affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

06 aprile, 2013

Stupro albionico in quel di Reggio E.


Oltre ai due sommi bi-centenari, il 2013 è anche il centenario dalla nascita di Benjamin Britten, e così molti cartelloni ospitano opere del compositore britannico. The rape of Lucretia – nella co-produzione ReggioEmilia-Ravenna-Firenze – dopo aver esordito all’Alighieri transita in questi giorni dal ValliL’orchestra (meglio, il complesso cameristico) è quella del Maggio, la regìa è… reggiana (Daniele Abbado, che riprende, rivedendolo, un suo allestimento ultra-decennale) e il cast è multi-nazionale.

Con l’occasione allego qui una monografia sul Britten teatrale curata da Carlo Maria Cella e apparsa nel numero di maggio-giugno 1993 della rivista Musica&Dossier.

Come meritoriamente puntualizza il libero pensatore Amfortas (a proposito, non vedo l’ora che torni fra noi più… semiserio che mai!) sarebbe ora di finirla con le penose ipocrisie (superate solo da quelle del Berlusconi che si offre per fare un governo nientemeno che con i comunisti!) che traducono rape con ratto, alle quali si potrebbe obiettare che – trattandosi di vicenda coinvolgente parti intime femminili – allora sarebbe più appropriato il termine ratta, aulica versione di topa…
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Ecco, sistemata la ginecologia, qualche considerazione a margine del soggetto, che Ronald Duncan derivò da Le viol de Lucrèce di André Obey, ma che si basa su una vicenda (più o meno) storicamente accertata, trovandosi descritta in Ab Urbe condita libri di Tito Livio, e poi ripresa da Shakespeare nel dramma omonimo.

Lo scenario storico-politico generale è quello dell’assedio che i romani (guidati da quello che sarebbe stato l’ultimo dei sette Re, l’etrusco Tarquinio il Superbo) stavano ponendo nel 509 a.C. alla città di Ardea, che si trova a circa 40 Km a sud-ovest di Roma, sul mare. Ciò si evince dalle fonti storiche o letterarie, mentre il libretto di Duncan parla genericamente di nemici greci, probabilmente riferendosi alle presunte, mitologiche origini greche di Ardea (sappiamo che invece a quei tempi la città era abitata dai Rutuli, di incerta origine, ma sicuramente non greca).

Nella partitura di Bosey&Hawkes (nella pagina di descrizione in tedesco di personaggi e scene) si accenna all’accampamento romano situato al di là del Tevere. Nel libretto si fa anche cenno alle luci di Roma che dall’accampamento si vedono riflettersi nel fiume e poi si descrive l’attraversamento dello stesso da parte di Tarquinio (Sestio, figlio del Superbo e protagonista dell’opera, insomma: lo stupratore di Lucrezia) per raggiungere la città nella notte del misfatto.

Orbene, queste circostanze (che non si trovano assolutamente in Livio, quindi tanto meno in Shakespeare) appaiono in verità assai poco plausibili, proprio per ragioni… geografiche: ai tempi la città di Roma sorgeva quasi interamente ad est del Tevere (che sappiamo va a sfociare ad ovest) quindi il percorso Roma-Ardea, oltre ad essere del tutto divergente rispetto a quello del fiume (rendendo inverosimile che l’accampamento romano fosse nei suoi pressi) non doveva contemplarne di certo alcun attraversamento. Peggio ancora se la destinazione di Tarquinio non fosse stata Roma ma, come scrive Livio, Collazia (la città dove Lucrezia e Collatino avevano la loro dimora) che era situata ancor più ad est di Roma.

Il fiume compare nel libretto di Duncan anche nel second’atto, seconda scena, quando Bianca saluta il sorgere del nuovo giorno ammirando la nebbiolina che si disperde lungo il Tevere argenteo. Ciò a conferma che nell’opera la casa di Lucrezia sia in piena Roma, e non a Collazia (come sappiamo da Livio) da dove il Tevere di certo non si poteva vedere.

Tuttavia diamo atto al librettista (e alla sua fonte diretta) di aver sì falsificato la geografia, oltre che la storia, ma contemporaneamente di aver dato a Britten ottimi spunti per comporre musica mirabile.
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La partitura è del 1946, a guerra appena finita, ed è dedicata ad Erwin Stein, famoso musicologo austriaco, che Britten aveva conosciuto a Vienna nel 1934 e che poi era sfuggito al nazismo rifugiandosi a Londra, dove collaborò con Bosey&Hawkes, la casa editrice musicale che già aveva a contratto le opere del compositore albionico.

L’organico è di piccola orchestra, soltanto 12 strumentisti (più il maestro cui è affidata la parte del pianoforte, che accompagna i recitativi): uno al flauto (più ottavino e flauto contralto); uno all’oboe (più corno inglese); uno al clarinetto in SIb (più clarinetto basso); uno al fagotto; uno al corno in FA; uno alle percussioni (triangolo, frusta, tamburo, timpani, tamburo militare, tamburo tenore, tamburo basso, piatti sospesi e gong); uno all’arpa; cinque agli archi (vl1-2, vla, vc, cb). È un organico da camera che Britten userà, con piccole divergenze, anche in altre due opere successive: la poco eseguita Albert Herring e la famosissima The Turn of the Screw.

