trallalalera, trallalalà!

droni di qua, razzi di là, bombe di su, spari di giù...

14 marzo, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°25

 

Riecco il simpatico Wayne Marshall sul podio dell’Auditorium per dirigervi un interessante programma (attenzione: interessante non significa automaticamente di alto livello…)       

Che si apre con una composizione giovanile di Richard Strauss: la Bläserserenade op.7 (per strumenti a fiato). Così la definì onestamente l’Autore nel 1909, 28 anni dopo averla composta: Null’altro se non il decoroso lavoro di uno studente di Conservatorio.  

Ma il sommo Quirino Principe non la pensa così. Ecco come analizza questo lavoro (da: Strauss – La musica nello specchio dell’eros):

Il piccolo prodigio venne alla luce 1'11 novembre 1881, quando Richard finì di comporre la Serenade in mi bemolle maggiore op. 7 (TFV 106) per 13 strumenti a fiato: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti in si bemolle, 4 corni (di cui il primo e il secondo in mi bemolle, il terzo e il quarto in si bemolle), 2 fagotti, controfagotto (o basso tuba). I corni in si bemolle sono bassi. In alternativa al controfagotto o al basso tuba, la partitura reca l'indicazione: Contrabaß . Per la prima volta, egli si cimentava in una composizione per insieme di fiati (legni e ottoni), e anche per questo l'autunno 1881 segna un momento inventivo di assoluta novità, anzi, apre un nuovo solco: in tutta la sua vita, Strauss ideò soltanto quattro lavori con un simile organico (altra cosa sono le cinque composizioni per ottoni e timpani), e, con ammirevole simmetria, due quasi al principio (1881 e 1884) e due quasi alla fine (1943 e 1944-1945). Che egli fosse stato preso da un imprevedibile interesse per il "guter Klang" di un insieme di fiati è testimoniato anche da una sua fatica inversa sotto l'aspetto tecnico, quasi contemporanea alla Serenade: la riduzione per pianoforte a 4 mani del Nonetto in fa maggiore di Franz Lachner (AV 183, TFV 108).
Non c'è dubbio: in senso strettamente tecnico, quella è la direzione che orienta lo sguardo del giovane compositore. È un suono nitidamente disegnato in lavori di buona fattura, alcuni autentici capolavori purché dotati di libertà visionaria. In quell'ambito esistono sicuri punti di riferimento, a Richard certo non ignoti: da prodotti abili e di modesta inventiva, come lo stesso Nonetto di Lachner o l'analogo Nonetto op. 139 di Rheinberger, a esiti più vibranti come la Serenata op. 44 di Dvorak, su su fino a un miracolo solare qual è la Serenata in re maggiore op. 11 di Brahms, nota agli ascoltatori tedeschi fin dal 1859. In particolare, il primo Minuetto della composizione brahmsiana si configura come una delle possibili premesse del nuovo suono straussiano e dell'invenzione tematica in tutta la sua leggiadra vitalità.
Il nuovo suono si presenta levigato, spoglio di eloquenza: nessun grande gesto. Servendoci del modello brahmsiano per vedere controluce le divergenze insieme con le affinità, leggiamo nella partitura della Serenade un primo segreto di fabbricazione della musica straussiana: l'assenza assoluta della cosiddetta "melodia popolare" o del cosiddetto stilema armonico popolare o di tutto ciò che popolare non è ma che abilmente, come spesso accade in Brahms, è tagliato nella sua morfologia come se lo fosse. La Serenade è bitematica, in un tempo solo (Andante) articolato in sezioni con sfumature di movimento che attenuano ogni contrasto: esposizione del primo tema (btt. 1-24), breve ponte modulante (btt. 25-30, dalla lettera A), secondo tema (più animato, btt. 31-60), una parte centrale che drammatizza elementi del secondo tema (btt. 61-118) e in cui un'ulteriore drammatizzazione comprende le battute 89-111 (dal più animato al Tempo I, in cui si ritorna alla serenità iniziale), e infine la ripresa (btt. 119-162) e la coda (btt, 163-173).
La prima esposizione è costruita quasi sul nulla, e arricchita da esigue differenze nell'uso e nella ricomparsa delle idee. Questo secondo carattere s'impone anche all'esposizione del secondo tema, che è invece plastica e di forte rilievo: anche in essa il discorso procede e si dialettizza secondo varianti minime. Una melodia discendente parte dalla mediante e si sofferma sulla dominante alla fine del primo inciso. La risposta è ascendente-discendente, e conclude la prima semifrase (primo quarto della bt. 4) con una triade di tonica nel secondo rivolto. Stranamente, questo accordo che dovrebbe rendere un senso di conclusiva stabilità è singolarmente teso ed elusivo, poiché in suo luogo ci saremmo aspettati un'anticipazione o un ritardo armonico. La seconda semifrase ha l'antecedente e il conseguente entrambi modellati sulla risposta della prima semifrase, cioè su una linea ascendente-discendente, ma con intervalli meno ampi, come a smussare le curve. Ne risulta una significativa relazione tra la prima e la seconda semifrase: nella prima, il rapporto di opposizione lineare tra antecedente e conseguente corrisponde, nella seconda, a un rapporto di attenuazione della stessa linearità.

La seconda frase mostra come sia possibile agire con forza su un delicato organismo mediante varianti che scalfiscono appena il rilievo. Il lieve mutare della linea melodica è bilanciato dall' alternarsi degli strumenti. Se in principio il primo tema era affidato al primo dei due oboi, nella battuta 9 esso è reintrodotto dal primo flauto, che gli dà una sostanza eterea, candida e sfumata, in luogo del disegno incisivo tracciato prima dall'oboe. Lo schema della melodia discendente è immutato: dalla mediante SOL alla dominante inferiore SI bemolle. La lieve variante si presenta in due sottovarianti nella
prima semifrase. Nell'antecedente, il ritmo puntato dell'incipit è sostituito da una serie di note di passaggio con lo sdoppiamento, nella battuta 9, del secondo ottavo in due sedicesimi. L'aggraziata, apollinea solennità delle battute 1-4 si trasforma in una semplicissima cantilena infantile. Nel conseguente della prima semifrase, un lievissimo
tocco di pollice, un'impercettibile deformazione plastica nella creta, e lo spirito muta stato d'animo: la scaletta discendente è immutata nella linea, ma le prime tre note diventano altrettanti sedicesimi preceduti da una pausa di uguale valore. Basta quella pausa iniziale a dare slancio e fervore, come se si volesse meditare per un attimo prima di abbandonarsi alla musica.

