affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

17 agosto, 2011

ROF-2011 - Adelaide


Ieri sera prima tappa (per me) del ROF-2011 - al Teatro Rossini, dove il pubblico ha lasciato pochissimi spazi vuoti - con Adelaide di Borgogna. Opera del Rossini già maturo (1817) ma forse meno riuscita rispetto a capolavori composti in anni precedenti (non parliamo poi di ciò che sfornerà di lì a poco) il che ne spiega il (relativamente) modesto successo.
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Il libretto si ispira a fatti storici medievali (metà del decimo secolo) assai liberamente interpretati e sui quali si innesta una vicenda romanzata a base di intrighi, imbrogli e tradimenti, con colpi di scena a ripetizione e il lieto fine (che almeno non contraddice la verità storica).

La quale storia ci porta sul Lago di Garda, e proprio nel paese che al lago dà il nome. Qui si trovava una antica rocca, distrutta nel 1200, di cui restano vaghe tracce e in cui venne imprigionata la principessa Alonda (così la chiama Bongiani Grattarolo nella sua Historia della riviera di Salò del 1599) alias Adelaide. Costei, nata nel 931 da Rodolfo II, Re di Borgogna e da Berta di Svevia, era andata sposa, a 16 anni, a Lotario II, re d'Italia. Ma rimase presto vedova, nel 950, per la prematura scomparsa del marito, si disse avvelenato da Berengario II, duca d'Ivrea, che si impadronì del trono. Per legittimare l'usurpazione, Berengario impose il matrimonio fra il proprio figlio Adalberto e la vedovella Adelaide. La quale rifiutò e venne così imprigionata, il 19 aprile del 951, nella Rocca di Garda e affidata alle cure di una serva e di un presbitero di nome Martino. Rimase rinchiusa per circa quattro mesi in una torre, da cui riuscì a fuggire con la complicità di detto frate Martino, trovando rifugio presso tal marchese Azzone, nella fortezza di Canossa (più nota per via di Matilde, che ci abitò più di un secolo dopo). Lì però fu scovata da Berengario, che cinse la fortezza d'assedio, ma fu sconfitto dall'imperatore Ottone I, disceso in Italia in soccorso della giovane vedova, che poi sposò nel Natale del 952. Adelaide governò l'impero dapprima accanto al marito e poi con il figlio Ottone II e, come reggente, con il nipote Ottone III. Morì a Selz (in Alsazia) il 16 dicembre 999 e successivamente fu canonizzata da papa Urbano II nel 1097.

Giovanni Federico Schmidt, livornese trapiantato a Napoli, mescolò questi ingredienti storici in modo assai bizzarro. A cominciare dalla collocazione temporale, 947, storicamente impossibile, datosi che Lotario (primo marito di Adelaide) a quel tempo era ancora vivo e vegeto ed anzi aveva appena sposato la sedicenne principessa. Poi l'ambientazione, collocata in una fantomatica fortezza di Canosso presso il Lago di Garda: forse il librettista, più e oltre che far confusione con la Storia, pensava alla scenografia, e decise di mettere sullo sfondo della fortezza il ridente lago, piuttosto che il meno attraente (i canossiani mi perdoneranno) paesaggio collinare dell'appennino reggiano. Proprio volendo fargli credito, potremmo anche ipotizzare che la sintesi Canossa+Garda=Canosso sia stata motivata dall'obiettivo di mantenere quell'unità di luogo tanto cara agli autori di drammi (tutta l'opera è ambientata in Canosso, ma in entrambi gli atti abbiamo una scena presso il campo di Ottone sul lago di Garda). Siamo quindi, in realtà, a Canossa, dove Adelaide si è rifugiata, ospite di Iroldo (nella storia: Azzone, che Schmidt storpia in Attone, tanto per creare altra confusione con Ottone, smile!) e inseguita da Berengario e dal di lui figlio Adalberto (Adelberto, per Schmidt).

In questo scenario il librettista, non potendosi certo accontentare di una trama piuttosto scialba e banale (l'assedio di Berengario, l'arrivo di Ottone, la di lui vittoria e il vissero tutti felici e contenti) si inventò un improbabile intreccio militar-diplomatico-passionale: Berengario-Adelberto, conquistata Canosso e fatta prigioniera Adelaide, offrono al sopraggiunto Ottone una (finta) pace, cercando di sputtanare Adelaide ai suoi occhi; ma quando Ottone decide di sposare comunque la vedovella, Berengario-Adelberto gli muovono guerra e imprigionano Adelaide (qui finisce il primo atto). Inseguito da Berengario, Ottone si ritira, si riorganizza e cattura a sua volta l'usurpatore. Abbiamo quindi una classica situazione di stallo e di suspence: ciascuna delle due parti detiene in ostaggio una persona cara alla parte avversa. La vicenda si fa tanto intricata quanto inverosimile: Eurice, moglie di Berengario, cerca di convincere il figlio Adelberto a scambiare Adelaide con il padre. Vedendo Adelberto indeciso (lui vorrebbe tenersi Adelaide a tutti i costi, essendone sinceramente innamorato) libera lei stessa la principessa, facendosi promettere in cambio il rilascio del marito! Mentre Adelberto, di malavoglia, parlamenta con Ottone per lo scambio di prigionieri (cui Berengario cerca peraltro di opporsi) arriva Adelaide, che convince Ottone a lasciar liberi i nemici, come promesso ad Eurice. Berengario e Adelberto possono quindi preparare un'altra guerra: la perdono e finalmente Ottone ed Adelaide si uniscono trionfalmente in matrimonio (!)
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Trama invero farraginosa, difficile francamente trarne un grande dramma per musica, ahinoi! E se ne accorse già il pubblico dell'Argentina alla prima rappresentazione, accolta assai freddamente. Però la musica non è certo da buttare, al contrario! A parte l'imprestito (la sinfonia presa, con pochi ritocchi, da quella della Cambiale di matrimonio) ci sono arie, concertati e cori assolutamente degni del miglior Rossini.

Già l'inizio è promettentissimo, con l'Andante in FA maggiore dei cori (del popolo di Canosso, Misera patria e dei guerrieri di Berengario, Aprì la chiusa terra) in cui interviene brevemente anche Iroldo, seguito dal terzetto fra Adelaide, Berengario e Adelberto, un numero assai lungo ed articolato: Allegro, SIb, con la preghiera di Adelaide ai suoi sequestratori (Lasciami) perché la liberino, mentre costoro le offrono di tornare regina, ma sposando Adelberto; l'Adagio, LAb, dove troviamo l'invocazione di Adelaide (Dio, che m'ami) perché le faccia arrivare l'aiuto di Ottone, contrappuntata dalla sicumera dei due nemici (La superba in tal cimento) che escludono che quell'aiuto possa mai materializzarsi (qui Adelaide tocca il REb acuto); e infine il Vivace, in FA maggiore, Ah crudel, che sancisce la totale rottura fra le due parti, con Adelaide che rifiuta le profferte di Adelberto e Berengario che ne ordina l'imprigionamento. La chiusa del terzetto, con intervento anche del coro (Io t'aborro nell'amore) è davvero degna del miglior Rossini!

Seguono dei recitativi secchi: totalmente tagliato quello fra Berengario e Iroldo (con reciproche accuse e minacce) e in parte il successivo, che ci informa dell'arrivo di Ottone e dell'inganno che Berengario sta preparando.

Ora abbiamo una bella veduta del Lago di Garda. Dove il coro dei soldati germanici (Salve, Italia) in SOL maggiore ci introduce l'ingresso del (della, in realtà) protagonista: Ottone si presenta con un bel recitativo accompagnato (O sacra alla virtù) proprio degno di Cherubini o di Gluck (purtroppo in tutta l'opera ne troviamo solo tre, il resto son recitativi secchi, per noi piuttosto noiosi a sopportarsi) che passa dal SOL al DO. Dopodichè - introdotta e poi contrappuntata in Maestoso da un delizioso assolo dell'oboe d'amore (o del corno inglese) obbligato – Ottone intona la sua cavatina Soffri la tua sventura, in MIb, per poi sfociare in un bellissimo Allegretto (Amica speme).

Un altro recitativo secco (tagliato, di tutta una serie di picche-e-ripicche, riguardo il diritto e/o la dignità di Adelaide) prelude al lungo duetto (Allegro in FA maggiore, poi in DO) fra Ottone ed Adelberto (Vive Adelaide in pianto). Segue un Andante, in LAb (dove il tenore tocca anche il DO acuto): è Adelberto che offre la sua pace ad Ottone (Noi deponiamo il brando). Il quale accetta (Depongo io pure il brando) ma diffida sempre più nel suo interlocutore. Che, su un repentino passaggio in Allegro e FA maggiore, invita Ottone a Canosso (Amico ricetto) per suggellare la pace. Offerta che Ottone accetta, pur con crescente sospetto, e principalmente per il desiderio di incontrarvi Adelaide.

