affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

17 ottobre, 2013

Torna alla Scala il Don fatale

 

Sì sì, questo è un altro equivoco (come il famoso ah l’amor, l’amor è un dardo): lo so che il fatale non è DonCarlo (come però ho creduto per anni e anni… smile!) ma il fascino della Eboli che – secondo lei, modestia suprema! – la costringe a compiere azioni sconvenienti e sconsiderate. Poi, dopo il suo pentimento, canta a proposito del Don (questo sì, il Carlo!): Sia benedetto il ciel!... Lo salverò!... Però tutto quello che sa fare per salvarlo, nel finale dell’atto III (che spesso è pure tagliato!) è gridargli Va’! fuggi! quando la folla inferocita reclama la testa dell’amato (?! potenza dei libretti d’opera…)

 

Ieri sera alla Scala – con  molti… buchi, andati aumentando di numero ad ogni intervallo, lungo o breve che fosse - seconda recita del Don Carlo nella ripresa dell’edizione 2008-9, quella che fu precisamente fatale all’incolpevole Filianoti e che passò alla storia non certo per la qualità dello spettacolo – che fu passabile, ma nulla più - ma soprattutto per le contestazioni alla prima ambrogina a Daniele Gatti…

 

Del quale Gatti il concertatore Fabio Luisi ha evitato gli arbitrari ripescaggi di brani che Verdi aveva autorevolmente escluso dall’edizione da lui personalmente ed espressamente curata e pubblicata in occasione dell’esecuzione dell’opera alla Scala (10 gennaio 1884): edizione impiegata per le recite di questa stagione.

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A proposito di versioni dell’opera, ne riporto qui l’elenco sintetico ma sufficientemente esaustivo pubblicato (a cura di Enrico M. Ferrando, sulla base dell’edizione critica integrale di Ricordi) sul programma di sala del Regio di Torino, in occasione della produzione dell’opera nella stagione 12-13:

1a) Versione completa, utilizzata per le prime prove del lavoro (include 8 brani, poi eliminati per contenere la durata dell’esecuzione nei limiti rigidamente stabiliti dalle convenzioni dell’Opéra, e manca del balletto, terminato nel febbraio 1867).
1b) Versione della prova generale (comprende ancora tre degli otto brani eliminati alla prima, e include il balletto, completato nel febbraio 1867).
1c) Versione della prima esecuzione (11 marzo 1867).
1d) Versione della seconda esecuzione (13 marzo 1867): in questa versione l’atto IV è abbreviato e termina con la morte di Rodrigo.
1e) Versione in italiano (San Carlo, Napoli, 1872): include varianti al duetto Filippo-Rodrigo (due terzi del quale furono composti ex-novo su un nuovo libretto) e al duetto finale Carlo-Elisabetta.

2) Versione in quattro atti, in italiano (Milano, 1882-1883). È un radicale rimaneggiamento che elimina più di metà della musica originaria (tutto l’atto I, duetti Carlo-Rodrigo e Filippo-Rodrigo nell’atto II, scena iniziale e balletto nell’atto III, scena Filippo-Elisabetta nell’atto IV, finale dell’atto IV, finale dell’atto V), sostituendola con sette nuovi brani e ricollocando la romanza “Io la vidi” (che Carlo canta nell’atto I della versione parigina) nel Preludio, introduzione e scena del frate (n.1) del nuovo atto I.

3) Versione in cinque atti in italiano (1886). Rispetto alla precedente reintegra l’atto I originale (la romanza di Carlo è ovviamente ricollocata nell’atto I, e viene quindi ripristinato l’inizio dell’atto II).
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Sulla pertinenza, plausibilità, arbitrarietà, abuso… riguardo i contenuti di un’opera come questa da mettere in scena si potrebbe discutere all’infinito. Alla fine però ci si riduce immancabilmente al quesito: vogliamo rispettare le volontà dell’Autore, così come materializzatesi in suoi atti espliciti, o invece ci prendiamo il diritto di costruire noi lo spettacolo, impiegando di volta in volta i pezzi del meccano che più ci piacciono (o che possono fare più cassetta)?

Nel caso del Don, pochi dubbi esistono che le uniche due versioni che Verdi licenziò espressamente dopo averne meticolosamente curato la preparazione siano: a) quella della prima di Parigi (1867, in francese e poi in traduzione italiana) e b) quella della Scala del 1884.

Purtroppo però non ci si ferma qui, poiché anche grandi direttori (vedi Abbado o Pappano, o il Gatti di qualche anno fa) si inventano la loro personale versione del Don, scegliendone una come base e poi infilandoci o togliendoci altri pezzi a loro piacimento. Prendiamo ad esempio il duetto Filippo-Carlo dell’Atto III (che Gatti riscoprì nel 2008): che sia grande musica non si può negare, e Verdi medesimo lo impiegò nel suo Requiem come Lacrymosa; che però il Maestro lo abbia cassato in via definitiva dal Don lo dimostra proprio la versione preparata (con mesi e mesi di lavoro!) per il nuovo allestimento della Scala del 1884 (nel 1868 e 1878 vi si era rappresentata la versione in 5 atti in italiano, ma non senza modifiche). Dove le ragioni del taglio legate alla lunghezza dell’opera (e agli orari dei treni di Parigi…) non reggevano più, visto che la versione in 4 atti recupera una buona mezz’ora rispetto a quella originale del 1867! Invece no, nessuna riapertura: evidentemente il Maestro aveva concluso da tempo – almeno dal 1874, anno di composizione del Requiem e dell’impiego di quel brano del Don come Lacrymosa  - che la drammaturgia della scena, e quindi il suo valore estetico ed artistico venivano seriamente compromessi da quel siparietto in cui tutto un mondo in fermento si deve fermare in surplace per ascoltare l’epinicio che Filippo e Carlo cantano al povero Rodrigo.

