affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

23 marzo, 2012

Orchestraverdi – concerto n 25


Ancora Zhang Xian sul podio, e ancora con Beethoven e Mahler.

Ma prima - una sorpresa rispetto alla frugale locandina originale - c'è un saporitissimo antipasto wagneriano, l'Ouverture del Rienzi, terza opera composta dal genio di Lipsia e suo primo grande successo (Dresda, 1842). Un grand-opéra gigantesco (3 ore e mezza abbondanti di musica nella versione tagliata!) in 5 atti e con 4 balletti, cori e fanfare a volontà, che Wagner sperò invano di far rappresentare a Parigi. 

Pare che fosse ascoltando Rienzi che Hitler (ancora ragazzo) avesse l'ispirazione per la sua futura carriera (si dice avesse con sé il manoscritto dell'opera al momento della fine, nel bunker di Berlino…) 

Un'opera che, se la si depura di tutta l'abbondante tara (80% del totale!) lascia affiorare grandi tesori musicali, che non a caso ritroveremo nelle opere e nei drammi successivi del sommo Richard. 

L'Ouverture, come era consuetudine a metà '800, è costruita come un corpo separato dall'Opera, di cui però impiega ed introduce alcuni dei motivi principali.
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Si apre (Molto sostenuto e maestoso) con un'introduzione che contiene tre richiami della trombetta (che si udranno nell'opera poco prima del finale del primo atto e poi anche nel terzo, e infine all'inizio del quinto) inframmezzati da due incisi degli archi bassi e poi dei fiati. Quindi violoncelli e contrabbassi presentano un recitativo che prepara l'esposizione (in violini e violoncelli, in RE maggiore) della stupenda preghiera che il protagonista canterà (in SIb) all'inizio del V Atto, all'avvicinarsi della catastrofe: Du stärktest mich, du gabst mir hohe Kraft, du liehest mir erhabne Eigenschaft:

Il motivo costituito dalle prime due note del tema (tonica-sesta) e dal gruppetto rovesciato che le congiunge, sarà impiegato da Wagner in tutt'altro contesto drammatico, oltre che musicale; precisamente nel Prologo di Götterdämmerung, allorquando ci verrà presentato per la prima volta il Leit-motiv di Brünnhilde adulta: anch'esso sale di una sesta – ma da sottodominante a sopratonica - attraverso il gruppetto (qui notato esplicitamente):
Il motivo della preghiera sfocia in un cupo inciso (che ricorda l'apertura del second'atto di Lohengrin) contenente un tritono e che viene ripetuto più volte ad altezze diverse e da diversi strumenti: 
Esso porta ad una riesposizione enfatica e maestosa del tema della preghiera, nelle trombe, con violini e viole ad abbellirlo e movimentarlo con svolazzanti gruppetti di semicrome-biscrome, che anticipano un procedimento usato nell'Ouverture di Tannhäuser. Ora però il tema sfocia in un tremendo accordo di tutta l'orchestra, seguito da un drammatico rullo di tamburino sul quale ricompare l'inciso minaccioso, pesantissimo, in tromboni e tube, cui risponde il triplice richiamo della tromba. La quale a sua volta introduce una fanfara, ancora in RE maggiore, e poi un motivo preso sempre dal finale del primo atto dell'opera, precisamente dall'introduzione alla scena della nomina di Rienzi a tribuno (Gegrüsst sei, hoher Tag). Ad esso si concatena, in tromboni e oficleide, un nuovo tema (che tornerà poi nel terzo atto, ad accompagnare l'invocazione Santo Spirito Cavaliere!):
Ecco ora una modulazione alla dominante LA maggiore, che prepara il ritorno del tema della preghiera, adesso in tempo Allegro energico, a velocità praticamente doppia rispetto alle precedenti esposizioni (qualcosa di simile Wagner farà nel Vorspiel dei Meistersinger!) Alla conclusione, ancora il motivo del Santo Spirito conduce adesso, sempre in LA maggiore, all'esposizione del tema che costituirà il cardine del resto dell'Ouverture. Viene dal finale secondo dell'opera, dopo che Rienzi ha perdonato i suoi attentatori, e Irene e Adriano ne tessono le lodi (Rienzi, dir sei Preis):
Dopo la prima sua doppia esposizione, orchestrata in modo leggero, cui segue il controsoggetto (ripetuto) e una ripresa assai enfatica del tema, ecco arrivare una specie di sviluppo del Santo Spirito. Ancora il triplice richiamo della tromba e – tornando a RE maggiore – la fanfara del Gegrüsst, che si conclude con caratteristiche quarte ascendenti (come quelle che risentiremo nell'Holländer) e porta alla perorazione del tema di Rienzi (che principia appunto con una quarta) che conduce alla retorica conclusione dell'Ouverture, lasciata peraltro al Santo Spirito Cavaliere.
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Grande la prestazione dell'Orchestra e… originale l'approccio di Xian, che certo è lontana da Thielemann (per dire) quanto Pechino dista da Berlino (smile!) Quindi grande sbrigatività (forse troppa), niente pesantezza né prosopopea, tutto ridotto all'essenziale… insomma un Wagner abbastanza smagrito.

Secondo piatto della serata il Primo concerto di Beethoven, suonato dal nostro Gianluca Cascioli, bravissimo ad esporre con grande sensibilità e tocco magistrale sia i temi marziali del primo movimento, che le parti più intimistiche del Largo e le nervose sferzate del Rondò. Come cadenza dell'iniziale Allegro con brio ha scelto – delle tre scritte da Beethoven – quella di gran lunga più difficile ed impegnativa, che principia così:
Chiude il concerto il ciclo di 5 Lieder mahleriani su testi di Friedrich Rückert, proposti dal 53enne mezzosoprano ungherese Ildikó Komlósi. La locandina giustamente sottotitola da Sette canti, poiché, in origine, a questi 5 (composti fra il 1901 e il 1902 con accompagnamento di pianoforte e successivamente orchestrati – salvo l'ultimo) erano stati aggregati, ai fini di pubblicazione, gli ultimi 2 Lieder composti in precedenza (1899-1900) da Mahler su testi del Wunderhorn (che abbiamo già ascoltato in Auditorium tempo fa). 
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In ordine cronologico di composizione, il primo è Blicke mir nicht in die Lieder! (giugno 1901) una breve canzone di due strofe, che ripetono un tema in FA maggiore seguito da una sezione in minore. Un inciso, sul verso wie ertappt auf böser Tat (e poi su schauen selbst auch nicht zu) richiama da vicino la seconda ricorrenza del verso Gib mir Brot, sonst sterbe ich!, in Das Irdische Leben dal Wunderhorn:
Come si vede, sono idee anche piccole che in Mahler riemergono a distanza di tempo e in contesti del tutto diversi: qui uno scenario piuttosto sereno, là uno di morte! 