Un recitativo secco (tagliato, al solito) ci porta a Canosso, dove Berengario è a colloquio con la moglie Eurice, di cui cerca di dissipare dubbi e timori. Arriva Ottone, accolto da un coro (Viva Ottone) di canossiani osannanti, Iroldo incluso: è un Moderato, SIb, in 6/8, che nel ritmo e nello stilema anticipa chiaramente Weber!

Finalmente Ottone può incontrare Adelaide, che subito gli conferma il torto subito da Berengario-Adelberto. Una parte del recitativo secco (gli scambi di accuse fra la vedova e i due usurpatori) viene giustamente cassata e si passa direttamente alla dichiarazione perentoria di Ottone (Ella è mia sposa) suggellata dalla ripresa del coro precedente (Plauda il mondo) che inneggia alla coppia.

Ora un recitativo secco ci mostra i timori di Adelberto e la sicurezza del padre, convinto di aver messo in atto il piano giusto. Berengario ha qui la sua aria (Se protegge amica sorte) un Allegro giusto, in LA maggiore, per la verità piuttosto opaco e privo di mordente (non per nulla si dice che non sia di mano di Rossini!)

Delizioso, invece, il coro che segue, Andante mosso, in SOL maggiore (O ritiro) delle damigelle di Adelaide, che ne celebrano la felicità per l'imminente matrimonio. E Adelaide canta di seguito la sua cavatina Occhi miei, piangeste assai (Maestoso, in RE maggiore) la cui seconda parte (O cara immagine) modula a SOL maggiore.

Il successivo recitativo secco ci presenta Iroldo, governatore di Canosso e fido di Adelaide, che si congratula con lei e le introduce Ottone. Il quale si dichiara disposto ad andarsene, se Adelaide non lo amasse sinceramente. La principessa sembra sulle prime titubante, ma poi si dichiara: Ah! no; son tua. Qui abbiamo il duetto fra i due (soprano e contralto): è inizialmente un Allegro moderato, in MI maggiore (Mi dai corona e vita e poi Che difensor ti sono). Segue una sezione in Maestoso, SI maggiore (Vieni al tempio) introdotta da una specie di Dreimalige Akkord, e chiude il duetto un Allegro, ancora in MI (Tu che i puri e casti affetti).

Da qui si passa al Finale I, sulla piazza di Canosso, dove si prepara la cerimonia nuziale fra Ottone e Adelaide, che Berengario e Adelberto interromperanno sul più bello. È il coro ad aprirla (Schiudi le porte, o tempio) con un ritmo marziale, Allegro, in DO maggiore (Rossini lo impiegherà di lì a poco nel Mosè, secondo atto, coro Se a mitigar tue cure). Berengario e Adelberto interloquiscono per confermare i loro piani (Riposa in canti). Ottone – Maestoso, modulando a MIb – invita Adelaide all'altare (O degl'itali regnanti) su un tema (il cui incipit è dominante-mediante-tonica) che tornerà fra poco. Adelaide gli risponde (Specchio illustre) mentre Berengario e Adelberto (Ah! componi il tuo sembiante) modulano a SI maggiore per prepararsi al momento topico del loro intervento armato. Adelaide e poi Ottone - passando a MI maggiore (Moderato) sempre sullo stesso tema cantato prima da Adelaide – intonano adesso il nobile Cara man, e sono ormai sul punto di dire il fatidico

Ma un brusco ritorno a DO maggiore, con un sinistro tremolo degli archi, annuncia il parapiglia (concertato) finale (il colpo di mano di Berengario e Adelberto) e l'atto si chiude con una classica stretta, mentre Tutto esprime confusione e spavento.

Come il primo, anche il secondo atto si apre con un coro (Come l'aquila che piomba) in Allegro, nello stesso DO maggiore con cui si era chiuso il primo. Sono i fedeli di Berengario e Adelberto, convinti di aver la vittoria in pugno.

Segue un recitativo secco, in parte tagliato, fra Adelberto e sua madre Eurice, che gioiscono per la vittoria, ma ancora sanno di dover convincere Adelaide. Il successivo recitativo secco è appunto fra Adelberto e la principessa. Lui tenta sempre di convincerla a sposarlo, mentre lei gli rinfaccia senza mezzi termini la colpa della morte di suo marito, Lotario.

Al recitativo, parzialmente tagliato, segue il duetto (Della tua patria) fra i due litiganti. È un Allegro in LA maggiore, dove entrambi debbono toccare il DO# sovracuto. L'Allegro cede il posto ad un Più lento in DO maggiore (Oh rossore) che prelude al colpo di scena: il coro (Ah signor, perduti siamo!) interrompe momentaneamente il duetto, annunciando la cattura di Berengario da parte di Ottone. Il tempo è Più mosso, siamo tornati a LA maggiore. La notizia getta Adelberto nella costernazione, e Adelaide nella gioia. Il duetto riprende con le simultanee e contrastanti esternazioni dei due (Perderò la corona e la vita, lui; Puoi rapirmi, tiranno, la vita, lei).

Dopo un breve recitativo secco, riservato ad Iroldo (personaggio francamente pleonastico) ne abbiamo un altro (parzialmente tagliato) riservato al nuovo confronto fra Adelberto e la madre Eurice, che ora è preoccupatissima per il marito Berengario e ne sollecita al figlio la liberazione, in cambio di quella di Adelaide. Al rifiuto di Adelberto, lei canta un'arietta breve ed insulsa (probabilmente non farina del sacco di Rossini): Sì, mi svena, o figlio ingrato. Che francamente sarebbe meglio lasciare nel cassetto.

Su un Allegro in SIb anche il coro (Berengario è nel periglio) ricorda ad Adelberto i suoi doveri verso il padre. Dopo una frase in recitativo, dove esterna il suo conflitto interiore, Adelberto si decide a rinunciare ad Adelaide, in cambio della salvezza del padre. Lo fa con la sua aria Grida, o natura, contrappuntato un paio di volte dal coro che lo incita a non pentirsi della decisione. Alla fine tocca anche il RE sovracuto, sulle parole pietoso il baratro.

Segue un recitativo secco (tagliato in tutto o in parte) fra Eurice ed Iroldo, durante il quale la moglie di Berengario confida al governatore di Canosso l'intenzione di liberare Adelaide.

Si torna sul Garda all'accampamento di Ottone. Una serie fin troppo lunga (e perciò tagliata in parte) di recitativi secchi ci informa dell'imminente arrivo di Adelberto che dovrebbe accettare lo scambio di prigionieri. Poi di Ottone, che rinfaccia a Berengario le sue colpe. Quindi del sopraggiungere di Adelberto, che accetta lo scambio, ma contro la volontà del padre. Il quale alla fine (tutto ha un prezzo) accetta pur di avere in cambio l'Insubria (che fosse un Umberto Bossi ante-litteram? smile!)

Ma proprio mentre Ottone sta accettando il baratto, cedendo l'Insubria, arriva Adelaide – liberata da Eurice - e così si completa la squadra per il successivo quartetto. Durante il quale si succedono: Andantino in MIb, la sorpresa generale; Allegro, dove Ottone intima ad Adelberto di andarsene (Parti, in SIb) e costui risponde, in MIb, Parto, ma chiede anche che il padre sia liberato; Adelaide, modulando a LAb (Sì, l'otterrai) conferma a Berengario di aver promesso a Eurice di liberarlo; Berengario (Oh tradimento!) che vorrebbe opporsi allo scambio; Adelberto, tornando al MIb, che lo invita ad accettare (Cedi, o padre) per preparare con lui la vendetta; Adelaide che congeda Berengario (Vanne) ed infine la chiusura (Allegro più mosso, sempre MIb) dove le due coppie cantano i rispettivi stati d'animo e propositi (È giunto il gran giorno - Non credere un giorno). È sicuramente un quartetto di assoluto valore musicale.

Ancora una lunga serie di recitativi secchi (in parte tagliati) preparano la conclusione: Ernesto chiede ai soldati di proteggere Adelaide; Ottone prepara l'ultimo scontro, tranquillizzando la principessa; arriva notizia che Berengario e Adelberto stanno uscendo da Canosso, pronti per l'ultima battaglia.

Adelaide canta qui un recitativo accompagnato (Sì, vanne) che introduce la sua aria Cingi la benda candida, Allegro, LA maggiore. Un classico stilema rossiniano (crescendo) sottolinea le parole Quel velo e quell'acciaro, cui Ottone risponde col suo Cingo d'amor l'insegna. Su un Andante in DO maggiore Adelaide si pone in attesa degli eventi (Se grate son le lagrime) e l'attesa finisce presto, con il coro che, tornando in Allegro e LA maggiore, annuncia che la battaglia è vinta (Alla gioia il cor prepara) consentendole di esultare (Temere un danno) impiegando gran parte dell'armamentario del bel canto: volate, picchiettati, trilli. Il coro (A tanto amore) pone il suo sigillo sul LA acuto del soprano.