Subito dopo, sull'onda di una piccola fanfara di corni e fagotti, lo slancio e il fervore conducono all'impercettibile ascesa cromatica delle battute 13-14, con la sostituzione enarmonica del DO diesis al RE bemolle, e all'incantevole appoggiatura sull'accordo di settima di dominante nella battuta 15. Qui davvero l'apollineo si concede a chi lo sfiora senza sforzo, come il ramo d'oro del mito si staccava dalla pianta a chi lo toccava dolcemente senza strapparlo. La grazia mendelssohniana del ponte modulante prepara il terreno alla comparsa del secondo tema, della cui felicità siamo grati al giovane autore.
Tocca al primo clarinetto introdurlo, prima con deliziosa esitazione, quasi a piccoli passi interrotti da pause di un sedicesimo, poi con il supremo incanto con cui la prima scaletta discendente, invece di concludersi, come sarebbe da credere, sulla tonica SI bemolle (il secondo tema, in ossequio alle regole, è in tonalità di dominante rispetto al primo), è seguita da un'altra scaletta che ne è quasi l'ombra, collocata più in alto a intervallo di quinta.
Franz Dubitzky ricorda che Friedrich Wilhelm Meyer, cui la Serenade fu rispettosamente dedicata, non gradì il modo con cui l'allievo disegnò l'intero contorno del secondo tema, poiché nelle battute 35-36 esso gli parve una reminiscenza dello Spinnlied delle fanciulle filatrici nel II atto del Fliegender Holländer wagneriano ". Un pedante, Meyer, ma quale occhio!
La Bläserserenade op. 7 apre al linguaggio musicale di Strauss una porta verso il grande spazio dei suoni, e sviluppa in misura decisiva la sua conquista dei timbri strumentali.
Il Festmarsch op. 1 era la prima composizione di un ragazzo già in grado di concepire una scrittura orchestrale. Cinque anni dopo, l'aurea partitura per tredici fiati non è ancora la piena rivelazione dello stile che legherà al nome del suo autore connotazioni inconfondibili, identificandosi con lui, ma testimonia, per la prima volta, che per scoprire quello stile e farlo suo egli possiede ormai tutti i mezzi.

Forse Principe esagera un filino nei peana per questa composizione del 17enne bavarese, tuttavia i 13 fiati de laVerdi sono bravi a farcene apprezzare le qualità… promettenti. Piuttosto, come accaduto tempo fa al pacchetto degli archi (in altra Serenata, quella di Ciajkovski) avrebbero anche potuto essere esentati dalla presenza del Direttore (smile!)
___
Emanuele Arciuli arriva poi per presentarci il celebre Concerto di Edvard Grieg. Lui e Marshall hanno già fatto coppia qui quasi esattamente due anni orsono (allora per un grande affresco… ansioso).

In questo lavoro Grieg si rifà scopertamente a Schumann (stessa tonalità, analogo incipit) e anticipa di quasi 20 anni, sempre nell’apertura, un altro concerto in LA minore, il doppio di Brahms. Poi naturalmente ci mette molto di suo, compresa qualche atmosfera dei suoi fiordi.

Se Arciuli pare non voler calcare la mano (smile!) il vulcanico Marshall sottolinea in modo quasi esagerato tutti i chiaroscuri, sia di suono che di tempo, dando al concerto un’impronta… Liszt-iana.

Grande successo per i due e per Arciuli in particolare, che ripropone il bis del suo amato Debussy. Ritroveremo tutti i protagonisti di ieri fra un paio di giorni, alla Scala, impegnati in opere di bene.
___
La serata è chiusa dall’esecuzione della Seconda sinfonia di Franz Schmidt, violoncellista prima ancora che compositore vissuto a Vienna dalla fine dell’800 fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.

Dico francamente che lo scarso interesse che suscita questa sua opera (come le altre, del resto) mi pare proprio meritato: comporre nel 1911-13 una sinfonia scimmiottando modelli ormai superati (Bruckner, Brahms) mentre il suo vecchio – e non propriamente amato - Direttore alla Hofoper aveva appena composto, prima di andarsene da questa valle di lacrime, cosucce come Das Lied von der Erde, la nona e la decima sinfonia, ha davvero del velleitario e dell’anacronistico.

A proposito di Mahler, ecco come il grande boemo giudicò un’opera di Schmidt (Notre-Dame de Paris) che il violoncellista-compositore gli sottomise nel 1904 sperando di farla rappresentare alla Hofoper: Molto bella! Ma mi spiace dire che nella sua partitura mancano le grandi idee. Appunto…

Non stupisce quindi che Schmidt, da conservatore, si trasformasse in reazionario, plaudendo al nazismo e all’Anschluss, fino al punto da comporre Deutsche Auferstehung, la resurrezione tedesca, proprio all’indomani dell’annessione (di quella che peraltro era una sua patria putativa, essendo lui slovacco-magiaro di origine). 
___
La sinfonia è formalmente in tre tempi, ma in pratica è in quattro, dato che il secondo movimento (un tema con 10 variazioni, che occupa più di un terzo dell’intera durata) si suddivide chiaramente in due: tema + 8 variazioni e Scherzo con Trio costituito dalle ultime due.

Il primo movimento (Lebhaft) è in forma-sonata con alcuna licenza (parafraso Ciajkovski…) Vi si possono distinguere le classiche componenti strutturali: esposizione di due temi (più transizione) sviluppo, ripresa e coda.

Le libertà che si prende Schmidt riguardano più che altro l’impianto tonale: primo tema in MIb maggiore, secondo (!) in SI maggiore; ripresa del primo tema (!) in SOL e SI maggiore. Per il resto, una buona dose di modulazioni, soprattutto nello sviluppo, e il rispetto delle regole nella ripresa del 2° tema, portato in MIb maggiore.  

In apertura, senza introduzione, viene esposto il primo tema, assai vivace e di carattere pastorale:


Il tema si sviluppa a piena (fin troppo!) orchestra, con soggetti secondari assai enfatici, poi il ritmo di tranquillizza, vira al minore lasciando spazio ad una transizione (pare l’Incantesimo del fuoco wagneriano…) che modula verso il SI maggiore in cui il pacchetto di 6 corni (degli 8) espone il secondo tema, più cantabile:


Anch’esso poi si anima per l’intervento di tutta l’orchestra (si odono qui atmosfere straussiane) e quindi sfuma lentamente perdendosi in lontani rintocchi dei timpani, col che si chiude l’esposizione.

Lo sviluppo è canonicamente introdotto dal primo tema, in MIb, dopodiché si assiste a sue diverse modulazioni (SOL maggiore, DO minore, LAb maggiore); il secondo tema compare contrappuntando il primo sul LAb maggiore, poi modula a SI maggiore, da cui scende ancora al LAb, anzi alla sua relativa FA minore. Ci avviamo alla conclusione dello sviluppo, con una teatrale serie di pesanti accordi di corni e trombe, intercalati da sussulti di archi e legni, che sfociano in un RE maggiore, assai tranquillo, che chiude con fiati, timpani, piatti e tamtam, in pianissimo.  