Poi abbiamo Ich atmet' einen linden Duft! Forse il più bello del ciclo, con la sua atmosfera sognante, illanguidita dalla celesta e dall’arpa, sul pedale cullante delle crome dei violini. Straordinaria la modulazione dal RE maggiore al MIb, sui versi das Lindenreis brachts du gelinde! E anticipatrice del Lied von der Erde la chiusa, con il SI del flauto che si aggiunge alla triade di RE maggiore suonata da arpa, celesta e legni.  

Quindi il famosissimo Ich bin der Welt abhanden gekommen (agosto 1901) che richiama da vicino l’Adagietto della quasi contemporanea Quinta Sinfonia (quello divenuto famoso in Morte a Venezia di Visconti) sia nella melodia che, soprattutto, nell’accompagnamento con terzine dell’arpa. In compenso qui c'è una parte significativa per il corno inglese (e altre di contorno per oboe, clarinetti, fagotti e corni) che è assente nell'Adagietto, dove tutti i fiati tacciono. Poco prima della conclusione, sull’ultimo verso (in meinem Lieben) spunta anche un inciso che viene chiaramente dal Ruhevoll della Quarta Sinfonia, completata precisamente un anno prima: 
Poi viene Um Mitternacht: qui Mahler prescrive l’oboe d’amore e (a doppiare l’arpa, nella seconda metà dell’ultima strofa) il pianoforte (tacciono invece del tutto gli archi!) È una canzone di cinque strofe, che per quattro e mezza si mantiene in tonalità di LA minore (eccetto una fugacissima apparizione del maggiore nella parte centrale della seconda strofa) presentandoci uno scenario quasi disperato, di buio nel cuore e nell’anima, che si aggiunge a quello profondo e materiale della mezzanotte. Il motivo che sostiene la ricorrente invocazione Um Mitternacht – anticipato già alla seconda battuta dal flauto e alla quarta dall’oboe d’amore - verrà ripreso da Mahler, ad esempio, all’inizio della seconda parte della sua Ottava Sinfonia, per descrivere lo scenario inizialmente cupo – che si aprirà poi verso l’alto – della scena finale del Faust:
L'atmosfera depressa è sottolineata da frequenti scale monotòne discendenti, un po' come quelle che riappariranno, non a caso, in Der Einsame im Herbst.

Poi, in una sola misura, ecco il repentino passaggio ad un luminosissimo LA maggiore, sulle parole (hab' ich die) Macht in deine Hand gegeben! nelle mani del Signore di morte e vita viene riposta la forza dell'Uomo: 
   
Arpa e pianoforte aggiungono un'aura celestiale allo sfarzo degli ottoni, che porta all'enfatica e positiva conclusione.

Infine Liebst du um Schönheit. Composto un anno dopo gli altri quattro (1902) non fu mai da Mahler orchestrato e la versione per orchestra si deve a tale Max Puttmann, uno che lavorava per l’editore Kahnt. Il che – secondo i musicologi - spiegherebbe certe bizzarrie che Mahler non avrebbe mai commesso. La giovane e bella Alma – allora era da pochi mesi divenuta sua moglie - narra nelle sue memorie che Mahler le fece trovare il manoscritto del Lied dentro la partitura del Siegfried, che lei era solita scorrere: si trattò davvero di una originale dichiarazione d’amore.

Anche qui è interessante la chiusa, con la voce che si ferma sulla sesta (il LA) proprio a creare una specie di sospensione... eterna (sull'avverbio immerdar, eternamente, appunto) anticipando un procedimento che Mahler impiegherà estensivamente in Das Lied von der Erde
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Non avendo Mahler imposto una sequenza precisa ai canti, ogni interprete (che può essere indifferentemente un mezzo, come qui, o anche un baritono) è autorizzato a sceglierne l'ordine di presentazione. La Komlósi invece li ha presentati precisamente nello stesso ordine in cui Mahler li compose. 

Purtroppo una prestazione vocale, la sua, insoddisfacente (a parer mio, s'intende): chiare difficoltà d'intonazione, voce poco udibile nell'ottava bassa e tendente all'urlo in alto. In più, una pronuncia che credo farà sorridere un crucco… Peccato, perché l'orchestra (in configurazione sempre diversa per ogni canzone) l'ha accompagnata al meglio. Comunque gli applausi non sono mancati. 

Prossimamente il venerabile sir Neville Marriner con un programma… scozzese.

19 marzo, 2012

Una Bolena “alternativa” al Maggio fiorentino


Oggi non vorrei proprio essere nei panni di un orchestrale del MMF. Perché mi sentirei di avere sulla coscienza, con lo sciopero per la seconda di Anna Bolena, almeno tre spettacolari risultati:

1. Aver certificato coram-populo la verticale spaccatura sindacale all'interno delle maestranze del Teatro, divise fra scioperanti (gli orchestrali, appunto) e krumiri (masse tecniche e coro);

2. Aver consegnato su un piatto d'argento alla Sovrintendente Colombo (presentatasi al pubblico prima dell'inizio ed accolta da pochi vergogna! e molti più applausi) l'occasione per trasformarsi, da principale responsabile del dissesto in cui versa il Teatro, a salvatrice della patria, essendo riuscita nonostante tutto a regalare, a centinaia e centinaia di persone venute da ogni dove, la rappresentazione della Bolena (non Anna, ma Mariella!);

3. Aver dato a tutto il mondo la dimostrazione pratica che il MMF è perfettamente in grado di allestire spettacoli dall'esito trionfale pur facendo a meno dell'orchestra!

