affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

23 settembre, 2011

Orchestraverdi – concerto n 2



Con il secondo concerto della stagione principale de laVerdi inizia l'esplorazione di tutte le (principali) opere di Ciajkovski: Sinfonie e Concerti (ma non solo…)


Contrariamente a quanto annunciato (e stampato sui depliant della stagione) ad interpretare il famosissimo Concerto per Pianoforte non è il vincitore del Premio Ciajkovski 2011 (Daniìl Trìfonov, nella fattispecie) ma il nostro Simone Pedroni, artista residente presso l'Orchestra. L'idea di invitare il futuro vincitore di uno dei maggiori premi internazionali era parsa allo stesso tempo geniale e avventurosa: avventurosa poiché di non facile realizzazione, diciamolo pure. Perché non si poteva certo pensare di aspettare il 30 giugno (data di assegnazione del premio) per invitare il vincitore – evidentemente conteso da ogni parte – a tenere concerti in Auditorium il 22-23-25 settembre! O allora si dovevano mettere in preallarme i 5 potenziali vincitori? Insomma, un azzardo. Peggio, o meglio a seconda dei punti di vista, è andata con il violino: il primo premio non è stato assegnato e i secondi sono due, a pari merito! Vedremo a giugno chi lo interpreterà da queste parti…

Bella e allo stesso tempo preoccupante notizia anche per la Xian. Che solo 19 ore (!?) prima dell'inizio del concerto saliva sul podio del Kennedy Center di Washington per dirigervi musiche e artisti cinesi! Sarebbe arrivata in tempo, visto che i Concorde sono ormai in pensione? E soprattutto: in quali condizioni avrebbe diretto un concerto così impegnativo? Beh, arrivata è arrivata; quanto alla prestazione, non so se è colpa del viaggio e del fuso, ma non mi è parsa delle più brillanti.
 
Nel concerto ha tenuto tempi piuttosto grevi e macchinosi, soprattutto nel primo movimento, ed anche Pedroni non è andato esente da qualche incertezza: un esito complessivamente poco più che discreto, anche se accolto calorosamente.

Nella Quarta ciajkovskiana mi è parso che mancasse un buon impasto fra le sezioni dell'orchestra: troppo spesso nel primo movimento gli ottoni (splendidi peraltro come prestazione) hanno sovrastato il resto degli strumenti e gli archi in particolare. Bravi come sempre i solisti (oboe, flauto, clarinetto, fagotto) e gli archi nel difficile pizzicato ostinato. Poi nel Finale, che però è per sua natura un fracasso quasi continuo e generale, l'orchestra ha trascinato il pubblico all'entusiasmo. Forse è mancato il tempo per qualche prova in più, chissà: rispetto alla precedente esecuzione dello stesso brano (febbraio 2010) mi sento di registrare un gran progresso degli ottoni.

In apertura di concerto (more… Abbado anni '70) una composizione contemporanea: Giga di Francesco Antonioni (presente in sala). Dieci minuti di musica varia (smile!) che al primo ascolto ti lascia piuttosto perplesso: il problema è che il secondo ascolto in questi casi non c'è quasi mai (!)

Il prossimo appuntamento, oltre a Ciajkovski, ci porterà anche qualcosa di Mahler.
--

22 settembre, 2011

Ulisse torna in patria… alla Scala


Pre-scriptum…

Ieri mattina, 21 settembre, un gruppetto di persone staziona davanti al negozio della Scala, lo chic-coso Scala-shop. Sono le 10:30, orario di apertura giornaliera. Saracinesca desolatamente abbassata. Alla buonora delle 10:43 la saracinesca si alza e, un paio di minuti dopo, arriva un'impiegata ad aprire il portoncino di cristallo. Tre delle 6-7 persone in attesa sono abbonati alla stagione operistica e sono lì per ritirare il programma di sala, consegnando l'apposito tagliando ricevuto con l'abbonamento. L'impiegata – unica, sempre quella che ha aperto – cerca di qua, cerca di là, poi fa una telefonata ed infine comunica che lo Scala-shop non dispone momentaneamente di alcuna copia del programma, che potrà essere ritirato prima della rappresentazione serale.

Ecco, sono particolari minuscoli ed irrilevanti come questo che mostrano all'esterno l'immagine di una istituzione decaduta.
___

Alle 20 seconda recita del monteverdiano (fino a prova contraria…) Il ritorno d'Ulisse in patria.

Un paio di consigli: tanto per cominciare, non chiedete a tale Fantozzi cosa pensi di quest'opera (smile!) E poi, prima di eventualmente entrare al Piermarini, fate diligentemente qualche compitino a casa (arrangiatevi, visto che non potete contare sul programma di sala, smile2!) Viceversa il latte rischierebbe di cadervi dalle ginocchia alle caviglie (ari-smile!) e vi trovereste costretti ad attendere l'intervallo prima di potervela squagliare, come ha regolarmente fatto il 20% dei presenti ieri sera.

A parte le facili battute di bassissima lega (nel senso bossiano) si tratta di un (capo)lavoro che difficilmente ti prende così, d'acchito, come – che so – La traviata o L'elisir d'amore. Tale e tanta è la distanza fra la nostra (in)sensibilità teatral-musicale e quella dei nostri antenati di quasi 4 secoli orsono. E pensare che c'è chi sostiene che La traviata altro non sia se non una delle nefaste conseguenze dell'imbastardimento della nostra sensibilità musicale, rispetto a quei tempi. Altri, giudicando a partire dal livello di discesa - lungo le gambe - del succitato latte, stabiliscono arditi paralleli fra Monteverdi e Wagner, nientemeno!

Eppure qualcosa di sensato ci deve pur essere in queste dicerie, se è vero, come è vero, che le opere di Monteverdi, di Cavalli, di Caccini e compagni ebbero - ai loro tempi - dei successi di pubblico addirittura superiori (misurando in termini relativi) a quelli di Verdi e Wagner, più di due secoli dopo.

Ancora oggi persistono incertezze sulla paternità dell'opera, di cui esiste il libretto di Giacomo Badoaro (in 5 atti) e una copia apocrifa della partitura (in realtà una specie di spartito per canto e accompagnamento, più qualche intermezzo – sinfonia – con pochi righi strumentali) scoperta a Vienna nell'800, con suddivisione in 3 atti e fatta stampare per la prima volta da Haas nel 1922. Una puntuale ricostruzione dell'intricato scenario in cui si dibatte quest'opera si può trovare qui.