La ripresa ripropone il primo tema in SOL maggiore alternato a DO e SI maggiore, la tonalità del secondo tema che viene poi esposto nel canonico MIb maggiore, sul cui sfumare dei timpani (come nell’esposizione) si passa alla conclusiva coda, che si costituisce come un nuovo mini-sviluppo dei due temi, e che chiude nella tonalità d’impianto dopo una serie di altre modulazioni.

Il secondo movimento è un Allegretto con variazioni, il cui tema in SIb, assai delicato ma anche piuttosto lezioso, è esposto da tutti e soli i legni:


Gli archi soli (contrabbassi esclusi) sono protagonisti della prima variazione, che si mantiene sul piano elegiaco del tema, esposto dai primi violini, semplicemente muovendolo con le semicrome dell’accompagnamento degli altri archi. La seconda variazione è ancora appannaggio dei soli fiati, i legni cui si aggiunge il primo corno: l’atmosfera bucolica non cambia.

La terza variazione, ancora esposta dai soli archi, imprime invece un nuovo ritmo, a partire dal tempo che, da ternario, diviene binario (2/4) oltre che dalla puntatura delle note. Una tecnica che pare mutuata dal Brahms delle variazioni op. 56. Dopo una lunga pausa ecco la quarta variazione, ancor più spedita nel tempo (Schnell, 4/4 alla breve) che comincia ad impegnare diverse sezioni dell’orchestra: mentre gli strumentini e i corni espongono il tema con note di lunghezza dilatata (semibrevi e minime) fagotti e violoncelli lo contrappuntano con svolazzi di semicrome, e i timpani e gli archi scandiscono un ritmo marziale. Si chiude con le veloci semicrome di archi, fagotti e clarinetto.

Nella quinta variazione il tempo si velocizza ulteriormente (Sehr schnell, 3/8) e muta anche la tonalità (REb maggiore, SIb minore): sono ancora i legni –divisi in due gruppi che si alternano (flauti-coboi-cornoinglese e clarinetti-clarinettobasso e fagotti - ad esporre la melodia, mentre gli archi l’accompagnano con un tappeto di tremolo, spalleggiati da timpani e piatti. La sesta variazione vede il tempo degradare ulteriormente (Langsam und ruhig) mentre la tonalità resta fra SIb e REb: un’oasi dall’atmosfera intimista ed elegiaca, cui segue la settima variazione, nuovamente veloce (Sehr schnell, 6/8, MIb minore-maggiore) e caratterizzata da una poliritmia ottenuta dalle crome (6 per battuta) dei fiati (ancora divisi in due gruppi) e le semicrome (8 per battuta) degli archi, pure divisi in due gruppi che spalleggiano il botta-e-risposta dei fiati.

L’ottava variazione è in agogica dolente (Sehr leidenschaftl, nicht zu schnell, 3/4). La tonalità di base è FA# maggiore, con una divagazione a LA. Qui l’atmosfera, dal sapore vagamente boemo, che ricorda Dvorak e Smetana, richiama forse le terre di origine del compositore.

Come detto, le ultime due variazioni si configurano come uno Scherzo con Trio. La nona, piuttosto vivace (Sehr lebhaft, 3/4) apre con 8 battute introduttive, di archi e legni (questi in corale) prima che gli archi attacchino il tema, subito inseguiti dal resto dell’orchestra. La tonalità prevalente è SIb, con digressioni al FA. Il ritmo è assai pesante e  marcato, spesso addirittura sgradevole, con eruzioni di corni, trombe e timpani piuttosto sgraziate. La decima variazione rappresenta il Trio, più lento (Sehr ruhig) prevalentemente in DO#, tempo 9/8, caratterizzato da un eccesso di strumentazione che non gli giova. Ci troviamo un po’ di Bruckner ed anche di Mahler, ma poca ispirazione. Lo Scherzo riprende (variazione 9) per concludere il movimento con una coda tanto affannosa quanto musicalmente modesta. 
  
Il Finale è un Adagio (Langsam, con qualche increspatura) che forse cerca di scimmiottare quelli di Mahler o di Bruckner: la buona volontà di sicuro c’è, ma i risultati sono assai meno… convincenti, ecco.

Anche qui c’è una prima sezione – a canone - suonata esclusivamente dai fiati, che poi cedono brevemente il posto agli archi, prima di riprendere il controllo esclusivo ed ancora lasciare poco spazio agli strumenti a corda. Poi ecco finalmente l’intera orchestra portare avanti il discorso fino alla fine, fra vaghe reminiscenze di Ciajkovski e Dvorak, e con qualche sussulto a turbare l’andamento pacato del brano.
___
Che dire? Vorrei, non posso? L’orchestrazione è mediamente di una notevole pesantezza: è raro che i temi emergano chiaramente e pulitamente da un marasma sonoro dove troppi strumenti suonano note di puro riempitivo, che finiscono per disorientare l’ascoltatore e tradiscono verosimilmente una notevole carenza di narrativa. Insomma, un pezzo che al massimo può suscitare curiosità, più che ammirazione. 

Ma che non dev’essere per nulla facile da suonare, per cui i ragazzi (e Marshall con loro) si meritano comunque una lode, e si sono meritati l’applauso del loro affezionato - anche se non proprio oceanico - pubblico.

08 marzo, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°24

 

Ecco, questo è un concerto davvero particolare, da tanti punti di vista, e non tutti piacevoli… Intanto perché è diretto da una signora. Direte: oh, che novità, la Xian! Eh no, invece abbiamo Claire Gibault, un’altra delle poche quote rosa del firmamento direttoriale. Poi perché mette in programma una prima, il che non è cosa di tutti i giorni. Infine perché ci permette doveva permettere di ascoltare ancora dal vivo le note, genuine o supposte tali, dell’estremo lascito mahleriano.

Ma andiamo con ordine. Di Fabio Vacchi, compositore in residence presso l’Orchestra, abbiamo ascoltato la prima assoluta del melologo Veronica Franco. Ispirato ai testi letterari della più colta ed emancipata puttana che la storia ricordi, si compone di versi originali della Franco cantati dal soprano (ieri era Talia Or) e di testi che Paola Ponti ha tratto da altri scritti (epistolari, per lo più) della honorata cortigiana veneziana del XVI secolo (ieri recitati da Giovanna Bozzolo).

La musica di Vacchi, oltre ad accompagnare il canto, si incarica anche di creare l’atmosfera adatta per supportare il racconto della voce recitante. Il soggetto, se così si può dire, del melologo è incentrato sul processo che la Franco subì da parte dell’Inquisizione (accusa: stregoneria) e nel quale lei si difese da sola, ottenendo la piena assoluzione.

