11’02”) per quattro volte, sempre più in alto, nella tromba; quindi ancora (11’23”) colossale, nei corni, poi nuovamente in tromba e corni, con un poderoso crescendo che si smorza (11’54”) lentamente, seguito da un nuovo languido intervento del violino solo.

V - Luce: giallo (RE). Inizia qui (12’05”) la fase ascendente dell’evoluzione umana. È un passaggio pieno di mistero, affidato ai legni, poi ancora al violino, languidamente, a 12’28”. Si riode i tema della ragione, il pianoforte interviene per ora molto discretamente, ancora il violino, quindi ecco iniziare un crescendo di tutta l’orchestra che conduce alla fine dello sviluppo e all’inizio della ricapitolazione (14’40”) con il tema della ragione, esposto ora con grande enfasi dai corni. È il pianoforte a riproporre i motivi già uditi nell’esposizione: il primo che richiama la volontà (14’55”); poi quello danzante (15’29”).

VI - Luce: azzurro verdastro (MI). A 15’45” procede ancora, proprio a passo di danza, il cammino verso la trascendenza che vede l’irruzione improvvisa (16’31”) del coro: qui sono contralti (metà a bocca chiusa) e bassi (tutti a bocca chiusa) che emettono per ora vocali apparentemente inarticolate ispiranti beatitudine.  

VII - Luce: blu scuro (FA#). Ancora il richiamo della volontà (16’49”) esposto dalla tromba sottolinea l’ingresso dell’Uomo nella trascendenza. A 17’03” rientra il coro al completo che questa volta espone un testo apparentemente bizzarro, precisamente Eaohoaoho, che probabilmente deriva da Oeaohoo, l’eterna unità vivente secondo la Blavatsky. L’orchestra ora ribolle in un crescendo (tema di Prometeo) che si interrompe (17’47”) per far spazio al violino solo, prima che un prestissimo (18’05”) dia inizio alla sezione di coda, dove pianoforte e orchestra dialogano spasmodicamente.

E veniamo così alla conclusione, davvero bizzarra, date le circostanze: perchè (19’00”) assistiamo all’insediamento di un retorico LA#(=SIb) maggiore, con le trombe in particolare a riproporre il tema tonalizzato della volontà, scalando in arpeggio quasi due ottave: DO-FA-SIb-RE-FA-SIb (quarte giuste e terze). Che succede? Si sta per caso chiudendo sul grigio di LA#?! Non sia mai detto, ed allora (19’11”) ecco che nelle ultime 5 battute – fermo restando il LA#(=SIb) di quelle principali – le voci interne si muovono, da FA e RE, su FA# e DO#: un’incredibile, pacchiana e melodrammatica cadenza ottocentesca (un tale Bruckner, al culmine dell’Adagio della sua Ottava, aveva fatto precisamente la stessa cosa: grande arpeggio di MIb sfociato in un colossale DOb!) che chiude, come da copione, sul blu scuro del FA# maggiore.
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Inutile dire che chi ascolta questa musica senza nulla conoscere dei retroscena filosofici rischia di sopportarla a malapena come si fa con un’insipida brodaglia, che solo negli ultimi 20 secondi (su 20 minuti!) si trasforma in un (peraltro stomachevole) cacao meravigliao!   

Bene, adesso (dopo tutto ‘sto pedantesco tormentone…) chiederete: ma com’è andata qui in Auditorium? Ecco: niente coro (forse costava troppo scomodare i discepoli della Gambarini per così poco?) ma soprattutto niente luci: ora, ammesso che con le luci ci si possa forse divertire (mah…) se restano in ballo solo i suoni non ci si diverte per nulla, almeno questo è il mio schietto parere.

Certo: l’Orchestra, Axelrod e Maria Perrotta han fatto di tutto per… indorarci a pillola, tanto che il pubblico qui accorso in modica quantità ha mostrato di gradire: meglio così!
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Dal misticismo di contrabbando di Scriabin (seghe mentali, perdonate la definizione aulica…) alla straordinaria barbarie del Sacre di Stravinski! Tra le due opere e i due autori non ho personalmente dubbi sul come assegnare le palme di modernità e di rivoluzionario.

Axelrod, che deve averla imparata direttamente da Lenny Bernstein (uno che la conosceva come le sue tasche) rinuncia alla bacchetta e sfodera gesti secchi da vigile urbano che dirige il traffico in un incrocio caotico. Il risultato (grazie ovviamene ai ragazzi) è superlativo e… peggio per gli assenti, che però hanno ancora due possibilità per rimediare.