Ancora un coro in DO maggiore (Serti intrecciar le vergini, che pare quello dei fanti il 24 maggio, smile!) glorifica Ottone e il suo valore, che gli ha permesso di sconfiggere Berengario per due volte in un sol giorno!

L'opera si chiude con Ottone che – legandosi al DO precedente - canta il terzo recitativo accompagnato (Questi, che a me presenta) e quindi l'aria Vieni, tuo sposo e amante, Maestoso, sempre in DO (dove compare un inciso che ci ricorda una marcia militare di Schubert). Qui intervengono brevemente Adelaide (Ah, tu sai di quanto ardore) e i due sconfitti (Dove ascondo il mio rossore). Poi esplode l'Allegro (Al trono tuo primiero) con un classico crescendo rossiniano che travolge Ottone e gli altri, su cui cala il sipario.
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Purtroppo a questa Adelaide manca – proprio alla radice, nel libretto – quel quid di pathos e drammaticità che servirebbe; invece spesso pare di assistere ad un oratorio, con tutta la componente di noiosità che lo caratterizza. E in una specie di oratorio l'ha in effetti trasformata la regìa di Pier'Alli: protagonisti sempre caratterizzati da movimenti lenti e solenni, masse corali per lo più statiche e spettatrici. Scene praticamente ridotte a proiezioni - sullo sfondo - di diapositive e filmati piuttosto elementari e talvolta discutibili, come il Garda ridotto ad aquitrino (questa, da gardesano d'adozione, al regista non gliela perdono davvero). Un orologio ha scandito i tempi dell'azione: si parte dalle ore 6 (sinfonia) poi alle 8 siamo in Canosso occupata, alle 10 sul Garda da Ottone, alle 13 di ritorno a Canosso per la fine del primo atto. Poi alle 15,30 il precipitare degli eventi e alle 18 la conclusione. Quindi 12 ore in tutto (unità di tempo, ecchè!) suddivise in 7+5 fra i due atti, e con tre slot nel primo e due nel secondo. Costumi di taglio ibrido, come le scarsissime suppellettili.

Sul fronte dei suoni buone notizie, anche rispetto alle ombre della prima (udita per radio) ombre che evidentemente, alla terza rappresentazione, sono state meritoriamente illuminate.

Il 32enne Dmitri Jurowski ha confermato le sue buone qualità, alla testa dell'Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, ieri apparsa in piena forma (corni e strumentini in testa).

Jessica Pratt ha confermato quanto di buono già aveva mostrato i precedenza: un autentico trionfo per lei.

Trionfo che ha accolto anche Daniela Barcellona, dopo l'incidente di percorso della prima. Ieri la corazziera triestina (perfetta nei panni dell'imperatore crucco) ha dato il meglio, riuscendo anche a superare indenne le difficoltà che la parte presenta nelle note acute. Nelle scene dei due sposalizi (quello mancato e quello che chiude l'opera) è apparsa priva di elmo, sfoggiando così la sua lunga criniera, impreziosita da due folti basettoni… (smile!)

Bogdan Mihai non mi era dispiaciuto troppo nemmeno per radio, e ieri ha confermato di poter sostenere con profitto ruoli come questo di Adelberto.

Nicola Ulivieri ha meritato di più per la presenza scenica, veramente notevole, che per il canto (ma sappiamo che non è colpa sua se la parte non è quanto di meglio Rossini abbia prodotto). Tuttavia ha dato il suo valido contributo ai terzetti, quartetti e concertati in cui è impegnato (l'aria è di quelle che, anche se cantate benissimo, lasciano assai freddi).

Anche Jeannette Fischer (Eurice) ha avuto il suo momento di gloria (si fa per dire) dopo la sua discutibile aria del second'atto: più che dignitosa la sua prestazione.

Francesca Pierpaoli (Iroldo) ha assolto al meglio il suo compito, che sul fronte canto le assegna due interventi a fianco di cori.

Clemente Antonio Daliotti ha da cantare qualche recitativo secco e un paio di versi: e ciò ha fatto con diligenza.


Il coro di Lorenzo Fratini è spesso e volentieri chiamato in causa in quest'opera, e devo dire che si è meritato l'apprezzamento del pubblico, che alla fine ha decretato allo spettacolo un successo caloroso, con ripetute chiamate, applausi e bravo!
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15 agosto, 2011

Il Lohengrin di Neuenfels da Bayreuth



Per la prima volta da che il Festival esiste, una rappresentazione è stata irradiata in video in tutto il mondo, via satellite da ARTE. Chi, come il sottoscritto, era in un luogo sparabolato ha potuto vedersi tutto in diretta-diretta, via web-streaming, per la modesta cifra di €14,90, da devolversi alla simpatica Kathi Wagner, co-tenutaria del baraccone.

Su questo allestimento (che inaugurò l'edizione 2010) per il vero si sapeva ormai tutto, essendo circolate recensioni, esegesi, foto e clip in abbondanza, ma vedere l'intera opera, sia pure in video, consente a ciascuno di noi di farsi un'idea più diretta e precisa della sua messa in scena.

È d'obbligo partire dall'esame della lettera dell'opera (il testo e le didascalie): ciò è opportuno spesso, ma massimamente necessario in Wagner, poichè fra testo e musica c'è totale simbiosi e mutua dipendenza, tanto che l'uno non può essere apprezzato senza l'altro. L'opera ha anche uno spirito (magari multi-forme) che si può desumere informandosi sulle circostanze generali e personali in cui ess fu composta, o sullo scenario storico, filosofico, religioso che in essa viene presentato: in altre parole, è possibile individuarne anche alcuni significati - diciamo così – nascosti nelle pieghe del testo, come della musica.

Orbene, la lettura del libretto del Lohengrin ci informa che trattasi di argomento storico-leggendario con fortissime connotazioni e implicazioni religiose. Storico perché ambientato nella prima metà del X Secolo (pieno medio-evo, quindi); sono i tempi di Zoltàn (869-948) capo degli Ungari, nipotini di Attila, che scorrazzò per mezza Europa (arrivando fino a Napoli, tanto per dire) e che pur non essendo nominato di persona, è evocato come minaccia mortale dal Re di Germania, Heinrich der Vogler (Enrico I l'Uccellatore, 876-936). Storico anche il luogo: Antwerp, nell'odierno Belgio, alla foce della Schelde. Argomento invece leggendario, poiché tale è il personaggio di Lohengrin, figlio di Parzival, di stanza nel Montsalvat, la dimora dei cavalieri del Gral (la sacra reliquia della coppa dell'ultima cena). Con connotazioni religiose, perché vi si contempla l'aperto confronto-scontro fra religioni: da un lato le credenze antiche, impersonate da Ortrud, e dall'altro il Cristianesimo che ormai dilaga anche al Nord, e che per Ortrud ha i suoi campioni (e nemici da distruggere) nei fratelli Elsa e Gottfried (e poi in Lohengrin medesimo).

La vicenda è perciò leggendaria (inventata da Wagner a partire da racconti medievali) ed anche caratterizzata da un apparentemente gratuito determinismo: Lohengrin arriva a salvare Elsa proprio al momento giusto, dopo esserle apparso in sogno (similmente l'Holländer capita – per caso!? - da Senta, che ne teneva già un quadro con l'effige appeso in casa, e a cui ha appena finito di cantare la sua ballade!) In più – cosa a prima vista al limite del grottesco - arriva a bordo di una scialuppa trainata da un cigno.

Ma qui ogni cosa ha una spiegazione precisa nel soprannaturale (che tutto può significare, tranne che banale): a Montsalvat, che è una specie di distaccamento terrestre del mondo divino, tutto si conosce e tutto si vede. Quindi la magìa con cui Ortrud - una specie di sacerdotessa/fattucchiera delle religioni pre-cristiane - ha trasformato Gottfried in cigno e la terribile accusa di fratricidio da lei inventata a carico di Elsa, sono state immediatamente notificate a Parzival, capo e custode supremo del Gral, che incarica il figlio – una specie di angelo custode di professione - di recarsi sul posto per fare giustizia. E Lohengrin non a caso vi arriva – e con svizzera puntualità - su una barchetta trainata precisamente da quel cigno! Il compito di Lohengrin – proprio come quello dell'avvocato Ghedini, smile! – è di scongiurare un errore giudiziario (la condanna di Elsa) ma non solo: se Lohengrin saprà guadagnarsi la fiducia totale ed incondizionata di Elsa per almeno un anno, ecco che il Gral farà anche la grazia di ritrasformare il cigno in Gottfried.