Si parte dalla sera precedente all’udienza, dove la donna prepara la sua difesa (-offesa in realtà) per continuare con la sua arringa auto-difensiva che le consente di salvarsi dal rogo. E dai versi e dai racconti di Veronica emerge tutto lo spaccato di civiltà a lei contemporanea, insieme alle sue incredibili doti di intelligenza, cultura e saggezza.

Vacchi trova il giusto equilibrio di suoni e colori per evocare le tante facce della vicenda di Veronica: dalle atmosfere non proprio idilliache dei pregiudizi e delle accuse contro di lei, ai suoi slanci di donna orgogliosa e decisa a vender cara la pelle, fino alla positiva conclusione della storia. Per raggiungere l’obiettivo il compositore impiega tutte le risorse disponibili in orchestra (percussioni in grande evidenza) ma senza mai esagerare in enfasi o retorica. E sempre mantenendo alto il livello di cantabilità e di lirismo dei suoi temi, cosa che del resto caratterizza tutta la sua produzione.

Convinti applausi e ovazioni hanno accolto l’esecuzione e gli autori.
___
La Decima di Mahler prevista in questo concerto è una delle ultime ricostruzioni della sinfonia (che l’Autore, come noto, lasciò allo stadio di torso). A quasi tre anni fa risale l’ultima esecuzione qui in Auditorium: allora venne impiegata la versione predisposta da Derick Cooke, che negli anni ’60 del secolo scorso era stato il primo a cimentarsi nell’impresa (ardua ed anche discutibile, e assai discussa) di tradurre gli schizzi – corredati da indicazioni… extramusicali! - di Mahler in qualcosa di eseguibile.


Da allora altri si sono cimentati in questa stessa impresa e uno di questi è una vecchia – e ahinoi scomparsa – conoscenza de laVerdi: Rudolf Barshai. Il quale nel 2000 produsse la sua versione dell’opera, che ha poi eseguito varie volte (ecco una di queste) ed ha presentato anche qui nel 2002.  

Ferme restando le solite considerazioni relative all’arbitrarietà delle scelte operate dal ricostruttore/completatore - che ovviamente cerca (in perfetta buona fede, s’intende) di mettersi nei panni di Mahler per decidere come strumentare ciò che l’Autore aveva semplicemente abbozzato su pochi pentagrammi - si possono fare apprezzamenti sulle diverse ricostruzioni, come fa – qui peraltro in modo interessato – il recensore della Universal Edition che ha pubblicato la versione Barshai, in concorrenza a Faber Music che pubblicò quella di Cooke.  

Le differenze fra le due versioni - anche se magari è difficile coglierle all’ascolto dal vivo - non sono propriamente trascurabili, riguardando la scelta degli strumenti cui affidare le linee melodiche e/o le armonie indicate da Mahler e soprattutto la dinamica (a volte persino l’agogica) da perseguire.
___
Tutto questo tormentone in realtà non serve ad alcunché, dato che ieri sera, meno di mezz’ora prima dell’inizio del concerto, un cartello esposto sulla locandina avvertiva che della sinfonia sarebbe stato eseguito soltanto l’Adagio iniziale, quello che Mahler lasciò ad uno stadio avanzato di completamento e che fu pubblicato da Universal (edizione di Erwin Ratz) già quasi un secolo fa e da allora eseguito e registrato da Direttori grandi e piccini.

Spiacevole contrattempo davvero, che ha provocato all’uscita reazioni piuttosto inviperite (e non senza motivo). Ciascuno può fare le illazioni che crede sulle cause che hanno portato al default (chissà se la Fondazione darà in proposito spiegazioni non puerili). Resta  purtroppo il fatto incontestabile che di episodio poco edificante si è trattato.

06 marzo, 2014

La sposa dello… zombie di Cerniakov

 

Ieri sera seconda recita di Una sposa per lo Zar, in un Piermarini ancora una volta povero di spettatori.


Il soggetto, che Il’ja Tjumenev trasse dal dramma di Lev Aleksandrovič Mey, è proprio un bel polpettone strappalacrime! Viene descritto come dramma a sfondo storico, ma in realtà di storico ha soltanto un paio di riferimenti (per quanto importanti) alla figura di Ivan Grozny (da cui viene il titolo dell’opera). Per fare un paragone con un vicino di casa, il Boris di Musorgski sì che è un dramma storico, tutto incentrato sulla figura dello Zar e sulle vicende pubbliche, oltre che private, connesse alla sua salita al potere e alla successiva fine. Qui invece la storia si riduce alla presentazione del contesto in cui si svolge l’azione, uno scenario di vita quotidiana che esseri umani sono costretti a condurre a qualunque latitudine in una qualunque società che si trovi ad essere schiacciata sotto il tallone di un qualunque despota e dei suoi sgherri.

Nel quale brodo di cottura troviamo immersi gli ingredienti principali dell’opera: amori (puliti e sporchi) gelosie, corna, ricatti, filtri e contro-filtri magici, ipocrisie, equivoci, pentimenti e sequele di colpi-di-scena. Il tutto infine si conclude con un’orripilante escalation di ammazzamenti che non lascia vivo uno solo dei quattro protagonisti principali…
___
Lo spunto per il titolo venne a Mey dalla vicenda di tale Marfa Vasilevna Sobakina, terza moglie di Ivan il Terribile (un tipo che pare scegliesse le consorti attraverso concorsi di bellezza, con tanto di eliminatorie, magari con gironi di 1600-2000 candidate, e short-list di 12 finaliste!) morta di inedia pochi giorni dopo le nozze, si disse causa avvelenamento. Ma andiamo con ordine.

Il cattivone di turno (un baritono, manco a dirlo!) è Grigorij Grigor’evič Grjaznoj che ricopre ruoli di comando nella polizia personale dello Zar (i famigerati opričnik). Costui convive da tempo con tale Ljubaša, una donna ancora piacente (regalatagli - previo… esproprio dalla famiglia d’origine - da un collega più anziano, Maljuta, basso) che canta come un usignolo, ed è assai gelosa (quindi: mezzosoprano). Però adesso si è innamorato pazzamente della protagonista Marfa, giovanissima, bella e immacolata (soprano!) già promessa al nobile (boiaro) Ivan Sergeevič Lykov (per gli amici: Vania, tenore).

Nella prima aria dell’opera il rude Grigorij si scopre invecchiato e imborghesito: anni addietro avrebbe semplicemente abbattuto la porta di casa della ragazza concupita per trafugarci la sua preda senza tanti complimenti… adesso invece si accorge di esserne innamorato sinceramente (!) e di doverla conquistare con mezzi civili e incruenti.  