Insomma, personalmente mi sento di dire bravo a Luisi anche solo per non aver voluto fare il diverso… In realtà la sua prestazione di ieri ha avuto, per me, altrettante ombre che luci: poiché alla generale correttezza dello stacco dei tempi ha fatto da contraltare una tendenza ad eccessivo fracasso (penso in particolare all’Atto II, ma non solo) con conseguente copertura delle voci. Certo, anche per colpa delle voci, come dirò. Ma il concertatore dovrebbe venire in soccorso, invece di… seppellire.  

Orchestra meglio del solito e Coro di Casoni sui suoi standard.

Mattatore della serata René Pape, che a distanza di 4 anni è stato ancora un Filippo autorevole, commovente e – per giunta – non acconciato come un vecchio rimbambito (a dispetto del suo crin bianco, non dimentichiamo che il RE storico aveva da poco passato i 30!) Non vorrei sbagliare, ma mi pare che nell’aria-madre dell’Atto III non abbia preso bene il suo primo amor… In ogni caso, una prestazione notevole per emissione e sensibilità interpretativa. Per lui trionfo indiscusso.

Con lui abbastanza bene l’altro basso, Štefan Kocán, nei panni del tremendo Inquisitore: cui ha conferito anche quel che di protervo che ben si addice al personaggio. Certo, quando in altre repliche dovrà indossare i panni del Re, sarà bene che trovi il registro appropriato.

Fabio Sartori è un Infante passabile: la voce è un pochino… sporca, squilla poco, anche se ha una potenza tale da sovrastare persino gli eccessi rumoristici di Luisi! Certo, la sua presenza scenica non è proprio delle più accattivanti, e non solo per la circonferenza… pavarottiana del suo adipe (smile!)   

Rodrigo è Massimo Cavalletti, che mi ha favorevolmente impressionato: voce ben impostata e passante, portamento efficace; mi sembra che il 35enne lucchese (ascoltato qui come Ford nel Falstaff di inizio anno) stia continuamente migliorando.

Le due protagoniste femminili hanno funzionato a corrente alternata. Nel senso che le loro voci si sentono quando devono trovarsi nella cosiddetta ottava alta; in quella bassa faticano a farsi udire (e Luisi purtroppo nulla ha fatto per farcele udire). Meglio la Martina Serafin (Elisabetta) che almeno gli acuti li emette con proprietà… mentre Ekaterina Gubanova (Eboli) tende a spararli al limite dello schiamazzo.

Efficace Fernando Rado nella parte non proprio secondaria né banale del Frate. Su standard da minimo sindacale Barbara Lavarian (il Paggio, en-travesti) e Il Conte di Lerma di Carlos Cardoso.

Efficace la prestazione dei sei Deputati fiamminghi: Ernesto Panariello, Simon Lim, Davide Pelissero, Filippo Polinelli, Federico Sacchi e Luciano Montanaro.

Carlo Bosi e Roberta Salvati (che evidentemente ier sera cantava dal suo camerino…) completano il cast.

Alla fine applausi per tutti e per ciascuno, con punte per Pape e Luisi.
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La regìa di Stéphane Braunschweig è rimasta su per giù quella che era. Ho notato che adesso è meno invasiva la presenza dei due bambinelli a far da controfigura a Carlo&Elisabetta. In particolare ad Atocha, dove il piccolo è relegato in fondo-scena e legato ad un patibolo, anziché sostituirsi (come 5 anni fa) a Posa per la consegna della spada di Carlo al Re.

Un allestimento che non ha fatto e non farà storia, nel bene e nel male. Dove il bene consiste principalmente nel non fare danni all’originale; e di questi tempi, in cui assistiamo a travisamenti e adulterazioni di ogni sorta, è già qualcosa.

In conclusione, un ritorno accettabile: di questi tempi c’è di che accontentarsi.

12 ottobre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°4

 

Il quarto concerto della stagione de laVerdi nasce da una collaborazione con MilanoMusica. Ergo non può non proporre brani di compositori contemporanei (o almeno che tali sono stati per molti di noi…)

Si tratta di Morton Feldman (cui è intitolata la rassegna milanese di quest'anno) e di Tōru Takemitsu, due compositori vissuti in pieno ‘900 e accomunati dall’aver subito – in modi e tempi diversi – l’influenza di un tale che (per me, qui lo dico e qui lo confermo) avrebbe fatto meglio ad occuparsi esclusivamente di funghi e non di suoni (smile!): John Cage.

Di Feldman (1926-1987) la bella Geneviève Strosser ci propina The viola in my life IV. Nel 1970 Feldman aveva composto una prima versione del brano per viola e piccolo complesso (flauto, violino, violoncello, percussioni, pianoforte) su commissione dei Pierrot Players (poi rinominatisi The London Fires) e per la famosa violista Karen Phillips; nei mesi successivi ne compose due nuove varianti: una (la II) con accompagnamento di altro complesso cameristico (flauto, clarinetto, violino, violoncello, percussioni, pianoforte, il famoso ensemble schönberghiano del Pierrot) e l’altra (la III) per viola e solo pianoforte. Nel 1971 poi compose - su commissione della Biennale di Venezia, che ne ospitò la prima esecuzione il 16 settembre, sempre con la Phillips - la variante IV che prevede per accompagnare il solista un’orchestra di organico quasi normale, ed è una specie di compendio delle precedenti tre. (Tutte sono ascoltabili qui ).