Tutto questo lo si legge nel libretto, e lo si ascolta in musica, a partire dall'aria In fernem Land, che il protagonista canta nel terzo atto, dopo che Elsa lo ha, per così dire, tradito. Ma che Lohengrin abbia a che fare con il soprannaturale lo sospettano tutti fin da subito: non per nulla Elsa, il Re e il popolo, già dal suo apparire lo apostrofano come Gottgesandter, inviato da Dio! Quanto ad Ortrud, lo spavento mortale da cui viene attanagliata alla vista di quel cigno ci dice inequivocabilmente che lei deve avere al riguardo la coscienza alquanto sporca.

Apprendiamo poi che Lohengrin viene anche cooptato dal Re e dai Brabantini come loro condottiero contro i nemici orientali: rappresenta quindi anche l'uomo della provvidenza sul piano politico, poiché mette d'accordo tutte le fazioni brabantine occupate in lotte fratricide, e ricrea nella gente del Brabante uno spirito patriottico, verso la propria regione, ma anche verso l'Impero tedesco.

Scopriamo anche che l'accusatore di Elsa al processo (Friedrich von Telramund, un Conte brabantino, cristiano) è in realtà vittima di plagio da parte della moglie Ortrud, che lo ha convinto a sostenere l'accusa. I dettagli ce li narra lo stesso Friedrich, prima al processo e poi durante il drammatico faccia-a-faccia con la moglie all'inizio del secondo atto: a lui Elsa e Gottfried erano stati affidati dopo la morte del loro padre, il Duca di Brabante, di cui lui si riteneva il naturale successore, e quindi pretendente alla mano della ragazza, che invece l'aveva rifiutato. Solo a questo punto interviene Ortrud con il suo disegno criminale: fa sparire Gottfried, trasformandolo in cigno, e confida a Telramund di aver visto Elsa affogare il fratellino in uno stagno. Ed è ora, dopo il rifiuto di Elsa e dopo la sparizione di Gottfried, che Friedrich decide di sposare Ortrud, che lo ha ormai in pugno e che gli fa balenare la possibilità di conquistare il potere attraverso l'eliminazione dei due eredi naturali! Al processo, Friedrich si mostra assolutamente sicuro di sé (in realtà di Ortrud) ma quando perde la causa gli si aprono gli occhi sulla macchinazione della moglie. Lui è debole, ma in fondo è sincero e pure timorato di Dio: ha perso l'onore, invoca addirittura la morte e vorrebbe allontanarsi dall'abbietta zingara, colpevole della sua rovina, e bestemmiatrice contro Dio. Invece è ancora lei a plagiarlo, una seconda volta, insinuandogli il dubbio che Lohengrin-Ghedini sia un mago-furfante (senti chi parla…) che ha prevalso al processo in forza di un qualche sortilegio (una legge ad-personam? smile!) Lo convince quindi a tessere la sua tela volta a colpire l'anello debole della catena dei suoi nemici: Elsa.

Sul fronte religioso, che Ortrud rappresenti tutta la negatività delle credenze pre-cristiane emerge in modo sconvolgente nell'esternazione - con invocazioni a Wodan e Freia perché annientino i rinnegati (cristiani) - che lei fa subito dopo aver convinto Elsa del (falso) pentimento di Friedrich: Benedite in me l'inganno e l'ipocrisia! E poi, ovviamente, nel selvaggio quanto fallace grido di vittoria del finale.

C'è ancora da notare il comportamento del popolo (uomini e donne di Brabante) e dei soldati sassoni e turingi di Heinrich: le donne sono tutte dalla parte di Elsa, sentono che una come lei non può essere colpevole; ma anche gli uomini, pur inizialmente fedeli a Friedrich, mostrano per lei grande rispetto e persino ammirazione (Ah! com'ella appare luminosa e pura!) Non hanno per nulla un partito preso contro di lei, ma attendono fiduciosi il giudizio (A noi conceda la clemenza del cielo, che chiaro apprendiamo, chi sia qui il colpevole!) Insomma, chi ce l'ha con Elsa è soltanto Ortrud e, per suo tramite, Friedrich.

Quanto alla sua personalità, Elsa è di certo una tipica donna wagneriana (del Wagner della prima ora, peraltro): innocente, ingenua, timida, fragile e pia. Uno scherzo da ragazzi, per una strega come Ortrud, papparsela in un sol boccone. E qui si sollevano perciò, contemporaneamente, la questione femminile e quella della dicotomia fede-amore. La fragilità di Elsa, unita alla sua candida buona fede, la porta ad essere succube delle trame di Ortrud-Friedrich, che la spingono poco a poco – tutto il secondo atto è occupato da questo scientifico quanto perfido lavaggio del cervello - a vivere come insopportabile l'imposizione di cui è stata fatta oggetto (non dover chiedere mai al marito chi egli sia e da dove sia venuto). Il suo cedimento, la domanda che lei rivolge a Lohengrin è il tradimento della sua fede, ma testimonia il suo amore per lui: subito confermato dal suo tempestivo intervento a protezione del marito, allorquando Friedrich irrompe nella camera nuziale per ferirlo.

La storia si conclude effettivamente con parecchi fallimenti: Elsa muore per non aver avuto abbastanza fede, Ortrud per aver avuto una fede sbagliata, Friedrich per aver seguito una moglie dedita alla stregoneria. Lohengrin se ne torna a casa sconsolato, tristemente appoggiato allo scudo, ed a capo chino: in fondo, dopo l'iniziale successo (come avvocato difensore di Elsa) lui non ha saputo essere convincente, ha perso la battaglia contro le forze della religione nemica e ha mancato così la seconda parte della sua missione (liberare Gottfried). Per di più è andato in bianco anche sull'obiettivo personale, di vivere un amore terreno e carnale.

Ma nella storia troviamo anche più di un successo: la sconfitta di Ortrud - e con lei di un'intera civiltà - in fondo è quella delle antiche credenze oscurantiste, di fronte ad una religione più evoluta e moderna. Che sa premiare anche chi è debole nella fede (Elsa) e chi si rivela un mediocre ministro del culto (Lohengrin) come dimostra il fatto che, nonostante tutto, la grazia del Gral, implorata in ginocchio dal bocciato Lohengrin, arrivi comunque, sotto forma di restituzione di Gottfried alla sua natura di essere umano. La qual cosa comporta anche - sul piano politico – il riconoscimento divino dell'autorità temporale di Gottfried (tramite la spada che Lohengrin lascia per lui) e la garanzia per il suo Paese di un futuro di concordia e di sicurezza, includendovi quindi anche la necessità di guerre difensive. E, sempre per restare alla politica, c'è una buona, anzi ottima notizia anche per Re Heinrich: la profezia che Lohengrin gli fa, secondo la quale mai più in futuro la sua Germania verrà invasa dalle orde orientali. (Quest'ultimo passaggio è in realtà quasi sempre tagliato, anche a Bayreuth: Wagner fu il primo ad autorizzarne il taglio… chissà se lo fece perché si sentiva smentito dalla storia?)

Ecco, questo è ciò che leggiamo nel testo ed ascoltiamo nella musica che a quel testo è legata a filo doppio.
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Se poi esploriamo sommariamente lo scenario generale e le vicissitudini personali di Wagner al tempo in cui l'opera venne composta, al fine di individuarvi qualche possibile significato latente, possiamo identificare almeno due filoni: quello politico e quello artistico.

Sul piano politico, conosciamo bene la convinzione del compositore che la società del suo tempo fosse sulla strada dell'imbarbarimento, e necessitasse perciò di una scossa rivoluzionaria, che Wagner stesso, a fianco di gente come Bakunin, cercò di dare. Peraltro il nostro non prefigurava alcuna dittatura del proletariato, ma assetti istituzionali del tipo repubblica presieduta dal Re (!) idea che in fondo è abbastanza coerente con i ruoli e le figure di Heinrich e Gottfried come presentati nel Lohengrin. La cui partitura era ancora fresca quando Wagner fuggì da Dresda, accusato di sovversione e inseguito da un mandato di cattura. Ma era troppo tardi perchè il fallimento della rivoluzione potesse trovar posto all'interno dell'opera.

Sul fronte artistico, sappiamo come Wagner avvertisse acutamente la conflittualità fra un Artista moderno e innovatore (quale lui si reputava) e l'establishment culturale. Insomma, Wagner (come Lohengrin) vorrebbe far del bene all'Arte, ma non trova nessuno che si fidi di lui. (O quasi nessuno, bisognerebbe dire, poiché il futuro suocero fece di tutto proprio per mettere in scena Lohengrin, a Weimar, nel 1850).
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Adesso arriviamo al caro Neuenfels, il quale, nella più classica ed ortodossa applicazione dei canoni del Regietheater, si inventa un Konzept, vale a dire una sua personale concezione dei contenuti dell'opera, da presentare al - e condividere (!?) col - pubblico; concezione che ovviamente trae spunto da contenuti dell'opera medesima, ma poi li trascende in misura più o meno grande, fino a stravolgerli completamente, rendendoli con ciò – purtroppo - del tutto incompatibili con la musica, che da quei contenuti originali era stata ispirata.