A chi prova (Scala-shop permettendo) a fare qualche compitino a casa prima di entrare in teatro, si presenta subito un grosso interrogativo: quanti e quali tagli – rispetto al libretto e allo spartito viennese – vengono praticati in questa edizione scaligera? Sì, perché l'opera eseguita in-toto (e con i ritornelli o ripetizioni previste) dovrebbe durare più o meno 3 ore e 50 minuti (prendo ad esempio l'incisione curata da Sergio Vartolo) mentre il sito del teatro ci informa che lo spettacolo (intervallo compreso, quindi) durerà 3 ore e 10 minuti. Ma in teatro un cartello avverte che la durata totale sarà di 2 ore e 55 minuti, con un intervallo di 30! Quindi, al netto, 2 ore e 25 minuti, ben 85 minuti meno dell'originale (pari al 37%!) Forse la cosa è stata fatta per limitare la discesa del latte… (e ri-smile!) ma con scarso successo, a giudicare dalle defezioni dopo la pausa.

L'intera opera comprende un prologo e 36 scene, di cui due e parte di un'altra non presenti nello spartito viennese e un'altra ancora (con Mercurio) di cui nel libretto è prescritta l'omissione (La si lascia fuori per essere malinconica, sic!) Oltre al prologo, nella versione in 5 atti abbiamo: Atto I con 9 scene, Atto II con 7, Atto III con 7, Atto IV con 3 e Atto V con 10. In quella in 3 atti le stesse scene sono accorpate così: 13 / 13 / 10, quindi fra le due versioni c'è allineamento solo all'ultimo atto (10 scene) mentre i precedenti (4 e 2 rispettivamente) sono disallineati.

E qui, sul famigerato programma di sala abbiamo il festival dell'approssimazione e delle incongruenze. Perché ovunque (locandina, titoli del libretto, sinossi, presentazioni varie) si parla di versione in un prologo e tre atti, ma la rappresentazione è in due parti; come strutturate? Guarda caso secondo la versione in 5 atti! Con l'intervallo posto precisamente fra il 2° e il 3° atto di tale versione, quindi dopo 16 scene (il che, diciamolo francamente e rendiamone merito ad Alessandrini, è la cosa più sensata da fare). Quanto ai tagli, parecchi paiono guidati da un'estrazione a sorte dei versi e delle battute musicali da sacrificare… ma per fortuna i più corposi (ed anche l'anticipo della scena di Melanto e Penelope) sono volti a stringere l'azione drammatica, eliminando divagazioni e pleonasmi. La realizzazione dell'accompagnamento (non si può certo parlare di orchestrazione, e chi la pretendesse non avrebbe capito nulla dell'opera) è dello stesso Alessandrini, e direi che sia fatta con criteri, approccio e misura del tutto consoni al soggetto da rappresentare.

In buca abbiamo 18 strumentisti, dotati di strumenti d'epoca e diretti da un Alessandrini che alterna frequenti interventi sulla tastiera del clavicembalo che gli sta davanti. Nella buca si sistemano anche i 4 interpreti del Prologo e infine i due cori (in cielo e marittimo) che accolgono con gioia la decisione degli dèi di far felice Ulisse.

La regìa di Wilson è di quelle tipiche di… Wilson (!) che si adegua in tutto e magari fin troppo alla ieraticità ed alla lentezza del recitar cantando: scene spoglie, interpreti col volto imbiancato, costumi che forse vogliono imitare quelli del 1640 e soprattutto movimenti lentissimi, proprio al rallentatore (le uniche intemperanze sono relegate al personaggio di Iro).

Tutta la compagnia di canto va apprezzata per l'abnegazione (credo sia la qualità principale richiesta in questi casi) ma anche per la buona qualità del canto recitato. E così alla fine lo scarso ma stoico pubblico rimasto gli tributa applausi e anche parecchi bravo!

Ecco, in circostanze come questa non si può non rimpiangere l'ingloriosa fine fatta fare alla vecchia, cara, Piccola Scala, che era ambiente ideale per questo tipo di rappresentazioni, prova ne sia che là vi furono tenute 9 delle 12 precedenti (fra il '43 e il '78). E il solo fatto che si tenessero nel teatrino di via Filodrammatici bastava a qualificarle e a tener lontani gli… impreparati!
---

19 settembre, 2011

Pappano con la Cecilia a Rimini


Il quarto e penultimo concerto della Sagra musicale malatestiana ha avuto come prestigiosi ospiti la migliore Orchestra italiana, guidata dal suo campione Antonio Pappano e la solista Hélène Grimaud. Accoglienza di pubblico adeguata al rango degli ospiti e Palacongressi ancora una volta stracolmo. Programma d'epoca, come d'epoca erano i bolidi che sfrecciavano ieri mattina borbottando sul lungomare, per il Gran Premio Nuvolari.


È Hélène Grimaud ad aprire la serata con il Primo concerto di Brahms. Già dalla lunga introduzione orchestrale si fa sentire il suono pulito, bellissimo, della Santa Cecilia (archi compatti come il pacchetto di mischia degli All-blacks e corni strepitosi) che obbedisce come un cagnolino al gesto – un po' sporco, se vogliamo, ma evidentemente efficace – di Pappano. Che detta un tempo per me quasi perfetto per il Maestoso (che è segnato da Brahms con 58 minime puntate) che, partendo da SIb, passando per LA e poi per RE maggiore, prepara l'ingresso in RE minore del solista. La bell'Hélène (smile!) mi è parsa voler depurare questo Brahms da ogni languidezza crepuscolare, per offrircene una interpretazione misurata e austera, cosa che personalmente condivido. Anche nell'Adagio e nel conclusivo Allegro non troppo (dove Brahms ha fornito solo indicazioni agogiche qualitative) ha staccato tempi piuttosto stretti, senza cadere in facili sdolcinature o in eccessi velocistici, rispettivamente. Calorosa accoglienza per lei, ripetutamente chiamata dal pubblico, che convince la francesina a regalarci un (in)solito bis.