Musica da sessioni di terapia zen (smile! vi assicuro che ascoltare in cuffia e al buio tutti i 4 pezzi, quasi tre quarti d’ora, è un’esperienza davvero unica…) dove i suoni della viola, spesso isolati e lunghi (con qualche breve sussulto) appaiono come una specie di melopea spezzata e si alternano ad interventi degli strumenti accompagnatori, che creano di volta in volta brevi tappeti sonori o ruvide risposte all’imperturbabile e monotono incedere dello strumento solista. Il rischio di dormita generale – e di bruschi risvegli in corrispondenza di qualche entrata improvvisa delle percussioni - è quindi assai alto.

Questa quarta variante dura fra i 15 e i 20 minuti (a seconda che il terapista sia più o meno carogna, stra-smile!) e si chiude, dopo tanta lagna, con un brusco accordo dissonante del pianoforte che precede le ultime note della viola, per assicurarsi che nessuno fra il pubblico faccia brutte figure, rimanendosene lì appisolato per il resto della serata. 

Geneviève Strosser e Tetsuji Honna evidentemente in questa musica ci credono e fanno del loro meglio per convincere anche il pubblico: che non fa mancare gli applausi, ma in questi casi non sai mai se sia per intima convinzione o semplicemente per buona educazione e riconoscimento dell’abnegazione degli esecutori…
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Poi è la volta di Marginalia di Tōru Takemitsu (1930-1996) composta pochi anni dopo la viola di Feldman. L’ispirazione per questo brano (il cui titolo letteralmente viene dall’espressione note a margine) venne a Takemitsu, come lui stesso scrisse, da alcune opere letterarie (E.A.Poe, S.Takiguchi) e pittoriche (P.Klee e S.Francis) che colpirono la sua immaginazione. Quindi il pezzo sarebbe costituito da un’ossatura tematica principale e da liberi approfondimenti sul tema (i marginalia, appunto).

Il compositore giapponese, pur sperimentando molte delle diavolerie che nel secondo dopoguerra venivano inventate a più non posso dai vari Cage (per dire: anche qui c’è il solito secchio d’acqua in cui un percussionista immerge un mini-gong per ottenere evidentemente suoni… liquidi) mi pare assai ancorato a sani principi compositivi, non facendo mancare alle sue opere un minimo di narrativa, che scarseggia o manca del tutto in brani come quello di Feldman.

Personalmente – e del tutto arbitrariamente, riferendomi soltanto a sensazioni di prima mano – potrei di individuare nel brano una serie di atmosfere che elencherei così: un mondo inanimato; qualcosa sembra risvegliarsi; ritorna il caos indistinto; altro segno di vita, e arriva… la Valse (!); ritorno di tenebre abissali; angosciante instabilità; climax; leggero rasserenamento; nuova agitazione e acquietamento; insorgere di un anelito; progressiva eccitazione; frustrazione; eroismo e climax; drammatica sospensione; elegia finale.

Insomma, qui qualcosa viene raccontato: non è ciò che deve fare (anche) la Musica? Strano a dirsi, un esperto come Alex Ross, nel suo ormai celebre The rest is noise, dedica pagine e pagine a Feldman, per poi liquidare in poche righe Takemitsu… mah.
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Chiude il concerto lo stravinskiano Petrushka, edizione originale del 1911. E a proposito di raccontare in musica, Stravinski ci fa qui una mirabile evocazione della storia di una marionetta, che si dipana all’interno della kermesse della settimana grassa di SanPietroburgo.

Chi desideri approfondire i contenuti dell’opera e la tecnica compositiva che Stravinski impiegò troverà pane per i suoi denti in questo benemerito sito tedesco (diciamo la verità, i crucchi non ci danno lezioni solo di buona economia…) Ogni aspetto (ambientale e soprattutto musicale) dell’opera vi viene sviscerato in modo straordinario, con dovizia di informazioni e con l’aggiunta di autorevoli commenti (ad esempio: Boulez).

Smagliante la prova dei ragazzi, in tutte le sezioni dell’orchestra, ugualmente impegnate allo stremo da questa incredibile partitura, un vero preludio per Le sacre, che ascolteremo fra una settimana.

11 ottobre, 2013

Intenso compleanno di Verdi a Milano

 

Ieri, anniversario della nascita di Verdi (10 ottobre 1813) la città di Milano, che ne ha visto i primi trionfi e ne ha accolto l’estremo respiro, ha dedicato al Maestro alcuni importanti avvenimenti, nell’ambito delle celebrazioni verdiane che proseguiranno per giorni e giorni.

Da segnalare fra gli altri il Teatro alla Scala, che si è aperto gratuitamente al pubblico per l’intera giornata, offrendo proiezioni di documentari biografici e musicali e visite al Museo.

Poi, alle 18, presso l’Auditorium di Largo Mahler si è tenuta la conferenza La fabbrica dell’Opera, introdotta da Luigi Corbani, patron della Fondazione de laVerdi, e condotta da Marta Boneschi e Laura Nicora, che hanno trattato tutti gli aspetti artistici ed extra-artistici della gestazione e della produzione delle opere verdiane. Il tutto riportato con dovizia di notizie e immagini in un pregevole libricino edito a cura della Fondazione e introdotto da una prefazione dello stesso Corbani

Ha fatto anche capolino alla conferenza il sempre più lanciato Jader Bignamini che alle 20:30 - nell’intervallo fra la penultima e l’ultima recita del Simone al Regio di Parma  - si è tenuto in allenamento con Verdi dirigendo un concertone straordinario di musiche verdiane: preludi, arie e cori.

Un’antologia che ha toccato alcune tappe dell’intera produzione verdiana, da Oberto fino a Otello e che ha visto impegnato anche il Coro di Erina Gambarini e due voci  femminili: Tiziana Carraro che ha interpretato brani da Oberto e Trovatore e Chiara Taigi che si è cimentata con I Lombardi e Otello; entrambe poi hanno interpretato il duetto dall’Aida.