La struttura dell’opera è assai semplice e simmetrica: due atti (della durata di circa 50 e 60 minuti) costituiti ciascuno da due macro-scene divise da un interludio e precedute da un’introduzione. Nel primo atto, dopo l’introduzione, la prima scena raffigura l’accampamento dei romani (con le discussioni fra i tre generali sulla fedeltà di mogli e compagne); l’interludio ci racconta del forsennato galoppo notturno di Tarquinio dal campo alla casa di Lucrezia, incluso il guado del Tevere; la seconda scena è all’interno della casa di Lucrezia a Roma, dove troviamo la moglie di Collatino con le due donne che vivono con lei, che ricevono in piena notte l’inaspettata visita del principe etrusco. Nel secondo atto, dopo l’introduzione, siamo dapprima nella camera da letto di Lucrezia, che è la scena dello stupro; segue l’interludio in cui i cori piangono la sorte della donna; e infine restiamo nella stessa casa di Lucrezia, che sarà teatro del tragico epilogo con il suicidio della donna.  

La presenza dei Cori (in realtà solo due voci: un tenore e un soprano) serve a raccontare antefatti storico-antropologici (lo scenario dell’azione piuttosto che le origini della fallace fortuna etrusca) e anche a spiegare ciò che si vede in scena, sostituendosi o sovrapponendosi alle voci dei protagonisti. Ma soprattutto si incarica di trarre dalle vicende una morale cristiana: sì, poiché il coro vive di fatto in mezzo a noi, millenni dopo quel 509 a.C. in cui si svolsero i fatti, e li racconta leggendoli su libri di storia (come il citato Ab Urbe condita) commentandoli però alla luce del messaggio cristiano. Il che ha attirato sull’opera e su Britten qualche critica magari non proprio ingiustificata.

Quanto ai personaggi, sono tre maschi ed altrettante femmine: Tarquinio Sestio, figlio del re il Superbo, Lucio Giunio Bruto (che spodesterà i re etruschi - facendo sollevare contro di loro i romani, proprio a seguito dello stupro - per fondare la Repubblica) e Lucio Tarquinio Collatino, sposo di Lucrezia; la quale Lucrezia è affiancata dalla nutrice Bianca e dall’ancella Lucia.

La figura del cattivone Tarquinio emerge dal libretto e dalla musica assai meno categoricamente collocata nel regno del male di quanto non sia nelle fonti storiche, ed anche in Shakespeare. Lì l’etrusco arriva al livello massimo di abiezione, allorquando ricatta Lucrezia minacciando di ucciderla, dopo lo stupro, e di uccidere quindi un suo servo gettandone poi il cadavere nudo sopra di lei per rovinarle, anche da morta, la reputazione, e salvando la propria presentandosi come il giustiziere di una fedifraga e del suo abietto stallone.

Questo particolare invero disgustoso non è per nulla ripreso nel libretto, dove invece il principe sembra quasi genuinamente apprezzare e lodare le virtù di Lucrezia, allorquando cade nella trappola tesagli da Giunio – geloso non tanto della donna ma di Collatino, che dall’onestà della moglie poteva trarre vantaggi politici su di lui – che ne stuzzica l’orgoglio sostenendo che quella donna è casta solo perché nessuno attenta alla sua virtù. Ben sa, Giunio, che le lodi di Tarquinio a Lucrezia nascondono il suo inconscio desiderio di possedere – finalmente, dopo una moltitudine di puttane, professioniste o dilettanti! – una donna vera, sana, forte, oltre che avvenente, che vive ispirandosi a - e praticando - princìpi di onestà e fedeltà… insomma, un essere quasi introvabile in quel mondo piuttosto depravato, e quindi preda massimamente appetibile.

Ma anche quando Tarquinio penetra nella stanza da letto di Lucrezia e la sveglia con un bacio, cerca dapprima di conquistarla con le antiche e in fin dei conti naturali e persino legittime armi della seduzione, blandendo la donna con frasi poetiche ed ammalianti,  che farebbero cascare qualunque altra ai suoi piedi.

È certo il suo smisurato ego che lo spinge ad immaginare di poter raggiungere l’obiettivo in forza delle sue virili qualità positive, e non in forza della… forza. Ma poi, di fronte alla fermezza e alle resistenze di Lucrezia, nel suo animo di superbo subentra l’inevitabile senso di frustrazione da fallimento e da respingimento, e lo stupro è l’atto estremo e disperato che rimane da compiere ad un uomo irreparabilmente sconfitto, umiliato e distrutto precisamente sul terreno dell’orgoglio e dell’amor proprio.

Qui in Duncan-Britten i cori commentano la scena dello stupro con cristiana compassione, invocando la Vergine perché aiuti l’umanità a ritrovare Dio, anzi le tre distinte persone della Trinità. Ma insuperabile, nel suo lucido, laico e crudo realismo, è il commento di Shakespeare, che coglie in pieno il tragico senso dell’odioso atto, un atto che umilia la vittima e, letteralmente, impoverisce il carnefice:

But she hath lost a dearer thing than life,
And he hath won what he would lose again:
This forced league doth force a further strife;
This momentary joy breeds months of pain;
This hot desire converts to cold disdain:
Pure Chastity is rifled of her store,
And Lust, the thief, far poorer than before.