Poi ecco la Scheherazade, uno dei capolavori di Rimski-Korsakov (qui qualche nota a margine di un'esecuzione de laVerdi). È la storia della bella principessa che, per sfuggire alla morte decretata dal suo sultano – un tizio poco raccomandabile, che applicava alle mogli la sbrigativa pratica dell'usa&getta - si inventa ogni notte una favola con cui distrarre il fetentone dalle sue poco simpatiche intenzioni. Anche noi oggigiorno abbiamo un pipistrello che cerca di sfangarsela – dai magistrati, nella fattispecie - inventando storielle a ripetizione: La piccola fiammiferaia Ruby, I due orfanelli tarantini, Il battello sulla Vitola, Ali Papa e i 40 spioni, I tre monti del milanese, Il segreto di bunga-bunga, Il colluttorio miracoloso di sorella Nicole, e così via fantasticando sulle 1000-e-1-notte-di-Arcore. Il celebre compositore Apicella sta scrivendo al proposito una suite, intitolata Beherluscazade

Ma bando alla deprimente attualità politica, e veniamo all'esecuzione dei ceciliani. Sugli scudi ovviamente le parti solistiche, quindi in primo luogo il Konzertmeister Carlo Maria Parazzoli, chiamato ad interpretare il ruolo della principessa; ma poi gli strumentini, che Rimski impegna spesso e volentieri in passaggi addirittura bestiali. Ma queste eccellenze non sono che diamanti incastonati in un gioiello meraviglioso, qual'è proprio l'intera compagine orchestrale. Non saprei cosa lodare di più di questa performance, che ha valorizzato al massimo tutte le bellezze di questa partitura – forse non sufficientemente apprezzata - che per me è davvero uno dei capolavori assoluti della musica. E quando Pappano, dopo aver messo a dormire prima il sultano e poi la principessa, abbassa le braccia sull'accordo perfetto di MI maggiore, impreziosito dal MI sovracuto in armonici del violino principale, è un uragano che si scatena in quel gran capannone che è il vecchio Palacongressi. Ripetute chiamate e non uno, ma due bis: l'Intermezzo pucciniano dalla Lescaut e la scatenata conclusione delle Ore ponchielliane. Insomma, una serata da tenere a memoria.

E così, dopo essere arrivati a Rimini (su un convoglio del loro socio fondatore Ferrovie Italiane, per caso guidato dall'AD Moretti? presente in sala…) sotto un soffocante garbino (32°) e con l'acqua del mare che pareva un brodo, i ceciliani se ne vanno lasciando dietro di sé temporali, acquazzoni e 10° in meno di temperatura: che l'estate stia finendo?
--

16 settembre, 2011

La “Verdi” apre la nuova stagione


Primo appuntamento della Stagione 2011-2012 per laVerdi all'Auditorium. Il programma è di quelli talmente classici da sfiorare lo stomachevole, ma una certa qual sostenutezza la si può anche accettare, data la circostanza inaugurale. Del resto, che laVerdi sappia come cavarsela anche con opere ed autori meno inflazionati è stato dimostrato non più tardi di domenica scorsa, con il trionfale War Requiem alla Scala.

Però, diciamo la verità, riproporre troppo di frequente titoli come questi fa correre un serio rischio: che i direttori e/o i solisti – tanto per differenziarsi e non venire tacciati di essere custodi di musei ammuffiti – e il pubblico – per non annoiarsi e sentire qualcosa di nuovo – propongano, e rispettivamente acclamino, interpretazioni cervellotiche o gigionesche, rendendo così un pessimo servizio alla musica. Grazie a dio ieri l'abbiamo scampata, ma non sempre è così…

È il 41enne Lars Vogt a cimentarsi d'acchito con un mostro sacro, l'Imperatore di Beethoven. Soprattutto nell'iniziale Allegro ne dà una visione nervosa, secca, con poco legato, quasi cattiva (ma qui siamo all'interno dei confini della sacrosanta libertà dell'interprete). Poi nell'Adagio un poco mosso tira fuori una buona cantabilità, scatenandosi ancora nel Rondò. Bravissima Xian nell'assecondare l'interpretazione del solista, lungamente acclamato e che ci allieta con questo bis.

Dopo l'intervallo la Fantastica di Berlioz. La riascoltiamo dall'Orchestra Verdi dopo circa 18 mesi (allora guidata da quello che oggi ne è diventato il Direttore Principale) e devo dire che ha fatto la stessa impressione – ed ha avuto lo stesso successo – di allora. Xian ne coglie tutta la nevrosi che la anima, già dalle Réveries-Passions (dove ci risparmia meritoriamente il ritornello dell'esposizione). Spettrale il bal, con le due arpe in evidenza, e sempre struggente la scena campestre: qui il bravissimo Emiliano Greci si allontana momentaneamente dal palco ed esce… non per fare pipì – smile! – ma per rispondere da lontano, con il suo oboe, al richiamo del corno inglese, imbracciato dall'altrettanto bravo Luca Stocco (non per nulla alla fine i due saranno ripetutamente chiamati per un applauso speciale). Il giusto livello di fracasso viene tirato fuori dalla marcia al supplizio, e infine tornano gli spettri (qui impersonati dal clarinetto in MIb di Jader Bignamini) a riproporre per l'ultima volta l'idée-fixe, ridotta a osceno sberleffo. Il Dies-Irae ruttato dalle due tube (oggi sostituiscono i vecchi oficleidi) porta al finale assordante, con le otto tremende terzine di tutta l'orchestra che sfociano nel conclusivo accordo di DO maggiore:


Manco a dirlo, pubblico praticamente in delirio.

Il secondo appuntamento sarà (quasi) tutto di marca ciajkovskiana.
---

14 settembre, 2011

Un grande Mehta con la IPO agli Arcimboldi


Ieri sera l'enorme anfiteatro degli Arcimboldi, praticamente esaurito, ha ospitato la Israel Philharmonic Orchestra, guidata dal suo Direttore principale, Zubin Mehta, in uno dei concerti del MITO-2011. Fuori, qualche ragazzo con bandiere palestinesi, tenuto a debita distanza da pochi agenti, e un volantinaggio che invitava a boicottare la IPO (ritenuta responsabile di fiancheggiamento dell'esercito israeliano nelle sue occupazioni di territori palestinesi): nulla al confronto delle pesanti contestazioni di cui la IPO è stata fatta oggetto di recente ai Proms.


