affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

15 gennaio, 2014

La cavalleria della rosa alla Scala

 

Daniel Harding torna alla Scala per dirigervi - invece del tradizionale dittico Cavalleria-Pagliacci come fece pochi anni orsono (per la verità fu un Pagliacci-Cavalleria…) – un miscuglio di balletto e teatro, assortito con chissà quale criterio, sia di struttura che di contenuti. (O forse più che di un criterio si è trattato di un semplice default pagliaccesco, quando si trattò per Lissner di annunciare la stagione?) 

 

In effetti i due movimenti di ballo e Cavalleria si accompagnano proprio come i classici cavoli a merenda. Per par-condicio bisognerebbe infliggere agli abbonati della stagione di balletto una serata, che so, con Coppelia introdotta da Erwartung (smile!)  

 

Sia come sia, ieri sera il teatro era desolatamente semivuoto, persino nei loggioni…   

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Le spectre de la rose (anno domini 1911, esordio a Montecarlo) ha in sottofondo un curioso intreccio di rimandi a catena, graficamente rappresentato nella figura seguente:



L’ispiratore del balletto della compagnia di Djaghilev (coreografo Fokin e star Nijinsky) fu lo scrittore Jean-Louis Vaudoyer, grande amante della danza, che pensò di festeggiare il 100° anniversario della nascita – 1911 - di Théophile Gautier (del quale era pure ammiratore) con la proposta di un soggetto ballettistico incentrato su una lirica del poeta: si trattava per l’appunto di Le spectre de la rose, poesia pubblicata all’interno della collana intitolata La Comédie de la Mort et poésies diverses, finita di comporre giovedi 25 gennaio 1838 all’una di pomeriggio (come scrisse il poeta in calce al testo, aggiungendovi anche Gloria a Dio e pace agli uomini di buona volonta’…)

Quel testo, probabilmente noto a Hector Berlioz (amicissimo di Gautier) assai prima della pubblicazione, fu musicato, insieme ad altri cinque della stessa origine, dall’autore della Fantastique all’interno della collana di sei Lieder intitolata Nuits d’été e pubblicata nel 1841 per voce e pianoforte (e più avanti orchestrata). I sei titoli sono (tra parentesi gli originali di Gautier):    

1. Villanelle (La villanelle rhythmique)   
2. Le spectre de la rose
3. Sur les lagunes (La chanson du pêcheur)
4. Absence
5. Au cemetière (Lamento)
6. L’ile inconnue (Barcarolle)

Chi però si aspettasse che il legame con il balletto immaginato da Vaudoyer passi da qui resterebbe deluso, chè quel legame passa sì attraverso Berlioz, ma un altro Berlioz, quello che poco dopo le Nuits orchestrerà una composizione per pianoforte di Carl Maria von Weber, vecchia di 22 anni: si tratta del walzer Aufforderung zum Tanz, che il futuro autore del Freischütz aveva composto nel 1819 come Rondò brillante (in RE bemolle maggiore) e che Berlioz, incaricato di una rappresentazione della celebre opera romantica nel 1841 a Parigi e dovendo a tutti i costi (come da disciplinare tecnico del Teatro) infilarci un balletto, aveva all’uopo trascritto per orchestra, trasponendolo nella più facile tonalità di RE maggiore. Qui un’interpretazione del venerabile Kna, che peraltro sembrerebbe una parodia in tono leggero della marcia funebre di Titurel (stra-smile!)

Proviamo ora a chiederci se esista (e se sì, quale sia) un qualunque nesso fra la trama (per così dire) del poema di Gautier e la musica di Weber-Berlioz.

Dunque: Gautier fa parlare in prima persona una rosa (meglio, il suo spettro…) che si rivolge alla ragazza che la recava sul seno la sera prima, ad una festa da ballo. Una rosa, colta ancora imperlata di rugiada, che per tutta la serata ha avuto il privilegio, invidiato persino da sovrani, di avere come tomba il solco intermammario (! gorge …Berlioz userà più pudicamente il termine seno) di una bella donna. E il suo spettro – sembra una minaccia, o è una dolce promessa? – avverte che tornerà ogni notte a danzare per colei che fu causa della sua morte. Ma a cui non chiede in riparazione né messe, né de-profundis… perchè viene direttamente dal paradiso.

Weber? Beh, anche lui ci spiega qualcosa del suo Rondò brillante: in particolare commenta battuta per battuta l’Introduzione (Moderato):

1-5: il cavaliere invita la dama al ballo
5-9: la dama risponde evasivamente
9-13: il cavaliere rinnova più pressantemente l’invito
13-16: la dama accetta
17-19: il cavaliere inizia una conversazione
19-21: la dama interloquisce
21-23: il cavaliere parla con maggior calore
23-25: i due si intendono
25-27: il cavaliere le si rivolge riguardo al ballo
27-29: la dama risponde
29-31: i due prendono il loro posto
31-35: si mettono in attesa dell’inizio della danza.

Qui inizia la danza, il rondò vero e proprio: Allegro vivace A – B-B1-B2 – A – C-C1 – D(Vivace)-D1 – B(A tempo)-B3 – A – B-B1-B4 – A(Coda).