Quanto a Giunio (che Duncan-Britten accreditano come romano doc, mentre era in realtà etrusco, nipote del Superbo…) qui ci appare come un cinico e ambiguo arrampicatore: geloso di Collatino (per via di Lucrezia) ordisce una trama che gli farà prendere due piccioni con una fava: creare difficoltà per il rivale (mettendone in cattiva luce la moglie) e contemporaneamente avere il pretesto (lo stupro da parte di Tarquinio) per guidare Roma alla sollevazione contro l’etrusco e divenire di tale sollevazione il principale beneficiario.

Il povero Collatino è quello che ci fa la figura più grama, come capita a tutte le persone normali, oneste e con la testa sulle spalle: perchè verrà alla fine tradito persino dalla sua stessa moglie che, pur di attestare pubblicamente e orgogliosamente la sua rettitudine, si toglierà la vita, lasciando lui, che l’aveva già magnanimamente compresa e assolta da ogni colpa, in brache di tela.  
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Della musica si può dire che – se non proprio un capolavoro – è comunque di altissimo pregio e profondità. A partire dal motto di sei pesanti accordi – di durata decrescente - di tutta l’orchestra, che aprono l’opera, sulla triade di DO minore, ma che sono resi atrocemente dissonanti dal REb che si aggiunge in viola, violini, arpa e oboe:


È proprio l’annuncio di una tragedia, e questo motto si ripete, diversamente armonizzato, per altre cinque volte nel corso dell’introduzione, ad intercalare i racconti dei cori, che ci informano della situazione politica di Roma, passata sotto il potere etrusco con Tarquinio il Superbo. Particolarmente cruda la quarta apparizione, caratterizzata dalla presenza di un tritono (DO-SOLb) sul racconto delle malefatte dell’etrusco ai danni della famiglia di Re Servio, di cui Tarquinio sposò due figlie, ammazzando la prima e facendo della seconda la sua complice nel regicidio, che portò all’instaurazione del suo governo del terrore. La quinta apparizione (sul LAb) introduce la chiosa filosofica del coro femminile: È un assioma tra i re usare una minaccia straniera per nascondere il male interno (allude alle guerre inventate da Tarquinio per consolidare il suo potere… nulla di nuovo sotto il sole!)

Altro tema ricorrente è quello esposto nell’introduzione del primo atto, in un Solenne DO maggiore (con venature di minore) da entrambi i cori che ci giustificano la loro presenza: Mentre noi staremo qui come due osservatori tra quella scena e il pubblico presente, guarderemo queste umane passioni e questi anni con occhi che un tempo hanno pianto con le lacrime di Cristo.


Queste stesse identiche parole le riascolteremo nell’introduzione del secondo atto, cantate sulle stesse note, semplicemente trasposte in LA maggiore. Note che ritorneranno proprio all’epilogo, e nuovamente in DO, allorquando i due cori si congederanno così: Da quando Tempo e Vita hanno avuto inizio, il grande amore è sempre stato profanato dal fato o dall’uomo. Ora, con parole stanche e con queste scarne note tentiamo di decorare di canto la tragedia umana.

Meticolosa la cura di Britten nell’evocare suoni di natura: l’arpa che simula i grilli, il contrabbasso a imitare i rospi, nell’afa serotina che opprime l’accampamento romano.

Peculiare il breve motivo con cui viene inizialmente dipinta Lucrezia. È Tarquinio ad esporlo, mostrando un interesse sospetto per la virtuosa moglie di Collatino, allorquando raccoglie l’invito di quest’ultimo a brindare per chiudere il battibecco sorto fra i tre generali riguardo la fedeltà delle donne (la sera precedente alcuni di loro avevano fatto una visita a Roma per sincerarsi del comportamento delle mogli, con risultati invero sconfortanti, Lucrezia esclusa):


La melodia ondeggiante (una specie di gruppetto dilatato) esprime efficacemente la nobiltà e la bellezza austera della figura della donna casta e fedele, ma anche il brivido di concupiscenza che ha invaso l’animo dell’etrusco! 

E qui nasce un motivo che ricorrerà precisamente altre tre volte nell’opera, il cui incipit è inconfondibile: FA-SOLb/RE-SI). Lo si ode ora nel canto del coro maschile, che sottolinea come la gelosia si stia impadronendo dell’anima di Giunio: Oh, my God, with what agility does jealousy jump into a small heart and fit till it fills it, then breaks that heart (Oh mio Dio, con quale agilità la gelosia si tuffa in un piccolo cuore e lo pervade e lo riempie fino a spezzarlo). Qui il motivo, contrappuntato dall’arpa che storpia il tema di Lucrezia, è seguito dall’imprecazione di Giunio sul nome e sul tema della donna. 