L'orchestra, con il nome di Palestine Orchestra, nacque nel 1936 e tenne il concerto inaugurale il 26 Dicembre, diretta da Arturo Toscanini. Ecco come l'avvenimento viene descritto - sotto il titolo Jewish Affairs - nel rapporto relativo a quell'anno dell'Alto Commissario di Sua Maestà Britannica, sir Arthur Grenfell Wauchope, responsabile dell'Amministrazione di Palestina e Trans-Giordania, allora sotto mandato britannico per conto della Lega delle Nazioni:

99. A Jewish symphony orchestra was established at the end of the year through the initiative of Mr. Bronislaw Huberman, the well-known violinist, who secured the services of a large number of Jewish players and considerable financial support for his scheme from abroad. Mr. Arturo Toscanini conducted the first concerts of the new orchestra, which achieved a striking success. A number of the concerts are being broadcast by the Palestine Broadcasting Service.

Fu subito dopo la nascita dello Stato di Israele che l'orchestra assunse il suo nome attuale. In questa foto del 20 novembre 1948 si vede un trentenne Lenny Bernstein al pianoforte dirigere l'orchestra a Be'er Sheva:


Gustav Mahler è per evidenti ragioni uno dei compositori beniamini dell'orchestra, che cominciò ad inciderne le opere già 60 anni orsono. Sappiamo invece come Wagner soffra di un ostracismo ideologico in Israele, nato peraltro nel 1938, dopo la Kristallnacht (Toscanini in precedenza aveva eseguito, con la neonata Orchestra di Palestina, brani di Wagner senza suscitare scandalo) e divenuto totale dopo l'Olocausto. Zubin Mehta e poi Daniel Barenboim hanno compiuto qualche tentativo isolato di romperlo, suscitando polemiche a non finire.

Problemi che invece non esistono con Franz Liszt, di cui la IPO ci presenta, in apertura di concerto, il terzo poema sinfonico, Les Préludes. Però attenzione, la fanfara che lo contraddistingue e lo chiude:

fu impiegata dai nazisti nel 1941, durante la campagna di Russia, come segnale militare, e per di più, da un altro tema dei Préludes, Wagner ricavò il motivo del Walhall! Insomma ci sarebbero gli estremi per una messa al bando… ma (per fortuna) la cosa è sempre passata sotto silenzio.

Così la IPO e Mehta possono allietarci con questo trascinante pezzo, che suscita sempre applausi e ovazioni: il Maestro sembra quasi voler calcare la mano, la butta sull'enfasi e la retorica, ma sa anche mettere in risalto i lati intimistici del brano. Insomma, un'interpretazione un poco pesante, ma non greve.

Dove Mehta – per me – è stato grande è nella Quinta di Mahler, proposta con una assoluta fedeltà alla lettera (oltre che allo spirito) della partitura. Un esempio per tutti: l'attacco del tema iniziale, dopo la fanfara introduttiva, che Mahler prescrive Un poco più trattenuto, e che a volte viene interpretato – anche da direttori di gran nome - come un Improvvisamente lento… E poi, niente fracassi gratuiti, ma anche niente sdolcinamenti decadenti (vedi il delicatissimo Adagietto). Invece Mehta ha messo sapientemente in risalto – vedasi lo Scherzo e il Rondo - tutta la fitta rete di contrappunti che pervade quest'opera, troppo spesso fatta oggetto di attenzioni… gigionesche. E l'Orchestra, compatta in tutte le sezioni (con gli ottoni ovviamente in evidenza) gli ha risposto in modo esemplare. 

Interminabili gli applausi, le urla e le richieste di bis, andate purtroppo deluse (sul leggìo di un violino si intravedeva uno spartito di Ciajkovski…) ma forse si era fatto troppo tardi, e oggi la IPO deve risuonare, con diverso programma, a Torino. Poi, dopo un altro giro in Europa, il 24 Orchestra e Maestro replicheranno lo stesso programma di ieri a Rimini, chiudendovi la serie dei 5 concerti della Sagra malatestiana. Il giorno successivo concluderanno il loro tour a Verona, con il programma di Torino.
---

12 settembre, 2011

Fuori Gelmini, dentro Principe!



Il commento di Moreno al post precedente (sul War Requiem e laVerdi) si appaia significativamente ad un articolo di Quirino Principe comparso ieri sul Sole24Ore.

Adriano Celentano tempo fa usava i termini: rock e lento. Non per descrivere due generi di ballo, ma come aggettivi per distinguere: forte da debole, o gagliardo da rammollito, o anche intelligente da becero, e così via.

Non so se Quirino Principe si sia ispirato al molleggiato (non… rammollito, smile!) per ri-coniare la definizione di musica classica, seria o colta in musica forte (certo si è che chiamarla rock gli avrebbe creato qualche problemino, ari-smile!) ma una cosa è sacrosanta: se non la si insegna a scuola (a partire da quella materna, o asilo che chiamar si voglia, neanche dalla prima elementare) la musica, che poi è una sola, forte di sua natura, rischia inesorabilmente il declino.

Ironia della sorte e sfiga profonda: a pagina 2 della versione web del citato articolo, nel secondo paragrafo, dove Principe ricorda la sensibilità del Presidente (quello buono, mica quello che aiuta i sedicenti-poveri tarantini) un disgraziato refuso ci avverte della finzione primaria della musica. Buonanottealsecchio…
--

Una grande “Verdi” con Britten alla Scala


Ieri sera la Scala ha ospitato (come accade ormai da diversi anni) il concerto inaugurale della stagione 2011-12 dell'Orchestra Verdi.

La data ricordava una tragedia, le cui conseguenze ancora si possono vedere in quel di Manhattan. E in memoria di un'altra tragedia Benjamin Britten compose il War Requiem (completato nella sua Aldeburgh il 20 dicembre 1961) che fu eseguito per la prima volta in occasione dell'inaugurazione (30 maggio, 1962) della ricostruita cattedrale di SanMichele a Coventry. La cattedrale era stata rasa al suolo nel 1940 - con tutto il resto della città - dalle bombe della Luftwaffe, in conseguenza del raid aereo che i nazisti (con raffinata quanto blasfema ispirazione) avevano soprannominato Mondschein-Sonate. Più tardi, nel 1945, Dresda subì la medesima sorte - con vittime moltiplicate almeno per 50 - in virtù della regola di retaliation (leggi: taglione) che governa i rapporti umani in simili disgraziate circostanze.