Come masochismo, si son toccati davvero i vertici!

Per dare un'idea della voglia di opera (e di Devia) che animava il pubblico, basterà dire che era data a tutti la possibilità di assistere al primo atto e poi di andarsene a casa facendosi rimborsare il biglietto. Bene, non un solo spettatore ha deciso di approfittare di questa possibilità, almeno a giudicare dal pienone mantenutosi fino alla fine della recita.

Buca quasi deserta (sui leggii ancora le parti aperte sull'ultima pagina, da giovedi scorso, evidentemente) con il solo pianoforte di Andrea Severi impegnato nel massacrante lavoro di accompagnare il canto per più di tre ore filate. Sul podio un sostituto di Roberto Abbado, Andriy Yurkevych, a dare con buona efficacia gli attacchi a Severi e ai cantanti sul palco.

La regìa di Graham Vick è assolutamente tradizionale: sia nelle scene e costumi, che nei movimenti (o immobilità, smile!) dei personaggi. Solo qualche sesquipedale esagerazione, come i giganteschi cavalli che reggono le chiappe di Enrico e Anna nella scena della caccia, o l'enorme corona di spine che campeggia nel primo atto, o la durlindana di 10 metri che cala dall'alto, una copia in scala normale della quale viene consegnata da Enrico a tale Jean Rombaud, spadaccino francese specializzato in decollazioni a garanzia totale (soddisfatti o… ri-collati). 

Per difendere le sue scelte registiche, Vick non esita a pontificare, sul programma di sala: Non si può mica fare un Enrico VIII nazista! Come non concordare… ma verrebbe da chiedergli perché allora si possa invece fare un Mosè terrorista, come quello che lui medesimo ci ha propinato l'estate scorsa al ROF!

Che dire del Cast? La Sonia Ganassi ha i suoi limiti, ma è anche sufficientemente smaliziata per mascherarli al meglio. Per lei ovazioni dopo Ah! Pensate che rivolti terra e cielo, chiusa dal SI naturale.

Josè Maria Lo Monaco è uno Smeton appena discreto, con voce scarsina. Così pure Konstantin Gorny nei panni di Rochefort. 

Shalva Mukeria impersona un dignitoso Percy: voce leggera ma bene impostata e acuti squillanti, DO incluso.

Roberto Scandiuzzi se la cava alla bell'e meglio come Enrico, e più per la presenza scenica che per il canto.

Luca Casalin è un onesto Hervey.

Buona la prova del coro di Piero Monti.

Ma va da sé che la mattatrice è lei, Mariella Devia. Già dopo Non v'ha sguardo e il MIb sovracuto che la chiude ci sono per lei 10 minuti di applausi, che dico, di delirio, mentre in scena è rimasta solo la Ganassi, che si sbraccia per richiamarla fuori, finquando lei finalmente torna per un supplemento di ovazioni. Alla fine, dopo Al cospetto d'un Dio pietà (sul cui MIb sovracuto qui si chiude l'opera, tagliando i commenti finali degli astanti) il trionfo è davvero senza precedenti, una cosa proprio da stadio. E dopo innumerevoli chiamate per tutti, l'ultima levata di sipario è per lei sola, che saluta e scappa via – immagino – con le lacrime agli occhi.

16 marzo, 2012

Una questione di coscienza…


Premetto che parlo da egoista.

Ho da tempo (precisamente dal primo minuto secondo in cui sono state aperte le vendite online) acquistato un biglietto per questa Anna Bolena. Confesso, cospargendomi il capo di tutta la cenere del rogo del Wahlall: mai ancora l'ho ascoltata dal vivo. 

Avevo già da tempo in mente la mia domenica 18 aprile, 2012: preparativi a casa, metropolitana, poi treno (acquistato biglietto con settimane di anticipo, per sfruttare la tariffa mini, praticamente non rimborsabile) sbarco a SMN, passeggiata in centro, lampredotto di ordinanza, e poi… una comoda poltrona del comunale per godermi finalmente questo capolavoro (così dicono…) del mio quasi-conterraneo Gaetano.

In questo momento - sto per dare il click sul bottone publish della platform che mi ospita - tutto il mio castello di carte sembra stia per crollare miseramente al suolo. Perché? 

Perché agli uomini e alle donne che lavorano per rendere possibile questo - come tutti gli altri – spettacoli del Maggio viene prospettato un futuro di lacrime e sangue, o direttamente un non-futuro. E questi uomini e queste donne intendono far di tutto per scongiurarlo, ne va delle loro esistenze – hai detto nulla - prima ancora che della loro nobile professione.
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Mi verrebbe spontaneo obiettare con considerazioni fredde, asettiche, contabili, che uno sciopero ha senso solo se danneggia principalmente il padrone, e non se danneggia esclusivamente i clienti affezionati al prodotto che (tramite quel magari indegno padrone) viene messo sul mercato. E che invece questo sciopero colpisce esclusivamente proprio quegli uomini e quelle donne che più sono affezionati al prodotto e a chi lo confeziona con amore e fatica, avendo magari contemporaneamente in disprezzo i padroni che su quel lavoro si limitano a lucrare immeritati profitti. 
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Qualcuno ha già pubblicato altri appelli, a cui mi sento di aggiungere la mia modestissima voce. In gioco non è solo una recita, per quanto importante, ma il futuro di tutti coloro che traggono linfa vitale da questa straordinaria manifestazione della nostra cultura tout cour, prima ancora che della nostra civiltà.

Ma lo ripeto, scusatemi: sono solo un misero egoista.

Orchestraverdi – concerto n 24


Riecco sul podio dell'Auditorium la Direttora Zhang Xian, per proporci un concerto incentrato su Beethoven e Mahler.

L'antipasto però è di Weber, a incastonare così in un sandwich proto-tardo-romantico il più classico dei Beethoven: con l'Ouverture dell'Oberon, che è purtroppo l'unica porzione che ancora si ascolta di quest'opera, visto l'oblio in cui è caduta. È diventato ormai luogo comune definire il richiamo del corno in RE, proprio nella prima battuta, come il simbolo del romanticismo musicale (anche se Weber aveva già nel suo curriculum Euryanthe e Freischütz, mica noccioline):
Ed in effetti quelle tre piccole note rievocano da sole immagini ossianiche e visioni di boschi misteriosi e di arcane presenze (in Mahler di corni avremo un'indigestione!) Poi l'ouverture sciorina tutte le sue perle, in un susseguirsi di motivi – lenti e rapidissimi - uno più trascinante dell'altro. 