Analoga sequenza troviamo verso la fine dell’Interludio del primo atto (un brano davvero straordinario, che accompagna la corsa sfrenata di Tarquinio verso Roma) al momento in cui il principe etrusco, che sta galoppando a briglia sciolta, si trova la strada sbarrata dal Tevere e decide finalmente di guadarlo: Now stallion and rider wake the sleep of water disturbing its cool dream with hot flank and shoulder. Tarquinius knows no fear! He is across! He’s heading here! (Il principe arde di desiderio e quindi osa! Ora stallone e cavaliere destano le acque dormienti, disturbandone i freddi sogni con i fianchi e le spalle palpitanti. Tarquinio non conosce la paura! Ha attraversato il fiume! Si sta dirigendo qui!) È quello stesso motivo che si ripresenta, sovrapponendosi allo sciacquìo dei flutti attraverso i quali cavallo e cavaliere si slanciano, che invece è evocato dal tema di Lucrezia, che ribolle in tutta l’orchestra, prima che il coro maschile invochi drammaticamente il nome della donna:


Tanto agitata e a volte scomposta era la musica nel campo romano, quanto è serena e quasi eterea quella che si ode in casa di Lucrezia, come nell’introduzione della seconda scena, atto primo, affidata all’arpa:


E tale rimane per la prima parte della scena, eccezion fatta per una comprensibile agitazione che subentra allorquando Lucrezia crede di sentire un rumore alla porta… Mirabile il momento della piegatura delle lenzuola, con la voce del coro femminile che la descrive mentre Bianca e Lucia cantano dolci frasi musicali sull’unica sillaba Ah! Infine torna un’atmosfera agitata quando i cori annunciano l’approssimarsi di Tarquinio (il cui passaggio attraverso la città è accompagnato da mute di cani abbaianti e fa svegliare anzitempo i galli!)

L’arrivo di Tarquinio crea peraltro in casa di Lucrezia un disagio solo momentaneo, presto dissipato dall’atteggiamento (apparentemente) innocente del principe che riceve (e restituisce) la buonanotte dalle donne (su una cullante melodia) e poi ne porge una speciale a Lucrezia, sussurrandone il nome sul suo inconfondibile tema:


Anche l’introduzione al second’atto è una specie di lezione di storia, che ci ragguaglia su ragioni e circostanze antropologiche e politiche che portarono gli etruschi a conquistare Roma. Violoncello e clarinetto basso espongono subito un tema cupo, ripreso poi e sviluppato da tutti gli strumenti e seguito da un martellante motivo caratterizzato da una terzina seguita da un inciso giambico.

Il primo tema comparirà poco dopo – sulle parole Now the she-wolf sleeps at night (Ora la lupa dorme di notte) - in bocca a Collatino, Giunio e alle due donne di casa:


Il motivo martellante invece supporterà la parola d’ordine Down with the Etruscans! (Abbasso gli Etruschi!) con cui i romani auspicheranno la fine del potere etrusco su Roma e il ritorno del governo della città ai suoi legittimi abitanti, cosa che avverrà precisamente poco dopo i fatti qui narrati e proprio ad opera dei due generali romani protagonisti del dramma:


La scena dello stupro è introdotta da una cullante melodia (Allegretto comodo, 3/4) che sottolinea il sonno sereno di Lucrezia, descrittoci dal coro femminile, e poi da un brano più mosso e misterioso, dove il coro maschile segue i passi furtivi di Tarquinio che si avvicina alla camera da letto della sua preda, concludendo il suo racconto con un accorato quanto inascoltato Back, Tarquinius! (Indietro, Tarquinio!)

Il quale Tarquinio ora è ai piedi del letto di Lucrezia e lì rimane per un po’, colpito dalla sua innocente bellezza e canta, in un celestiale MI maggiore, tutta la sua stupefatta ammirazione per la donna:


Mirabile l’intervento del coro femminile, che invita Lucrezia a continuare a dormire, mentre l’etrusco si prepara a svegliarla con un bacio. Bacio che lei contraccambia, convinta com’è, nel sonno, di essere fra le braccia del suo Collatino…

Qui subentra, al risveglio della donna, la scena (Allegro agitato) che si concluderà con lo stupro. Essa raggiunge un climax sulle parole di Tarquinio che paragona la furia del proprio sangue ad una piena del Tevere, che ribolle nelle quartine di semicrome degli archi. Al che Lucrezia domanda, enfaticamente: Is this the Prince of Rome?  Al che Tarquinio risponde: Io … sono il tuo Principe!


Tarquinio afferra Lucrezia fra le sue braccia e i cori si intromettono, cercando disperatamente di dissuaderlo dal suo proposito, ma l’inevitabile sta ormai arrivando, quando l’etrusco strappa le lenzuola dal letto e minaccia Lucrezia con la spada. Qui abbiamo una mirabile sospensione dell’azione, realizzata nientemeno che con un coro a cappella, dove Tarquinio, Lucrezia e i due cori sembrano accettare, estasiati quanto impotenti, l’ineluttabile epilogo che sta ormai per compiersi: Guardate come il centauro rampante ascende al cielo e serve il sole con tutto il suo seme di stelle. Ora il grande fiume sotterraneo scorre attraverso Lucrezia e Tarquinio ne è sommerso. 

