affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

20 aprile, 2012

Orchestraverdi – concerto n°29


Brahms è al centro dell’appuntamento settimanale de laVerdi. Sul podio Aziz Shokhakimov, una specie di Battistoni uzbeko (smile! hanno la stessa età… ma pare che nessuno si chieda da chi sia raccomandato!)

Il quale Aziz (un nome che richiama alla mente personaggi peraltro assai poco raccomandabili…) apre il concerto con la Tragische Ouvertüre (anche qui: un nome, un programma!) Che principia con due poderosi accordi sulla scala di RE minore: dominante/tonica – sopratonica: solitamente si cita l’incipit del beethoveniano Coriolan come riferimento ambientale del brano; personalmente tendo a sentirci di più quello del Manfred del grande mentore, sponsor ed amico Schumann.

Di certo non esiste un preciso soggetto letterario dietro a questo lavoro che – nella più classica applicazione delle teorie Hanslick-iane sulla musica che deve rispondere esclusivamente a se stessa e solo in se stessa trovare ragion d’essere – ci presenta un Actus tragicus di carattere puramente speculativo. Questa piange, mentre quell’altra ride pare dicesse Brahms alludendo all’Akademische Fest-Ouvertüre, composta quasi contemporaneamente nell’estate del 1880: quella peraltro era nata dietro stimoli extramusicali e conteneva persino precisi riferimenti ambientali (Gaudeamus Igitur…)
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La Tragische ha una struttura riconducibile a quella di un movimento in forma-sonata, pur con parecchie libertà. Vi si possono comunque individuare le tre classiche sezioni (Esposizione – Sviluppo – Ricapitolazione) seguite da una Coda. Dopo i due pesanti accordi che la aprono, l’esposizione presenta i due canonici temi: il primo nella tonalità di base (RE minore) e il secondo nella relativa FA maggiore.

Il primo è a sua volta scomponibile in tre motivi: uno ascendente da dominante a dominante, con ricaduta su sopratonica; un secondo che scende da sopratonica a dominante, ricadendo ancora sulla sopratonica sottostante; il terzo che è un ritmo di marcia con increspature trocaiche:


Il tema viene subito ripetuto a piena orchestra e poi ulteriormente sviluppato da nuovi motivi in archi e fiati (derivati da quelli principali) e chiude su una pesante riproposizione degli accordi di apertura. Una transizione lunga e calma – sulle quinte vuote di fagotti  e corni – vede impegnati gli oboi in lente ma brevi scale ascendenti, poi tromboni e tuba che fanno il loro apparire, insieme all’ottavino: tutti richiamano l’intervallo di quarta degli accordi iniziali. L’atmosfera muta quindi al FA maggiore, per l’ingresso del secondo tema (nell’ipotesi Manfred, una fugace apparizione di Astarte?) dove non è difficile scorgere tracce della serena, pastorale seconda sinfonia:

La serenità peraltro non dura molto, e nel suo successivo evolversi il tema subisce diverse modulazioni, con presenza di figurazioni trocaiche e successioni di accordi, caratteristiche di molti sviluppi brahmsiani. Un ritorno del primo tema porta alla conclusione dell’esposizione, sui due pesanti accordi che l’avevano aperta.

Lo sviluppo inizia sommessamente, sul rullo del timpano, con le prime due sezioni del primo tema, negli archi. Dopodichè è la terza sezione (marziale) – in tonalità LA minore - che viene a costituire la parte più corposa dello sviluppo, occupandolo praticamente tutto. Suonata a tempo assai lento (la metà rispetto all’Allegro ma non troppo iniziale) prima dagli strumentini, poi dagli archi, poi da tutta l’orchestra, ha proprio l’aspetto di una marcia faticosa (qualcosa di simile a quella dei briganti nel terz’atto di Carmen!) Viene sottoposta a diverse modulazioni lungo il circolo delle quinte (LA-MI-SI-FA#) e, tramite una lunga scala discendente, sfocia in modo assai drastico nella ricapitolazione.  

Questa inizia con le quarte ascendenti e discendenti negli strumentini e nei violini, mentre gli archi bassi ricordano – dapprima in SI minore, su richiami dei corni - la prima sezione del tema principale. Si torna al RE minore d’impianto, sempre con spezzoni del primo tema negli archi e con i fagotti a creare un’atmosfera piuttosto pesante. Che miracolosamente muta in gloria, con un grandioso corale dei corni in RE maggiore, supportati da tromboni e tuba, che ricorda da vicino il finale della prima sinfonia:

Applicando i sacri canoni della forma-sonata, ecco che il secondo tema (nell’esposizione apparso in FA maggiore) ricompare adesso nelle viole, adeguandosi (volente o nolente, smile!) all’imperante RE. Il tema è ripreso dai fiati, poi si torna a RE minore, con gli scatti di ottave discendenti in archi e strumentini, contrappuntate da ottave ascendenti nei corni. Poi ancora il secondo tema, che compare in SOL minore, prima del passaggio alla coda.  

Qui ancora il primo tema viene esposto in sequenze ascendenti, a partire dal FA# minore, dagli archi bassi e fagotti, poi ecco gli accordi iniziali, quindi la sezione marziale del tema anche negli ottoni. Ancora il primo tema, fortissimo in RE minore, in tutti gli archi, poi ribadito, a velocità dimezzata, dai fiati. Ora l’atmosfera si fa rarefatta, e spezzoni del tema principale compaiono ancora negli archi bassi, supportati subito dai fiati. Una lunghissima scala discendente che scende dai flauti giù giù fino ai fagotti sembra far svanire il tutto nel nulla.