Bravissima la Xian, che forza assai i contrasti, fra i passaggi con le vertiginose semicrome e quelli, dolci, dove mette in gran risalto i risvolti più languidi e cantabili. Esecuzione davvero esemplare. 

Poi arriva un'altra cinesina (anzi, cinesona dovremmo dire, in confronto alla minuscola Zhang) Jin Ju, ad interpretare il Terzo Concerto del sommo Ludwig. Dico, fra due cinesi potrebbe mancare un'intesa men che perfetta? La simpatica Jin – in lungo scarlatto - dimostra di possedere una maturità e una serietà professionale invidiabili (al confronto di certi suoi colleghi connazionali, smile!) affrontando questo impervio Beethoven con sicurezza, ma anche con umiltà, senza strafare o cercare di imbonire il pubblico con la vuota retorica del gesto. Ne esce un'interpretazione magari non sbudellante, ma più che dignitosa, di quest'opera che rappresenta l'entrata di Beethoven nella sua piena maturità artistica. Particolarmente riuscito il centrale Largo, di cui la Ju ha saputo tirar fuori tutta la grande cantabilità. Bis patriottico strappa-applausi. 

Das Klagende Lied di Mahler è opera scarsamente conosciuta e più ancora scarsamente suonata, sovrastata com'è dalle inflazionate sinfonie ed anche dai Lieder del boemo. Che aveva solo 19 anni quando compose questa specie di cantata – costruendone personalmente il testo, da Ludwig Bechstein e altri racconti - presentata ad un concorso viennese (intitolato a Beethoven, appunto). Concorso che per sfortuna di Mahler vedeva fra i giudici la premiata coppia Brahms-Hanslick, che di fronte a questo velleitario intruglio pseudo-wagneriano (ciò pensava la coppia dei puristi…) non esitò ad esprimere un inappellabile pollice-verso. Ed effettivamente anche un fanatico di Mahler farà fatica a definirlo un capolavoro. Però ci si intravede chiaramente il DNA del compositore, che ritroveremo praticamente in tutta la sua successiva produzione, fino alle estreme opere scritte sulla soglia dell'aldilà. Solo a mo' di citazione a caso: l'incipit del Dies-irae, che troveremo nella Seconda, un inciso che tornerà nel finale della Prima; un motivo che anticipa i Fahrenden Gesellen (e da qui, ancora la Prima); una chiara anticipazione di O mensch, della Terza; motivi che troveremo nel Lied von der Erde e uno che aprirà nientemeno che la Nona!

Qui si esegue la versione cosiddetta definitiva, licenziata da Mahler a 10 anni di distanza dalla prima, che comprende le ultime due delle tre parti in cui la cantata era originariamente strutturata. In termini di durata, ciò significa: meno di 40 minuti, a fronte di più di 65! Effettivamente l'espunzione della Waldmärchen (la fiaba del bosco) si giustifica a causa della sua prolissità e della sua prevalente monotonia, anche se vi compaiono i principali temi che poi riudiamo nelle due parti rimaste (il menestrello e scena di nozze). Oggi anche la prima parte è tornata alla luce – un po' come è successo per il Blumine della Prima Sinfonia - ed è stata incisa varie volte, qui da Boulez

Una caratteristica tecnica della partitura risiede nella prescrizione di Mahler di affiancare all'orchestra principale una seconda orchestra, più ridotta, ma pur sempre consistente (15 fiati, più timpani, piatti e triangolo) disposta in lontananza, dovendo sottolineare – nella seconda parte della cantata - la festa di nozze che sta avendo luogo all'interno di un castello, e i cui suoni dovremmo sentire come attutiti. Ecco, Mahler, anziché usare gli strumenti in orchestra facendoli suonare piano (per simulare la distanza da cui provengono i suoni) richiede di disporre l'orchestrina in lontananza, facendola però suonare fortissimo, in modo da creare l'effetto più realistico possibile. Qui in auditorium la cosa è ottenuta dislocando questa orchestrina nell'atrio, proprio dietro la sala, e mettendola sotto la guida di Jader Bignamini. Mahler non è certo stato il primo ad inventare queste tecniche di esecuzione stereofonica (basti pensare alle tre orchestrine del DonGiovanni) ma ha fatto di esse uso anche in altre occasioni (Seconda e Ottava sinfonia, soprattutto, ma anche altrove). A testimonianza della natura fondamentalmente teatrale della sua musica. 

Anche se il contenuto della cantata presenta dei personaggi - il menestrello, la regina, il re - i tre solisti (qui Natalie Karl, soprano, Maria José Montiel, contralto e Dominik Vortig, tenore) cantano come voci narranti – col concorso anche del coro - la triste storia del giovane cavaliere ucciso dal fratello (che gli ha così soffiato la mano della bella regina per diventare re) e un osso del di cui scheletro, trovato da un menestrello e usato come zufolo, racconta la tragica storia. Il menestrello va alla festa di nozze, e il flauto suona la sua storia, così la verità viene a galla: il re resta scornato, la regina stramazza, gli invitati fuggono inorriditi, le mura del castello crollano, il buio inonda la sala… e così finisce il banchetto di nozze, su un tremendo accordo di LA minore! 

Era questo l'esordio de laVerdi con l'opera-prima di Mahler: forse qualcosa da mettere a punto c'è ancora, e sicuramente i prossimi due concerti saranno l'occasione per farlo. Comunque grande successo per tutti - Xian, Gambarini, Bignamini, i solisti, il coro e l'orchestra – e meritato davvero poiché trattasi di un lavoro per nulla facile.

Il prossimo appuntamento ripete gli stessi autori, e sempre con Zhang Xian.