Siamo in un laboratorio di ricerca sui comportamenti dei topi, poichè evidentemente per Neuenfels gli uomini non sono diversi dai roditori: anche loro al massimo possono mostrare qualche vaga e fallace reazione ad alcuni stimoli fisici cui vengano sottoposti in laboratorio – da un loro simile, trasformato in agente provocatore/facilitatore - ma nulla più. Insomma, l'animale Uomo è soltanto un animale - come gridava anche il simpatico Bracardi (ma lui non lo faceva interpretando Lohengrin): l'uomo è 'na besctia! - irrecuperabile a qualunque elevazione culturale/spirituale.

Chi sia il padrone, o il CEO, di questo istituto di ricerca non è dato sapere, ma l'unica spiegazione sensata è che sia proprio un certo Hans Neuenfels, noto ricercatore nel campo dell'esistenzialismo e della sociologia applicati al teatro musicale. I protagonisti, tutti non-topi (magari ex-topi: Lohengrin, Elsa, Ortrud, Heinrich e l'Araldo; oppure topi che sembrano ex-, come Friedrich) sono verosimilmente diventati dei consulenti dell'istituto. Vediamo all'opera anche qualche volgare assistente in camice sterile (portantini, inservienti vari). Per il resto: topi. Che sarebbero poi i brabantini (maschi e femmine) e i guerrieri sassoni e turingi di Heinrich. A proposito, Wagner tiene moltissimo a distinguere fra i locali e i tedeschi, anche musicalmente, mentre per Neuenfels son tutti… topi. L'inizio della scena finale è paradigmatico: Wagner ci descrive i brabantini che arrivano in 4 gruppi, da 4 punti diversi (e accolti con altrettanto diverse tonalità dall'orchestra) e successivamente i turingi-sassoni con il Re; Neuenfels invece fa suonare l'orchestra a scenario vuoto (in TV ci hanno mostrato il backstage, con i coristi che si vestivano da topi per l'entrata in scena) e poi ci presenta tutti quanti i roditori indistinti (femmine incluse) bardati da teste di cuoio
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La prima conseguenza di questa geniale scelta è la radicale eliminazione di tutti i riferimenti storici: Heinrich, la cui visita in Brabante è – non dimentichiamolo – il contenitore di tutta la storia, per Neuenfels praticamente non esiste, ridotto ad una specie di volgare capo-banda (anzi, branco) ormai completamente paranoico, che fatica a reggersi in piedi (però in scena continua a cantarci on nobiltà assoluta i suoi problemi imperiali con gli Ungarn). E che i Brabantini si uniscano per fronteggiare, insieme al Re, un pericoloso nemico, al regista deve dare proprio fastidio, lui dev'essere uno di quelli che si ammantano di iride e manifestano contro tutte le guerre e le armi, senza se e senza ma. E quindi non perde l'occasione per propinarci il suo anti-militarismo a buon mercato, mostrandoci l'uomo come esclusivamente animato da volgare aggressività. Però noi sentiamo i topi cantare versi di questo tipo: Quand'io l'odo così l'altissima sua stirpe provare, arde il mio occhio di lacrime dolci e sacre.

In compenso, il nostro ci dà un saggio di ipocrisia tutta tedesca, con un piccolo, ma significativo (e nemmeno nuovo) ritocco al libretto: nel verso Zum Führer sei er euch ernannt! con cui Lohengrin presenta il Gottfried risorto dalle acque, il regista sostituisce Führer con Schützer, pensando così (poveretto!) di risparmiare a Wagner l'ennesima accusa di essere il papi di Hitler…
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I colori degli abiti dei personaggi e dei topi – e le loro mutazioni nel corso del dramma - hanno evidentemente un significato: i topi neri rappresentano l'umanità al livello più basso di evoluzione, e sono tutti maschi; nero è anche il Re, loro capo decrepito e rincoglionito, ma pur sempre famelico. Quelli bianchi sono esseri più evoluti, meno aggressivi, e sono femmine (qui Bracardi dissentirebbe assai, smile!); bianca è anche Elsa, che evidentemente (come si addice al suo status di nobile) è la prescelta per l'esperimento di elevazione spirituale. Ci sono poi personaggi in grigio, come Ortrud e Friedrich (e l'Araldo, una caricatura di Peter Sellars, smile!) che evidentemente si trovano in uno stadio di evoluzione intermedio, ma sono soprattutto dominati dalla sete di potere. Poi ci sono anche i topolini rosa (ma che carini!) nel ruolo di paggetti degli sposi.

I topi, che durante il primo atto (dopo l'arrivo e poi la vittoria di Lohengrin su Telramund) si erano spogliati della pelle di topo ed erano apparsi con abiti gialli (quindi chiari, anche se non ancora bianchi) mostrando qualche progresso evolutivo (salvo mani e piedi, um… zampe) nel secondo atto assumono apparenze umane, ma sono in completo (smoking) nero - gli uomini - e con vestiti sgargianti le donne. Però gli spunta un metro di coda! Ma tutti, alla fine dell'opera, tornano irrimediabilmente a coprirsi di nero, uniti dall'aggressività bellicosa. E neri tornano anche quelli che prima erano bianchi, le femmine (così anche Bracardi è accontentato!) Ed ancor prima di aver saputo chi Lohengrin sia, recano già sulle loro divise i suoi due simboli: il cigno e una grossa L.

In effetti, Lohengrin si direbbe essere un ex-topo nero, che evidentemente ha scalato qualche gradino dell'evoluzione, superando precedenti test di laboratorio: all'inizio è vestito in buona parte di bianco, come ci viene già mostrato durante l'esecuzione del Preludio, dove appare nell'atto di sforzarsi di uscire dal laboratorio (Montsalvat, Gral, Parzival? tutte stupidaggini: peccato per Neuenfels che poi Lohengrin continui a cantarcele); Lohengrin arriva nel laboratorio per cercare di elevare alla sua altezza anche Elsa, ma alla fine ritorna nero pure lui, poiché il suo esperimento è fallito. Anche lui è ritornato allo stadio più basso dell'evoluzione, nel preciso momento in cui ha fatto secco Telramund, subito dopo aver constatato il fallimento del suo esperimento con Elsa. (Però, chissà perché, i topi di Neuenfels continuano ad apostrofarlo come den Gott gesandt!) Nel finale, nera torna anche Elsa (vestita a lutto, con tanto di veletta e scarpe in mano) mentre Ortrud si trucca oscenamente da cigno bianco per la sua chiassata.

Neuenfels dev'essere ateo, dal momento che ignora quasi del tutto ogni aspetto soprannaturale del dramma (e stiamo parlando di uno dei pilastri dell'opera!) Niente Montsalvat, niente Gral, Lohengrin è un semplice uomo con ascendenze rattiche, non si notano conflitti religiosi, Ortrud è declassata al rango di volgare mestatrice e imbrogliona: la prima scena del secondo atto ce la mostra insieme a Friedrich accanto ad un carro rovesciato (con la carcassa di un cavallo, rigorosamente grigio, come i padroni) sul quale i due stavano evidentemente cercando di fuggire con un carico di valigie colme di banconote e preziosi… (inutile dire che testo e musica stanno agli antipodi, beato il regista). Il crocefisso che accompagna il corteo nuziale viene dapprima sequestrato da due inservienti - stipendiati dal CEO Neuenfels, ovviamente - e non da Ortrud come si potrebbe immaginare… wagnerianamente, e poi recuperato da Lohengrin che lo brandisce quasi come un'arma… tutto qui.

Un filo di problematica para-femminista magari si intravede, ma proprio di sfuggita: Elsa è trasformata in SantaSebastiana dai maschi, che però nel mentre la infilzano di frecce con atteggiamento truce, cantano Ah! com'ella appare luminosa e pura! Nella scena della camera nuziale, ad Elsa viene negato anche il piccolo riconoscimento di essere lei a gettare a Lohengrin l'arma con cui far secco Telramund: invece è Lohengrin che disarma il fedifrago e lo abbatte con la di lui spada. A proposito di spade: Lohengrin arriva senza nulla, ed infatti anche per il duello del primo atto lui usa – irrispettosamente – la spada del Re… Però alla fine, miracolosamente, si ritrova – oltre al corno e all'anello – anche una spada da consegnare all'inebetita Elsa.

Quanto ai riferimenti all'Artista in un mondo indifferente se non ostile, non se ne vede la minima traccia.

Ma allora, qual è questo benedetto Konzept? Semplicemente: il più profondo pessimismo (del regista, non già di Wagner) sulle capacità umane (singoli e comunità) di evolvere in senso positivo, di migliorarsi e di progredire culturalmente e spiritualmente. Alla base di questa produzione sta il nichilismo più totale e disperato: il destino dell'umanità (secondo il regista) è quello di ripiombare ogni volta e irrimediabilmente nella barbarie, dopo aver inutilmente tentato di uscirvi.