Ma d’improvviso, ecco gli archi (a partire dai medio-bassi) scatenare scale ascendenti su cui i fiati innestano il motivo marziale del primo tema. Che dopo 5 reiterazioni – a distanze accorciantesi – porta ai cinque pesantissimi accordi – l’ultimo tenuto, su corona puntata – dell’intera orchestra.
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Qualche piccola indecisione dei corni all’inizio non ha danneggiato più di tanto l’esecuzione, che il capelluto Aziz ha diretto con veemenza. Lui, come molti giovani, è assai esuberante, ha un gesto apparentemente sporco, a volte si agita gratuitamente, insomma: cerca di attirare l’attenzione su di sé… come sta facendo, a quanto pare, da quando aveva 6 anni!
  
La parte centrale della serata è però tutta di Silvia Colasanti (di cui già nel novembre 2009 laVerdi aveva ospitato il Canto d’Atropo per violino ed orchestra): si tratta di una giovane compositrice di cui siamo i primi in assoluto ad ascoltare – roba da raccontare ai nipotini! – il Concerto per violoncello. Il quale ha ben due sponsor: l’Orchestra Verdi, che lo ha commissionato, e il solista lituano David Geringas, classe 1946, che ne è stato l’ispiratore.

Cosa racconteremo ai nipotini? Per metterli a loro agio potremo pontificare che …il linguaggio possiede un’innegabile inclinazione eidetica… con un carattere ipotipico… e plasticità iconiche… di iconicità sonora… che aggiunge un nuovo lessema… che rammemora gli elementi figurali… con un moderato ductus agogico (strasmile!… e grazie a Guido Barbieri, mannaggia  a lui, e a ciò che ha scritto sul programma di sala!)  

A parte le battute, un pezzo assolutamente digeribile, segno che i vari Stockhausen e Cage non hanno poi fatto danni irrimediabili alla nostra civiltà musicale (!)

Infine il pezzo forte della Prima di Brahms, già ascoltata qui dalla bacchetta di Zhang Xian poco più di un anno fa. L’orso uzbeko, che la dirige a memoria, deve per forza metterci del suo valore aggiunto (sennò che ci sta a fare su quel podio?) così si  inventa subito un insopportabile rallentando (da battuta 9) che avrà fatto rivoltare l’Autore nella tomba. Poi, sempre per distinguersi dall’anonima folla dei direttori, fa venire quasi sempre in primo piano anche ciò che dovrebbe stare in background, a fare da riempitivo. Nel Finale, l’Allegro non troppo, ma con brio assomiglia vagamente alla marcetta dei sette nani, tutti impettiti e rigidi come baccalà (smile!)

Insomma, come parodia non c’è male. Ma i professori mostrano di essere formidabili anche nel suonare le parodie! Così si meritano grandi ovazioni i vari Amatulli, Ciapponi, Mologni, Stocco, Magnani, Santaniello e Grigolato. Quanto al simpatico Aziz, temo che Brahms lo stia rincorrendo per chiedergli i danni (e ri-smile!)

Prossimamente protagonisti l’arpa, serenate e commiati.

18 aprile, 2012

Un po' di Bach al giorno leva il medico di torno...


Ieri sera Jordi Savall è stato ospite, con il suo il suo ensemble di 6 strumentisti del complesso Les Concerts des Nations, del Teatro Valli di Reggio Emilia per una straordinaria esecuzione della bachiana Musikalisches Opfer.

Composta a Lipsia nel 1747 e dedicata al Re di Prussia Federico II il Grande, musicista lui stesso, che aveva proposto a Bach, durante una visita di questi a Potsdam, un tema da sviluppare in una fuga. Cosa che Bach fece in buona parte lì, sul posto e seduta stante, e che completò nel giro di qualche settimana a casa propria. Inviandone poi al sovrano una copia fatta appositamente stampare, e recante questa (apparentemente esagerata) esternazione:


O Sovrano il più benigno, è con la più profonda sottomissione che dedico alla Vostra Maestà un’Offerta Musicale, la cui parte più nobile è opera della Vostra stessa illustre mano…  

Oltre all’invenzione musicale, Bach mostra di possedere anche quella… letteraria, inventandosi per la speciale occasione un acronimo di Ricercare (l’antica forma di canto fugato che è impiegata due volte nella Opfer: Regis Iussu Cantio Et Reliqua Canonica Arte Resoluta (Tema ordinato dal Re e sue variazioni sviluppate secondo l’arte del canone).

La strabiliante abilità di Bach nell’arte del contrappunto e della fuga (Die Kunst der Fuge seguirà di poco la Opfer e sarà il suo estremo lascito) emerge ad ogni piè sospinto. Insieme alla stupefacente padronanza dei procedimenti codificati due secoli prima dai fiamminghi, di cui abbiamo un semplicissimo ma pregevole esempio nel primo dei Canones diversi super thema regium:


Il tema – parte alta della figura - è scritto su un solo rigo, ma definisce sia la voce principale che quella in imitazione, come ci dicono i simboli di chiave, accidenti e tempo posti alla fine del brano in immagine speculare. Ciò significa che la voce in imitazione deve procedere a gambero, dalla fine all’inizio, in contrappunto con quella principale. Il tutto, trasportato su due righi, appare come mostra la parte inferiore della figura. Dove si ha la precisa immagine delle due linee melodiche che si incontrano a metà del cammino, e da lì prendono strade opposte! Che la sovrapposizione delle due voci dia luogo ad un risultato musicalmente non solo plausibile, ma mirabile, è cosa che lascia di sasso! (Qui una strepitosa spiegazione visiva!) E gli altri canoni sono di complicazione (criticità di decifrazione) e di risultato estetico ulteriormente elevati a potenza! Il quinto dei Canones diversi (Per tonoschiude l’esposizione del tema su un tono intero al di sopra di quello di partenza e quindi potrebbe essere ripetuto all’infinito continuando a percorrere le ottave per toni interi. Normalmente si esegue un giro completo, quindi si ripete il tema per 6 volte (DO, RE, MI, FA#, LAb, SIb) chiudendo quando si arriva sul DO un’ottava sopra.
  