Al termine della danza (Moderato) il cavaliere ringrazia la dama, lei ricambia e infine i due ritornano ai rispettivi posti.

Beh, difficile davvero trovare un nesso puntuale fra la poesia di Gautier e il programma di Weber, se si esclude il generico riferimento ad una festa danzante.

Evidentemente Vaudoyer, con un procedimento mentale che gli esperti del ramo definirebbero di lateral thinking, deve essere partito da Gautier per risalire a Berlioz e da qui, dopo aver scartato il Lied delle Nuits come manifestamente inadatto ad una scena di balletto, deve essere approdato alla trascrizione berlioz-iana del ballo di Weber.

In ogni caso, a parte la quasi totale gratuità del nesso testo-musica, la coreografia di Fokin (o Michel Fokine, come da sua francesizzazione) è davvero intrigante: ecco qui una sua moderna realizzazione, del tutto fedele all’originale, incluso il finale… balzo nel vuoto (da 8’40”) con cui più di un secolo fa il grande Nijinsky aveva lasciato letteralmente di stucco gli spettatori monegaschi.   
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Appena-appena più lineare fu il percorso di gestazione de La rose malade, la cui ispirazione venne a Roland Petit all’inizio degli anni ‘70 (1973 per la precisione) dalla poesia The sick rose di William Blake.

Nelle due strofette si narra di una rosa che nottetempo è stata attaccata da un virus, un microscopico verme che con il suo oscuro e segreto amore la corrode irrimediabilmente, fino a distruggerne la vita. Dietro ci si può leggere l’allegoria del rapporto fra amore carnale e morte della purezza, o addirittura la condanna puritana (siamo a fine ‘700 in Gran Bretagna…) dell’amore sessuale tout-court, che porta con sé i rischi di gravi e mortali (ed ereditarie) malattie: la sifilide, nientemeno! (beh, se è per quello anche oggi c’è qualche simpaticone che minaccia AIDS persino da un bacetto innocente…)     

La musica si era già interessata a questo testo nel 1943, allorquando Benjamin Britten lo aveva impiegato per il terzo dei sei brani (incapsulati fra un Prologo ed un Epilogo strumentali) della sua Serenade per tenore, corno solista ed archi, precisamente col titolo di Elegy, un Andante appassionato in MI minore-maggiore.

Evidentemente Roland Petit, che non poteva certo ignorare Britten, deve aver rinunciato ad impiegarne la musica per diverse ragioni: la presenza del canto ed anche la brevità (appena poco più di 4 minuti) oltre che la problematica adattabilità a farci sopra un balletto. Così si indirizzò sull’Adagietto della Quinta mahleriana, che grazie a Visconti proprio allora spopolava con il suo rimandare al morboso soggetto erotico-epidemico (sì, vabbè, colera invece di sifilide…) di Thomas MannQui un’edizione del 1978 con la leggendaria Maya Plisetskaya.
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Gli spettatori, come detto, erano pochini, ma son bastati a rovinare i due finali dei balletti, con applausi abbondantemente anticipati: la chiusura dell’Aufforderung si è quasi totalmente persa, così come è… morto anzitempo il morendo mahleriano, che il povero Harding ha continuato pietosamente a dirigere fino in fondo.  

Saldato il debito col balletto e pagato il pedaggio (erano ambientati sullo svincolo di un’autostrada!) ai latitanti Pagliacci… eccoci a Cavalleria. Nell’ormai lontano gennaio 2011 lo spettacolo non (mi) era dispiaciuto, a dispetto di qualche genialata di troppo di Martone. Il quale per questa ripresa mi pare abbia cambiato poco o nulla, quindi mantenendo anche quei particolari che francamente mi avevano lasciato perplesso, come la sequenza delle tappe percorse da Alfio la mattina del giorno di Pasqua: uscita di casa di buon’ora, sosta al bordello e quindi toilette dal barbiere (!?)

Avrei definito encomiabile la direzione di Harding se non si fosse lasciato prendere la mano in un paio di momenti topici, girando al massimo la manopola del volume, col risultato di coprire le voci (colpa anche delle voci? sì, ma ciò non scagiona il Kapellmeister…)

Santuzza è Liudmyla Monastyrska: che ha sfoggiato il suo vocione enorme, già udito tempo fa, ma con migliori risultati, in Abigaille.

Jorge De León ha la parte di Turiddu e direi che non se la cava per nulla male. Però, accipicchia, perché lo stornello in siculo glielo fanno cantare in Largo Cairoli?

Valeria Tornatore impersona una Lola senza infamia e senza lode: la sua canzoncina almeno si sente: evidentemente, a differenza di Turiddu, era appena dietro le quinte a cantarla.

Vitaliy Bilyy è un Alfio così e così, mi è parso anche un filino stonato, in certi passaggi del suo cavallo scalpitante.

Unica supersite del cast del 2011, la Lucia di Elena Zilio: il pubblico l’ha gratificata forse più degli altri.

Bene il coro di Casoni, che ha dato il suo contributo ad una serata tutto sommato – fatte salve le riserve sul palinsesto – abbastanza godibile… diciamo come tante altre di tanti teatri di provincia.