Il motivo che lo sostiene è la terza apparizione di quello udito già due volte nel primo atto (FA-FA#/RE-SI):


L’Interludio che segue è macroscopicamente suddiviso in due parti: dapprima l’agitatissima evocazione dello stupro (La virtù assalita dal peccato…)  e poi la pietosa (e già ricordata) invocazione dei cori alla misericordia cristiana.

Nella prima parte della seconda scena (il mattino su Roma) incontriamo eteree atmosfere musicali (che Britten aveva già introdotto nel Peter Grimes) che contrastano fortemente con quelle della scena precedente e dell’interludio: il lungo duetto fra Bianca e Lucia, rallegrato ulteriormente dall’arrivo dei fiori in gran quantità, rappresenta uno squarcio di serenità e quasi di beatitudine - portate dalla Natura – che presto lascerà il posto nuovamente allo sconforto e all’agitazione, al momento dell’arrivo di Lucrezia, uscita dalla sua camera.

La quale, dopo aver ordinato di spedire un messaggero a richiamare a casa il marito, esplode in un violento monologo, che culmina nella disperata esternazione incentrata sul proprio nome, cantato precisamente sul motivo esposto nel primo atto dal suo stupratore (qui un semitono più alto):


Ecco poi il lungo lamento della donna, che contempla con amarezza i fiori (solo loro sono casti…) prima di tornare nelle sue stanze.

Dopo l’intermezzo dedicato ai ricordi che Bianca esterna dei tempi della fanciullezza di Lucrezia si arriva alla scena finale del dramma, con il ritorno a casa di Collatino, accompagnato da Giunio, che aveva sospettato tutto fin dalla sera precedente. Efficacissimo il Poco adagio e dolente che sostiene l’amaro incontro dei due sposi, tutto pervaso dal suono mesto del corno inglese, una parte che non sfigura rispetto a quella del Tristan.

Ora abbiamo la confessione di Lucrezia (sì, confessione, perché lei si sente in qualche modo colpevole…) in un’atmosfera greve, illuminata dalla quarta ed ultima apparizione di quel motivo (FA-SOLb/RE-SI) già udito in precedenza, sulle parole Oh, my love, our love was too rare for life to tolerate or fate forbear from soiling. For me this shame, for you this sorrow (Oh, amore mio, il nostro amore era troppo prezioso perché la vita lo tollerasse o il fato gli impedisse di insozzarsi. A me questa vergogna, a te questo dolore).

Dopo il magnanimo perdono di Collatino (propenso a riconoscere alla moglie tutte le attenuanti) ecco il  momento drammatico del suicidio della donna, che pronuncia, dopo essersi piantata un pugnale in petto, le parole della sua liberazione: Ora sarò casta per sempre: solo la morte potrà stuprarmi. Guarda come il mio sangue lascivo lava via la mia vergogna!

L’orchestra ne sottolinea così gli ultimi rantoli:



Ora le voci di Collatino e Giunio cantano insieme, ma concetti diversi: il marito piange la sposa perduta, l’altro generale comincia subito ad approfittare delle circostanze, aizzando i romani contro gli stupratori etruschi.

Si aggiungono poi le voci delle due donne e infine quelle dei cori, a formare un sestetto che piange sulle pene e il dolore che gli uomini si danno per inseguire chimere.

Alla fine sono i cori che traggono la morale cristiana, prima del loro definitivo commiato dal pubblico.  
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Lo spettacolo di ieri sera - in un teatro con molti, davvero troppi posti vuoti – si merita un incondizionato elogio. Praticamente perfetto in tutte le sue componenti, a cominciare dall’allestimento di Abbado, dove l’austerità di scene e costumi si coniuga perfettamente con il sapiente impiego di luci (tutto di Gianni Carluccio) e con le immagini di Luca Scarzella.

I due cori interagiscono anche fisicamente con l’azione, e ciò è fatto sempre in modo appropriato e nel pieno rispetto del testo. I movimenti dei personaggi sono sempre misurati, proprio da tragedia greca, ed assecondano alla perfezione lo spirito, oltre che la lettera, della partitura.

Le otto voci sono tutte da lodare, a partire dalla Lucretia di Kirstin Chavez, vero contralto di grande potenza ed espressività; per continuare con Gordon Gietz che ha cantato assai efficacemente la parte del Coro maschile. Un filino debole, a tratti, la voce di Susannah Glanville (Coro femminile); bravissime le due donne di casa, in particolare Gabriella Sborgi (Bianca) mentre Laura Catrani (Lucia) ha forse ecceduto in qualche forzatura, sulle note alte. Anche i tre maschi mi son parsi all’altezza, in particolare il Tarquinius di Jacques Imbrailo; ma Joshua Bloom (Collatinus) e Philip Smith (Junius) non hanno affatto demeritato.

Gli strumentisti (in pratica le prime parti, guidate da Yehezkel Yerushalmi) del Maggio (erano 13 anziché 12, avendo separato, e posto ai due estremi della buca, la parte dei timpani dal resto delle percussioni) hanno confermato il loro altissimo livello, dovendo in pratica suonare tutte parti solistiche.      