La sequenza dei brani è oggetto di dispute, poiché non ci è arrivato un corpus unico originale dell’opera, ma componenti separate. Per la verità un’edizione completa fu presentata già nel 1747 dallo stampatore Johann Georg Schübler, che raggruppava i brani in tre capitoli (uno con i ricercari, gli altri due con i canoni). Tuttavia si è storicamente accettata quella proposta da Alfred Dörffel (Bach Gesellschaft Ausgabe, 1885) che è stata usata, per dire, per le ormai storiche incisioni di Richter, Harnoncourt e Leonhardt. La stessa sequenza è proposta da Hans Gal per l’edizione Bosey, che in più aggiunge una numerazione generale dei brani, o gruppi di brani, da 1 a 9. Tale sequenza è stata giustificata di recente (1980) dagli studi di Ursula Kirkendale, che sostiene sia stata decisa da Bach seguendo nientemeno che i principi della Institutio Oratoria di Quintiliano (che Bach effettivamente conosceva).
  
Savall struttura invece la sua Offerta in modo assai personale (e molti lo criticano per questo, ma già 40 anni prima di lui Karl Münchinger si era preso analoghe libertà) rispetto alle tradizionali versioni pubblicate ed eseguite. Lo specchietto che segue riassume le principali differenze fra l’edizione di Dörffel e la struttura di due esecuzioni di Savall, quella registrata da tempo su CD, ed ascoltabile sul tubo e quella eseguita ieri. La colonna di sinistra riporta i brani nella sequenza di Dörffel, cui ho aggiunto la numerazione di Gal, usata poi come riferimento nelle due colonne di Savall:



La presentazione del tema regio (che viene anteposta da Savall al Ricercare a 3, suonato come di consueto dal clavicembalo, e che inizia già di suo con l’esposizione del tema) è affidata al Flauto traverso, chiaro omaggio allo strumento prediletto dal regale dedicatario, che aveva come maestro il massimo flautista del tempo, tale Johann Joachim Quantz.

Il Ricercare a 6 viene ripetuto ed è collocato in modo da chiudere due immaginarie parti della Opfer, mentre il lunghissimo Trio viene anticipato e posto praticamente al centro dell’opera. Nella presentazione dei Canoni, talvolta Savall fa eseguire inizialmente il tema da un singolo strumento, e poi via via introduce le altre voci (per poi magari farle progressivamente tacere) animandone con ciò ulteriormente l’atmosfera.

Altre peculiarità di questa esecuzione sono le ripetizioni dei da-capo nei canoni: per tradizione si tende ad eseguire due volte la sezione intera e una terza volta la parte della sezione fino alla pausa (corona puntata, o altro punto di cadenza conveniente). Savall invece esegue assai più ripetizioni, a volte fino a cinque. Inoltre, nel canone Per tonos lui esegue il tema per sette volte (ripetendolo anche sul DO superiore e… ritoccando la chiusa, per restare sul DO).

Il tutto, aggiungendosi alla doppia presentazione del Ricercare a 6, alle due versioni del quarto dei Canones diversi e del Quaerendo invenietis, porta il tempo di esecuzione abbondantemente oltre l’ora, rispetto ai circa 45-50’ delle interpretazioni che si attengono alla struttura tradizionale.  

L’ensemble – oltre allo stesso Savall che suona due diverse viole da gamba, grande e piccola – comprende altri sei strumentisti di: clavicembalo (Pierre Hantaï), flauto traverso (Marc Hantaï), due violini (Riccardo Minasi e Mauro Lopes Ferreira), violoncello (Balázs Máté) e violone (Xavier Puertas).  

Una parentesi sull’altezza dei suoni. Le esecuzioni come questa sono fatte con strumenti d’epoca, o comunque accordati sul diapason (Kammerton) dei tempi di Bach, che era attorno ai 415Hz, circa un semitono più basso dell’attuale (440Hz). Ciò fa sì che il DO (nella cui tonalità è espresso il Thema regium) suonato da quegli strumenti equivalga ad un SI emesso da strumenti moderni. Se si ascoltano tutte le registrazioni fatte con strumenti d’epoca (o surrogati), come quelle citate di Harnoncourt e Leonhardt, ma anche quella dello stesso Savall (così come l’esecuzione di ieri) si può notare quel fenomeno. Invece il citato Münchinger, impiegando un’orchestra da camera moderna, suona l’Opfer con l’altezza del DO di oggi (che Bach prenderebbe per un DO#!) 

A parte la disposizione dei brani, su cui si può eccepire, l’esecuzione è stata davvero eccelsa, in un teatro quasi esaurito dove non si sentiva volare una mosca (salvo qualche isolata… espettorazione da primavera bagnata). Peccato che i bis abbiano un po’… guastato l’atmosfera: ancora ancora il Bach della seconda suite (minuetto e badinerie) ma il resto era proprio alieno al clima della serata!

C’è chi sostiene – e con solidi argomenti, derivati dalla minuziosa analisi della partitura, confrontata con altre della sterminata produzione bachiana – che l’Opfer, dietro l’apparenza laica (la dedica al Re Federico, che oltretutto non era certo uno scrupoloso osservante) celi in realtà contenuti altamente e profondamente religiosi (affini del resto alla personalità dell’Autore): l’Offerta sarebbe l’Offertorio liturgico, il Re sarebbe quello dei Cieli, nel Ricercare a 6 si ritroverebbe un riferimento criptato ai 10 Comandamenti, e altri simili indizi.

Mah, che la matrice sia laica o religiosa, una cosa è certa, almeno per me: ascoltare questa musica (soprattutto se suonata come si deve) ti porta in paradiso, qualunque cosa si voglia intendere con quel termine! 

13 aprile, 2012

Orchestraverdi – concerto n°28


In programma un concerto monografico dedicato a Musorgski. Sul podio il giovane Jader Bignamini, che nell’organico orchestrale copre la posizione di clarinetto piccolo (quello in MIb, per intenderci, molto impiegato nelle bande e meno nel sinfonico, Mahler a parte, smile!) ma che si è da anni avviato anche sulla strada della direzione, al punto da essere promosso a Direttore Assistente de laVerdi.