15 marzo, 2012

Alla Scala una donna senza troppe ombre, ma con parecchi incubi


Seconda ieri sera alla Scala – vergognosamente ricca di poltrone e palchi vuoti - della ranocchia bavarese, accolta trionfalmente (col minimo sindacale di buu…) all’esordio di domenica. (Oh, quel minimo sindacale si riferiva ai Musikanten, chè il Regisseur se ne beccò invece una razione direttamente proporzionale alla sua parcella, smile!)

La Frau – sappiamo -  è opera complessa, dalle mille e una notte sfaccettature: simboli, allusioni, allegorie, esoterismo, surrealismo e psicanalisi spuntano fuori da ogni dove in questa specie di fiaba a sfondo moraleggiante, socialista, femminista, antifemminista, bigotto… e chi più ne ha, più ne aggiunga. Ho riletto per l’occasione uno spassosissimo – oltre che eruditissimo – saggio di Alberto Arbasino, comparso sul programma di sala per la (travagliata, ahinoi) Frau del Maggio fiorentino di quasi 2 anni orsono: una vera miniera d’oro per un regista che voglia trovare spunti per chiavi di lettura originali di questo mezzo-capolavoro (intero, per la parte di competenza di Strauss).

La cui trama è - di conseguenza – assai intricata: se il personaggio centrale è abbastanza facilmente individuabile (nella figura dell’Imperatrice) e il percorso fondamentale è più o meno chiaramente tracciato (come progressiva assunzione di responsabilità della ragazza-gazzella, che muove da una beata ingenuità animalesca per raggiungere la consapevolezza del proprio ruolo nell’umana società) non altrettanto chiari, comprensibili, logici e spiegabili sono i mille avvenimenti che passano sotto i nostri occhi. Molti dei quali sono del tutto irrazionali, effetti senza causa, eventi miracolosi procurati da forze sconosciute e soprattutto senza alcun presupposto plausibile. 

Quindi, pur nel doveroso rispetto dovuto al genio di Hugo von Hofmannsthal, mille sono le domande che sorgono nella mente del lettore del testo: perché mai una colpa della donna, l’Imperatrice (ammesso che di colpa si tratti, quella di non avere ombra, simbolo di infertilità) deve per forza ricadere anche sul marito, l’Imperatore - che oltretutto si impegna allo spasimo, tutte le sacrosante notti, come un coniglietto infaticabile (smile!) nel suo dovere di fecondatore - al punto da comportarne la condanna alla pietrificazione? E come è sostenibile la presentazione della crisi di un ménage familiare (in casa Barak) quando sentiamo l’uomo chiedere alla donna di dargli finalmente dei figli (il che implicherebbe che da parte sua venga onorata una regolare, sia pure noiosa, routine sessuale) e la moglie che invece ribalta su di lui la responsabilità della mancanza di prole, accusandolo apertamente (e non m’hai resa una madre) di aver dimenticato il suo principale dovere coniugale?  

A cosa si deve il repentino mutamento di atteggiamento della Nutrice, che gioisce all’iniziale annuncio del Messo, pregustando (Oh giorno benedetto!) il ritorno suo e della sua protetta al mondo di Keikobad (e fregandosene altamente della sorte dell’Imperatore, visto che lei ha in odio il mondo degli uomini) e poi, subito dopo aver ricordato alla ragazza l’ineluttabilità del destino suo e del marito, di  punto in bianco e senza apparente ragione si mette a sua disposizione per procurarle l’ombra? 

E giù in casa Barak, dove sta completando la sua opera di corruzione della moglie del tintore con le classiche armi di seduzione (oro, gioielli e vestiti, più un Giovinetto amante) e l'ha convinta (L'anima mia è sazia ormai della maternità, ancor prima d'averla gustata) a rinunciare definitivamente alla sua ombra e ad infischiarsene dei figli mancati (Rinunciare col gesto del disprezzo ai tediosi che qui non son nati!) come mai la perfida Nutrice scompare sul più bello (la ritroviamo solo nell'atto successivo!) mentre si manifesta un sortilegio (il pianto di quei cinque bambini mai nati, proprio in concomitanza col friggere dei cinque pesciolini in padella!) che rischia di avere sulla Tintora l'effetto precisamente opposto a quello desiderato dalla Nutrice? (A proposito dei pesciolini/feti-to-be, pare che Strauss fosse inorridito all'idea che Barak si mangiasse i suoi mancati figli, e che HvH dovette porre ripiego facendo mangiare al tintore solo un tozzo di pane… però intanto il fritto era stato fritto, smile!

E all'inizio del second'atto perché mai la medesima Nutrice, che avrebbe bisogno di quanto più tempo possibile a disposizione, al fine di veder consumato il peccato di adulterio della sua corrompenda, invita invece Barak a tornare presto dal mercato, cosa che avviene con una puntualità quantomeno sospetta? Col risultato di guastare la festa non solo alla moglie, ormai ben orientata sulla strada del tradimento, ma soprattutto alla coppia delle corruttrici? E come spiegare il siparietto notturno dell'Imperatore presso la casa del falconiere reale? Quand'è che l'Imperatrice ha vergato il messaggio di convocazione per lui, come lo ha recapitato al Messo, e quale sarebbe lo scopo dell'incontro? E quale logica c'è dietro l'improvviso odio per lei che assale l'Imperatore – che è pur sempre un umano, per quanto del rango più alto – al solo fiutare l'odore di umano da cui è avvolta la ragazza? E di chi sarebbe il respiro umano che la segue, se con lei c'è solo la Nutrice, che lui ospita in casa da quando ha catturato la gazzella?

Ma ancora più ermetico – qualcuno potrebbe dire strampalato - è il seguito del secondo atto (le tre parti della terza scena): dapprima il nuovo tentativo della Nutrice di indurre in tentazione la Tintora, che reagisce in modo quanto meno schizofrenico, fra disprezzo per la corruttrice e confessioni di desideri di tradimento; fra ostentata indifferenza verso il bel Giovinetto che la Nutrice le fa miracolosamente ricomparire davanti e terrore al contatto con la mano di lui; dal rifugiarsi nella protezione del marito all'abbandonarlo subito dopo per uscir di casa (con chi? ma con la sua corruttrice, accipicchia!) 