Qualche dato a supporto: la barchetta di Lohengrin è una bara, che compare anche nella camera nuziale e poi alla fine. I tre filmati con le tre verità (di Neuenfels) ci mostrano solo topi famelici, che nell'ultimo addirittura inseguono e scarnificano completamente un povero cane. Persino il cigno, simbolo dell'ideale cui gli uomini anelano - e nella leggenda wagneriana un essere umano che… meriterebbe rispetto – viene qui assai bistrattato: già traina una bara, e passi, ma alla fine del primo atto compare del tutto spennato e con le palme nere; poi nel secondo (quando Elsa ne ha il presentimento) ricompaiono le sue penne dentro alla solita bara. Infine si mostra per quel che veramente è, quando dal suo uovo nasce – al posto di Gottfried – quella spaventevole chimera (dai tratti orientali!) che al calare del sipario finale distribuisce all'umanità annichilita code di topo ricavate dal proprio cordone ombelicale: ecco, è proprio il simbolo tragico e sconvolgente di questa vision. Domanda a Neuenfels: ma perché, in sì apocalittico scenario, dal golfo mistico ci arriva pur sempre l'accordo perfetto di LA maggiore - invero celestiale - del Gral?

Ora, pochi dubbi che l'idea di Neuenfels sia in sé e per sé intelligente, affascinante e soprattutto splendidamente rappresentata. Lui in effetti sa come far muovere i personaggi: esemplare al proposito la scena nella camera nuziale. (Peccato però che il nostro non si trattenga da gigionate dissacranti, come quando, in detta scena, Lohengrin strapazza la recalcitrante Elsa come le dovesse dire: allora me la vuoi dare una buona volta, zoccola? Invece sta cantando Non respiri tu con me i dolci profumi?) Anche i movimenti dei topi, pardon… dei cori sono sapientemente gestiti, salvo qualche andirivieni dalle quinte piuttosto gratuito, quando sarebbe bastato qualche gioco di luce per ottenere lo stesso effetto.

Insomma, uno spettacolo di alto livello, niente da dire… o quasi. Perché un piccolo, insignificante dettaglio c'è: con il Lohengrin di Wagner – testo e massimamente musica c'entra precisamente come i cavoli a merenda! E la salva di buh che ha accolto lo spegnersi delle luci era tutta per il regista (che non si è di certo fatto vivo alle chiamate).

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Sul fronte musicale, nessuna sorpresa rispetto all'audizione radio della prima, il 27 luglio. Un discreto Andris Nelsons che per me ha un poco sbandato qua e là con i tempi (per lui infatti solo applausi… asettici) e un grande coro (Eberhard Friedrich e i suoi hanno ricevuto autentiche ovazioni).

Klaus Florian Vogt (vocina sottile, ma efficace) e Annette Dasch (una Elsa abbastanza dignitosa, anche se non trascendentale) hanno trionfato, facendo tremare i tavolati del teatro:



Bravissimi per me anche Petra Lang, una Ortrud impeccabile e Georg Zeppenfeld, il Re paranoico (smile!) Un po' sotto la media Jukka Rasilainen, che rimpiazzava Tòmasson come Friedrich. Una nota speciale anche per l'Araldo, Samuel Youn. All'altezza del compito i 4 nobili.
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12 agosto, 2011

ROF-2011: le prime via-radio


Come tradizione, le tre prime del ROF sono state irradiate da Radio3 (10-11-12). Per la verità, a parte la versione riveduta (moderatamente, rispetto al 2006) dell'Adelaide, l'interesse principale, oltre che per la musica ovviamente, è per i due nuovi allestimenti: di Pier'Alli per l'Adelaide medesima e di Graham Vick per il Mosè (versione 2 di Napoli) cui si accompagna quello abbastanza recente di Damiano Michieletto per La scala di seta.

In attesa di riferire sugli allestimenti, dopo visione diretta, ecco qualche impressione sul fronte audio.

Adelaide di Borgogna

Rimando alla prossima settimana per qualche nota generale su quest'opera, abbastanza bistrattata e incompresa, che meriterebbe più spazio nei cartelloni: la musica è tutt'altro che disprezzabile (almeno quella di sicura mano di Rossini, smile!)

Jurowski-junior ha forse peccato di eccessiva pesantezza, almeno in certi frangenti, tenendo tempi slentati e accompagnamenti un po' grevi, ma tutto sommato, per essere abbastanza nuovo in questo repertorio (oltre che giovane in assoluto)… poteva andargli peggio. L'Orchestra bolognese ha pure mostrato più di un'imprecisione, tuttavia nel complesso di una prova abbastanza degna.

La Pratt (Adelaide) ha una gran voce (ha sparato nel finale un MI sovracuto come nulla fosse) però la sua tecnica, soprattutto nelle volate, mi è parsa ancora un filino acerba. Già così è grande, ma migliorerà di sicuro, le doti sono davvero eccezionali.

Sotto le (mie) aspettative la Barcellona (Ottone), piuttosto opaca e qualche volta in leggero calo. I buh al duetto con Adelberto nel primo atto e alla fine l'hanno forse castigata troppo, ma non erano del tutto ingiustificati, a parer mio, anche in rapporto al calibro dell'artista.

Mihai (Adelberto) non mi pare abbia demeritato. Anche lui (assai più della Pratt, naturalmente…) non può che migliorare, con lo studio e l'impegno.

Ulivieri (Berengario) deve cantare un'aria mediocre (probabilmente apocrifa) e per il resto solo recitativi: sufficienza di routine per lui.

Idem per la Fisher (Eurice) la cui breve aria del secondo atto, reintrodotta per l'occasione, è di quelle che abbassano la qualità media dell'opera (anche questa è probabilmente di mano estranea a Rossini).

Gli altri (Pierpaoli e Dagliotti) hanno quasi solo dei recitativi secchi, che potrebbero essere del tutto soppressi. In quest'ottica fa abbastanza sorridere la novità di far interpretare Iroldo ad un soprano, invece che a un tenore, quando canta solo due versi a fianco del coro d'esordio…

Coro (di Fratini) che invece si è portato bene, avendo nell'opera un compito per nulla secondario.

Mosè in Egitto

Quest'opera è un capolavoro, e nel rappresentarla il rischio più grande è di rovinarlo in qualche modo. L'importante è che non lo sia stata la parte musicale: non era il massimo, forse, ma personalmente mi sono più che accontentato. Per la messa-in-scena meglio vedere prima di giudicare.

Roberto Abbado ha padroneggiato più che bene (spreco un po' di enfasi) questa straordinaria partitura: una direzione per me assai efficace sotto ogni punto di vista, assecondata da un'ottima prestazione dell'orchestra bolognese. Con il coro di Fratini ha tirato fuori dagli insiemi le cose migliori, veramente emozionanti.


Il Mosè di Zanellato merita per me un'ampia sufficienza, per la voce e per l'espressività messe in campo, entrambe assai efficaci.

Esposito come Faraone ha salvato le chiappe, come si suol dire con linguaggio aulico, ma già sui MI alti era in evidente difficoltà.

Discreta la Ganassi (Elcìa) che deve aver supplito con tanto mestiere a qualche problema con questa parte piuttosto ostica.

Passabile la prestazione di Korchak in Osiride, una parte forse non tecnicamente proibitiva, ma pesante fisicamente.

Idem per la Senderskaya, una discreta Amaltea.

Più che dignitosi, nelle loro parti di… contorno, Scala, Shi e Amarù.

La scala di seta

Questo gioiellino di un Rossini ventenne ha chiuso in allegria le prime 2011. Complimenti soprattutto all'orchestra - guidata da Pérez-Sierra - che per essere di provincia ha meritato assai, già dalla sinfonia, impeccabilmente eseguita.

La Baggio è stata una Giulietta leggera e sbarazzina, per me la migliore della compagnia.

Il Germano di Bordogna discreto, se pur con qualche raucedine nelle note basse e intonazione non sempre felicissima.

Alberghini passabile in Blansac, cui è stata regalata un'aria di contrabbando, che non mi pare gli abbia alzato la media.

Gatell ha interpretato un Dorvil allineato alla vocina della Baggio: se l'è cavata più che discretamente.

Zuckerman (Dormont) e LoMonaco (Lucilla) hanno degnamente completato il cast.

(Prossima settimana... dal vivo.)
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31 luglio, 2011

Bayreuth: oggi e domani


Il ciclo delle 5 prime si è concluso venerdì 29 ed è già cominciata la prima tornata delle 5 repliche.