Il cuore del programma è rappresentato dai Quadri di un’esposizione. Molto interessante l’accostamento delle due versioni, quella originale per pianoforte e quella – francamente più famosa ed eseguita, fra le mille – per orchestra, dovuta a Maurice Ravel.

Sappiamo che l’ispirazione per la suite venne a Musorgski dalla contemplazione di quadri del suo amico Viktor Hartmann, prematuramente scomparso. Ecco come l’ultimo dei quadri, La grande porta di Kiev, è stato dipinto e musicato dai due artisti:

I poderosi accordi del pianoforte (per la chiusura dell’opera) evocano con efficacia anche grafica l’elefantesca figura della porta immaginata da Hartmann.

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La suite consta di 15 numeri: 10 che richiamano altrettanti quadri (di cui l’ottavo suddiviso in due) più l’introduzione e 4 intermezzi (da essa mutuati) che rappresentano gli spostamenti dell’osservatore (il musicista medesimo) da un quadro all’altro della mostra.

Promenade (Allegro giusto, nel modo russico, senza allegrezza, ma poco sostenuto. 5/4 e 6/4 è 6/4).
È il motivo principale delle passeggiate, filo conduttore e autentico motto dell'intero brano. In questa prima apparizione è in SIb e fa uso della scala pentatonica più comune (quella priva di sottodominante e sensibile, per intendersi senza il FA e il SI in chiave di DO). È quindi un motivo dal sapore vagamente esotico e orientaleggiante (ad esempio Mahler impiegherà quella scala nel suo Das Lied von der Erde, ambientato, per così dire, in Cina; e Puccini se ne servirà per le orientali Butterfly e Turandot). Chissà se la disparità del ritmo (motivi principali di 11 tempi, su due battute di 5 e 6 quarti) indica la camminata inizialmente un poco incerta di un visitatore attirato da quadri in diverse direzioni, prima di aver stabilito verso quale dipinto muoversi decisamente, al che il ritmo si stabilizza sui 6/4. (attacca)
  
1. Gnomus (Sempre vivo – Meno vivo – Sempre vivo. 3/4) (Poco meno mosso, pesante. 4/4) (Vivo. 3/4) (Poco meno mosso, pesante. 4/4) (Vivo. 3/4) (Meno mosso. 4/4) (Vivo. 3/4) (Meno mosso. 4/4) (Poco a poco accelerando – Sempre vivo. 3/4).
Il primo quadro rappresenta un elfo malmesso e magari poco raccomandabile che si aggira in un bosco. La tonalità è MIb minore. I frequenti cambiamenti di tempo danno l’idea dei suoi movimenti imprevedibili, dai lenti passi felpati agli improvvisi scatti felini. La prima sezione (18 battute) è una specie di presentazione del tizio, una cosa fra lo schizofrenico e il menomato fisico. Poi seguono 10 battute col da-capo, dove si può immaginare l’individuo che fa sei passi in discesa su un dirupo scosceso. Quindi ancora nove battute agitate, seguite da una lunga sezione più lenta, dove lo gnomo si muove con circospezione, ma con improvvisi scatti isterici. Chiude il quadro ancora una serie di scarti bruschi, fino a che lo gnomo scompare alla vista con una velocissima fuga.    

(Promenade) (Moderato commodo assai e con delicatezza. 5/4 – 6/4)
È assai breve e variata rispetto all’introduzione. Siamo in tonalità di LAb e in uno scenario rasserenato, in vista del quadro successivo. (attacca)   

2. Il vecchio castello (Andantino molto cantabile e con dolore. 6/8) 
La tonalità passa per enarmonia dal LAb al SOL# (minore). La scena ci mostra un menestrello che, su un tempo di siciliana, canta la sua lunga e struggente melodia davanti alle mura di un castello medievale. Dopo 7 battute introduttive, che presentano una specie di ritornello che scende progressivamente da dominante a tonica, il tema principale, che inizia con una quarta ascendente, da dominante a tonica, viene presentato due volte; poi un’idea secondaria appare pure due volte, prima che il tema principale venga riproposto ancora due volte, variato e sviluppato. Il quadro si chiude con una quinta ripresa del tema, nella forma iniziale, seguita da una cadenza che porta alla conclusione, ancora sulla quarta ascendente dell’incipit del tema.

(Promenade) (Moderato non tanto, pesamente. 5/4 – 6/4)
Adesso si passa alla tonalità relativa SI maggiore e il visitatore della mostra parrebbe risolutamente avviarsi verso un nuovo quadro. Il suo cammino si interrompe però bruscamente (la seconda sezione del tema viene troncata di netto) come se lui fosse stato attirato in direzione diversa da un quadro interessante. (attacca)
  
3. Tuileries (Disputa di bimbi al gioco) (Allegretto non troppo, capriccioso. 4/4)
Siamo rimasti in SI maggiore per ammirare questo terzo quadro. Alcuni bambini giocano e sgambettano nel parco parigino delle Tuileries. Il motivo principale inizia con intervalli di dominante-mediante (semiminima-croma) seguiti da rapide quartine di semicrome. Un intermezzo sembra mostrarci le tate dei piccoli che se la raccontano tranquillamente. Ora si passa evidentemente ad ammirare un quadro vicino, senza dover fare alcuna… promenade, ed anche la tonalità si sposta di pochissimo, tornando alla relativa SOL# minore.

4. Bydło (Sempre moderato, pesante. 2/4)
Il bydło è un grosso carretto agricolo polacco, dotato di grandi ruote. Trainato da buoi su un sentiero fangoso, si avvicina lentamente, ci passa dinanzi e poi se ne va. La musica mirabilmente ne rappresenta il lento avvicinarsi, poi aumenta d’intensità al passaggio del carro – con diverse modulazioni che sfociano in SI minore - quindi sfuma, tornando a SOL# e perdendosi insieme alla vista dello stesso.