Qui poi abbiamo l'altro siparietto con l'Imperatrice nella casa del falconiere, completamente fuori-tempo-luogo-azione (a differenza del precedente, che godeva almeno di una vaga plausibilità temporale, questo si cala irrazionalmente nel bel mezzo di un'azione in pieno svolgimento, nella casa di Barak, in cui è presente l'Imperatrice medesima) con le visioni oniriche della giovane, che devono servire a mostrarci l'antefatto di ciò che vedremo più avanti (l'Imperatore pietrificato!) 

Chiude l’atto un altro scenario a dir poco bizzarro, con la falsa auto-accusa della Tintora (che chissà perché le provoca comunque la perdita dell’ombra!) la reazione violenta di Barak, i sortilegi della Nutrice che fa oscurare il cielo e mette in mano a Barak una luccicante spada che poi però svanisce nel nulla a fronte della preghiera dell’Imperatrice, che ha rifiutato di vestire l’ombra lasciata libera dalla Tintora… Mentre la Tintora medesima ritratta in fretta e furia la confessione appena fatta, mettendoci però anche un tocco di freudiana quanto ricattatoria carogneria, quando, dopo aver proclamato Non l’ho fatto! aggiunge e precisa: Non l’ho fatto ancora! Ecco infine un provvidenziale quanto gratuito cataclisma, con tanto di esondazione fluviale, che spedisce sottoterra Barak e consorte (ma l’ombra che fine ha fatto? smile! sappiamo che la cosa fece passare notti insonni a Strauss) separando l’uno dall’altra ed entrambi dall’Imperatrice e dalla sua tata. (!?!)

L'atto conclusivo - aperto da quella genialata straordinaria dei due umani che si dichiarano amore e fedeltà in contemporanea, pur essendo ciascuno in totale isolamento - è perlomeno più abbordabile, se non altro per l'aperta similitudine con la Zauberflöte. Della quale ripropone anche l'ambiguo ruolo di Keikobad-Sarastro, che soltanto alla fine si chiarisce in modo positivo. 

Certo che per qualunque regista mettere in scena un simile amba-aradam rappresenta un problema non da poco (il che, insieme al fabbisogno esagerato di Musikanten, spiega perché l'opera si rappresenti col misurino, anche in territorio crucco). Rispettare alla lettera le indicazioni del libretto fa effettivamente correre il rischio di proporre uno spettacolo del tutto incomprensibile allo spettatore medio (e forse anche agli esperti) come del resto avevano paventato sin da subito HvH-RS, se è vero come è vero che pensarono addirittura di predisporre un bigino esplicativo dell'opera, da distribuire in anticipo al pubblico! 

Così Claus Guth deve aver scelto una strada che gli rendesse facile la vita, e che allo stesso tempo si attaglia perfettamente alla practice del più classico Regietheater: cavar fuori dal guazzabuglio di ingredienti dell'originale un proprio Konzept e costruirci intorno l'intero allestimento. Purtroppo il rischio che comporta questa scelta è quello (tipico) di prendere una parte dell'originale per innalzarla a tutto. È come se, dovendo presentarci una grande villa settecentesca di 50 locali, con camere, saloni, corridoi, verande, biblioteche e scaloni, tutti ambienti diversi e magari anche poco coerenti fra loro, l'imbonitore ci mostrasse decine di fotografie, filmati, schizzi, disegni e riferimenti del solo letto a baldacchino su cui il marchese passava le notti con le sue favorite e/o vi aveva le sue visioni oniriche. Bellissima ed eccitante presentazione, peccato che della villa nel suo insieme e di tutti gli altri suoi componenti non ci arrivi alcunchè.

Ecco, Guth prende il solo risvolto freudiano-onirico, 
anzi per la verità solo onirico – importante, nessun dubbio, come lo è il… letto a baldacchino (smile!) – dell'originale e ci costruisce sopra tutta la sua Frau. Che sta a quella di HvH-RS – indovina, indovinello - precisamente come il letto a baldacchino sta alla villa settecentesca.

Dico subito che la sua concezione è realizzata con grande sapienza tecnica ed estetica (e ci mancherebbe anche, con quel che è costata…) ed ha perlomeno il pregio di non costringere lo spettatore a scervellarsi più di tanto, poiché tutti sanno che nei sogni può accadere di tutto, e ancor di più se i sogni sono incubi di una psicopatica (smile!) Peccato però che, se tutto è solo sogno/incubo, allora è fuori dalla realtà e al massimo sarà oggetto di analisi da parte di un qualche dottor Freud di passaggio: bisognerà quindi avvertire il nobile HvH che anche il suo lieto-fine conclusivo, comunque lo si debba interpretare, altro non è che un sogno! Inoltre, datosi che nel libretto compare per davvero un sogno, ecco che assistiamo all’invenzione, dopo il teatro-nel-teatro, del sogno-nel sogno… però, caro Guth, come fa uno poi a distinguere il sogno-funzione dal sogno-derivata-prima?

Sarà poi il caso di sorvolare su alcune goliardate quali i pesciolini volanti, come da libretto (sì), cui però si aggregano anche alcuni feti, per la felicità di Strauss, immagino; o il Keikobad mostrato con sembianze di antilope cervicapra (questa farà rivoltare HvH nella tomba); o i bambini non nati che sono antilopine, o cerbiattini, o gazzellette; o anche le palpate di culo del morigerato Barak alla moglie… Certo che, per uno che anni fa aveva mostrato Beckmesser, alla fine della baruffa notturna, appeso ad un muro seminudo con i coglioni massacrati, si deve parlare di gigantic step backward (stra-smile!)      

Per fortuna di noi poveri pirla, c'è sempre la possibilità di passar sopra, o addirittura rimuovere, ciò che l'occhio vede, lasciando tutto lo spazio – piccolo o grande che sia – della testa e del cuore a disposizione dei suoni. Poiché, con buona pace di Guth ma anche del grande HvH, senza la musica del businessman bavarese questa regìa farebbe solo sorridere e il pur geniale libretto troverebbe pochissimi acquirenti.