11 gennaio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°16

 

Dopo il Bach de laBarocca all’Epifania, è di ritorno Zhang Xian per aprire il 2014 della stagione principale, salendo sul podio dell’Auditorium per dirigervi un concerto dall’impaginazione particolare, dove si mescolano e si alternano il moderno, il moderno-ma-non-troppo-quasi-tradizionale e il tradizionale-che-di-più-non-si-può: infatti nella prima parte abbiamo un Bartók che si può ormai definire classico, messo in sandwich fra due contemporanei, Witold  Lutosławski (che ci ha lasciato da una ventina d’anni) e Rolf Martinsson (oggi non ancora sessantenne) di cui ascoltiamo composizioni che impegnano la sola sezione degli archi; chiude il concerto Dvořák con la sua composizione più inflazionata.  

Di Lutosławski viene eseguita una cosa abbastanza bizzarra, come molta, diciamolo pure, della musica del compositore polacco, sempre preso dalla fregola delle sperimentazioni più cervellotiche e poi regolarmente insoddisfatto dei risultati: la Uwertura Smyczkova (Ouverture per archi) del 1949, un periodo particolare per l’evoluzione estetica del compositore, oltre che per i rivolgimenti politici che si producevano in una Polonia ormai rinchiusa inesorabilmente nella gabbia del comunismo reale (la Conferenza di Łagów importava proprio in quei giorni dall’Unione Sovietica i princìpi e i dettami, in fatto di arte, della premiata ditta Stalin-Ždanov). 

Meglio e più di ogni altra critica, sono le parole stesse dell’Autore a gettare una luce piuttosto… obliqua su questa composizione:

Il lavoro è assolutamente poco pratico, dato che richiede un sacco di fatica, ma dura solo cinque minuti. Per la gran parte, dopo averlo ascoltato, l’uditorio rimane completamente disorientato, a dispetto del lungo accordo finale che incorona il brano. Evidentemente la gente si aspetta che duri di più. Quando Wisłocki lo diresse alla Filarmonica di Varsavia, alla fine non ci fu il benché minimo applauso. Lui non sapeva che fare, così fece alzare l’orchestra e se ne andò via…

Mah… giudicate voi: che qualcuno si aspetti che duri di più è tutto da vedere, a meno di non sostituire il verbo aspettarsi con il più verosimile paventare (smile!)
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Si, perché anche se uno si prende la briga di scoprire cosa c’è dietro (o dentro) quest’opera non è che per questo il fascino del brano aumenti sostanzialmente di livello. Possiamo scoprire o verificare che vi vengono impiegate delle scale ottofoniche, inventate con speciali criteri. Una è costituita da due tetracordi (s-t-t) separati da un semitono: LA-SIb-DO-RE/RE#-MI-FA#-SOL#; una seconda dalla successione cromatica da DO a SOL (DO-DO#-RE-RE#-MI-FA-FA#-SOL). Si vedano questi due esempi di temi costruiti con tali scale:


Possiamo anche contare (qualcuno l’ha fatto, non certo io…) ivl numero delle ricorrenze di un frammento, esposto proprio all’inizio dalle viole come SI-LA#-SOL#-LA, che torna 132 volte (in 188 battute!) a viso aperto o variamente camuffato (ad esempio partendo da altezze diverse oppure travestendosi a mezzo inversione):


Quanto ai cambi di tempo, questi li ho personalmente contati: sono 99, mediamente uno ogni 2 battute! Possiamo anche stupirci (!?) nel sentire i temi riproposti nella ripresa in ordine inverso rispetto all’esposizione e anche restare a bocca aperta davanti all’accordo finale, una politonalità di due triadi di RE e SOL maggiore, FA# nei primi violini, RE nei secondi, RE e LA nelle viole, RE e SI nei violoncelli e SOL grave nei contrabbassi:
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Mah, pur con tutta la buona volontà, è davvero difficile entusiasmarsi per questo pezzo (che nemmeno il grande Alex Ross si degna di citare!) e ai ragazzi de laVerdi si può soltanto riconoscere l’abnegazione con cui hanno affrontato la prova. A loro e alla Xian comunque è andata meglio rispetto ai colleghi della Filarmonica di Varsavia e al povero Wisłocki: sì, perchè loro almeno qualche applauso (di cortesia?) l’hanno comunque portato a casa (smile!)
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Béla Bartók compose la sua Tanc-szvit (Suite di sei danze) nell’agosto 1923, in occasione delle celebrazioni del mezzo secolo di vita di Budapest (vita del nome, intendo, non certo delle chiese e dei ponti della città). Celebrazioni  che compresero, a novembre di quell’anno, un concerto di musiche (nuove e non) di sapore magiaro. Le nuove composizioni furono commissionate, oltre che a Bartók, a Zoltan Kodály (lo Psalmus hungaricus) e al direttore del concerto, Ernő Dohnányi (la Festival Overture). Inoltre si eseguirono le due marce di Racoczy (di Liszt e Berlioz).