(Promenade) (Tranquillo. 5/4 – 6/4)
Siamo passati ora a RE minore: il trasferimento qui è piuttosto lento, il visitatore, chissà, accusa forse un po’ di stanchezza. Poi un sussulto, qualcosa ha attirato la sua attenzione: quattro veloci accordi in semicroma, alternati su mano destra e sinistra, che anticipano il tema del prossimo quadro! (attacca)  

5. Balletto dei pulcini nei loro gusci (Scherzino: Vivo, leggiero. Trio, Scherzino, Coda  2/4)
Hartmann predispose dei disegni di costumi per un balletto (Trilby, di Yuli Gerber). Nel quadro sono appunto rappresentati due ballerini vestiti con gusci d’uovo, più la maschera da pulcino che indossano. Il brano è in FA maggiore, strutturato come un mini-scherzo. Lo scherzo (inizialmente da ripetersi) si muove esclusivamente su veloci crome, e ci pare proprio di vedere dei pulcini che corrono freneticamente qua e là. Poi c’è un trio, composto da due sezioni con da-capo di 8 battute ciascuna, caratterizzate rispettivamente da trilli e da pigolìi (!) Si ripete lo scherzo e poi si chiude con una coda di 4 battute. (attacca)  

6. Due ebrei, uno ricco e l’altro povero (Andante. Grave-energico – AndantinoAndante, Grave. 4/4)
Anche qui la modulazione è assai morbida, verso la sottodominante (SIb minore). Il quadro è interpretato da Musorgski con due motivi: il primo, legato all’ebreo ricco (Samuel Goldenberg), è tronfio e retorico, pieno di sé, già fin dall’attacco (semibiscroma-croma, tonica-dominante!); il secondo, legato al povero Schmuÿle, è invece tutto un querulo lamento (ciascun tempo della battuta è costituito da una terzina di semicrome, preceduta da acciaccatura e seguita da un’appoggiatura alla successiva croma!) che scende prima dalla tonica e poi dalla sesta fino alla sottostante mediante, passando anche da veloci svolazzi di biscrome. Poi, mentre Schmuÿle reitera, amplificandola, la sua petulante lagna, ecco arrivare il contrappunto del motivo di Goldenberg, che pare proprio volerlo zittire! Dopo un attimo di sospensione (con dolore recita lo spartito!) dove forse è il poveraccio che si lecca le ferite, ecco arrivare la perentoria chiusa, nel nome del riccone.  

Promenade (Allegro giusto, nel modo russico, poco sostenuto. 5/4 – 6/4 – 7/4)
Altra modestissima modulazione (a SIb maggiore) e ritorno dell’introduzione della suite, che viene praticamente qui ripetuta, quasi a voler dividere in due la visita alla mostra (come se ci si dovesse spostare in una sala piuttosto lontana). Le differenze rispetto alla prima esposizione risiedono soprattutto in una maggior corposità dell’accompagnamento (mano sinistra) e in una maggior movimentazione del tempo, che varia continuamente fra 5, 6 e 7 quarti a battuta. Non da poco è l’assenza, nell’indicazione agogica, del termine senza allegrezza, che caratterizzava l’introduzione, quasi che il visitatore (Musorgski) abbia superato il momento di sconforto provato all’ingresso della mostra del suo grande amico così improvvisamente scomparso. Questo brano venne omesso da Ravel nella sua orchestrazione dell'opera. (attacca)
 
7. Limoges. Il mercato (La grande notizia) (Allegretto vivo, sempre scherzando. Meno mosso, sempre capriccioso. 4/4 – 3/4 – 4/4)
Nuova modulazione morbida, col passaggio dal SIb alla sottodominante MIb, per evocare – con spiritose quartine di semicrome, i chiacchiericci di massaie e ortolane al mercato di Limoges, conditi da battibecchi per futilissimi motivi (le vicende della vacca di Monsieur Pimpant de Panta Pantaléon, piuttosto che quelle di Madame de Remboursac  e della sua nuova dentiera in porcellana!) Il brano è una specie di moto perpetuo, che si conclude con una folle rincorsa che finisce direttamente… sotto terra! (attacca)
 
8. Catacombae (Sepulcrum romanum) (Largo. 3/4)
In questo quadro è raffigurato lo stesso Hartmann che, in compagnia dell’architetto Vasily Alexandrovich Kenel e di una guida che regge una lanterna, si aggira nelle catacombe di Parigi. Sono 30 battute in cui si odono accordi pesanti ed arcani, di tonalità quasi indefinita e cangiante (nessun accidente in chiave) che ben evocano la misteriosa atmosfera del luogo. (attacca)
  
8b. Cum mortuis in lingua mortua (Andante non troppo, con lamento. 6/4)
È la seconda parte del numero precedente, tutta articolata su un tremolo di ottave, a partire dal FA#, forse la nota che più compare nel brano, dapprima come dominante di SI minore e poi – nella chiusa – come mediante di RE maggiore. Vi sentiamo cupi echi della promenade (in fondo qui si passeggia in luoghi bui e poco confortevoli!) L'autografo del compositore spiega: Lo spirito creatore del defunto Hartmann mi conduce verso i teschi e mi chiama verso di loro; questi si illuminano dolcemente all'interno. Ohibò!