Quel giorno di quasi 50 anni orsono furono significativamente un inglese (il compagno di Britten, Peter Pears) ed un tedesco (Dietrich Fischer-Dieskau) a cantare i versi del poeta-soldato Wilfred Owen, caduto nel 1918 sul fronte occidentale. Versi ispirati dagli orrori di un'altra guerra, la cosiddetta Grande (ma fu un record battuto assai presto) e che Britten ha intercalato a quelli latini nel suo Requiem. Requiem a sua volta dedicato, dall'autore che fu pacifista convinto ed obiettore di coscienza, a quattro amici marinai (tre britannici e un neo-zelandese) morti o dispersi durante (o poco dopo) il secondo conflitto mondiale.
.
L'opera è chiaramente ispirata dalla spazialità del luogo cui fu dedicata: due orchestre (e solisti + coro) che (prevalentemente) si alternano nell'esposizione del Requiem cristiano e dei versi di Owen; più un coro di ragazzi accompagnato dal solo organo. I versi latini della Missa pro defunctis sono esposti dal soprano e dal coro misto con l'orchestra sinfonica e dal coro di ragazzi con l'organo. Quelli di Owen – in lingua inglese – sono cantati da un tenore e da un baritono, accompagnati da un'orchestra da camera di 12 elementi. I versi latini e quelli di Owen creano uno stridente contrasto fra la cristiana speranza, che i primi lasciano sempre intravedere, anche nel cupo Dies Irae, e il disperato pessimismo, cui sono improntati i secondi.

Britten, strenuo assertore del diatonismo, ne impiega uno dei simboli – il diabolico intervallo di tritono – come ingrediente di base del suo Requiem. Tradizionalmente è l'intervallo (proibito dai classici poiché dissonante e di impervia intonazione) con cui sono stati rappresentati musicalmente: l'orrore, il terrore, l'illegalità, l'immoralità, l'abiezione, il disprezzo delle regole, ed ogni altra immaginabile nefandezza. Insomma, tutti gli ingredienti che si cumulano nel termine guerra.

È il coro, insieme alle campane, ad esporlo subito, all'inizio del Requiem aeternam (N°1) in diverse forme: dapprima con il FA# seguito dal DO in voci diverse, poi con l'intervallo esposto dalle 4 voci del coro a canone (Et lux perpetua DO-FA#, luceat eis FA#-DO) e quindi con i due suoni sovrapposti:
Il coro di ragazzi sembra gettare un po' di luce sullo scenario (Te decet hymnus) ma la chiusa, che si sovrappone al ritorno del Requiem, ripropone il famigerato tritono, che poi torna a farla da padrone fino all'ingresso del tenore (What passing bells, Quali campane funebri) sui versi di Owen da Anthem for Doomed Youth; un canto agitato, per ricordare chi muore senza nemmeno un requiem.

Il coro chiude questa prima parte con il lento e sostenuto Kyrie, e allo stesso modo concluderà il Dies Irae (Pie Jesu) e l'Opera (Requiescant in pace). E sempre è il tritono (FA#-SI#) a prevalere, cedendo poi solo sull'ultima battuta, che sfocia faticosamente in FA maggiore.

Adesso il coro – che dovrebbe rimanere finora seduto – si alza per attaccare il Dies Irae (N°2) che è suddiviso in 4 sezioni: Dies Irae, Liber scriptum (dove interviene il soprano), Recordare e Dies Irae (Lacrimosa, con nuovo intervento del soprano). Con esse si intercalano 4 poemi di Owen: Voices (Bugles sang, Le trombe cantarono) esposto dal baritono; The next war (Out there, we've walked quite friendly up to Death, Là abbiamo camminato molto ben disposti verso la morte) cantato da tenore e baritono; On Seeing a Piece of our Heavy Artillery Brought into Action (Be slowly lifted up, thou long black arm, Sollevati lentamente, tu lungo braccio nero) esposto dal baritono e infine Futility (Move him into the sun, Spostatelo al sole) cantato dal tenore. La seconda strofa di quest'ultimo brano si intercala con il coro e il soprano che riprendono il Lacrimosa. Chiude il numero il coro con Pie Jesu Domine, dona eis requiem. Amen.

L'Offertorium (N°3) è aperto dal coro di ragazzi, cui subentra quello adulto (sul Sed signifer sanctus Michael) che introduce il lungo Quam olim Abrahae. A questo punto ascoltiamo da baritono e tenore i versi di Owen da The parable of the Old Man and the Young (So Abram rose, così Abramo si alzò). Sono una spietata e straziante versione cruenta e attuale del testo biblico: qui l'Abramo moderno – la follìa della guerra – non accoglie l'invito dell'Angelo a risparmiare il figlio, ma al contrario ammazza il suo Isacco, e con lui one by one, half the seed of Europe, uno per uno, la metà del seme dell'Europa! I ragazzi contrappuntano significativamente questa disperata imprecazione con i versi Hostias et preces tibi Domine laudis offerimus, poi reintroducono il coro che chiude riproponendo il Quam olim Abrahae.

Il Sanctus (N°4) è introdotto dal soprano, accompagnato soltanto dalle percussioni scampaneggianti e dal pianoforte. Sul Dominus Deus Sabaoth spunta ancora il famigerato tritono, che proprio non risparmia nessuno! Poi l'Hosanna è accompagnato da un turbinio di note degli ottoni. Dopo il Benedictus e il ritorno dell'Hosanna in excelsis, ecco il baritono ricacciarci nel più nero pessimismo, intonando i versi di Owen da The End (After the blast of lightning, Dopo l'esplosione dei lampi) che non lasciano proprio alcuna speranza: It is death, È la morte… intonata (indovinate un po') sull'intervallo RE-SOL# dei fagotti.

Ora abbiamo l'Agnus Dei (N°5) che, contrariamente agli altri numeri, è aperto dal tenore, quindi dall'orchestra da camera, quindi da versi di Owen: One ever hangs where shelled roads part, C'è sempre un impiccato là dove le strade bombardate si biforcano, da At a Calvary near the Ancre (il fiume della Piccardia dove ebbe luogo una battaglia nel 1916). Le tre strofe della poesia sono intercalate dal verso latino, mentre il tenore chiude cantando – per la prima e unica volta – anche lui in latino: Dona nobis pacem.