Tuttavia, non avendo avuto successo con le buone, non esita ad usare, per raggiungere il suo scopo, sistemi, ehm… diversamente-persuasivi: promettendogli oro e ricchezze, convince tale Elisej Bomelij (tenore) medico dello Zar (ma in realtà un cialtrone-stregone che si spaccia per alchimista) a procurargli un filtro d’amore da far bere a Marfa per innamorarla di lui. Peccato che della trama si accorga la gelosa Ljubaša, che subito inventa una micidiale contro-mossa: si reca dallo stregone di cui sopra e gli chiede di procurarle un filtro dell’invecchiamento (in realtà, un filtro di morte) da somministrare al posto di quello d’amore alla povera Marfa, in modo da renderla inappetibile per il fedifrago Grigorij.

Come si vede, con tutti questi filtri la storia comincia a puzzare di… Tristan (!) Ma anche di Tosca, dato che lo sbifido stregone (che non è mica scemo!) approfitta della situazione per trasformarsi in Scarpia e obbligare Ljubaša (sotto il ricatto di spifferare tutto a Grigorij) a pagarlo in natura. Cosa che la donna (una che evidentemente non ha la stoffa della collega bellona, sì insomma, la cantante pucciniana, smile!) pur mostrandosi a tutta prima riluttante, alla fine si decide a fare, suo malgrado.

Adesso arriva il primo colpo di scena: alla festa di fidanzamento di Marfa con Vania il poliziotto Grigorij versa il contenuto della fiala avuta da Bomelij nella coppa di idromele destinata a Marfa, che la ingurgita d’un sol fiato. Ma in quello stesso momento giunge un messo dello Zar ad annunciare che proprio Marfa ha vinto la finalissima del concorso per zarina (quando si dice il… culo!)

Non resta ora che prepararsi all’apocalittica conclusione: la povera Marfa si è già trasferita, famiglia al seguito, negli appartamenti reali, ma sta sempre peggio e nessuno sa spiegarsi perché. Nessuno salvo Grigorij, che dapprima immagina (illuso!) che si tratti dei primi sintomi di mal d‘amore (per lui) ma ben presto comincia a sospettare che il filtro avuto dallo stregone non abbia funzionato a dovere, o peggio fosse una bufala. Intanto, per salvarsi il culo (leggi: evitare di essere impalato, smile!) dalle ire dello Zar, fa torturare Vania, il fidanzatino di Marfa, fino a costringerlo a confessare di essere lui il suo avvelenatore (per gelosia nei confronti dello Zar) e così giustiziarlo sommariamente come traditore.

Ora viene chiamato in causa anche Donizetti, per supportare il trasferimento di Marfa al reparto… disturbati mentali: la poveretta, informata da Grigorij della brutta fine di Vania, va in preda alle allucinazioni e scambia la testa di cuoio per il fidanzato, proprio come la Lucia di Lammermoor (!) Ma il rimorso ormai si è impadronito dell’animo dell’ex-macho che esplode nell’auto-accusa: lui è colpevole di aver somministrato alla ragazza un filtro che credeva d’amore e chiede di essere giustiziato (non prima però di aver dato il benservito all’alchimista imbroglione…)

Ma l’ultimo e più clamoroso colpo-di-teatro deve ancora arrivare: trionfante, Ljubaša annuncia a Grigorij che Marfa in realtà è vittima di un filtro di morte, che lei aveva sostituito (ecco a voi una Brangäne al contrario!) a quello d’amore, prima che lui lo versasse nella coppa di idromele. Così a Grigorij non resta che ammazzarla seduta stante, per poi consegnarsi ai suoi colleghi sgherri per essere a sua volta giustiziato. Mentre lui le getta un ultimo disperato sguardo, la povera Marfa, ormai del tutto uscita di melonera, gli dà appuntamento per l’indomani, chiamandolo… con il nome del suo amato Vania.

Ecco, tutto questo sapido intrico di passioni ha come sfondo uno scenario idilliaco e bucolico di vita di una comunità rurale (la danza-coro del luppolo, la gente che esce dalla Messa, i ricordi d’infanzia di Marfa) sul quale scenario però incombe l’ombra del sanguinario tiranno. Ombra che appare in forme trionfaliste (il coro in onore dello Zar del primo atto) poi minacciose (gli opričnik che si preparano a spedizioni punitive, inizio dell’atto secondo) e poi si materializza, terrificante, con l’apparizione muta ma sconvolgente dello Zar a Marfa, sempre nel second’atto.

Infine l’ultimo degli effetti della presenza di un despota - che ha il potere di vita e di morte su chiunque - è rappresentato dall’angoscia che, nel terzo atto, attanaglia i due rivali Vania e Grigorij al pensiero che lo Zar potrebbe sequestrargli Marfa, privandoli in tal modo della (genuina per il primo, mistificata per il secondo) felicità.
___
Ecco, si potrebbe dire: meno male che Rimski c’è… dato che è la sua musica a sollevare dalla mediocrità il livello di un soggetto francamente discutibile. Musica caratterizzata, come tutta quella di Rimski, da un adeguato standard di qualità ed altrettanto ottima godibilità (sia chiaro però: nessuno si azzardi a parlare di capolavoro!) Del resto il nostro era, nonostante l’appartenenza ad opposta fazione, un ammiratore di tale Ciajkovski, come si evince immediatamente dal secondo tema esposto nell’Ouverture (e mai più riascoltato nell’opera) ottenuto citandone, giustapposti, nientemeno che due frammenti di motivi: rispettivamente il secondo del movimento iniziale della Prima Sinfonia e il secondo del secondo movimento del Manfred:


E altro Ciajkovski (Onegin, ancora i Sogni d’inverno, ma anche un po’ di Patetica) fa capolino qua e là, oltre all’amico Musorgski di cui viene ripetutamente ripreso - dal prologo del Boris, scena seconda - il coro per lo Zar, in realtà l’abusato canto patriottico Slava Bogu ne nebe Slava, citato persino da Beethoven nel secondo dei quartetti Razumovski (oltre che da Borodin nell’Igor, da Ciajkovski in Mazepada Arensky nel quartetto op.35 e da altri ancora):



Ma insomma, a me questo Rimski operistico verrebbe da chiamarlo il Meyerbeer russo post-litteram, ecco… E del resto ne fa fede la sua maturata idiosincrasia verso la modernità wagneriana e il suo dichiarato intento di riproporre con quest’opera – siamo ormai in vista del ‘900! - una forma di melodrammone ultra-tradizionale, infarcito di numeri d’insieme (duetti, terzetti, quartetti, quintetti, sestetti con coro) oltre che di arie e ariosi in piena regola. Insomma: un’opera assai più vicina agli standard dei Teatri Imperiali che non all’approccio autarchico e innovatore (per non dire rivoluzionario) della Banda dei Cinque, presso la quale Rimski pure era stato in servizio permanente effettivo in anni precedenti.