La Carraro ha mostrato buone qualità nell’aria di Cuniza, mentre è sembrata un po’ meno efficace nei panni delle due cattivone (Azucena e Amneris) dove nell’ottava alta sembra scurire artificialmente la voce. Convincente la Taigi, sia nella preghiera di Giselda che nell’aria di Amelia, come in Aida: per lei anche un bel bis con La Vergine degli Angeli di Leonora.

Splendido il coro, in particolare nella scena finale dell’atto II di Aida e come sempre eccellente la prestazione del complesso strumentale, una colonna del quale (Alex Caruana) ci ha anche proposto il poco conosciuto Adagio per tromba (qui Andrea Bonaldo). Anche il Konzertmeister Luca Santaniello ha avuto il suo momento di gloria con quella specie di romanza per violino che è il preludio al finale dell'Atto III dei Lombardi (Verdi lo compose per Eugenio Cavallini, primo violino e direttore della prima dell'opera).

Quanto a Bignamini, ormai non è più da scoprire, almeno in Verdi. Così fra una settimana sarà interessante vederlo e sentirlo alle prese con il pagano Stravinski.

Insomma: una bellissima giornata, che nemmeno il temporale che ha accolto il pubblico all’uscita dall'Auditorium ha potuto guastare.

09 ottobre, 2013

Il Simon Boccanegra di Bignamini a Parma

 

Ieri, nell’ambito dell’annuale Festival Verdi, penultima recita del Simone, in un Regio affollato (ma non proprio esaurito) di un pubblico cosmopolita (tedesco e francese le lingue più diffuse nel foyer).


Si sa che il Simone è opera ostica, cupa, difficile da digerire; persino i pochi momenti di relativa serenità sono velati da inquietudine, presagi oscuri e minacce incombenti. La versione ultima del 1881 poi perde anche quell’unico squarcio di allegria, di giubilo, di festa che animava la parte finale del primo atto, sostituita da quella scena vergata da Boito e stupendamente musicata da Verdi che è un autentico capolavoro, ma che non fa se non aggiungere angoscia ad un dramma di per sé già buio, a dispetto del secolo in cui è ambientato, che vedeva ormai l’avvicinarsi del Rinascimento, evocato proprio nella nuova scena boitiana dal riferimento (involontariamente?) comico al Petrarca.

In più si tratta di un’opera dove l’azione scarseggia, mentre vi tengono banco le più diverse pulsioni dell’animo umano, personali o collettive che siano; e dove persino la trama è ostica e difficile a decifrarsi anche a chi abbia studiato con cura il libretto… Insomma, un’opera di Verdi da approcciarsi quasi fosse il Wozzeck!

La regìa – non nuova - di Hugo de Ana è assolutamente in linea con lo spirito e la lettera del libretto: scene austere e cupe, recanti su un verso bassorilievi di una opprimente monotonia e sull’altro nudi interni di stiva di vascello, dove anche le rare aperture verso il mare creano più disagio che serenità; per il resto, quasi assenza di suppellettili, sostituite da semplici blocchi squadrati; costumi più o meno d’epoca, sufficientemente differenziati fra patrizi e popolani; movimenti di personaggi e masse ridotti al minimo indispensabile.

Inutile dire che con opere come questa il successo o il fallimento della recita dipendono quasi esclusivamente dalle qualità degli addetti ai suoni, a partire dal Concertatore. E devo dire che Jader Bignamini non ha tradito le (mie) aspettative, confermando quanto di buono si vede (e soprattutto si sente) di lui nelle frequenti apparizioni sul podio della sua Orchestra Verdi (a proposito, domani sera ci tornerà per una serata verdiana…) Azzeccate le scelte sui tempi e sull’agogica, precisi gli attacchi e sicura la guida di buca e palco; fracassi solo quanto basta e quando si deve, per il resto un approccio conservativo e senza gigionerìe. Bravo davvero. E bravi i ragazzi della Toscanini, un’altra giovane e bella realtà del panorama musicale padano.

Fra le voci, note positive  per i due grandi vecchi: Roberto Frontali è un Simone convincente, che sa tirar fuori tutta la sofferta personalità del protagonista, nei momenti di appello alla pace e all’amore, come in quelli di spaventevole imposizione d’autorità. Giacomo Prestia è un Fiesco sufficientemente altero e duro, figura scenicamente imponente e vocalmente ancora robusta.

Gabriele è il giovane sudamericano Diego Torre: voce da heldentenor, ancora forse da rodare al meglio, ma ci si sentono già qualità più che promettenti.
  
Ahilei, Carmela Remigio non è un’Amelia convincente: a cominciare dalle caratteristiche della sua voce: il personaggio non sarà proprio da soprano drammatico, ma nemmeno da… Zerlina! E lei invece ha proprio una vocina pigolante e metallica in alto. Già le caratteristiche, per così dire, anagrafiche del personaggio - Amelia-Maria ha passato da parecchio la trentina, che per una donna di fine medioevo significava essere matura assai, se non quasi vecchia (!) – sono tali da escludere una voce e movenze da ragazzina adolescente e ingenua, come purtroppo ci è apparsa la cantante pescarese.

Discreta l’interpretazione di Paolo da parte di Marco Caria, voce potente e ben impostata. Su uno standard più che accettabile anche i tre comprimari: Seung Pil Choi come Pietro, Antonio Corianò (capitano) e Lorelay Solis (ancella).

Sicura ed efficace la prestazione del Coro del Regio di Martino Faggiani.

In definitiva, uno spettacolo che merita ampiamente il caloroso consenso che il pubblico gli ha tributato con ripetute chiamate alla ribalta.