Jonathan Webb (che ha anche accompagnato al pianoforte i recitativi) ha diretto da par suo e con grande sensibilità questa difficile partitura, di cui ha saputo rendere con precisione e cura ogni singolo dettaglio.

Alla fine grandi manifestazioni di consenso da parte del pur ristretto pubblico (pochi ma buoni, vien da dire…). Personalmente consiglio gli appassionati di approfittare della recita di domenica 7 a Reggio e di quelle prossime a Firenze per godersi uno spettacolo davvero eccellente.

05 aprile, 2013

Orchestraverdi – concerto n.29


Jader Bignamini torna sul podio a guidare laVerdi in un nuovo appuntamento con la Russia (al di qua della cortina...) più qualcosa di italiano moderno.

Una nota di carattere logistico: quando un programma prevede due pezzi per pianoforte e due per sola orchestra, anche un fanciullo arriverebbe a capire che convenga accorpare i due brani col solista. Se invece, come puntualmente accade qui, si pongono i due brani col pianoforte in posizione 2 e 3 (prima e dopo l’intervallo) si ottiene il mirabile risultato di costringere il pubblico a due intervalli supplementari, da trascorrere obbligatoriamente ancorati alla propria poltrona, contemplando i (per carità, efficientissimi) addetti che spostano e poi riallontanano l’ingombrante strumento a tastiera. Si poteva almeno risparmiare il primo trambusto preparando il pianoforte già in posizione, coperchio chiuso, per il breve brano d’apertura.

Si apre quindi con Alexander Borodin e le tanto famose, quanto ignota è l’opera, danze dal Principe Igor. Che tutti però ricordiamo come Straniero fra gli angeli.

Il brano (che nell’opera chiude il secondo atto) consiste, dopo una brevissima introduzione, nel succedersi di quattro danze, seguito dalla ripresentazione della 1, poi della 4, poi della 2 e infine da una Coda:


Nell’opera agli strumenti si aggiunge anche il coro, con un grandissimo effetto (qui un Gergiev letteralmente forsennato!): peccato che laVerdi (che dispone di un coro con i fiocchi) non abbia pensato di impiegarlo, proponendoci invece la versione puramente strumentale del brano (orchestrata da Rimski). Un po’ un’occasione perduta, anche se l’esecuzione dell’orchestra è stata davvero trascinante.   
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Segue la primizia contemporanea: una specie di Concerto per piano e orchestra di Nicola Campogrande, la voce (maschile) più… sexy di Radio3-Suite. Musica a programma, precisamente il ritratto di una donna (R è l’iniziale del nome) commissionato dal compagno (di nome A). Insomma, una specie di Sinfonia domestica in casa d’altri (smile!)

Sono 5 movimenti, i tre dispari assai mossi (personalmente ci ho visto Respighi, Stravinski e Varèse) a incastonarne due più lenti e quasi delle cadenze del solo pianoforte. Musica gradevole che non si direbbe composta oggi, il che tutto sommato torna a suo merito!

La protagonista di questa primizia è Lilya Zilberstein, una russa trapiantata in Germania che ha frequentazioni assidue con il nostro Paese. A giudicare dai complimenti che le ha rivolto alla fine l’Autore, salito sul palco a prendersi i dovuti applausi, dobbiamo pensare che l’esecuzione sia stata precisamente come Campogrande (e  la famiglia committente…) se l’aspettava.  
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Dopo l’intervallo torna la bravissima Lilya per proporci le 24 variazioni (oh, pardon! la rapsodia) di Rachmaninov sull’ultimo capriccio di Paganini. Qui una sua esecuzione a Torino con la RAI, ma già circa 14 anni fa la russa aveva eseguito il pezzo con laVerdi!

 
Domanda: in un pezzo di Rachmaninov potrebbe mai mancare una qualche citazione del Dies Irae? Ma certo che no, e infatti basta pazientare poco (fino alla variazione VII) per trovare il chiodo fisso del russo:


E non sarà di certo questa l’unica apparizione del famoso tema medievale, che torna nella variazione X, poi, camuffato, nella XIV, poi ancora nella XXII e finalmente nella XXIV.

Alla variazione XVIII arriva anche la parte languida e zuccherosa (è pur sempre… Rachmaninov!) ottenuta con l’espediente di invertire il tema principale, trasportandolo poi in REb maggiore:

Si apre qui l’ultima parte della Rapsodia, che poi chiude con una specie di sberleffo, come di uno spiritello che sparisce nel nulla con un paf! Ecco: una croma di LA appena sussurrato dal pianoforte, dal pizzicato degli archi, da timpano e campanelli e da tuba, corni e fagotti. 

Trascinante l’esecuzione della Zilberstein, che ci mette tutta la dovuta diabolicità, ben sorretta da Bignamini, il che le merita un autentico trionfo, non ricambiato (ma bisogna pure capirla!) da un bis
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Chiude la serata Stravinski, con il suo… poker col morto (smile!) il compositore russo trapiantato in occidente era diventato un accanito giocatore di poker, e così gli venne in mente il soggetto per un balletto dove a danzare sono… le carte. Si tratta di tre mani sempre aperte dallo stesso motivo, che rappresenta l’atto della distribuzione delle carte:


Le note di regìa del balletto sono assai dettagliate, con i danzatori che rappresentano le carte di cui via via scoprono il contenuto, togliendosi maschere e mantelli e dando luogo quindi alle diverse fasi della partita, con vincitori e vinti.