Rimski, che dopo una prima infatuazione si era messo a criticare Wagner per le sue idee riguardo al melodramma, era però un suo seguace nel saper evocare con motivi musicali appropriati le più diverse situazioni: basta pensare a come supporta la descrizione che fa l’alchimista Bomelij a Grigorij del suo filtro magico, quattro battute musicali nei legni che sono parenti strette del wagneriano tema del Tarnhelm

E anche se propriamente non impiega Leit-Motive nell’accezione wagneriana, tuttavia Rimski usa caratterizzare i personaggi con temi ben riconoscibili o appropriati ad evocare particolari stati d’animo (ad esempio i motivi che salgono alla sopratonica, che ben rappresentano le smanie di Bomelij nel suo rapporto con Ljubaša) oppure ripropone lo stesso tema in situazioni diverse, come ad esempio quello dell’aria di Ljubaša del primo atto, che fa da intermezzo, nel secondo, fra il quartetto davanti alla casa di Sobakin e il fatale incontro della (ex-)donna di Grigorij con l’alchimista.

Un autentico gioiello è il motivo in REb che sostiene la seconda parte dell’aria della pazzia di Marfa (a partire dal Larghetto assai sui versi Guarda, sopra le nostre teste il cielo è ampio come una tenda). Esso richiama quello dell’aria del second’atto (dove Marfa ricordava i bei giorni passati da ragazzi con Vania) ed è presente anche verso la fine dell’Ouverture:


Dopo l’esposizione di due coppie di soggetto-controsoggetto l’aria si chiude piuttosto asimmetricamente, con la proposizione del soggetto che, dalla dominante, invece di preparare la risposta, chiude piuttosto repentinamente sulla tonica: un mirabile esempio di pazzia musicale!   

Insomma, un’opera che fa la sua bella figura nel mucchio di tanti melodrammi, diciamo, di centro-classifica, e che meriterebbe anche da noi di godere della stessa popolarità di cui viene gratificata in Russia.   
___
Qui l’audio della storica edizione del Bolshoi con la grande Vishnevskaya.
___
In questa co-produzione della Scala e dell’Unter-den-Linden si esegue la partitura quasi al completo. Quasi, poiché nel primo atto viene cassato totalmente (ma accade talora anche in Russia) il lungo coro danzato cosiddetto del luppolo selvatico. Peccato, poiché sono alcuni minuti di bella musica (come tutto il resto) ed anche appropriati ad impreziosire la festa in casa di Grigorij. Di altri piccoli tagli – ad esempio la scenetta dei due giovani che escono dal negozio di Bomelij – possiamo non dolerci troppo.

Che dire di canti e suoni? Che purtroppo questa volta (e non sarà l’ultima) la radio di domenica scorsa mi ha tradito - in eccesso - non poco. Intanto un paio di considerazioni generali. Primo: almeno la metà delle voci si sono dimostrate assolutamente inadeguate a perforare gli immensi spazi del Piermarini. Secondo: Barenboim non se ne deve essere accorto in tempo, poiché ha bellamente coperto i cantanti spesso e volentieri. L’alibi che tanto nessuno del pubblico capisce cosa si canta e quindi fa lo stesso è di quelli un filino paraculi…

Vediamo i dettagli (pagelle mie, e solo mie, ovviamente).

Johannes Martin Kränzle (il velleitario Grigorij) è uno dei tre soli che si fanno sentire: ma non è propriamente un bel sentire. Lo ricordavo meglio nell’Alberich del Ring del bicentenario: qui schiamazza assai più che cantare.

Olga Peretyatko (in Mariotti…) è Marfa: anche lei passa a sufficienza, però la voce è spesso pigolante (va bene che lei interpreta una ragazzina) e sgradevolmente metallica. Nella scena conclusiva viene costretta dal regista a cantare anche in posizione bocconi, il che potrebbe valere come attenuante generica in tribunale.

Marina Prudenskaya (Ljubaša) non canterebbe neanche male, se si riuscisse ad udirla bene: viceversa i suoi limiti congeniti e l’esuberanza di Barenboim ci consentono di sentirla discretamente solo nella sua aria del primo atto, dove canta da sola mentre l’orchestra tacet (!) 

Pavel Černoch è un Vania piuttosto evaniascente (smile!): canta tutte le note, ma la metà non si sente e l’altra non entusiasma.

Stephan Rügamer non è malaccio nel ruolo dello sbifido Bomelij (un po’ come nel Loge del Ring di cui sopra): da me ha un’onesta sufficienza.

Anatoly Kotscherga (Sobakin) si sente bene (nel senso che i suoni arrivano…) e per il resto col mestiere di un’intera vita riesce a supplire alle magagne del tempo.

Anche Tobias Schabel (Maljuta) se la cava, sia pure a stento, e soprattutto perché canta abbastanza poco (smile!)

Sulla povera Anna Tomowa-Sintow (Saburova) non mi sento di sparare. Certo qui si danno solo due possibili spiegazioni: o lei è così in bolletta al punto da mendicare da qualche vecchio amico scritture come questa (il ruolo non è certo di quelli da… Panariello, stra-smile!) oppure ha perso del tutto il senso delle misure. Non so quale delle due spiegazioni augurarmi per lei.

Anna Lapkovskaja (Dunjaša) e Carola Höhn (Petrovna) hanno cercato (soprattutto la prima, un poco più impegnata) di meritarsi il gettone.

Il Coro di Casoni ha forse qualche problemino di… lingua (scherzo): fatto sta che non mi è parso così compatto come suo solito.

Barenboim mi aveva lasciato perplesso domenica (radio) proprio nell’Ouverture, per eccessiva sostenutezza. Ieri almeno lì mi è parso migliorare, tenendo tempi più spediti. Per il resto, detto dello scarso rispetto che ha avuto per cantanti in deficit di voce, ha diretto per me in modo discreto un’orchestra che a sua volta non mi ha entusiasmato, proprio nella sezione archi. Alla fine dal loggione gli è piovuto addosso uno strepitoso che personalmente avrei riservato ad occasioni migliori.

In complesso una prestazione non molto più che sufficiente, accolta da applausi moderati e sbrigativi. Negli intervalli si è udito anche qualche sibilo, ma sarebbe da stabilire se diretto ai Musikanten o al Regisseur (quest’ultimo dev’esser già dall’altra parte del mondo, tanto la sua razione programmata di buh l’ha già messa in banca domenica scorsa…)
___   
E a proposito di regìa, su quella di Cerniakovbuato pesantemente alla prima, nonostante lo stoico quanto goffo tentativo di salvataggio compiuto da Barenboim (proprio come fece per la contestatissima Emma Dante anni fa… A proposito, caro Daniel, non dicesti che quella era la Carmen del terzo millennio? hahaha!) – pesa il solito vizio di voler-dover strafare a tutti i costi.