Il nome dell’opera deriva evidentemente dalle classiche Suite barocche, dove però all’Allemanda, Corrente, Sarabanda e Giga si sostituiscono danze popolari (peraltro inventate dall’Autore, sia pure a simiglianza di quelle originali) di diversa provenienza: Europa orientale (Ungheria, Slovacchia, Romania) e mondo arabo (prima e dopo la Grande Guerra Bartók aveva visitato l’Africa settentrionale proprio per acquisire impressioni di prima mano sulla musica araba).
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La Suite consta di sei brani, con un Ritornello (di ascendenza magiara) che si presenta, in varianti diverse, al termine del primo, secondo e quarto brano e all’interno del Finale:


1. Moderato. Percorso da temi derivati da musica araba primitiva, come questo esposto dal fagotto subito dopo il rullo di apertura del tamburo:


Invece i ritmi, scanditi tipicamente dagli archi, ricordano abbastanza quelli dell’Europa orientale.

Il tema arabeggiante passa dai fagotti al corno inglese, poi anche all’oboe e infine al clarinetto. Una sezione centrale (Vivo) impegna l’intera orchestra, poi un progressivo allargamento del tempo ed una rarefazione dei suoni conducono alla prima apparizione del Ritornello (protagonisti violini e clarinetto) che chiude languidamente questa danza d’apertura.

2. Allegro molto. Un unico motivo di sapore chiaramente magiaro (continui intervalli di terza minore) che poi sfocia in pesanti glissando, proprio come a ricordare il tema del Mandarino (miracoloso) che Bartók aveva composto per pianoforte anni addietro, ma che stava orchestrando proprio nello stesso periodo di composizione della Suite:


Dopo diverse ripetizioni di questi squarci, fa la sua seconda comparsa il Ritornello, questa volta prima nel clarinetto, poi nei violini e infine chiuso con una breve cadenza dell’oboe.

3. Allegro vivace. In forma ABACA, con un motivo – anzi un gruppo tematico - di danza di origine ungherese con cui si inseriscono spunti di danze dal piglio tipicamente romeno, come questo:

La presentazione del tema B si conclude con una sezione molto lenta, caratterizzata da un trillo sul SOL sovracuto del flauto accompagnato da arabeschi della celesta e chiuso da un glissando dell’arpa, che contrasta assai con ciò che precedeva e con il tema principale che segue. La chiusura del brano è magistralmente condotta da Bartók, che propone il primo tema Vivacissimo, poi allarga molto il tempo, e quindi, dopo una corona puntata, riprende il Vivacissimo per le due battute conclusive!

4. Molto tranquillo. È una melodia di sapore arabo, che emerge in unisono nei legni (corno inglese e clarinetto basso, all’inizio) alternandosi ad un tappeto di accordi vagamente dissonanti di archi, pianoforte e fiati (RE-DO-LA-SOL):

Questa alternanza si protrae per più volte, sempre con minore lunghezza, fino a sfociare, nelle ultime battute, nel tema del Ritornello.

5. Comodo. È la più breve delle sei danze, una specie di intermezzo prima del finale (che è la danza più lunga) costruita su un inciso dal ritmo assai spiccato, ripetuto prima dalla viole e poi dai violini a distanza di quarte (MI-LA, RE-SOL) e seguito da una cadenza sincopata dove archi e fiati dapprima si alternano per poi riunirsi in vista dell’attacco della danza conclusiva.

6. Finale, Allegro. Ricapitola i movimenti precedenti, con una struttura che prevede Introduzione (dove si riprendono temi della quinta, prima e seconda danza), Esposizione (con temi della prima, terza e seconda danza), Trio (che ricapitola le due forme del Ritornello) e Ripresa.
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Come l’Uwertura di Lutosławski, anche quest’opera non fu propriamente accolta alla prima da deliranti entusiasmi, anche a causa della mediocrità dell’esecuzione, raffazzonata con pochissime prove. Però il tempo ha finito per renderle ragione: non sarà certo un capolavoro, ma forse aveva torto Adorno a snobbarla come musica d’occasione (quante sono le musiche d’occasione che sono divenute immortali?) Insomma, l’estro (per non dire il genio) di Bartók vi si sente e come.

Nervosa e vibrante la lettura che ne ha dato la Xian, il che ha consentito ai ragazzi – percussioni in testa - di mettere in mostra tutta la loro bravura tecnica.
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Lo svedese Rolf Martinsson è un contemporaneo ammiratore di Schönberg, se è vero che gli ha dedicato ben tre versioni (predisposte in tempi diversi) dal suo A.S. in Memoriam (A.S. sono appunto le iniziali dell’inventore – o millantato tale – della dodecafonia). In realtà l’Autore è abbastanza alieno da certi gratuiti estremismi divenuti di moda nel ‘900 – anche grazie a Schönberg, e ahinoi, dico io - tanto è vero che si è ispirato, componendo la prima versione del brano nel 1999, al tonalissimo Verklärte Nacht, che quell’anno compiva giusto un secolo.