(Bisognerà che qualcuno inventi – ma non dovrebbe essere difficile, con le tecnologie audio-video-informatiche già disponibili quasi a livello individual – una modalità di rappresentazione di opere come questa in forma di concerto, ma con cantanti e orchestra dislocati sì sul palcoscenico, ma dietro schermi 3D su cui il regista faccia proiettare immagini evocanti ciò che l'orecchio ascolta. Ecco, uso un'iperbole, ma sarei pronto a sacrificare tutte le mie ricchezze di Berlusconi per vedere realizzato questo sogno…) 

Tornando alla più prosaica realtà, una volta tanto (in Scala non è davvero poco, di questi tempi) gli addetti all'emissione di voci e suoni sono stati all'altezza del compito. Merito sicuramente di Marc Albrecht, che viene precisamente da quell'ambiente tedesco dove Wagner e Strauss si imparano fin dalla scuola materna (da noi ormai, i Va', pensiero, li scimmiottano solo in via Bellerio…) E dei professori, che forse per puntiglio sembrano dare il meglio di sé quando si trovano di fronte ostacoli impervi, e non il solito zum-pa-pa.


E naturalmente dei cantanti, qui di livello eccellente, prima fra tutti - per me - la Elena Pankratova, una Tintora davvero eccezionale, insieme agli altri quattro moschettieri, fra cui hanno brillato particolarmente la protagonista Emily Magee (Imperatrice) e la Michaela Schuster, una Nutrice che finalmente sa coniugare la truculenza con il canto! Johan Botha è un buon Imperatore (non vorrei però essere nei panni del suo cavallo, smile!) mentre il glorioso Falk Struckmann si salva grazie alle rimembranze che suscita di tanti Wotan… Ma tutti gli altri sono all’altezza, a partire dal postino Samuel Youn. I cori di Casoni debbono cantare sempre, o quasi, fuori scena, dislocati chissà dove (spero per loro non nei WC, smile!) per cui si meritano un'indennità speciale.

Successo pieno quindi per tutti i responsabili dei suoni. Assolto in contumacia - perchè il reato è prescritto - il regista.

Resta da dire che quella che si ascolta anche qui è una Fr-o-Sch assai mutilata (Bychkov aveva promesso di farla integrale, poi… si è dato malato, smile!) Da tutti i tagli – peraltro usuali, e a suo tempo perlomeno tollerati dall'Autore – che anche Albrecht ha inferto al corpo mistico di quest'opera. Sono quantitativamente inferiori, per fare un esempio, a quelli apportati dallo straussiano-per-eccellenza Karl Böhm nell'edizione registrata dal vivo, nella notte dei tempi, a Vienna con Nilsson e Berry e tuttora fra le migliori in circolazione. Ma si tratta pur sempre di pagine e pagine di grande musica…

Nel primo atto, verso la fine della prima scena, c'è un unico, ma importante taglio: la strofa della Nutrice che proclama il suo disprezzo per la razza umana e si autodescrive come imbrogliona e la successiva breve esternazione dell'Imperatrice poco prima che le due si incamminino verso il mondo degli uomini.

Nel secondo atto, prima scena, è tagliata una parte del dialogo fra Nutrice e Tintora, dove la prima convince la seconda a chiudere gli occhi e prepararsi all'apparizione del Giovinetto. Altro taglio alla fine della scena, dapprima una parte dell'esternazione risentita della Tintora verso Barak, poi nel concertato (da birreria!) della mangiata-bevuta, le strofe dei fratelli di Barak e la sua risposta, prima dell'implorazione dei ragazzini mendicanti. Nella terza scena manca una strofa della Tintora, che dileggia Barak appena addormentatosi, e poco dopo, alla ricomparsa del Giovinetto, un'altra strofa della stessa Tintora, che disprezza la Nutrice e parte della successiva risposta adulante di quest'ultima. Più avanti un piccolo taglio (Nutrice, Barak, Tintora) al risveglio dell'uomo. Nel secondo episodio alla falconiera, con l'Imperatrice che sogna e poi grida la sua colpa nei confronti di Barak, è tagliato il breve interludio che segue e porta alla visione dell'Imperatore che va a farsi… pietrificare. 

Nel terzo atto è tagliata la prima parte del breve recitativo dei violoncelli sulla prima strofa della Tintora, poco dopo l'inizio. Poi tagli corposi nel colloquio fra la Nutrice e l'Imperatrice, allorquando arrivano presso il tempio di Keikobad e la Nutrice cerca di dissuadere la ragazza dal procedere verso l'acqua della vita, promettendole per l'ennesima volta l'ombra. Quindi tagliato completamente il passaggio dove Barak prima e la Tintora poi, vaganti alla ricerca l'uno dell'altra, incontrano la Nutrice, che li inganna indirizzandoli in direzioni opposte. Quindi tagliata l'invocazione della Nutrice a Keikobad e il successivo rimbrotto del Messo come pure le invocazioni di Barak e della Tintora, che si mescolano allo scontro fra Nutrice e Messo (è di fatto uno straordinario concertato). Più avanti, un ampio taglio all'esternazione disperata (e parlata) dell'Imperatrice di fronte all'Imperatore pietrificato. Tagliata anche l'implorazione dell'Imperatrice a Keikobad, sulle disperate invocazioni di Barak e consorte. Infine, tagliati sia la parte finale della strofa dell'Imperatore al suo ritorno in vita che l'intero duetto
 di Imperatrice e Imperatore, contrappuntato dai bambini non nati e dalle 5 voci in orchestra, subito prima della scena conclusiva con i due umani. 

Per chi non vuol privarsi di tanto ben di dio, esiste in commercio almeno un'edizione integrale, cui non manca una sola nota scritta da Strauss, registrata 20 anni fa in studio da Solti con i Wiener, Domingo, Behrens, VanDam, Varady.

12 marzo, 2012

La Bohème torna a casa


Ieri pomeriggio al Regio terza delle sei recite di Bohème. Si tratta di una produzione ormai definibile di repertorio, visto che in questa stagione si ripresenta l'allestimento del 1996 - centenario della prima assoluta - di Giuseppe Patroni Griffi (oggi efficacemente ripreso da Vittorio Borrelli).