9. La capanna sulle zampe di gallina (Baba Jaga) (Allegro con brio, feroce 2/4 - Andante mosso.  4/4 2/4 – Allegro molto. 2/4)
La prima nota del quadro è ancora il FA# che aveva chiuso quello precedente, ma tosto cala al FA naturale e da qui ci si trova in tonalità di DO maggiore. Il quadro raffigura il progetto di un grande orologio (sembra un cucù) poggiante su zampe di gallina e rassomigliante alla strega Baba Jaga. Il brano è in forma A-B-A, con la prima sezione molto vivace, dove ci sembra di vedere lo zampettamento di questo autentico mostro, che per ora non fa paura. Ma nella sezione centrale, nella mano sinistra compare – ohibò! – lo sbifido tritono (LA#-MI) che ci mette in agitazione, come agitate sono le sestine (SOL-MI) nella mano destra! Si torna poi al tema principale, con la strega che pare diventata per la verità un’allegra befana e se ne scappa con una vertiginosa salita fino al SOL acuto. (attacca)  

10. La grande porta (Nella capitale di Kiev) (Allegro alla breve. Maestoso. Con grandezza. 4/4 tagliato. Meno mosso, sempre maestoso. 2/2. Grave, sempre allargando. 4/4)
Il SOL che saluta la strega diventa la mediante del MIb con cui Musorgski ridipinge per noi il quadro. Va detto che Hartmann era anche architetto ed aveva predisposto un progetto per una nuova, grande porta di Kiev, che doveva essere costruita per celebrare lo Zar Alessandro II, scampato ad un attentato in quella città nel 1866. Quella porta in realtà non fu mai costruita, ma una assai più duratura e inossidabile fu messa in partitura dall’amico fraterno di Hartmann! Dopo l’esposizione maestosa del tema, Musorgski lascia spazio a due intermezzi di mestizia – il ricordo dell’amico perduto? – e una reminiscenza della promenade (forse è lui che si sposta avanti e indietro dal quadro per apprezzarne tutte le bellezze) prima di dare sfogo alla finale perorazione (in terzine di semiminime sul tempo 2/2) e alla solenne cadenza conclusiva.
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Ma un altro interesse artistico fu sollevato dai Quadri (quelli di Musorgski, orchestrati da Ravel) in Vassily Kandinsky, che nel 1928 ideò e mise in scena in Germania uno spettacolo con disegni, filmati e giochi di luce (più un paio di danzatori) che ebbe un enorme successo. Ebbene, impiegando i pochi disegni sopravvissuti di quell’allestimento, il pianista russo-francese Mikhail Rudy ne ha predisposto un’esecuzione animata, che ha debuttato nel 2010 a Parigi e che in questo periodo viene riproposta in Italia: dopo la recente esibizione a Foligno, ecco Rudy presentarcela in Auditorium. Davvero accattivante questa soluzione, che consente di apprezzare la musica di Musorgski senza eccessive distrazioni, ma anzi con appropriata focalizzazione sui diversi quadri. Ecco come Rudy interpreta la visione kandinskyana de La grande porta di Kiev.

Calorosa l’accoglienza del pubblico (non proprio da record) che spinge Rudy a ripetere, quali bis, Tuilieries e Pulcini (con diversa colorazione delle immagini proiettate).

Dopo l’intervallo, entra l’orchestra e, come intermezzo fra i due Quadri, propone Una notte sul Monte Calvo. Qui viene eseguita la versione – famosissima e bellissima, va detto subito – di Rimski. Non quella originale (in realtà essa stessa un terzo o quarto tentativo) di Musorgski (qui diretta da Abbado) assai più dura, rozza, primitiva, ma indubbiamente più originale e… moderna (l’ascoltammo al MI-TO tempo fa da Salonen). (Proposta per laVerdi: perché non eseguire nello stesso concerto le due versioni?) 

Bignamini conferma la sua grande sicurezza, guidando i colleghi da par suo in un’interpretazione scoppiettante e tesissima, accolta da grandi applausi.

Poi torna sul podio (sempre senza leggìo, segno che si è davvero preparato a dovere) per proporre i Quadri raveliani: ecco, se c’è un brano musicale che ha sollevato tanto interesse in arrangiatori, è proprio questo: basti pensare che sono non meno di 26 le diverse versioni per orchestra sinfonica e 40 quelle per altri complessi, messe a punto da altrettanti compositori (neanche la Settimana Enigmistica vanta tanti tentativi di imitazione, smile!

Ravel si mantiene fedele all’originale (tempi, tonalità, agogica) con pochissime deroghe: la principale è l’espunzione dell’ultima Promenade (prima di Limoges); poi i brani si chiudono su corone puntate di pausa, mentre prevalentemente la versione originale li concatena con l’indicazione attacca (è il visitatore che si muove senza pausa da un quadro al successivo); per il resto, un microscopico quanto insignificante taglio delle prime due battute della coda del N°5 e una diversa notazione della chiusa dell’opera, che porta le battute da 13 a 21, ma sostanzialmente rispetta in pieno la scrittura di Musorgski.

Qui sono gli ottoni (tromba in particolare) a farla da padroni, fin dalle prime battute del peripatetico motto:

L’orchestrazione di Ravel è lussureggiante, apporta un grande valore aggiunto alla partitura pianistica, anche se magari la priva della sua caratteristica essenzialità e di quella splendida rozzezza, così caratteristica di Musorgski.

Splendida prova di Bignamini (un giovane che sta crescendo senza clamori, pubblicità e sponsor in paradiso) e dell’orchestra (con Alessandro Caruana sugli scudi) e trionfo assicurato.

La prossima settimana (quasi) tutto Brahms, con intermezzo ultra-moderno. 

11 aprile, 2012

Due cosette per Alberto Mattioli, op-eroinomane


In un forum del prestigioso OperaClick, che ospita una discussione sul suo libro, Alberto Mattioli è intervenuto per rispondere o commentare alcuni interventi colà comparsi.

Una delle risposte, indirizzata a notung (uno dei moderatori del forum) fa un chiaro riferimento al mio post dello scorso 8 aprile, in cui mi sono permesso di esprimere alcune – circostanziate, anche se ovviamente personali e quindi opinabili – critiche ad affermazioni contenute nel suo libretto. Questo è quanto Mattioli scrive al proposito:


Prima considerazione: l'aggettivo anonima con cui Mattioli etichetta la mia recensione è il classico strumento usato per screditarne il contenuto, evitando quindi di rispondere nel merito (della serie: anonimo = non credibile). Non c'è bisogno di ricordare che, come titolare di blog, ho un profilo ed un indirizzo e-mail colà pubblicati e quindi sono contattabile e "incontrabile" senza problemi. Ma anche fossi davvero e totalmente anonimo, ciò che ho scritto non perderebbe un solo grammo del suo valore.