L'ultimo numero è il Libera me (N°6) aperto dal coro e dal soprano, prima del lungo intermezzo da Strange meeting (It seemed that out of battle I escaped, Mi parve di essere sfuggito alla battaglia) in cui tenore e baritono sostengono le parti di due nemici che si sono affrontati sul campo. Let us sleep now (dormiamo, adesso) è la rassegnata conclusione che i due cantano insieme, mentre i cori e il soprano, con il pieno dell'orchestra, contrappuntano con l'ultima strofa dell'inno cristiano.

È il coro solo - con l'intervento di un unico rintocco delle campane (FA#-DO!) – a chiudere con il Requiescant in pace… Amen, che si dissolve definitivamente in FA maggiore:

___

laVerdi schierava tutto il suo ragguardevole organico: l'orchestra sinfonica, sotto la guida sapiente di Zhang Xian (Konzertmeister Luca Santaniello); quella da camera, disposta all'estrema destra del podio, condotta da Ruben Jais (primo violino Nicolai von Dellingshausen); il coro misto di Erina Gambarini e il coro di voci bianche (collocato nel Palco Reale!) di Maria Teresa Tramontin.

Il soprano Chiara Angella, il tenore Barry Banks e il baritono Mark Stone (entrambi britannici) completavano la squadra.

Un'esecuzione impeccabile, senza un attimo di perdita di tensione, che il pubblico ha gratificato di un lunghissimo applauso e rumorose acclamazioni, per tutti e per ciascuno degli interpreti. Davvero un'impresa che definire storica non è esagerato.
___

Come nobile antipasto della serata avevamo avuto il brahmsiano Schicksalslied, dove Hölderlin ha in certo qual modo anticipato Britten, laddove separa nettamente (nelle prime due strofe) la condizione degli spiriti celesti da quella (terza strofe) degli esseri umani, ai quali ultimi è negata ogni pace, e il cui destino è di cadere, come l'acqua in una forra, di rupe in rupe, verso abissi insondabili. Brahms - lui era un laico sì, ma non certo un nichilista… - ci mette un pizzico di ottimismo, e così, dopo le prime due strofe (celesti, in MIb maggiore) e la terza (umana, in DO minore) chiude tutto con la ripresa della prima strofe, solo strumentale e in DO maggiore (quindi con una concatenazione tonale a dir poco didascalica).

Impeccabile anche qui il coro della Gambarini e proprio… brahmsiana la direzione di Xian.

Giovedi prossimo, dopo un giretto di riscaldamento nella mia Brescia, si ricomincia in Auditorium!
---

10 settembre, 2011

Un (mezzo) Fidelio e la Leonore3 trionfano alla Scala


All'annuncio della stagione 2010-2011 de La Scala, in molti avevano di certo pregustato la rappresentazione, in forma scenica, della straussiana Arabella, da parte della Wiener Staatsoper con Welser-Möst. Ma strada facendo (già a SantAmbrogio) corsero voci su cambiamenti di programma, poi la cosa fu ufficializzata: niente Arabella (rappresentata a Vienna giovedi sera!) ma Fidelio. Sempre Staatsoper, sempre Welser-Möst, ma niente scene, esecuzione in forma di concerto. E tanto per infierire, anche il concerto dei Wiener Philharmoniker, che si doveva tenere a ridosso di Arabella, è svanito nel nulla.

Ultima suspence, il minacciato sciopero degli addetti all'accoglienza del pubblico, che aveva francamente del grottesco, date le circostanze, e che è poi rientrato (pratica di solito attuata attorno al 7 dicembre, smile!)

C'è chi sostiene che la forma di concerto sia l'unica adatta a presentare Fidelio, falsa opera di un compositore cromosomicamente sinfonico e troppo freddo e razionale per distinguersi in un campo dominato da emotività e irrazionalità. Altri sostengono esattamente il contrario e fra questi Giorgio Pestelli, che ha riempito due terzi delle pagine del programma di sala per convincerci della teatralità di Fidelio. (Ma di solito, se si deve ricorrere a lunghe e verbose spiegazioni, significa che la tesi traballa… smile!)

Comunque, qui abbiamo proprio un'esecuzione in-forma-di-concerto: cantanti impalati davanti al loro leggìo, neanche l'ombra di qualche scimmiottamento sceneggiato. Gli unici movimenti sono quelli di entrata e uscita dal palco, prima e dopo aver cantato il proprio numero. I dialoghi parlati sono quasi totalmente soppressi, salvo pochissime battute, messe lì più per occupare il tempo dell'entrata del cantante sul palco che altro.

Lunghi applausi all'ingresso dell'Orchestra (70 elementi o poco più) e di Welser-Möst, ma l'Ouverture non scatena entusiasmi (persino i celebri corni lasciano un po' a desiderare…) e il Kapellmeister, dopo un paio di secondi di attesa (del mancato applauso…) attacca il numero di Marzelline (Anita Hartig, bella voce penetrante) e Jaquino (Norbert Ernst, tutto il contrario della Hartig) accolto da deboli battimani. Meglio va alla Hartig con la sua aria, applaudita peraltro freddamente. Nessuna reazione del pubblico al famoso quartetto, che di solito strappa uragani di applausi, né all'aria di Rocco (Hans-Peter König, che forse e senza forse è più adatto a fare gli Hunding e gli Hagen, che non un personaggio di mediocre statura come Rocco…)

Il pubblico resta indifferente anche all'aria di Pizarro (Albert Dohmen, che pure del ruolo è specialista) che avrebbe meritato assai di più, mentre si anima dopo l'Abscheulicher di Leonore (Nina Stemme, che peraltro mi è parsa deboluccia nella cosiddetta ottava bassa).

Insomma, il primo atto, nonostante un apprezzabile coro dei prigionieri (dove il tenore solista si fa sentire meglio di Ernst, pur trovandosi 20 metri più indietro) si chiude senza troppi entusiasmi ed anzi (mi sbaglierò forse) con un paio di timidi buh piovuti dal secondo loggione.