Qui ascoltiamo la seconda versione (2001) per orchestra d’archi (la prima è per ensemble di 15 archi e pianoforte e la terza del 2007 è per pianoforte solo). Beh, Lutoslawski mi perdonerà, ma questo ggiovane (classe 1956) almeno nel pezzo qui in programma si fa assai più rispettare. Dimostrando anche che la tonalità – per superare la quale Schönberg, dopo una buona partenza, aveva finito per arenarsi, vedendosi costretto per… sopravvivere a inventare un sistema talebano di regole di composizione che, ai miei orecchi perlomeno, farà più danni che altro – poteva e può ancor oggi dare frutti del tutto apprezzabili.  

E non per nulla il brano di Martinsson, pur presentando diverse e frequenti modulazioni fino a sfiorare l’atonalità, ha un chiaro centro di gravitazione tonale sul SOL, e apre e chiude con accordi in minore in questa tonalità! Mirabile anche l’uso dei pianissimo e delle pause di silenzio, che impreziosiscono la parte finale del brano.

Grande successo per gli archi de laVerdi, per Xian e per l’Autore, presente per l’occasione della prima esecuzione italiana della sua opera, ulteriore indice della caratura internazionale dell'Orchestra.
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Chiude il concerto la celeberrima Sinfonia dal Nuovo Mondo, altro cavallo di battaglia de laVerdi, che ce la ripropone di frequente.

Xian si permette qualche preziosismo oltre i… righi, soprattutto nel movimento iniziale, poi cava fuori un Largo letteralmente da sogno, quindi scatena i suoi nei due conclusivi movimenti veloci. Successo strepitoso. Che mi fa tornare, chissà perché, da Lutosławski per riportarne un concetto da lui espresso nel 1965, a proposito dell’evoluzione della musica:

Finche perdurerà  una situazione che non favorisce la nascita di nuovi dettami stilistici, di nuove convenzioni artistiche, non cambierà nulla. Possiamo, comunque, restare fiduciosi che arriverà il momento in cui perfino i maestri più grandi dei tre secoli precedenti potranno condividere il destino dei loro predecessori e la loro produzione musicale lentamente comincerà a trasformarsi nei reperti musicali, oggetto di interesse dei soli specialisti. Solo in quel momento assisteremo al vero fiorire della musica scritta ogni giorno.

Bene, non sapete quanto io sia entusiasta della certezza che ho di non campare abbastanza per vivere quel momento prefigurato dal compositore polacco… (amen)

07 gennaio, 2014

laBarocca nel monumentale Weihnachtsoratorium

 

All’Epifania, che tutte le feste porta via, sta diventando consuetudine per la compagine di Ruben Jais chiudere in gloria le celebrazioni cristiane mettendo in programma le sei cantate del cosiddetto Oratorio di Natale

Da alcuni anni a questa parte l’impaginazione dell’evento ha subito una drastica modifica, in dipendenza della mastodontica lunghezza dell’opera – circa due ore e tre quarti nette – che ne rende davvero problematica l’esecuzione tutta d’un fiato, pur se ciò era riuscito felicemente al primo tentativo, nel 2010.

Adesso l’esecuzione viene suddivisa in due parti: si comincia alle 17:30 con le prime tre cantate, poi alle 19 si fa una bella sosta… bio-fisiologica e alle 20:30 si riprende per le altre tre cantate. Ieri la platea dell’Auditorium era affollatissima, con qualche defezione registratasi per la verità nell’intervallo (evidentemente qualcuno ha preferito prolungare la… cena, smile!) a conferma della predisposizione del pubblico meneghino per la buona musica e della fama che il complesso barocco de laVerdi sta consolidando di stagione in stagione.
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Bach, assai prima di Rossini, era solito farsi degli auto-imprestiti di musiche composte in altre occasioni (qui vengono chiamati parodie): questo è anche il caso delle cantate del Weihnachtsoratorium che reimpiegano, sui testi liturgici, musica composta magari per occasioni laiche, come ci ricorda qui in una breve ma interessante nota il compianto Sergio Sablich.

Il quale ci fa poi notare una chiara e non casuale doppia reminiscenza, uno stesso tema che viene direttamente dalla Matthäus Passion (di 7 anni precedente) e si ripete due volte nell’Oratorio:


Nella Passione accompagnava il desolato canto di uomini e donne di fronte alla vista di Gesù sottoposto alle sevizie dei suoi torturatori – con il capo martoriato da ferite sanguinanti – mentre qui dapprima esprime lo smarrimento e l’anelito del popolo di Sion di fronte all’imminenza dell’arrivo del Messia, poi, proprio alla fine, accompagna l’esultanza (fin troppo accesa…) di chi si sente finalmente liberato dal nemico rappresentato dal male, dal peccato, dall’inferno.

Insomma, una specie di filo rosso che collega circolarmente la Passione e la Morte del Cristo con il suo Avvento e la sua Nascita: il tutto in poche note musicali!
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Per l’occasione i solisti erano il soprano Joanna Klisowska, il contralto (oh, pardon… il controtenore) Filippo Mineccia, il tenore Clemens Löschmann e l’ospite consueto dell’Auditorium, il basso Christian Senn. Per loro e per l’Ensemble vocale di Gianluca Capuano, oltre che per gli strumentisti guidati da Gianfranco Ricci, applausi convinti, ripagati dall’immancabile bis, che però questa volta Jais ha variato rispetto alla tradizione: in luogo del conclusivo (e un po’ protervo, per la verità) Nun seid ihr wohl gerochen, ha proposto il ben più sereno e… cristiano Ich steh an deiner Krippen hier.