C’è anche un risvolto quasi sociologico nella trama del balletto, laddove il Joker, che si comporta praticamente da tiranno e fa vincere alla sua squadra le prime due mani alla grande, viene alla fine smerluzzato dal… popolo delle carte normali (una sontuosa scala reale di cuori!) 

Certo, con l’esecuzione puramente strumentale si fatica a percepire il contenuto letterario del brano (come si fa, in musica, a rappresentare le picche e i quadri?) e non resta che gustarlo come musica pura, costellata da impertinenti citazioni di Rossini, Ciajkovski e Beethoven… 

Bignamini, che dirige tutto (Campogrande escluso…) a memoria, trascina i ragazzi in un’esecuzione spiritosa e vibrante, meritandosi grandi ovazioni da un pubblico abbastanza folto. 
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Prossimamente un Mahler classico, preceduto da Lutoslavski.

03 aprile, 2013

Alla Scala un Macbeth originale, anzi… strampalato


Fin dall’annuncio della stagione scaligera dei due bi-centenari era noto che questa produzione di Macbeth avrebbe rappresentato una novità, in quanto per la prima volta dopo 150 anni (precisamente dal 5 marzo 1863) il Piermarini avrebbe ospitato la versione originale del primo dramma shakespeariano di Verdi, quella andata in scena alla Pergola di Firenze il 14 marzo 1847. Tutte le precedenti edizioni, a partire dal 29 gennaio 1874, avevano avuto come oggetto la versione parigina dell’opera, datata 1865 (21 aprile, Théatre Lirique).
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Si sa che Verdi colse l’occasione della presentazione francese dell’opera - che forse aveva amato più di ogni altra – per apportarvi, oltre a modifiche espressamente richieste dal teatro committente, anche suoi propri ritocchi, essendosi reso conto, a più di 15 anni di distanza, di alcune piccole o grandi manchevolezze insite nella partitura.  

Tuttavia, se si escludono numerose modifiche che all’atto pratico sono distinguibili solamente al musicofilo, o comunque all’addetto-ai-lavori, mentre sfuggono ad un ascolto normale in teatro, le differenze sostanziali fra le due versioni si possono riassumere in quanto segue:

Atto 1:
a. una diversa distribuzione di voci nei cori delle streghe;
b. una diversa soluzione del duetto di Macbeth con Lady (prima del sestetto finale) portato tutto a FA minore – compresa l’armatura di chiave - da FA minore-maggiore;

Atto 2:
la cabaletta di Lady Macbeth Trionfai! (tutta virtuosismo, in SIb maggiore, con ascese al DO acuto) viene sostituita (testo e musica) con la drammatica La luce langue (in MI minore-maggiore); conseguentemente anche la frase di Macbeth che la precede viene abbassata di un semitono e chiude su SI anziché sul DO.

Atto 3:
a. aggiunta dei ballabili alla scena iniziale, in omaggio alle consuetudini parigine, con conseguente eliminazione delle ultime battute del precedente coro delle streghe; inserimento di alcune battute di raccordo al successivo ingresso di Macbeth (Finché appelli…) e leggere modifiche al successivo recitativo e alla della scena delle apparizioni;
b. modifica radicale del finale: eliminazione dell’aria di Macbeth (Vada in fiamme) sostituita da un dialogo fra Macbeth medesimo e la sua Lady;

Atto 4:
a. il coro iniziale (Scozia oppressa) diviene Patria oppressa ed è completamente ri-musicato (a parità di testo) mutando completamente carattere, dal cipiglio risorgimentale (SOL minore – SIb maggiore – SOL maggiore) al metafisico pessimismo (LA minore – MI minore – LA minore, con chiusa in maggiore); conseguentemente è ritoccato (5 battute) il successivo incipit di Macduff;
b. la scena della battaglia fra Macbeth e Macduff è completamente ri-musicata (con l’impiego di una fuga);
c. l’aria di Macbeth morente (Mal per me) viene eliminata e sostituita da una enfatica scena di tripudio generale.     

Ora, in questa edizione scaligera è stata presa effettivamente come base la versione del 1847, ma con due sostanziali eccezioni, consistenti nel farci il retro-fitting di due brani di quella successiva:

a. l’aria di Lady Macbeth La luce langue;
b. il coro Patria oppressa.

Con le inevitabili aggiustature necessarie per incastrare i due brani del 1865 nella struttura dell’opera del 1847.

Mah insomma, la solita tecnica del meccano, applicata alle opere di cui esistono versioni o varianti diverse: prendere di volta in volta dalla scatola di montaggio i componenti che piacciono di più e ri-montarli per costruirci una versione nuova e… diventare famosi. Che poi siano compromessi né-carne-né-pesce, cui l’Autore per primo mai aveva pensato, poco importa. (Fra qualche settimana il Macbeth nella versione davvero originale - almeno si spera! - è in programma proprio alla Pergola.) 