Certo a Cerniakov dev’essere sembrato banale (o rischioso?) cambiare l’ambientazione del soggetto legandola all’attualità ed allo stesso tempo conservando piena coerenza con l’originale. Il che sarebbe abbastanza facile, basterebbe ambientare il dramma di Rimski sotto Hitler, oppure sotto Pol-Pot, o Stalin, o magari anche, perché no - invece di personaggi ormai obsoleti come il patetico Boris Eltsin - mostrarci in chromakey la Russia di oggi sotto Putin, con immagini dei massacri in Cecenia, dell’irruzione alla Dubrovka, di Khodorkovsky in galera o della Politovskaja ammazzata in ascensore… e visto che tutto ormai si può fare in real-time, pure dell’invasione della Crimea!

No, il regista - lo scrive anche e lo racconta nelle interviste - traspone la vicenda ai giorni nostri per mostrarci come, in fondo, il mondo non sia cambiato da mezzo millennio a questa parte: anche oggi c’è uno zar – virtuale anziché reale - che in qualche modo ci condiziona tutti, letteralmente inventato al computer dal potere dei media, TV e rete in primo luogo.

Intendiamoci: che oggi l’umanità sia in preda a degenerazioni legate all’uso improprio delle diavolerie che inventa a raffica è sotto gli occhi di tutti e un artista che si rispetti, ed abbia le capacità per farlo, fa benissimo a costruirci un soggetto teatrale e da questo ricavare uno spettacolo di alto livello. E a Cerniakov vanno riconosciuti tutti i meriti in proposito: grande fantasia, profondo acume nel decifrare anche pieghe nascoste del soggetto, e poi notevole maestrìa nel metterlo in scena.

Purtroppo, essendo matematico che in casi come questo nascano difformità fra l’idea del regista e l’originale, è fatale che sia quest’ultimo (in toto o in parte) ad essere… sacrificato sull’altare della prima. Ecco quindi che il nesso causa-effetto zar-opričnik viene semplicemente ribaltato (!) Qui sono i secondi che creano il primo, e non viceversa. A che pro? Ovviamente perché loro sono produttori di spettacoli TV, che ci inventano sopra un gigantesco serial televisivo che avrà come protagonista non lo zombie (che esiste solo nelle memorie dei computer e sugli schermi TV) ma una sua sposa in carne ed ossa, che verrà selezionata con un classico casting moderno, come decidono i costruttori dello zar nella loro chat durante l’Ouverture. E naturalmente sapendo benissimo fin dall’inizio che la sposa in carne ed ossa dello zar in… pixel finirà per uscire di melonera. Come si vede, il risultato finale – la pazzìa di Marfa – viene preservato sì, ma a spese dello stravolgimento della causa scatenante.

Altro punto debole qui sta nel ruolo degli opričnik di Cerniakov: la cui protervia è tutta e solo ideologica e di business, mentre nell’originale – testo e musica - è proprio brutalmente materiale!

Quanto alla storia e al significato dei due filtri, dobbiamo pensare trattarsi di affari di droga, di cui Bomelij dev’essere evidentemente uno spacciatore. Quella chiesta da Grigorij probabilmente è roba leggera, sufficiente ad irretire l’ingenua Marfa e farla cadere nelle braccia del manager produttore di serial. Quella data a Ljubaša magari è una polvere da sciogliere in una bevanda, ma che ha gli stessi effetti del crack, che distruggerà Marfa nel corpo e nella mente. Alla fine nessuno potrà però dire se la poveretta sia vittima della droga o dell’insopportabile stress derivatole dal ruolo impostole nel serial di cui è diventata protagonista dopo aver vinto la finalissima del casting. E anche qui non siamo certo fuori strada rispetto all’originale, poiché è del tutto plausibile che la vera Marfa non fosse stata affatto avvelenata, ma fosse crollata psicologicamente sotto il peso del ménage di coppia impostole dal Terribile.

Ciò che non quadra in questa parte del Konzept di Cerniakov è che nell’originale Marfa viene costretta (dal potere violento dello Zar) a partecipare alla selezione e poi a diventare, magari controvoglia, moglie del despota. Qui invece lei si presenta spontaneamente alle selezioni, attirata dal miraggio del successo e dall’immagine ingannatrice dello zar-in-pixel fugacemente vista sullo schermo TV di casa sua.

Ci sono poi nello spettacolo, ne cito un paio, altre forzature e/o incoerenze con l’originale: alla fine del second’atto Ljubaša, invece di cantare a se stessa il suo risentimento e la sua sete di vendetta nei confronti di Marfa, lo fa proprio cantandole in faccia alla povera e ignara ragazzina! Dopodiché sembra quasi pentirsene e l’atto si chiude con lei che, invece di andarsene con Bomelij (che ha già preparato la droga e pure… le valigie!) resta praticamente avvinghiata a Marfa (quindi perché mai insisterà poi a volerla morta?) Alla fine del terz’atto, all’arrivo della notizia della vittoria di Marfa alle selezioni, il povero Vania invece di disperarsi, va sorridente a complimentarsi con la fidanzata, come farebbe qualunque giovane emancipato di oggi se la sua ragazza venisse scelta per il Grande Fratello o consimili.

C’è poi la questione del luppolo: qui il sospetto che sia stato sacrificato in quanto non coerente (figuriamoci, un girotondo di ragazzi e ragazze che cantano un’innocente filastrocca!) con la vision del regista diventa quasi certezza.

Intendiamoci: si tratta di aspetti magari marginali, però messi tutti insieme finiscono per disorientare lo spettatore, direi più quello che ha una certa dimestichezza col soggetto che quello che invece lo vede per la prima volta e magari afferrando pochi percento delle parole cantate. 

Per riassumere il tutto, nello specchietto sottostante ho cercato di sintetizzare, attraverso l’elencazione e la descrizione di alcune loro rilevanti caratteristiche, lo scenario originale e quello immaginato dal regista:    


scenario A - Mey/Tjumenev
scenario B - Cerniakov
società
medievale, agricola
post-industriale, terziario
regime politico
feudale, dispotico
democratico, garantista
identità del potere
persona fisica, accentratore
entità virtuale, diffusa
gestione del consenso
terrore - violenza – giustizia sommaria 
media – moda – imitazione - promozione sociale
gestione degli individui
autoritaria
permissiva
strumenti di seduzione
filtri magici (agenti chimici, materiali)
miraggi di successo (agenti psichici, immateriali)
coinvolgimento con il potere
asservimento (imposto con la forza)
condivisione (liberamente deciso)

Beh, credo proprio sia difficile sostenere che i due scenari abbiano alcunché in comune: anzi, non potrebbero essere più distanti fra loro. Ma allora, se vogliamo (come dovremmo) dar credito a Rimski di aver composto una musica precisamente funzionale ad un testo che evoca lo scenario A, come può accadere che quello stesso testo e la musica che ne è conseguita calzino perfettamente anche allo scenario B, che gli sta agli antipodi?