Seconda considerazione: lui conferma di non aver capito Neuenfels e sembra fare dell'ironia su chi – come me, anonimo e quindi non credibile – lo critica per questo. A Mattioli quindi mi permetto di segnalare non già un mio post sull'argomento (che sarebbe di un anonimo e quindi non credibile) ma una recensione comparsa sull'autorevole The Wagner Journal. Non è molto lunga e con poco sforzo Mattioli potrà sicuramente scoprire ciò che non ha decifrato a Bayreuth.

08 aprile, 2012

Alberto Mattioli, diario di un op-eroinomane


In questi giorni nell'ambiente dei melomani si fa un gran parlare del libro di Alberto Mattioli Anche stasera – Come l'opera ti cambia la vita. Sono meno di 200 pagine che l'Autore definisce come la cronaca di una passione.

E infatti nel suo libro il 43enne Mattioli ci presenta una specie di catalogo dongiovannesco (invero invidiabile!) di tutte le sue imprese (le recite cui ha assistito, che sono al momento di andata in stampa del libro 1100, quindi già più delle 1003 spagnole del Don, ma circa la metà delle 2065 totali… auguri): una lista ovviamente lunga (e talvolta parecchio noiosa, mi permetto di dire) di titoli, luoghi e interpreti; arricchita poi da resoconti di tour-de-force francamente velleitari e poco raccomandabili (la vacanza intelligente?) quali 13 opere in 13 giorni, o 2 opere in un pomeriggio-sera a distanza di centinaia di Km, oppure ancora frenetiche spole fra Bayreuth, Monaco e Salzburg, con annesse indigestioni di Wagner, Strauss e Mozart. Ecco, se Mattioli ci voleva dare l'idea della sua dipendenza dal teatro musicale, come da una droga, il suo scopo l'ha raggiunto. Resta da vedere se – come lui si ripromette programmaticamente – tutto ciò lo aiuti a fare proseliti per la causa… o invece a far prendere semplicemente lui per… matto (smile!)

C
i racconta poi moltissimi aneddoti (tipo l'ambiente di Bayreuth, o quello del MET, o Salzburg o Zurigo) qualche volta umoristici, altre volte piuttosto patetici; e anche i soliti luoghi comuni, primo fra tutti il SantAmbrogio scaligero: con tanto di irrisione per la colorita fauna che lo popola e per l'incompetenza (musicale, e non solo) che vi regna sovrana. Poi però si lascia andare ad una lode per il pubblico (e per i relativi giudizi) che affolla la primina del 4 dicembre: lì sì che, essendo tutti (o quasi) giovani, vi regna sovrano il sincero interesse per l'opera e si danno giudizi ed apprezzamenti intelligenti. Può darsi, ma che i giudizi di questi giovani siano da prendere quasi come oro colato mi pare francamente eccessivo: perché è da dimostrare che anche quei giovani, in media e in maggioranza, non abbiano lo stesso livello di ignoranza dei loro ingioiellati e impomatati papà-mamme (o nonni!) del 7 dicembre.

Il principale argomento serio che Mattioli tratta nel suo libro riguarda i problemi e gli approcci alla regìa dell'opera, o in generale alla messinscena. Chi legge abitualmente i suoi resoconti e recensioni sa benissimo che lui è un tifoso del modernismo (o magari del post-modernismo) e un fautore del cosiddetto teatro-di-regìa. E nel libro si sprecano le lodi per Robert Carsen, Claus Guth e compagni, puntualmente affiancate da denigrazioni anche poco soft nei confronti dei vari Zeffirelli, Pizzi e Pier Alli. Per carità, tutte esternazioni legittime, come quelle di qualunque manicheo. E ad essere presi di mira non sono soltanto i registi tradizionalisti, ma soprattutto quella parte di pubblico e critica che dileggia le mirabili intuizioni di quelli di avanguardia. A questa parte di pubblico e critica, colpevole di non apprezzare le regìe dei Carsen di turno, Mattioli riserva un trattamento assai sbrigativo: sono dei cretini. Perché non sono in grado di capire ed afferrare quelle mirabili intuizioni. Peccato però che poi il dottor Freud si insinui subdolamente nella sua psiche, allorchè il nostro ammette candidamente di non aver capito la recente regìa (quella coi i topi, per intenderci) del Lohengrin di Hans Neuenfels! Allora, caro Alberto, chi è qui il cretino? (smile!) Sì, perché quella regìa è di sicuro agli antipodi della sostanza dell'opera wagneriana, ma si basa su un Konzept chiarissimo e – in sé e per sé - pure molto intelligente. Ma il peggio è che dal giudizio negativo su una regìa (che lui non è arrivato a capire) Mattioli tragga la conclusione che tutto Neuenfels sia da buttare e da evitare come l'aids. Invece - toh! – la regìa della Butterfly di Damiano Michieletto (che riduce l'opera pucciniana a volgare racconto di turismo sessuale) sarebbe un capolavoro! 

Mattioli cerca poi di spiegarci i razionali che giustificherebbero queste regìe moderne, il primo dei quali sarebbe quello di allineare, per così dire, la presentazione delle opere alla nostra attuale civiltà, alle nostre conoscenze, alle esperienze che l'umanità ha maturato da quando quelle opere liriche furono composte. Bene, fin qui ci siamo. Ma allora, visto che il citato Lohengratt di Neuenfels interpreta precisamente queste esigenze, ponendo (sia pur gratuitamente e surrettiziamente) al centro dell'opera i problemi filosofici, psicologici e persino politici della nostra civiltà, perché mai Mattioli lo dileggia, esponendolo al pubblico ludibrio?