Per quanto si può giudicare dall'ascolto tecnologico, dopo il piuttosto deludente Tannhäuser di apertura abbiamo avuto un sufficiente Meistersinger, un discreto Lohengrin (bravo Vogt) un buon Parsifal, grazie a Gatti, che migliora di stagione in stagione, ma soprattutto al grandioso Youn, e un passabile Tristan (dove Robert Dean Smith non ha per nulla demeritato).

La novità 2011 era l'allestimento di Baumgarten, a confronto del quale – per quanto si legge – quello del suo modello Götz Friedrich, che fece scandalo nel 1972, diventa una sacra opera d'arte. L'ambientazione è in un impianto di riciclaggio di materiale organico, che indubitabilmente (per il regista, spero) deve aver a che fare con qualche nascosto e misterioso significato dell'opera. A me fa venire in mente una vecchia barzelletta stupida, dove si descrive una macchina super-tecnologica che trasforma la merda in burro. Il giorno dell'inaugurazione dello stabilimento, al ministro che ha tagliato nastri e fatto discorsi epocali viene offerta una fetta di pane spalmata del portentoso burro. Eccellente! esclama costui… peccato per quel retrogusto di merda!

Il 14 si potrà vedere su ARTE (ore 17:15) una quasi-diretta del Lohengrin di Neuenfels (per quello di Wagner bisognerà aspettare ancora, smile!) Intendiamoci, Neuenfels non è un Baumgarten qualunque e dal suo cervello escono quasi sempre delle cose super-cazzute. Il suo Konzept – la società umana assimilata nei suoi comportamenti a colonie di ratti - è qualcosa di assolutamente coerente e profondo; in più, con pochi ritocchi, potrebbe essere impiegato - guarda caso - anche per Tannhäuser, ovviamente per Parsifal e magari anche per Turandot (quella con il finale di Berio, però…)

A proposito di regìe, le due cugine (così insiste a definirle l'anagrafe di Radio3) che guidano il baraccone hanno quasi l'acqua alla gola riguardo il Ring del bicentenario: mancano meno di 2 anni e ancora non c'è il regista! Così, dopo il recente clamoroso rifiuto di Wim Wenders, le poverette (soprattutto Kathi, che è esperta in materia) pare non abbiano trovato di meglio che ingaggiare Frank Castorf, un ex-DDR ammiratore di Stalin che è famoso per trasformare grandi opere teatrali in pezzi di commedia dell'arte, dove gli attori sulla scena inventano al momento ciò che debbono fare e recitare, fregandosene altamente dell'originale: parrebbe precisamente ciò che serve per la Tetralogia! Oppure chissà se vedremo Wotan nei panni di Hitler e Alberich in quelli di Stalin… O magari un Ring ambientato in medioriente, con Wotan=Nasser, Alberich=BenGurion, Siegfried=Arafat e Gutrune… Golda Meir (smile!)

A proposito di Palestina, c'è una notizia che invece parrebbe confortante: la Israel Chamber Orchestra (guidata da Roberto Paternostro) ha dato un concerto nell'auditorium di Bayreuth, suonando musiche di Wagner e di autori ebrei. Senza aspettare, come reclama l'ambiguo Gottfried, pronipote di Richard, che si aprano completamente gli archivi di Wahnfried per scoprirvi... l'acqua calda.   
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25 luglio, 2011

Bayreuth al via


In realtà, una falsa partenza.

Direzione approssimativa e fredda, Tannhäuser in evidente affanno (nonostante un paio di abbuoni ricevuti nei primi due atti) e Venere semplicemente ridicola, proprio da Corrida. Appena sufficiente Elisabeth, passabile il Langravio e discreto Wolfram. Ed era la versione di Dresda… Un po' pochino, effettivamente.

E la regìa? Buh.

Le cugine (stando a Radio3) sono servite.
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18 luglio, 2011

Bayreuth (festival) compie 100 anni


Il prossimo lunedi 25 luglio si apre la centesima edizione del Festival di Bayreuth. Come pure la prossima, sarà priva di Ring, in attesa del grande evento (?!) del bicentenario nel 2013.

Ad inaugurarla sarà l'opera meno eseguita lassù: Tannhäuser, che prima delle 6 di quest'anno ha contato soltanto 196 rappresentazioni. Si avvicinerà quindi all'Holländer, che ne ha 203 e che dovrebbe tornare nel 2012 (con Thielemann, si dice). Probabilmente a chiamare il pubblico a prender posto in sala saranno queste note dei corni:

 
Nonostante sia stato costruito per la Tetralogia, il Festspielhaus l'ha poi ospitata per 212 volte (più qualche giornata isolata) mentre il record di rappresentazioni è largamente detenuto da Parsifal (507, escluso il 2011) che precede Meistersinger (301).


Le date di esordio a Bayreuth dei drammi wagneriani, dopo l'apertura del Ring nel 1876, sono state: 1882 Parsifal, 1886 Tristan, 1888 Meistersinger, 1891 Tannhäuser, 1894 Lohengrin e infine 1901 Holländer. È ora aperto il dibattito sull'opportunità di rappresentare anche le tre opere giovanili di Wagner, in primo luogo Rienzi: la biondissima Kathi, co-reggitrice del Festival con la sorellastra Eva, ha più volte lasciato balenare questa idea e si è anche personalmente preparata, firmando (fuori da Bayreuth) la regìa del grand-opéra del bisnonno.

Quanto alla Direzione del Festival, rimase nelle mani del fondatore fino al 1882; morto Richard, passò alla terribile Cosima, che per i primi due anni (1883-1884) si limitò a ripresentare Parsifal secondo le direttive del (secondo) marito; poi, dal 1886 prese in mano le redini organizzative e diede vita a quella lunga stagione (chiusasi di fatto in piena seconda guerra mondiale) che portò Bayreuth - attraverso le direzioni del figlio Siegfried (1908-1930) e della di lui moglie Winifred (1931-1944) - al massimo splendore e contemporaneamente alla massima onta (la collusione con Hitler e il nazismo). Festival riaperto nel 1951 con alla testa i fratelli Wieland e Wolfgang (figli di Siegfried, e per nulla immuni dal nazi-virus) che lo condussero insieme fino al 1966, anno in cui Wieland tirò le cuoia, lasciando tutto il potere a Wolfgang, che lo ha detenuto (in realtà coadiuvato e ultimamente di fatto sostituito dalla seconda moglie Gudrun) fino al 2008. Poi il testimone è passato alle figlie di Wolfgang: Eva, avuta dalla prima moglie, e Kathi, dalla seconda, che sono quindi alla terza stagione di direzione. Il tutto in barba al (teorico) principio secondo cui – essendo oggi la Fondazione del Festival di diritto pubblico e non privato – chiunque, e non solo discendenti più o meno indegni del maestro, sarebbero intitolati a comandare il baraccone.

Fuori dai giochi sono rimasti, fra gli altri, Gottfried, figlio di Wolfgang, che dopo aver operato a fianco del padre per qualche anno (fu anche membro del team che rappresentò il controverso Ring del centenario, con Boulez-Chéreau, nel 1976) ha rotto tutti i ponti con Bayreuth diventando un feroce accusatore dei trascorsi nazi della famiglia, e Nike, figlia di Wieland, che contese nel 2008 alle cugine il posto di direttrice del Festival e che da allora non perde occasione per criticarle aspramente. Quest'anno le motivazioni dei suoi attacchi alla coppia Eva-Kathi riguardano la contrarietà di queste ultime ad ospitare al Festspielhaus il 22 ottobre una commemorazione per i 200 anni dalla nascita di Franz Liszt (gran benefattore di Wagner e pure suo suocero…) e per aver snobbato del tutto un'altra ricorrenza, i 60 anni dalla riapertura del Festival dopo la guerra, pur di non dar risalto ai grandi meriti di suo padre Wieland.

Veniamo ai Kapellmeister. A dispetto di tutta la retorica sull'antisemitismo di Wagner e dei suoi discendenti e bidelli, è un ebreo a detenere il record di podi giù nell'Orchestergraben del Festspielhaus: Daniel Barenboim lo ha infatti calcato per ben 161 volte, dal 1981 al 1999). Lo seguono il compianto Horst Stein (138 podi, da 1969 al 1986) e Peter Schneider, che dal 1981 ha totalizzato 130 podi e che dirigerà anche quest'anno (6 Tristan) portandosi quindi vicinissimo a Stein. Poi vengono James Levine (117) e l'attuale direttore musicale de-facto del Festival, Christian Thielmann (111). Cinque gli italiani che hanno avuto l'onore di dirigere lassù: Toscanini (18), de Sabata (6), Erede (7), Sinopoli (94) e Gatti (presente anche quest'anno con Parsifal, e che salirà a quota 23). Fabio Luisi, scritturato per un Tannhäuser del 2007, dovette invece rinunciare per problemi di salute. Fra i grandi nomi di oggi che non hanno mai messo piede sulla collina verde: Zubin Mehta, Georges Prêtre, Claudio Abbado, Seiji Ozawa, Simon Rattle, Riccardo Muti, Will Humburg, Semyon Bychkov, Valery Gergiev, Kent Nagano, Esa-Pekka Salonen, Mariss Jansons… e mi perdonino altri pur meritevoli. Dopo Andris Nelsons nel 2010, anche quest'anno ci sarà un esordiente: Thomas Hengelbrock, proprio nel Tannhäuser inaugurale.