Ecco, speriamo (ma è un’utopia?) che il messaggio sia recepito dai nostri politici, che finalmente si rechino presso la mangiatoia non per… mangiarsela con tutto il contenuto, ma per portare, se non proprio oro, incenso e mirra, almeno un onesto contributo al raddrizzamento di questo mondo piuttosto malconcio.

31 dicembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°15

 

Anche a cavallo fra 2013 e 2014 risuona per quattro volte in Auditorium, diretta da Zhang Xian, la Nona beethoveniana che laVerdi offre ogni fine d’anno al suo affezionato pubblico. Pubblico che ieri sera, alla seconda replica, era davvero strabocchevole e che alla fine, prima e dopo il tradizionale bis della coda dell’Ode, ha tributato a orchestra, coro, solisti e direttore una specie di trionfo non solo per la serata, ma idealmente per tutto questo 2013 che ha segnato per la Fondazione alcune tappe davvero indimenticabili: dal compleanno dei 20 anni, alla prestigiosa presenza ai PROMS fino alla tanto sospirata ed acclamata ottava mahleriana.

Ed anche questa esecuzione ha confermato la piena maturità dei complessi strumentali e corali de laVerdi, entrata ormai a pieno titolo nel novero delle istituzioni musicali più prestigiose. E un segnale non insignificante di ciò è la crescita di singoli componenti dell’orchestra, che si guadagnano via via posizioni di prima parte: ieri sera ne era esempio palpabile la presenza, sulle due sedie ai lati del podio, di Nicolai Freiherr von Dellingshausen (un nome… un programma!) e di Tobia Scarpolini, che ha guidato splendidamente il pacchetto degli archi bassi nel grande recitativo del Finale.

Zhang Xian ha comandato le masse (sue e di Erina Gambarini) e i quattro solisti (Maida Hundeling, Deborah Nansteel, Gregory Warren, Rudolf Rosen, tutti all’altezza, con qualche punto di merito in più per la Hundeling) con grande autorità, in un’interpretazione che definirei… eroica, quanto a intensità e pathos (forse persino con qualche eccesso nelle scariche dei timpani della bravissima Viviana); in ogni caso un’esecuzione austera, con tempi sempre misurati e composti, che poco o nulla ha lasciato a retorica o ad eccessive romanticherie. Rientra in questa logica anche il taglio di tutti i ritornelli dello Scherzo, ad eccezione di quelli delle due sezioni del Trio.      

Insomma, almeno qui in Auditorium il 2013 non sarà certo ricordato come annus horribilis, ma mirabilis! Di questi tempi, è già qualcosa…

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Sulla Nona si sono scritti i proverbiali fiumi d’inchiostro. Ma in Italia il saggio ancor oggi - dopo quasi 40 anni - più completo è quello di Massimo Mila (Lettura della nona sinfonia, purtroppo difficile a reperirsi tramite i principali canali commerciali) che esplora la partitura quasi battuta per battuta, mettendone in luce anche le più remote significanze.

Oggi noi non ci scandalizziamo della durata di oltre un’ora di una sinfonia, abituati all’ipertrofia di quelle di Mahler, che almeno in 7 casi su dieci si avvicinano ai 90 minuti; così come non badiamo alla mancanza del da-capo nell’esposizione dei temi del primo movimento (A-A e poi B-B invece che il tradizionale A-B con ritornello); e poco ci curiamo del fatto che il secondo tema, invece che in FA maggiore come da sacri canoni, sia nella sua sottodominante SIb; né ci sorprende che il movimento vivace (lo Scherzo) compaia in seconda anziché in terza posizione. E soprattutto troviamo quasi normale la presenza di voci e coro, dopo che la cosa era diventata quasi un’abitudine sin da fine ‘800, sempre grazie a Mahler (per la verità anticipato isolatamente dal Mendelssohn della Lobgesang). E il nostro orecchio accetta senza drammi le tremende dissonanze degli accordi che aprono l’introduzione, nello stesso Finale della sinfonia.  

Ma per il pubblico e soprattutto per la critica dell’anno di grazia 1824 quelle novità suonavano come un autentico terremoto che scuoteva dalle fondamenta sacre consuetudini consolidate ormai da quasi un secolo! E proprio e soprattutto l’ultimo movimento della Nona fu da subito oggetto di accese discussioni a causa dell’impiego della voce, che avrebbe – secondo gli schizzinosi à-la-Hanslick – inquinato la purezza della forma sinfonica con ingredienti alieni e propri di generi completamente diversi (Lieder, oratori, cantate, messe, opere). 