Però sappiamo che il meglio di Fidelio è il secondo atto, che infatti comincia – per me - nel migliore dei modi con l'aria di Florestan (un Peter Seiffert apparso in ottima forma) anche se il pubblico latita ancora. Però dopo la scena-madre e il Namenlose Freude di Nina e Peter cominciano a piovere applausi.

E qui arriva il piatto forte, nella più classica tradizione viennese, inaugurata a suo tempo da tale Mahler: la Leonore3. Quanto fuori posto è in una rappresentazione scenica, tanto è efficace per risollevare le sorti di un concerto! E siccome nessuno (o pochissimi) al mondo la sa suonare meglio dei Wiener, il successo è assicurato e il teatro viene giù, come si suol dire. Il quarto d'ora strumentale consente anche a Nina Stemme di restituire (immagino ad un orchestrale, smile!) il frac con cui fino a quel momento si era presentata (essendo maschio): svelati l'identità e il sesso, la bella svedesina (!) torna in palco con un lungo nero, a godersi il trionfo.

Sì, perchè da qui in poi è un entusiasmante crescendo, grazie soprattutto al coro di Thomas Lang (il cui nome nella locandina web non viene nemmeno citato… vergogna) e in minima misura grazie all'arrivo del super-ministro Don Fernando (un dignitoso Markus Marquardt).

Alla fine gran trionfo per tutti e ripetute chiamate per direttore, solisti e maestro del coro. Una serata, diciamo, un po' diesel, a lenta carburazione, ma poi chiusa in gloria. Forse, date le circostanze - recita blitz, immagino fatta senza rete (cioè senza una prova seria sul posto) - non era lecito chiedere di più…
---

06 settembre, 2011

La messa cantata di Mahler a Rimini


Dopo l'esordio a Torino, dove ha aperto il MITO-2011 (con presenza di Radio3) il mio illustre concittadino Gianandrea Noseda da Sesto (San Giovanni) si è spostato armi e… musicanti in Adriatico per replicarvi l'esecuzione di quella gigantesca quanto nobile mappazza che risponde al nome di Sinfonia dei Mille.

L'eventuale riferimento ai 150 anni dalla nascita del BelPaese è nella fattispecie del tutto fallace, datosi che quei mille nulla hanno di garibaldino, né di italico (questa l'ha raccontata anche Bossini alla radio…) Essendo il prodotto più genuino e d.o.c. della cultura musicale mitteleuropea dell'ottocento-novecento, qui da noi piuttosto snobbata, ai tempi, se non proprio irrisa. Poi, come spesso accade, si assiste al fenomeno opposto, quello della renaissance, che spesso ha presupposti extra-artistici e aspetti più vicini alla moda che al gusto estetico. Ma tutto fa brodo, e che Mahler oggi si esegua (o registri) con grande frequenza è di sicuro un bene; caso mai sta a ciascuno di noi decidere in quali dosi fruirne, onde evitare possibili intossicazioni.

L'Ottava è uno dei tanti esempi di rimescolamento – per gli scettici: di imbastardimento - delle forme musicali operato da Mahler, costantemente alla ricerca di strumenti nuovi con i quali dare espressione alla sua estetica e alla sua personale visione del mondo. Sinfonia? Messa? Oratorio? Cantata? Fantasia corale? Poema sinfonico con voci? Nulla di tutto ciò, ma allo stesso tempo un po' tutto di ciò. E il nostro aveva cominciato così - quando ancora non aveva vent'anni - con il velleitario Das klagende Lied (non per nulla bocciato senza pietà da tale Brahms): poi, a più di 25 anni di distanza e all'apice del successo, cuocerà insieme Hrabanus Maurus e Goethe in un brodo di MI bemolle di ordinanza, per propinarci questo suo sesquipedale minestrone monumento.

Nel quale si ritrovano reminiscenze del passato (motivi, incisi, a volte sfumature, già uditi in una qualche precedente sinfonia o lied) e novità che ricompariranno in seguito. (In fondo, non si dice forse che la musica di Mahler è sempre uguale a se stessa?)

Il Veni creator in effetti è (quasi) una messa, dove i cori la fanno da padroni, mentre ai solisti sono riservate parti poco… solistiche, anche se estremamente impegnative. Presenta già dei temi che – variati, invertiti, trasposti – ricompaiono poi nella seconda parte, a sua volta poggiante su alcuni motivi che vengono impiegati in scenari diversi e con varianti diverse.

Ad esempio, quello esposto da flauti e clarinetti alla battuta 4 diviene la base per diversi interventi dei soli e del coro:

O ancora, il motivo che udiamo cantato prima dal Pater Profundus e quindi dal Doctor Marianus – dopo essere stato introdotto dagli ottoni isolati al termine della prima parte - altro non è che l'anticipazione del dolcissimo tema che accompagna l'apparizione della Mater Gloriosa:
Un altro motivo portante dell'opera è di chiara ascendenza parsifaliana:
E, proprio come nel dramma wagneriano, questa caratteristica scala ascendente ritorna ad ogni pie' sospinto, e significativamente a supportare il conclusivo zieht uns hinan.

Ma l'Ottava (in specie la seconda parte) è costruita – in contrasto con i canoni sinfonici, che prevedono l'esposizione di pochi temi, ben delineati – come un meccano, a partire da alcuni frammenti di base, di volta in volta montati in configurazioni diverse. O, per usare un termine della forma-sonata, è come un solo, lungo e gigantesco sviluppo.