Qualcuno potrebbe pensare che un'opera così celebre, nota e stranota, proposta in un allestimento già conosciuto e per di più tradizionale non ecciti l'appetito né l'interesse del pubblico. Ma forse ciò pensano quelli con la puzza al naso, quelli che ma che barba che noia, quelli che se non porti l'ambientazione in Thailandia o non spargi sul soggetto Ibsen, Strindberg, Freud e Jung a piene mani non si divertono e soprattutto non si commuovono più. (Detto di passaggio, pare che costoro fossero in netta minoranza ieri sera alla Scala, almeno a giudicare da ciò che si è udito per radio al termine della Fr-o-Sch del genio Guth… su cui però riferirò a giorni, dopo visione diretta). 

O anche coloro che se non c'è la Netrebko con Kaufmann non butto via i miei soldi…

Perché invece la folla straripante e plaudente che anche ieri ha riempito l'anfiteatro del Regio dimostra precisamente il contrario. Ma immagino che i di cui sopra diranno che trattavasi di una folla di incompetenti, tipo quella dei matinée del MET, che si beve qualunque porcheria e applaude sempre tutto e tutti (come si è sentito proprio sabato su Radio3, in un Don Giovanni cantato… nel posto dove si trasferisce alla fine il povero Leporello). 

Forse, può darsi, ma personalmente sono convinto che l'apprezzamento per questa proposta non venisse soltanto da qualche curioso ignorante o da quelli che, non essendoci partite allo stadio, hanno ripiegato sul teatro non sapendo cos'altro fare. Perché l'allestimento era tale da far commuovere (e ridere) nei momenti appropriati e soprattutto la prestazione del cast vocale e orchestrale è stata – almeno a parere di uno come me, che non cerca il pelo nell'uovo, lo confesso - di tutto rispetto, decisamente positiva nella media e con qualche punta di eccellenza. 

Prima fra tutte Maria Agresta, splendida protagonista, perfettamente calata nella parte, soprattutto sul versante musicale: voce calda, penetrante su tutta l'estensione e portamento esemplare. 

Con lei merita un grande elogio il coro - anzi i cori, con i piccoli in grande evidenza - di Claudio Fenoglio: tutti bravissimi a superare alla grande le impervie difficoltà della polifonica kermesse che occupa l'intero secondo quadro. 

Massimiliano Pisapia era Rodolfo. Partito non senza difficoltà (mi è parso leggermente calante all'esordio) si è ripreso subito e ha poi fatto del suo meglio: certo, la voce è quella che gli ha dato la mamma (e nessuno, per quanto studi, può trasformarla in quella di… Pavarotti, smile!) ma lui l'ha impiegata con intelligenza e professionalità, e non si è tirato indietro nemmeno di fronte ai DO acuti che peraltro Puccini indicherebbe come optional. Anche per lui gran trionfo.

Norah Amsellem è stata una Musetta efficacissima sul piano della recitazione, un poco meno, a mio avviso, su quello musicale: voce dal timbro non proprio gradevole e vagamente tendente all'urlo, soprattutto nel secondo quadro; meglio alla fine.

I tre amiconi di Rodolfo hanno ben meritato: Claudio Sgura come Marcello (peraltro non sempre penetrante), Fabio Previati come Schaunard e Nicola Ulivieri, un Colline che ha più che dignitosamente preso congedo dalla sua vecchia zimarra

Gli altri quattro comprimari (su tutti Matteo Peirone, non foss'altro che per il doppio-lavoro, Dario Prola, Mauro Barra e Marco Tognozzi) hanno svolto con diligenza la loro parte.

Massimo Zanetti (è perlomeno il secondo Zanetti che dirige Bohème a Torino, dopo l'Ubaldo del 1898!) ha saputo porgere le mille sfumature della partitura con grande sapienza, senza mai incorrere in eccessi, né coprire le voci: evidentemente ha gran dimestichezza con Puccini e in particolare con quest'opera. L'Orchestra del Regio non la si scopre oggi come una delle migliori nel panorama italiano.

In definitiva, una riproposta eccellente – perlomeno a giudicare dai risultati in termini di gradimento da parte del pubblico - che conferma la validità delle scelte del Regio, un Teatro che non pretende riconoscimenti speciali, ma in cambio sa mantenere uno standard di rendimento che certe prime-donne (ahinoi) si sognano. 
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Mi permetto di aggiungere un'appendice – pertinente in particolare a questo Puccini, ma di applicabilità generale – riguardante il materiale divulgativo che può aiutare un ascoltatore non preparatissimo a… prepararsi a dovere prima di entrare in teatro, in modo da apprezzare ancor meglio ciò che vi viene rappresentato. Parlo dei cosiddetti programmi di sala che ogni teatro predispone a corredo delle locandine.

Premesso che quelli del Regio di Torino sono sempre di ottima fattura e presentano contenuti assai approfonditi, scritti da illustri firme, hanno però - come tutti - il difetto di essere messi a disposizione del pubblico, oltre che a pagamento, solo in occasione delle recite, dentro il teatro. Il che di fatto li rende di difficile fruizione prima della recita, quando sarebbero più utili che mai. 

Per questo colgo l'occasione per segnalare nuovamente la lodevole iniziativa del sito web del Teatro La Fenice, che – nella sezione Libretti, una vera miniera d'oro – pubblica in realtà tutti i programmi di sala delle opere rappresentate dal teatro negli ultimi anni. Nel caso di Puccini, essi contengono le fulminanti analisi del professor Michele Girardi, co-fondatore del Centro Studi Giacomo Puccini a Lucca e oggi somma autorità in campo pucciniano. Oltre a Bohème, vi si trovano quelle di Manon, Tosca, Butterfly, Rondine, Turandot, la cui lettura trovo personalmente imprescindibile per chiunque intenda accostarsi non passivamente alle opere di Puccini.

Nel caso di Bohème, Girardi ci propone anche una recensione appassionata (fino alla faziosità…) dell'incisione, ormai storica e probabilmente ineguagliabile, registrata in una chiesa di Berlino nel 1972 con Pavarotti, Freni, Ghiaurov, Panerai, Harwood, Maffeo e HvK sul podio del Berliner Philharmoniker. Ma in realtà è quasi un'appendice o un approfondimento dell'analisi dell'opera, che val proprio la pena leggere.