E proprio questa sera parte, a mo' di staffetta, il Boccanegra torinese

07 ottobre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°3

 

Bisogna ammettere che il ciclo completo delle Sinfonie di Dvorak, dirette dallo specialista Aldo Ceccato, non è proprio nato sotto una buona stella: a parte la bizzarra idea di distribuirlo su più stagioni (siamo alla terza e ancora mancheranno due, anzi a questo punto tre sinfonie delle nove!) e di eseguire le sinfonie a ritroso (?!) è anche stato colpito da diverse disavventure, ultima delle quali la disdetta per questo concerto, dove era prevista la terza.

Così è stato chiamato sul podio Gustavo Gimeno, ex-percussionista del Concertgebouw passato alla direzione, che ha rimpiazzato Dvorak con Rimski (e la sempre seducente Shéhérazade) lasciando inalterata la prima parte del programma. Ieri pomeriggio, per la terza replica del concerto, a dispetto della pioggerella noiosa che invitava a rimanersene a casa, seduti sul sofà e con un plaid sulle gambe, l’Auditorium era abbastanza affollato.

Si è quindi iniziato con Vocalise, un brano scritto nel 1912 da Rachmaninov per un’amica soprano, dove la voce solista deve cantare una melodia senza parole, semplicemente emettendo, appunto, vocalizzi. Della composizione originaria, che è in DO# minore per voce e pianoforte, sono state fatte innumerevoli trascrizioni, una delle quali, di mano dell’Autore, trasportata in MI minore, rimpiazza la voce con una squadra di violini solisti (da 16 a 20!) che si aggiungono ad una robusta formazione cameristica di archi (6-6-6-4-4) e ad una sezione di fiati (11 strumentisti, con i soli 2 corni in rappresentanza degli ottoni):


Il brano ha una struttura assai semplice, essendo costituito da due sezioni rispettivamente di 18 e 13 battute, ciascuna da ripetersi, più una coda di 8 battute: in tutto quindi 70 battute di musica. Una specie di numero cabalistico, di questi tempi, per Rachmaninov, di cui quest’anno ricorre un anniversario doppiamente… 70°: concludendosi in pratica nel 2013 un secondo ciclo di vita di Rachmaninov, appunto 70 anni fra gli uomini e altrettanti in… purgatorio (?)

Vocalise è una melopea dal carattere tipicamente russo, crepuscolare, assai buona per prendere sonno (stra-smile!) e quindi intonata alla stagione; una cosa tipo Il lago incantato di Liadov, per intenderci, composto pochissimi anni prima. Certo, come antipasto l’Ouverture di Cavalleria leggera avrebbe scaldato di più tutti quanti, pubblico e strumentisti (!!!)

È stata quindi la volta del residente Simone Pedroni a presentarsi al proscenio per offrirci la sua interpretazione del Secondo concerto del russo. Del quale (il russo, non il concerto) personalmente mi son fatto l’idea che uscito, grazie ai trattamenti ipnotici, dalla tremenda crisi depressiva seguita al fallimento della sua Prima Sinfonia – bistrattata da quell’ubriacone di Glazunov - non fosse più lo stesso giovane promettente e potenziale innovatore del suo Primo Concerto (intendo la versione originale, non quella del 1917) e che proprio il Secondo, composto a ridosso della guarigione, segni l’inizio della sua regressione sul piano artistico ed estetico. Però, come spesso accade, la regressione porta con sé il successo presso il pubblico, e questo alla fine conta più della sostanza delle opere.

Pedroni ci ha comunque porto questa che è la composizione più famosa di Rachmaninov con grande sensibilità, senza mai cadere in eccessi decadenti o in facili sdolcinature: l’Adagio sostenuto centrale mi è parso il momento migliore della prestazione, sua ma anche di quella dell’orchestra, che lo ha introdotto e poi accompagnato con sobrietà e pulizia.

Grande successo, ripagato con un bis elegiaco.

In sostituzione della terza di Dvorak (che al mondo conosce solo Ceccato… smile!) ha chiuso il concerto un’opera che personalmente non mi stanco mai di ascoltare. E dal vivo ho ascoltato meno di un mese fa al MITO, suonata dagli ex-leningradesi di Temirkanov.

Shéhérazade è in effetti un capolavoro che laVerdi ormai padroneggia al punto da non aver sfigurato (alle mie orecchie, quantomeno) di fronte ai marziani russi. Gimeno, ampiamente da giustificarsi, stante la chiamata quasi all’ultimo momento, deve aver semplicemente lasciato suonare i ragazzi some sanno. Così - raccontata dal violino di Shéhéra-niello (!) - ne è sortita un’esecuzione del tutto apprezzabile, e quindi lungamente osannata dal pubblico.

Nei prossimi giorni… tutto Bignamini: dapprima al Regio di Parma per la penultima recita del Simone e poi ancora in Auditorium con un concerto straordinario tutto-Verdi!

28 settembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°2

 

Gaetano D’Espinosa, ormai di casa presso laVerdi, dirige il secondo concerto della stagione (si replica domenica). Ancora un concerto tutto russo e tutto ottocentesco, almeno all’apparenza.

 

In più, si tratta di musiche, come dire, piuttosto adulterate (smile!) Abbiamo infatti un Sergej Rachmaninov rimaneggiatore di se stesso messo in sandwich da uno dei suoi più o meno diretti maestri, Modest Musorgski: ma con lo zampino di Rimski prima e di Ravel poi. Quindi nel programma c’è anche un po’ di novecento.