Al proposito, Giovanni Bietti (una delle voci che su Radio3 ci impartiscono splendide lezioni di musica) nel suo recente Ascoltare Beethoven ricorda come la Nona sia da sempre oggetto non solo di critiche, ma anche di ritocchi… fra i quali cita quello famoso di Furtwängler, consistente nel re-instrumentare l’incipit del Finale, per renderlo ancor più enfatico e strepitoso di quanto già non sia. Questa è la pagina della partitura originale (una delle tante edizioni, inclusa quella recente di Jonathan del Mar per Bärenreiter, che concordano tutte sul contenuto):


Ora, se si ascolta un’esecuzione del famoso direttore (qui nel 1954) non si può non notare come alle trombe (clarini, nell’originale di Beethoven) sia stata di fatto assegnata la stessa parte dei flauti, il che conferisce al passaggio una spettacolarità perfino eccessiva e al limite del pacchiano! Oltretutto coprendo quasi completamente il suono dei legni. (Qualcosa di simile accade poco dopo, al secondo intervento dei fiati, dopo il primo recitativo degli archi bassi; e poi ancora, al ritorno della fanfara prima dell’entrata del baritono.)

Ma in realtà tutto ciò non è nemmeno farina del sacco di Furtwängler, bensì di quello di Richard Wagner, che nel 1873 aveva scritto un piccolo trattato sull’esecuzione della Nona, in cui precisamente giustificava la sua decisione di cambiare sostanzialmente la parte delle trombe in quel passaggio (una terrificante fanfara dei fiati, parole sue) poiché, a suo dire, come l’aveva scritta Beethoven era tale da far udire all’ascoltatore soltanto il ritmo di quegli ottoni, la cui potenza sovrastava la linea melodica dei legni. E siccome, secondo lui, ciò non poteva corrispondere ai desideri del compositore, ecco la decisione, che Wagner aveva adottato nelle sue ultime interpretazioni della sinfonia, di far suonare alle trombe la stessa linea degli strumentini. E nel suo scritto Wagner riporta precisamente la modifica della parte delle 2 trombe (qui le prime 5 battute):


Beh, con tutto il rispetto per Wagner, anche un principiante capisce che una soluzione meno estrema del problema – soluzione che sia più rispettosa dell’idea del compositore, quindi non uccida il suono dei legni e non crei effetti pacchiani - consisterebbe semplicemente nel chiedere alle trombe di suonare un filino più piano rispetto ai legni (dinamica f e non ff, per dire…) Così mi pare proprio abbia fatto ieri la Xian, e del resto anche tale Charles Gounod (non certo il primo che passava per la strada…) non aveva risparmiato pesantissime critiche verso quelle scelte di Wagner.

Di avviso opposto fu Gustav Mahler, che non solo cooptò tutti i suggerimenti di Wagner, ma rincarò la dose, conformemente alla sua abitudine-attitudine di apportare valore-aggiunto (?!) alle opere altrui (e Schumann ne sa qualcosa…) La sua prima direzione della Nona a Vienna (domenica 18 febbraio 1900) fu l’occasione per lo scatenarsi di polemiche furiose fra i critici riguardo alla cosiddetta libertà dell’interprete. Ad esempio, Max Kalbeck difendeva a spada tratta le scelte di Wagner e Mahler, sostenendo che in fin dei conti la musica esiste soltanto quando qualcuno (l’interprete) la porta all’orecchio dell’ascoltatore, viceversa resta solo un ammasso di segni morti sulla carta. (Peraltro non poteva esimersi dal deplorare il taglio di 8 battute perpetrato da Mahler all’inizio della ripresa dello Scherzo!)

Sul fronte opposto della barricata c’era chi, come Robert Hirschfeld, deprecava l’eccessivo e maniacale gusto del dettaglio, che portava Mahler a mettere sempre in risalto anche piccoli particolari di puro contorno e riempitivo, perdendo così la visione d’insieme dei brani eseguiti. E poi concludeva che se si lascia al direttore la libertà di re-instrumentare a suo piacere una partitura, magari con il razionale della limitatezza dei mezzi disponibili ai tempi di Beethoven, allora si sa dove si comincia ma non dove si va a finire…

In effetti queste diatribe fra progressisti e conservatori si registrano ancor oggi (pur se a livello partiture siamo ancora alle quisquilie, se confrontate con le libertà che si prendono i registi nelle messeinscena delle opere!) Ma pensiamo cosa succederebbe ad un direttore che – sostenendo che se Beethoven avesse avuto a disposizione il saxofono (inventato 20 anni dopo la sua morte!) lo avrebbe di certo impiegato alla grande nelle sue sinfonie - decidesse di rinforzare la sezione degli ottoni con un paio di sax: sarebbe portato in trionfo, o accompagnato presso il più vicino psichiatra?

Quanto all’idea che la musica esista solo sotto forma di onde sonore propagantesi nell’aria fino a raggiungere i timpani dell’ascoltatore, come la mettiamo col fatto che almeno un terzo dell’intera produzione di Beethoven fu composto da una persona quasi totalmente sorda? E non è forse vero che Brahms, disgustato dalle pessime esecuzioni mozartiane dei teatri del suo tempo (eccettuato Mahler!) ripeteva che quando voleva ascoltare un DonGiovanni come si deve, si metteva comodo in poltrona a casa sua e apriva la partitura? E forse che per apprezzare l’Amleto si deve per forza andare a teatro ed ascoltarlo dalla viva voce di Laurence Olivier? O non si può goderne (almeno fin ad un buon livello) anche semplicemente leggendone il testo nel silenzio del proprio studio?  