Qui sta tutto il nocciolo della questione relativa al giudizio estetico da dare di una messinscena come questa. Ognuno ovviamente è libero di privilegiare l’indiscutibile genialità, e professionalità di realizzazione, della proposta di Cerniakov oppure di dichiararsene deluso a causa dell’insopportabile incoerenza tra ciò che si vede e ciò che si ascolta.  
___
Chiudo tornando alla musica e alla figura dello zar, che per Cerniakov abbiamo visto essere niente più che un’ardita creazione di supertecnici dell’immagine. Ecco, invece per Rimski è un essere proprio in carne ed ossa. Come ce lo spiega il compositore? Ovviamente con la sua musica (e magari con un minimo di… spocchia).

Sì, perché nell’opera noi ascoltiamo quasi da subito lo Slava Bogu, il quale non è propriamente catalogabile come un tema dello Zar Ivan, bensì è un inno di lode per lo Zar, cioè per un qualunque zar, anche quello virtuale di Cerniakov, cosa alla quale ci aveva abituato già Beethoven e come ci confermeranno i vari Borodin, Musorgski, Arensky etc.

Ma attenzione a quanto accade in orchestra, nel second’atto, al momento della comparsa dello Zar davanti a Marfa e Dunjaša: al tema Slava Bogu Rimski contrappunta, reiterandolo a velocità folle, un motivo che evoca Ivan nell’opera La fanciulla di Pskov (motivo del resto a sua volta derivato dallo stesso Slava Bogu) dove Ivan è proprio un protagonista in carne ed ossa, mica un’idea virtuale. Domandiamoci: Rimski avrebbe scritto la stessa musica dovendo supportare una scena dove Marfa, invece di essere terrorizzata dall’apparizione reale di quella figura minacciosa (che lei nemmeno sospetta trattarsi dello Zar, ma dal quale poi verrà di fatto sequestrata per sfilare come potenziale sposa) viene piacevolmente colpita dall’immagine seducente di un bell’uomo, al punto da decidere immediatamente di concorrere al posto di zarina?

Lo stesso accade alla conclusione dell’atto terzo, dove la solenne e ufficiale comunicazione che Maljuta fa in casa Sobakin (la scelta di Marfa da parte dello Zar) è accompagnata proprio dal tema di Ivan in carne ed ossa, oltre che dallo Slava Bogu:


Potrà pure sembrare un dettaglio ultra-capzioso, ma vi assicuro che chi questi particolari li conosce fa fatica a vederli ignorati o adulterati dalla messinscena.

03 marzo, 2014

Alla Scala una sposa senza… birra

 

Dopo 115 anni anche la Scala ha deciso di togliere l’ostracismo a Una sposa per lo Zar, di cui ieri è andata in scena la prima, irradiata da Radio3.


Di tutto ciò che in radio non si può vedere, si è invece sentito assai chiaramente all’uscita finale del regista, l’incompreso Cerniakov, sommerso da un uragano di buh. Prossimamente cercherò di riferire in proposito dopo aver fatto il santomaso.

Quello che si è udito prima mi è parso di livello mediamente accettabile, con un mix di alti e bassi che vanno da Kränzle a  Černoch, passando per Prudenskaya e Peretyatko. Una vera fortuna poter ascoltare un’interprete della prima del 1899 (stra-smile e 100 di questi giorni, Anna!)

Ci è mancato molto il luppolo selvatico. Peccato, vuol dire che saremo costretti a brindare con… vodka tedesca!

02 marzo, 2014

La monumentale Piccola Messa del Coro de laVerdi

 

Per festeggiare degnamente i 15 anni dalla fondazione del Coro de laVerdi, ma (essendo ieri il… 29 febbraio) anche i 55 anni e 6 mesi, benissimo portati, di tale Gioachino Rossini, eccezionale appuntamento straordinario in Auditorium per un’esecuzione della Petite messe solennelle, in precedenza eseguita solo una volta, nel 2004, sotto la direzione del leggendario fondatore del Coro, Romano Gandolfi. In tema di anniversari, siamo anche molto prossimi (14 marzo 1864) ai 150 anni dalla prima esecuzione assoluta di questo ennesimo peccatuccio di vecchiaia del sommo pesarese.

Quasi un’ora e mezza di durata non giustificano certo il titolo di petite, che Rossini aveva dato al suo lavoro nel 1863, un anno dopo averne iniziato la composizione con i primi tre numeri: Kyrie, Gloria e Credo (infatti si chiamava Piccola Messa di Gloria). Aggettivo poi sopravvissuto, per quanto alcune edizioni dell’opera (orchestrata anni dopo, poco prima della scomparsa) rechino il semplice (e più appropriato) titolo Messe solennelle.

L‘originale – quello proposto ieri in Auditorium – è scritto per quattro solisti, coro (SATB) e accompagnamento di sole tastiere: due pianoforti (uno solo in questa esecuzione) e armonium.

Erina Gambarini ha schierato complessivamente 35 elementi del suo coro (9-8-9-9): un numero penso adeguato alle dimensioni dell’Auditorium, assai più vaste di quelle della cappella di villa Pillet-Will dove si tennero le prime esecuzioni, con soli 8 coristi. Per la stessa ragione credo abbia deciso di derogare dalle indicazioni di Rossini, che vorrebbe i solisti cantare sempre insieme al coro: qui invece hanno cantato esclusivamente le parti loro esplicitamente riservate.

Al pianoforte era Luigi Ripamonti, Maestro collaboratore del Coro (in pratica il vice della Erina) che si è distinto particolarmente nel bachiano Prélude religieux che precede il Sanctus. Eugenio Maria Fagiani sedeva all’armonium.

Convincenti i quattro solisti (Daniela Bruera, Jose Maria Lo Monaco, Francesco Marsiglia e il casalingo Christian Senn): il tenore in particolare ha ben figurato nell’impegnativo Domine.

Ma grandi onori vanno al Coro, che ha sfoderato dei pianissimo davvero emozionanti, oltre che distinguersi negli a cappella e nelle difficili fughe cui Rossini lo chiama.

E infatti, dopo la trionfale accoglienza, è stata proprio una fuga (la sezione conclusiva del Cum Sancto) a chiudere come bis - e proprio in Gloria! - una serata davvero memorabile.
___
La Petite (versione con orchestra) già annunciata qualche stagione fa (con na Patalung) e poi cancellata, chiuderà quest’anno – con Zedda - l’edizione 35 del ROF.