Si inizia con Una notte sul Monte Calvo, nella versione arcinota di Rimski. Che, a dir il vero, si basò su un originale che Musorgski non aveva intitolato così, poiché quel nome lo aveva dato ad un’altra composizione che con questa ha solo qualche punto, per quanto importante, di contatto. 
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In effetti, questo brano ha una storia assai complicata, come quella del suo autore del resto. Musorgski nel 1858 aveva iniziato a pensare (forse anche a buttar giù qualche nota) ad un’opera da Gogol (La notte di SanGiovanni) presto abbandonata. Poi pare avesse iniziato a comporre su quel tema un brano per pianoforte e orchestra. Infine, quasi 10 anni dopo ne estrasse alcune idee musicali per farci una specie di poema sinfonico, che intitolò La notte di SanGiovanni sul Monte Calvo, strutturato in quattro sezioni: arrivo delle streghe e attesa di Satana; arrivo di Satana accolto dalle streghe; messa nera e lodi delle streghe a Satana; sabba. La composizione è largamente debitrice a Berlioz (movimenti finali della Fantastica) e a Liszt (Totentanz) il che contraddice l’asserita avversione del compositore per la musica dell’ovest… È di una rudezza davvero primitiva e selvaggia (che a qualcuno fornisce il destro per ironizzare sulle qualità di orchestratore del nostro…) con un finale a passo di carica, duro e privo di ogni riferimento a cristiana redenzione. Rimasto praticamente sconosciuto per decenni, è emerso dalla polvere del tempo relativamente di recente: qui la prima incisione in disco.

Poi, nel 1872, Musorgski si mise a lavorare su un’opera, titolata Mlada, che doveva essere il risultato dei congiunti sforzi dei componenti della banda dei 5 (smile!) escluso chissà perché Balakirev e incluso Minkus: infilò nel terzo atto un brano per orchestra e coro intitolato La glorificazione di Chornobog (il diavolo) che riprendeva temi del poema sinfonico composto 15 anni prima e rimasto sepolto in qualche cassetto. L’impresa collettiva fallì miseramente e il solito Rimski, molti anni dopo (1889) ne trasse una sua opera-balletto di pari titolo e un paio di sunti orchestrali.  

Successivamente ancora, nel 1880, Musorgski si era dedicato ad una nuova opera, rimasta incompiuta come capitò a diverse sue composizioni (cui evidentemente il musicista riservava molte meno attenzioni che alla vodka, smile!) Era un’opera comica, sempre da Gogol, intitolata La Fiera di Sorochyntsi, e il nostro, ispirandosi ancora una volta al suo poema sinfonico, ci infilò alla fine del primo atto un intermezzo musicale, la cosiddetta visione onirica del contadinello, che evoca il sogno di un ragazzo a nome Gric’ko che vi vede le streghe, il demonio (Chornobog) e il sabba; però – a differenza del poema sinfonico - il sogno si conclude con la sparizione di spettri e diavoli, cacciati dallo spuntare di un’alba radiosa e dai religiosi rintocchi di una campana. Quindi una conclusione serena, proprio all’opposto di quella della Notte di SanGiovanni.

Orbene, Rimski - che aveva per anni convissuto con Musorgski, quando i due si scambiavano regolarmente ogni pagina di musica che scrivevano - nel 1886 prese in mano i tre diversi manoscritti dell’amico, ormai passato da un lustro a miglior vita, e decise di ricavarne, per pubblicarla, una versione che fosse a suo parere presentabile al pubblico, intitolandola appunto Una Notte sul Monte Calvo. Ma invece di prendere come riferimento il poema sinfonico di (quasi) pari titolo, si basò sull’intermezzo dalla Fiera di Sorochyntsi e lo rimaneggiò da par suo (cioè con somma maestrìa, la stessa che impiegò per le sue ricostruzioni di Boris e Kovancina, tanto per dire) per farci una Fantasia da concerto in cui compaiono i riferimenti al sogno di Gric’ko e precisamente: suoni sotterranei di voci sovrannaturali; apparizione degli spiriti delle tenebre e di Satana; trionfo di Satana e Messa Nera; sabba; suono della campana che disperde gli spiriti delle tenebre; sorgere del giorno.

Morale della favola: la Notte di Rimski è assai diversa da quella di Musorgski, come si può verificare analizzando la struttura dei due brani: perfettamente scolpito e tematicamente assai conciso quello di Rimski (che impiega solo pochi temi principali); molto più esteso, prolisso e con varie divagazioni tematiche quello di Musorgski, a dispetto della mancanza del finale sereno.  
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Chi ha qualche anno sulle spalle non può non ricordare Leopold Stokowski e la sua personale edizione di questo lavoro per il disneyano Fantasia, ottenuta per sottrazione di un po’ di Rimski e addizione di un po’ di Schubert (!)

D’Espinosa non manca di mettere in luce tutto lo splendore dell’orchestrazione di Rimski, in particolare le qualità degli ottoni, chiamati a poderosi passaggi. Ma è anche pregevole la sua chiusa religiosa, con gli interventi del clarinetto della Raffaella Ciapponi e del flauto di Massimiliano Crepaldi, e con i 5 secondi di silenzio imposti al pubblico prima di abbassare la bacchetta.
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Benedetto Lupo, ormai un abitué dell’Auditorium, arriva sul palco per interpretare il Primo concerto di Rachmaninov.