Tornando a bomba, oggi scopriamo che con Wagner, Mahler e Furtwängler si trova in pieno accordo anche Aldo Ceccato: che nel suo libretto Beethoven duemila, dove raccoglie le sue cosiddette attualizzazioni delle nove sinfonie beethoveniane, propone più o meno la stessa soluzione wagneriana all’incipit del finale, anzi estendendola in buona parte anche ai corni (le note piccole sono quelle aggiunte):


Quanto a quell’incipit, Massimo Mila da parte sua ce ne fa notare la straordinarietà, in particolare proprio nelle prime due battute, dove troviamo un chiaro esempio di politonalità (roba da XX secolo!) Infatti vi abbiamo la sovrapposizione di due diverse triadi: SIb maggiore e RE minore. La prima deriva dal SIb di flauti, oboi e clarinetti, dal RE del secondo corno e dal FA di fagotti, controfagotto e corni 1-3-4. La seconda  è determinata, oltre che dai RE e FA succitati, dai poderosi LA delle trombe e dei timpani, che creano quella stridente dissonanza con i SIb. 

Le due tonalità rappresentano precisamente gli ingredienti di base dell’intera sinfonia (i due temi del primo movimento, le tonalità di base dei restanti tre) e in particolare il passaggio fra il terzo e il quarto movimento è frutto di una mirabile quanto geniale intuizione di Beethoven: l’Adagio molto e cantabile si chiude sulla triade di SIb maggiore, ma mettendo in evidenza la mediante RE, negli strumentini. Quindi all’attacco del Finale (che andrebbe eseguito senza lunghe pause, come testimonia l’assenza di corona puntata alla fine dell’Adagio) nel nostro orecchio risuona ancora l’accordo di SIb che ci prepara col suo RE alla tonalità (minore) su cui poggerà la prima parte del Finale. Orbene, la transizione dal SIb maggiore al RE minore è ottenuta precisamente in quelle prime due battute del Finale, dove le due triadi coesistono (e stridono) per un attimo soltanto, quasi che la prima stia passando idealmente il testimone alla seconda. E uno sguardo alla pagina di partitura ci mostra anche come tale passaggio di testimone avvenga, per così dire, dall’alto al basso dei righi di pentagramma, al cui centro si trovano le note comuni alle due triadi (RE-FA, emesse da strumenti di suono più sordo, come fagotti e corni) mentre ai due estremi si trovano proprio le note che le differenziano, emesse da strumenti dal suono squillante o percussivo: SIb, in alto, negli strumentini; LA, in basso, in clarini e timpani!   

Ma al ritorno della fanfara, prima dell’entrata della voce del baritono, Beethoven va ancora più in là, aggiungendo anche SOL (violini II), MI (violini II e viole) e DO# (viole). Mila ci fa osservare che adesso sono addirittura quattro le triadi che si sovrappongono: SOL minore (SOL-SIb-RE); SIb maggiore (SIb-RE-FA); RE minore (RE-FA-LA) e infine LA maggiore (LA-DO#-MI). Qui vengono suonate insieme tutte e sette le note della scala armonica di RE minore, un gigantesco cluster! (Ritroveremo cose simili in musica non prima del Parsifal e della Decima mahleriana, per dire…)


È talmente grande la Nona, che è stata ed è strumentalizzata per mille diversi ed opposti interessi: basterà ricordarne due. L’esecuzione della coda del Finale in occasione del compleanno di Hitler, nel 1942, quando proprio Furtwängler, che nessuno ha mai capito se in quei momenti si sentisse più imbarazzato che onorato, diresse i Berliner davanti ai più alti gerarchi nazisti, in un tripudio di croci uncinate. 47 anni più tardi, in quella stessa Berlino, a Natale, toccava a Lenny Bernstein dirigere la Nona nel Concerto della Libertà, per celebrare la caduta del muro. E – come si ascolta a 1h07’05” nel filmato - invece di Freude, il baritono ed il coro intonarono Freiheit!
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Segnalo ancora le lezioni sulla Nona di Giangiorgio Satragni, pubblicate qualche anno fa in rete dalla Città di Torino nell’ambito della meritoria iniziativa che va sotto il nome dentrolamusica.

Ecco infine cosa scriveva a proposito della Nona Danilo Prefumo sul numero di aprile 1988 di Musica&Dossier.

29 dicembre, 2013

Capodanni qua e là


Dopo l’esordio del 2009, Daniel Barenboim fa il bis sul podio del Musikverein per il tradizionale Concerto di Capodanno. Diretta Radio3 dalle 11 e differita RAI2 alle 13:30. Ancora una volta ascolteremo il tremolo più… interrotto di tutta la storia della musica:

A Venezia e in diretta RAI1 (12:20) c’è il nostro capodanno autarchico, con programma bifronte (anche questa sta diventando una tradizione): la settima di Beethoven (solo per chi sta in teatro) e poi arie e romanze, anche in TV.  

 

A Milano da questo pomeriggio e per altre tre serate laVerdi saluta l’anno vecchio e il nuovo con il suo Beethoven di prammatica.