E infatti poi arrivano degli esempi che sono tutto fuorchè convincenti. Prendiamo Rigoletto. Mattioli rileva giustamente come nella prima scena dell'opera ci troviamo in presenza di una festa tutt'altro che pura e casta, anzi propriamente di un'orgia (come dice espressamente Monterone). Quindi – e fin qui possiamo concordare – presentarla come hanno fatto e fanno troppo spesso le regìe tradizionali, che ci mostrano una scena degna di un menuetto dove gli individui si toccano solo col mignolo, è sbagliato e ridicolo. Ma Mattioli va oltre: essendo un'orgia, oggi che non abbiamo più le censure dell'800 e abbiamo infranto tutti i tabù del sesso, è logico e giusto che venga presentata come tale, quindi: vai con lo stupro e vai con scene di pura pornografia. Ecco, qui francamente mi pare che Mattioli sia fuori strada. Perché non lo sfiora nemmeno il dubbio che quella scena del Rigoletto sia stata costruita e musicata da Piave e Verdi con caratteristiche, diciamo così, soft, non solo e non tanto per evitare gli strali della censura o per non urtare la suscettibilità dello spettatore di allora, quanto per ragioni squisitamente estetiche: in sostanza, per poetizzare anche una vicenda truculenta. La quale, se invece viene presentata in modalità hard, con pieno e nudo realismo, ridiventa appunto truculenta e perde tutta la sua poesia! Lo stesso ragionamento applicasi a Giacosa-Illica-Puccini e alla loro Butterfly.

In fatto di allineamento ai tempi moderni, Mattioli fa anche un accenno ai contenuti musicali (mica sarà una velata proposta perché, oltre ai libretti, si cominci anche a metter mano alla strumentazione?) Quando fa l'esempio della scena del cimitero nel DonGiovanni. Lì (ed è l'unico momento in tutta l'opera) Mozart impiega, per sottolineare i versi cantati dalla statua del Commendatore (11 battute in tutto) i tre tromboni (oltre ai legni e ai contrabbassi). Ora, credo che anche un bambino capisca che ciò sia legato ad esigenze drammaturgiche: accentuare la forza evocatrice di quei versi minacciosi, che arrivano propriamente dall'oltretomba, attraverso il suono profondo di quegli strumenti gravi. Mattioli come lo spiega, invece? Con un ragionamento che definire capzioso è fargli un complimento: siccome siamo in luogo sacro (cimitero=chiesa) ecco che Mozart impiegherebbe uno strumento che ai suoi tempi si usava – secondo lui - solo in chiesa e non in orchestra; ma oggi che udiamo il trombone quasi in tutte le opere musicali, questo significato si perde e quindi sarebbe opportuno sostituire il trombone con altro strumento (!?!)

Mattioli ripete più volte che il suo libro, più ed oltre che ai melomani, vorrebbe indirizzarsi a chi non si sia ancora avvicinato al teatro musicale. E allora, giustamente, propone un elenco di buoni motivi per invogliarlo a fare il primo passo. Ora, chiunque abbia un minimo di cognizione di tecniche del convincimento, sa benissimo che il miglior risultato si ottiene proponendo pochissime (magari una soltanto) ragioni, purchè veramente efficaci e tali da scatenare nella vittima non solo la curiosità, ma proprio la voglia matta del prodotto che viene proposto. Fare una lista interminabile di motivi più o meno plausibili ottiene di solito l'effetto contrario. Ecco, Mattioli di motivi - in ordine sparso - ne elenca addirittura 100 (tanto per dare un esempio di motivazione sospetta bizzarra, al n°44 troviamo: Verdi diretto dal giovane Omer Meir Wellber!)

In sostanza, da melomane (spero: non ignorante) ho trovato il libretto di scarso valore aggiunto, non dico utilità. Mettendomi viceversa nei panni di un non-melomane, francamente dubito che sarei arrivato in fondo alla lettura. 

Comunque, per par-condicio, ecco qua una recensione politically-correct del sempre più famoso Amfortas.

04 aprile, 2012

Orchestraverdi – concerto n 27


In vista della Pasqua torna in Auditorium, dopo due anni, la Johannes-Passion, preceduta ieri sera da un'interessantissima introduzione del Direttore artistico Ruben Jais (che è anche il papà de laVerdi barocca).

Con dovizia di esempi e robustezza di argomenti, Jais ha esaltato il supremo magistero di Bach nell'esprimere i più diversi scenari (materiali e spirituali) dell'opera; ha anche sottilmente criticato certe sottovalutazioni di Bach (la quasi totale assenza di indicazioni agogico-dinamiche) dovute a semplice ignoranza della materia (è il testo stesso a guidare in modo infallibile l'esecutore, nel più classico spirito del recitar cantando) e anche certe interpretazioni novecentesche (Karajan e Richter) che hanno trasformato opere come questa in kermesse sesquipedali quanto infedeli. 

Poi Jais è salito sul podio per riproporci questa Passione nel modo più fedele allo spirito e alla lettera bachiani: orchestra composta da 22 archi (incluse viole d'amore e da gamba, ove prescritte) e 6 fiati, più organo e tiorba; coro di Erina Gambarini (femminile a sinistra, maschile a destra) composto da meno di 40 elementi; rispetto allo scorso aprile c'è poi la novità del cast principale, tutto maschile, con il sopranista Paolo Lopez a sostenere il ruolo del soprano e, come allora, il controtenore David Hansen a sostenere la parte di contralto; confermati anche i bravissimi Makoto Sakurada (Evangelista, tenore) e Christian Senn (basso, recitante anche Pilato); Gesù è il basso Thomas Tatzl; altro tenore Randall Bills; completano il quadro dei solisti due componenti del coro (tenore Francesco Frasca e soprano Saito Kaoru).

Esecuzione davvero rimarchevole, accolta dal folto pubblico con un autentico trionfo.

La prossima settimana… a tutto Musorgski.