Che però, nella versione eseguita qui (che è anche quella normalmente eseguita) dovrebbe essere indicato come il… quarto. Sì, perché l’Autore nel 1917 (erano nel frattempo apparsi sulla scena personaggi come Schönberg e Stravinski, hai detto niente!) rimaneggiò ampiamente il suo primo (di 26 anni più vecchio e soprattutto ispirato al più profondo ‘800…) quando già aveva composto, eseguito e pubblicato da anni e anni il secondo e il terzo!
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Il Vivace iniziale (FA# minore) è strettamente in forma-sonata, con un’introduzione in fanfara seguita da pesanti scale in ottava del pianoforte; i due temi (FA# minore e LA maggiore) hanno caratteristiche simili, piuttosto languide e con moto ascendente (tranne la seconda sezione del primo tema, che scende precipitosamente) e sono esposti dall’orchestra e poi dal solista, separati da una transizione di virtuosismo; lo sviluppo è abbastanza articolato e conduce ad una ripresa in cui, al primo tema nella tonalità di impianto segue il secondo nella tonalità di FA# maggiore (secondo tutti i canoni scolastici); un ponte porta poi alla cadenza, dove i due temi compaiono distintamente; una coda chiude velocemente il movimento.

Fra le due versioni ci sono differenze abbastanza spiccate, pur se la macro-struttura è stata conservata; Rachmaninov nel 1917 apportò moltissime modifiche alla strumentazione, un po’ ovunque, ma anche a consistenti porzioni sia dell’esposizione (la parte conclusiva, con transizione verso lo sviluppo, che nella versione originale aveva alcune battute in 3/4) che dello sviluppo medesimo e del ponte nella ripresa verso la cadenza; la quale cadenza fu pure in gran parte riscritta, così come la coda, con chiusura pesante, ma meno enfatica rispetto all’originale.

Nella seguente figura sono schematicamente rappresentate le strutture delle due versioni e in giallo sono indicate le parti più corposamente modificate da Rachmaninov nel 1917:


Si noti il motivo indicato con (*): 4 note, discesa da tonica a dominante, ripetute. Nella versione del 1917 è stato espunto da Rachmaninov dal primo movimento, ma lo ritroviamo nel terzo (in entrambe le versioni) il che dava quindi al concerto originale una caratteristica di ciclicità, che si perde nella versione più tarda.

Il secondo movimento è un breve intermezzo in RE maggiore, languido e sognante. Ha una struttura assai semplice: dopo un’introduzione in cui si ode in orchestra un motivo vagamente parente del secondo tema del primo movimento, ripetuto quattro volte su gradi sempre più alti, ecco il pianoforte entrare con una battuta di arpeggi e poi esporre un primo motivo di sapore proprio… rachmaninoviano. Poi, a battuta 28, il solista presenta – con accompagnamento orchestrale assai discreto - una nuova melodia, un motivo che sale dalla sopratonica fino alla sensibile, e da lì su ancora a tonica, sopratonica, mediante, per poi creare una specie di climax, da cui si rientra per sviluppare il primo motivo in orchestra, con il solista che si limita ad accompagnarlo, fino alla sommessa cadenza conclusiva.

Qui, a parte la strumentazione rivista e piuttosto arricchita e persino appesantita  da Rachmaninov, le principali novità della versione del 1917 sono: una maggiore complessità della battuta 10 (entrata del pianoforte); una diversa resa del climax del secondo motivo, con corposo intervento orchestrale, timpani compresi, laddove era il solo pianoforte ad operare nell’originale; infine una maggior vivacità nell’accompagnamento del solista alla riesposizione del primo motivo (nell’originale: solo terzine, nella versione 1917 anche arabeschi vari). In tutto si passa dalle 67 battute del 1891 alle 74 della versione ultima, essendo stata leggermente estesa, oltre che modificata, la sezione centrale.

Il terzo movimento è un Allegro scherzando nel 1891, un Allegro vivace nel 1917. È la parte sicuramente più manomessa da Rachmaninov nella seconda versione. Mentre la macro-struttura è rimasta più o meno invariata (si veda lo schema riportato più sotto) qui c’è un pesante ispessimento dei contrasti, qualche divagazione metrica e tonale in più e una strumentazione lussureggiante al limite del rumorismo, con ricerca di effetti a buon mercato, che non sempre rende un buon servigio all’opera.

1891
1917
1 Introduzione in pianissimo
1 Introduzione in fortissimo
7 Tema A in FA# minore
10 Tema A in FA# minore
32 Tema B in LA maggiore dal motivo (*) chiuso con perorazione in fortissimo di tutta l’orchestra
38 Tema B in LA maggiore dal motivo (*) chiuso con un motivo D discendente in fortissimo di tutta l’orchestra
77 Tema C in RE maggiore, cantabile, con sezione chopiniana
71 Tema C in MIb maggiore, cantabile, con sezione chopiniana
125 Introduzione in pianissimo
116 Introduzione in fortissimo
131 Tema A in FA# minore
126 Tema A in FA# minore
156 Tema B in RE maggiore e ponte verso la Coda
156 Tema B in RE maggiore e SOL maggiore
222 Coda in Maestoso FA# maggiore sul Tema C
222 Coda in FA# maggiore sul motivo D

La versione ottocentesca sarà anche naif e pretenziosa la sua parte (basta ascoltarne la perorazione nella coda finale, quasi… wagneriana) ma a me pare almeno più sincera ed equilibrata rispetto alla revisione del 1917, che evidentemente risente di influssi… espressionisti. 
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Benedetto Lupo ne ha dato una lettura proprio novecentesca, trattando il pianoforte precisamente come uno strumento da percuotere: impressionante, ad esempio, la cadenza del primo movimento. Ma pregevoli sono stati anche i passaggi elegiaci e contemplativi, vedi l’intermezzo,  che impreziosiscono questo lavoro.

Gran successo e, dopo tanta… percussione, due bis dove la tastiera viene soltanto sfiorata.
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Ha chiuso la serata un’altra composizione… contraffatta (!) Si tratta dei Quadri di un’esposizione, che Musorgski aveva composto per la tastiera nel 1874 e che Maurice Ravel, ormai in pieno ‘900 (1922) orchestrò con grande sapienza e modernità.