Chi sia stato il responsabile di questa trovata non è dato sapere; gli indiziati sono parecchi: dal direttore Gergiev (fra parentesi: il suo vice D’Espinosa è stato protestato proprio alla vigilia…) al regista Corsetti (che ne accenna nel video pubblicato sul sito-web del teatro e sul programma di sala); al maestro del coro Casoni (magari per via del più moderno e conosciuto Patria oppressa); o alla protagonista femminile (Lucrecia Garcia, nel primo cast) magari impreparata di fronte ai funambolici gorgheggi del Trionfai!; e per finire al soprintendente Lissner, forse arrogatosi il diritto inappellabile di interpretare i gusti del suo amatissimo pubblico (!?)

Questione di-vita-o-di-morte? Per carità, abbiamo già abbastanza rogne di nostro (ci si doveva mettere anche il Presidente a trasformarsi in Re…) quindi va bene tutto, e del resto in confronto alle invenzioni della regìa qui siamo ancora in paradiso.
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Ecco, un allestimento (come spesso capita) a dir poco pretenzioso, dove il regista, a forza di spremersi le meningi per inventare qualcosa di strabiliante che lo faccia passare alla storia, le manda arrosto e si imballa come un motore fuori-giri, che alla fine… fonde in un mare di fumo, spargendo una puzza insopportabile.  

L’ambientazione è in nessun posto e ovunque, allo stesso tempo: scene improbabili, con due ali semoventi di colosseo di cartapesta; un sofà e un tavolino, con bottiglia di whisky (siamo in Scozia, perdinci!) e bicchieri; costumi del primo ‘900, con militari dell’epoca guglielmina che sfilano in parata per tutta la platea, a luci riaccese (come nelle migliori tradizioni, ormai); teste di cuoio e guardiani di guantanamo che trattano i prigionieri con guanti scarponi di velluto; clochard in coda per un piatto caldo della Caritas, e altre cose più o meno improvvisate, come la presenza di un telefonino dove la Lady legge il famoso sms di Macbeth (qui una sola piccola sbavatura: sui display in sala il messaggio avrebbe coerentemente dovuto comparire come allgr ldy xkè sno avnti cmnq in sndgg di strgh…)

La categoria dei danzatori e/o mimi e/o acrobati deve avere con la Scala uno speciale contratto co-co-dè, perché di costoro c’è ormai traccia in qualunque opera. Come delle proiezioni di immagini o foto, qui usate in specie per mostrarci gli otto re, incubo di Macbeth: fra loro riconoscibili alcuni cattivoni, tipo Hitler e Stalin (Berlusconi non-pervenu…)  

Insomma, l’ennesimo spettacolo da localuccio underground spacciato per opera d’arte degna del teatro più rinomato del pianeta…
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Sul fronte delle note, dopo la débacle della prima, come spesso accade le cose sono migliorate: un solo, timidissimo vergogna indirizzato al rientro di Valery Gergiev. Il quale – impugnando uno… spiedino - ha poche volte alzato lo sguardo dalla partitura (all’apparenza un volume nuovo di zecca, a giudicare dalle pagine che si giravano da sole, che il maestro sfogliava probabilmente per la… seconda volta, smile!) Insomma,  pareva essere impegnato a non perdere il passo con l’orchestra, più che a guidarla (!?) Comunque a me non è dispiaciuto del tutto, per quanto desse l’impressione di dirigere Ciajkovski… smile!

Per il resto solo applausi (sì non da stadio, ma applausi): un paio anche a scena aperta per Secco e Vassallo.

Ecco, Franco Vassallo è stato un Macbeth accettabile, oltretutto qui dovrebbe chiedere cachet doppio, per via delle due arie in più che canta, grazie alla versione 1847: peccato che al termine di quella del terzo atto si sia montato la testa, credendo forse di essere… Ernani e sparando ridicolmente un LA acuto degno di miglior causa.

Stefano Secco ha abbastanza convinto, in una parte non impervia, e si è meritato anche il singolo, dopo la paterna mano.

Lucrecia Garcia ha un vocione abbastanza potente in alto, arriva anche a sparare i DO acuti, ma nell’ottava bassa e al centro stenta assai: come attrice (e per la Lady effettivamente ci vorrebbe una Duse…) è un pochino, ehm, impacciata dal quintalotto che si deve tirare appresso.

Štefan Kocán era Banco (o Banquo che scriver si voglia) e si è meritato la brutta fine che ha fatto (smile!) così impara a cantar meglio. Però ha ben interpretato – come prescriveva Verdi – le sue due apparizioni da morto (che per nostra fortuna non deve cantare… stra-smile!)

Antonio Corianò ha fatto il suo dovere in Malcolm, e così le altre figure minori.

Il Coro di Casoni sui suoi standard.
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Alla fine applausi cumulativi (nessuna uscita singola, regista assente) ma abbastanza convinti. Fossimo al teatro di Pizzighettone ci sarebbe da fare complimenti a josa per lo spettacolo. Peccato che siamo alla Scala: amen.