La seconda sezione pone in musica - escludendo il solo intervento del Pater seraphicus - gran parte del Bergschluchten (l'ultima scena del Faust II, atto V). Alla fine del quale, dal goethiano Ewig-Weibliche (l'eterno femminino) Mahler estrapola, per reiterarlo più e più volte, quell'Ewig che qui ha il sapore dell'eternità (cristiana?) oltre che quello dell'ottimismo, vissuto dal compositore nel momento di piena realizzazione dei suoi obiettivi (e sogni) esistenziali ed artistici. Pochi mesi dopo il completamento dell'Ottava arriveranno però impietosi i tre colpi di martello con cui Mahler - nella sua pretenziosa quanto discussa sesta - aveva simbolizzato il destino che abbatte l'uomo. Ecco così che un altro Ewig tornerà a farsi ripetutamente udire – gänzlich ersterbend - come ultima parola, significante serena e laica (meglio: confuciana) rassegnazione, a chiudere l'ultimo canto musicato dal piccolo-grande boemo.
___

Ai quasi 1500 spettatori che assiepano la vasta platea del Palacongressi (quello vecchio… ancora) si presenta un impressionante colpo d'occhio sull'ipertrofico complesso degli interpreti: non 1000 - come effettivamente furono alla prima di Monaco, 101 anni orsono, il prossimo lunedì - ma quasi 400, come ci ha precisato una delle voci fiorentine dei cori. Gli strumentisti devono essere in numero adeguato a fronteggiare le masse corali (due cori misti del Regio e del Maggio e due cori di voci bianche, del Regio e del Conservatorio di Torino) e ciò giustifica l'impiego cooperativo di due orchestre (RAI e Regio). Mahler qui non si serve dei suoi cari campanacci da mucca (che pure sarebbero in sintonia con lo scenario materiale, quantomeno nella parte goethiana) forse ritenendo la cosa irrispettosa dello scenario spirituale… e quindi, per evocare le atmosfere rarefatte, si accontenta (si fa per dire) delle sonorità di pianoforte, celesta, arpe, mandolini e glockenspiel…

Il pacchetto di ottoni che suonano isolati a chiusura dei due tempi della sinfonia si posiziona, al momento opportuno, sul fondo della sala, proprio nel corridoio di ingresso, mentre la Mater Gloriosa, che verso la fine dovrebbe far udire la sua voce aus höhern Sphären, entra a fianco del secondo coro.

Rispetto alla formazione annunciata da tempo ci sono due sostituzioni: Erika Sunnegårdh al posto di Violeta Urmana (Soprano I e Magna Peccatrix) e Bernarda Bobro al posto di Julia Kleiter (Soprano, Mater Gloriosa). Gli altri sei solisti sono Elena Pankratova (Soprano II e Una Poenitentum), Yvonne Naef (Contralto I e Mulier Samaritana), Maria Radner (Contralto II e Maria Aegyptiaca), Stephen Gould (Tenore, Doctor Marianus), Detlef Roth (Baritono, Pater Estaticus) e Christof Fischesser (Basso, Pater Profundus). Solisti disposti davanti al coro, a sinistra del podio e dietro violini, arpe, piano e celesta: il che richiede a loro grande sforzo per passare, e al Direttore grande cura nel non coprirli.

Garibaldi non c'entrerà, ma Noseda tira in ballo i bersaglieri per l'attacco del Veni Creator: una cosa travolgente, e del resto in linea con le indicazioni agogiche di Mahler (Allegro impetuoso)!

Emozionante poi l'attacco dell'Accende lumen, dove il direttore crea il silenzio fra Ac… e …cende, forse andando al di là delle stesse indicazioni di Mahler, che prescrive – con il segno dell'apostrofo - una evidente (entschiedene) pausa di respiro.

La direzione di Noseda (che ha momentaneamente abbandonato la bacchetta, dall'inizio del Faust e fino alla seconda entrata dei cori, dirigendo con… le dita, alla maniera del suo vecchio maestro Gergiev) non sarà magari stata memorabile, per via di una certa meccanicità e asciuttezza nell'esposizione (mi viene in mente il motivo dell'apparizione della Mater Gloriosa, messo in scarso rilievo) magari spiegabile col desiderio di evitare eccessi enfatici e retorici; ma in complesso il mio concittadino va elogiato non fosse altro che per aver saputo tenere insieme con grande autorità quel po' po' di esercito di musicanti.

Elena Pankratova mi è parsa la migliore dei solisti: voce potente, intonatissima e di grande espressività. Erika Sunnegårdh ha una voce meno penetrante (non è la Urmana!) ma in complesso non ha demeritato. Entrambe sono chiamate ad alcuni DO acuti, che hanno sfoderato con sicurezza.

Yvonne Naef e Maria Radner hanno mostrato belle voci (più chiara la prima, più brunita la seconda) e sostenuto dignitosamente i rispettivi ruoli. Bernarda Bobro deve cantare pochi versi e ciò ha fatto con diligenza.

Stephen Gould ha una voce dal timbro profondo (più da baritono o addirittura da basso che da tenore) per me poco adatta al ruolo di Doctor Marianus; in più fatica tremendamente sugli acuti (già dal SOL): l'unico SI naturale cui è chiamato (peraltro opzionalmente) lo ha dovuto emettere… impiccandosi.

Buono Detlef Roth, che ha esposto con grande sicurezza il suo Ewiger Wonnebrand e discreto Christof Fischesser, eremita… mangiapesci (smile!)

Grande la prestazione dei cori di Claudio Fenoglio e Piero Monti, così come quella dei professori: a dimostrazione che in Italia esistono risorse di livello assoluto, che meritano di essere valorizzate e sostenute. Questo e non altro hanno detto gli applausi che per lunghissimi minuti il pubblico ha tributato loro, dopo lo schianto del MIb conclusivo.

Fuori – dopo due giorni di nuvolaglia e di afa - ci accoglie una serata limpida e tiepida: qui l'estate ancora non è finita…

PS: il dolore per la morte di Licitra ha trovato spazio anche qui.
..

01 settembre, 2011

La stagione della “Verdi” inizia l’11/9 alla Scala


Domenica 11 settembre la Scala ospita il concerto inaugurale – fuori abbonamento – della stagione 2011-12 dell'Orchestra Verdi.

Da 10 anni esatti la data dell'11 settembre è diventata – da commemorazione di una strage inaudita - simbolo della volontà del mondo (cosiddetto) civilizzato di opporsi a qualunque fondamentalismo e a tutti i terrorismi che ne scaturiscono.

L'Orchestra Verdi già nel 2003 rese omaggio alle vittime di GroundZero con un Requiem classico, quello di Johannes Brahms. Quest'anno sarà la volta di un Requiem moderno, quello di Benjamin Britten, che permetterà a laVerdi di mettere in mostra tutte le sue risorse: orchestra sinfonica, orchestra da camera, cori (adulti e fanciulli) e i due Direttori stabili.

La stagione ufficiale inizierà poi giovedi 15 settembre, all'Auditorium, con un programma sontuoso: Imperatore+Fantastica!
--