Nella primavera del 2012 l’avevamo ascoltata qui nelle due versioni, proposte rispettivamente da Rudy e Bignamini. E anche ier sera i ragazzi non hanno perso l’occasione per mostrare la loro perfetta padronanza di quest’opera che impegna ogni singolo strumento e i pacchetti delle diverse sezioni oltre ogni limite.

Interminabili ovazioni per tutti e per ciascuno.
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Per il prossimo concerto (e siamo solo al terzo…) si deve già registrare un cambiamento di programma non da poco: mancherà Ceccato con il suo Dvorak, che sarà sostituito da Gustavo Gimeno e da Shéherazade.   

25 settembre, 2013

Michieletto non fa danni: ma la sua Scala non basta alla Scala


Ieri quarta recita della rossiniana Scala di Seta in un Piermarini ridotto ad un gruviera (ahinoi). Allestimento portato qui dopo anni (è del 2009, poi 2011) dal ROF, sponsor incluso (ma Cuccarini esclusa, smile!) e affidato alla scaligera Accademia.

 

Ieri era il terzo (!) cast di questa produzione: evidentemente si vuoIe dare un po’ di spazio a tutti gli allievi, come si fa per le recite scolastiche di fine anno. Risultato: francamente malinconico. La colonia asiatica accorsa per vedere all’opera i suoi conterranei ha applaudito timidamente, per il resto silenzio assoluto durante tutto lo spettacolo. Francamente non saprei chi salvare dal grigiore generale, che ha accomunato cantanti e orchestra, guidata da un baroccaro che forse pensava di dirigere un oratorio di Pergolesi (con tutto il rispetto) e ci ha propinato una minestrina piuttosto insipida. Nella sinfonia c’è stato perfino un pasticcio nella ripresa del tema principale, roba appunto da… oratorio (smile!)

 

Così, contrariamente al solito, dove sono le regìe strampalate ad affossare la recita, qui Michieletto ha almeno contribuito a non far addormentare lo scarso pubblico, ed è già qualcosa.


Certo, non è il caso di prendersela con i poveri allievi, ma con chi li manda allo sbaraglio chiedendo al pubblico di pagare il biglietto intero… Nobbuono. 

20 settembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°1

 

Dopo il prologo (fuori abbonamento) in Scala, laVerdi ha aperto ieri sera in un Auditorium affollato la nuova stagione 13-14, la stagione dei suoi 20 anni.


Jader Bignamini, che si sta sempre più affermando come Direttore dopo aver esordito molti anni fa nella seconda fila dei fiati (al clarinetto piccolo) dirige un concerto interamente dedicato al musicista da cui l’Orchestra ha preso il nome.


Programma nutrito, che presenta brani da ben sette opere verdiane, scelte fra le meno rappresentate (non dico meno conosciute): di esse viene eseguita la Sinfonia/Ouverture mentre Lucia Aliberti ne canta diverse arie-cabalette.

La sequenza dei brani percorre una specie di pendolo temporale, muovendo dal Regno del 1840 fino alla Forza del 1862 (passando per la Luisa del‘49, l’Attila del ’46 e  l’Aroldo del ’57) per poi ripiegare (via Vespri, 1855) al pieno della galera (Foscari, 1844).

Parecchie di queste arie nelle rispettive opere sono accompagnate da interventi più o meno corposi di cori e/o di altri personaggi, che in un concerto faticano a trovare posto. Così niente coro, niente Wurm, Attila, Godvino e Pisana: come spesso accade in questi casi, si è ovviato al problema con tagli e/o passaggi lasciati ai soli strumenti. Ma nulla di grave: in un’antologia la cosa è del tutto sopportabile.

Lucia Aliberti, che tornava a cantare con laVerdi dopo qualche anno, ha ottenuto un caldo successo, a dispetto di una prestazione che – in assoluto – non si può certamente definire indimenticabile. Il 50enne soprano siciliano, da 30 anni sulle scene e dai multiformi interessi nel campo della musica, ha mostrato grande sensibilità interpretativa, ma la voce è quella che è: calda e flautata nei passaggi in mezzo-forte, si fa piuttosto dura e metallica in quelli a piena voce (vedi la Odabella) e fatica assai a passare nelle note più gravi.

Comunque, data la particolare caratteristica della serata (per lei, una cosa a metà fra il recital e la rimpatriata fra amici) il pubblico non le ha fatto mancare il trionfo, impreziosito da ripetuti omaggi floreali. Così, chiuso il programma ufficiale, ecco ben tre bis, dove ancora Verdi (Si colmi il calice della Lady e Libiamo di Violetta) ha incastonato un simpatico omaggio a Lehar (Vilja, oh Vilja della Glawari).
  
Bignamini ha diretto con grande sicurezza e attenzione ai dettagli, trionfando nei pezzi forti (che l’Orchestra conosce a memoria, come la Forza e i Vespri) ma sapendo cavare il meglio anche da quelli meno consueti (ad esempio l’Aroldo, dove Alex Caruana si è distinto con la sua tromba). Per il giovane Direttore un bel riscaldamento verdiano in vista del suo prossimo impegno, proprio a casa del Cigno, nel Simone.  
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Questo concerto verrà replicato oggi (venerdi) e domenica, come era regola fino alla scorsa stagione. Da questa però il palinsesto cambia: 17 dei 38 concerti verranno offerti in due sole serate (venerdi e domenica, con qualche eccezione) anziché tre.
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Per completare quest’orgia verdiana, allego un corposo documento su Verdi, scritto a quattro mani da Rodolfo Celletti, Luca Ronconi, Marcello Conati e Giampiero Tintori, comparso sul numero di dicembre 1986 di Musica&Dossier.