In mancanza di specifiche comunicazioni in proposito, sarebbe da assumere che la versione di Tannhäuser che verrà messa in scena (con la regìa dell’altro esordiente Sebastian Baumgarten) sia quella mista (Dresda-Parigi) a suo tempo proposta dal grande Wieland. Anche il protagonista è un esordiente (a 53 anni!): il carneade svedese Lars Cleveman (ma, come diceva un gran maestro: non è mai troppo tardi!)

Da lunedì 25 a venerdì 29 luglio, sempre alle ore 16, verrà rappresentato il primo ciclo delle 5 opere in programma. L’ascolto radiofonico sarà garantito da Radio3 (escluso però il Tristan del 29) e da molte altre stazioni e web-radio europee. Il 14 agosto ARTE trasmetterà in video la quarta rappresentazione del Lohengratt. 

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16 luglio, 2011

Ultima di Attila alla Scala


Ieri sera ultima levata di sipario alla Scala prima della chiusura estiva, con Attila, nell'edizione dell'accoppiata Luisotti-Lavia. Teatro non proprio esaurito, ma perlomeno non così penosamente semivuoto, come lunedi scorso per l'Italiana.
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Su Attila se ne leggono di tutte. Opera del Verdi giovane e ancora immaturo (dopo Nabucco?) Del Verdi bandistico (ma non rinunciò proprio qui alla banda?) Del Verdi polacco (zumpara-pappa-pappa). Opera dalle vocalità impossibili. E così via ridimensionando. Certo, anche il Wagner del Lohengrin non è quello del Parsifal (toh!) e allora dovremmo bruciare quelle partiture giovanili e conservare solo Otello e Parsifal? No, grazie, dateci pure Attila e Lohengrin a colazione, pranzo e cena. Otello e Parsifal solo a Natale e Pasqua, dopo adeguati Avventi e Quaresime.

Insomma, sarà anche immatura, primitiva e pure barbara (smile!) ma personalmente trovo Attila un'opera musicalmente entusiasmante: a dispetto della struttura ancora tradizionale, a numeri, non lascia cadere la tensione nemmeno per un attimo; essenziale, concisa, mai prolissa. Sì, ci sono per lo più scene eroiche (con relativi fracassi e retorica) con frequenti irruzioni di cori a tutta forza, come nella cabaletta di Foresto in chiusura del prologo:
C'è tanta enfasi, come nell'attacco della cabaletta di Attila Oltre quel limite, con il suo inconfondibile (e tanto bistrattato, dai detrattori) ritmo di polacca, già comparso nella cabaletta iniziale di Odabella e che ritroveremo con Ezio, nell'Atto II:

Non parliamo poi del concertato del Finale II, con solisti, coro e tutti gli strumenti in ff, in un'autentica orgia sonora.

Ma vi troviamo anche scene liriche, dove emergono i sentimenti e gli stati d'animo, le superstizioni e la fede. O dove protagonista è la Natura, come nel sorgere del sole sulla laguna (per il quale Verdi trasse ispirazione da Le Désert di David) evocato con grande parsimonia di mezzi: un solo flauto e i violini primi, cui si aggiungono il secondo flauto e i violini secondi, poi un oboe, quindi le viole (sempre sottovoce) poi i violoncelli e un clarinetto, quindi un corno e infine i fagotti, in un lento ma continuo ispessimento del suono che bene rende il progressivo irrompere della luce sulle calme acque di Rio Alto:
fino all'esplodere del DO maggiore che sostiene il canto – L'alito del mattin – degli eremiti. E come non restare ammirati dalla semplicità disarmante del motivo in LAb - quattro misure, ripetute tre volte - che introduce ed accompagna l'accorato Non involarti, seguimi di Attila, all'inizio del quartetto conclusivo:
Insomma, in Attila ci sarà magari poca cerebralità, ma in compenso c'è vena genuina in grande abbondanza.
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Sulla plausibilità del libretto e sull'aderenza dello stesso (e della relativa fonte di Zacharias Werner) ai fatti storici sarebbe eccessivo pretendere troppo: al servizio del dramma e ad uso e consumo del pubblico italico di metà '800, le vicende storiche di Attila vennero assai manipolate, attingendo ampiamente (ed anche con libere storpiature) ad antiche saghe e leggende.

Intanto è storicamente assodato che l'Unno mai e poi mai arrivò nei paraggi di Roma, come vuole il libretto (e come già aveva fantasiosamente dipinto Raffaello in Vaticano, cui Verdi si ispirò): in realtà, nella sua spedizione contro la capitale dell'Impero non attraversò neanche il Po, fermandosi a Governolo, in quel di Mantova. Sì, perché dopo aver raso al suolo Aquileia, Attila aveva continuato invece a spostarsi da est a ovest, porgendo visite di cortesia a Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo e finalmente a Milano. In pratica tracciando con ferro&fuoco il percorso originale dell'autostrada Attila-IV (oggi: A4, smile!) E a Governolo, dopo l'incontro con Papa Leone, avrebbe deciso di rinunciare. E questo è ciò che si riscontra effettivamente anche nel libretto dell'opera fino alla fine dell'Atto I. Poi, miracolosamente, nell'Atto II troviamo Attila alle porte di Roma: potenza delle leggende e delle incongruenze dei libretti d'opera!

Nella realtà storica, convinto dalla minacciosa autorità di Papa Leone - ormai la Chiesa era divenuta più importante e potente dell'Impero (primato che detiene tuttora, smile!) - ma anche dai suoi propri luogotenenti e dallo stato penoso in cui versava la truppa - fatta di gente abituata a mangiar radici selvatiche e pezzi di carne pressata fra le proprie chiappe e il dorso dei cavalli che montava, e a cui la dieta mediterranea (Oh lauta mensa, che a noi sì ricco suol dispensa) giocava brutti scherzetti – il nostro decise di tornarsene a casina, laggiù in Pannonia (non prima però di aver fatto qualche razzìa su dalle parti di Augsburg). E fu a casa propria che, sposatosi per l'ennesima volta – tanto per consolarsi della momentanea rinuncia al Campidoglio – ci lasciò le penne, soffocato dal suo stesso sangue, sgorgatogli dal naso durante il pesante sonno provocato dalle abbondanti libagioni seguite al matrimonio.

I dietrologi – prevedendone saggiamente l'impiego nel melodramma verdiano, smile! - hanno poi inventato la storia dell'assassinio di Attila da parte della neo-moglie, una discendente dei Burgundi che si volle vendicare della strage del suo popolo perpetrata dagli Unni (su comando di Roma, guarda un po'!) E questa leggenda ha trovato posto, nei secoli successivi, in diverse saghe nordiche e germaniche. Una per tutte, la Völsunga Saga (che ispirò, per altri aspetti, anche Wagner): vi si legge che Gudrun, moglie di Attila (Atli, o anche Etzel o Eceln nel Nibelungenlied) decide di vendicare la strage che il marito ha fatto dei suoi parenti, in questo modo: ammazza i due figli avuti dall'Unno, ne cucina i cuori allo spiedo, mescola il loro sangue al vino, e poi serve il tutto in tavola al marito. Quando costui chiede dove siano finiti i ragazzini, lei lo informa, con la massima naturalezza, che lui stesso se li è appena mangiati e bevuti! La notte successiva, la simpatica mogliettina completa l'opera passando Attila da parte a parte, con la di lui spada.

Beh ecco, diciamo che Werner e poi Solera&Piave ci hanno meritoriamente risparmiato buona parte di questi eccessi orripilanti, tuttavia anche il disegno dell'italica Odabella (contendere all'amato Foresto l'onere e l'onore di far secco il flagello, correndo persino il rischio di mandare a meretrici tutto il piano faticosamente messo a punto dal medesimo Foresto con l'appoggio dell'ambiguo generale Flavio Ezio e dell'inaffidabile Uldino) appare sufficientemente contorto e persino più inverosimile di quello della sua parigrado burgunda. Per nostra fortuna a musicare questo polpettone fu tale Verdi, uno capace di cavar sangue (smile!) anche dalle rape.

A proposito di Odabella, la sua figura è solitamente avvicinata a quella di Abigaille. A me piace vederci anche un'anticipazione della Hélene dei Vêpres: analoghe le motivazioni alla vendetta nei confronti di un tiranno e musicalmente vicine anche le rispettive arie di esordio:
(Poi le sorti delle due eroine tenderanno a divergere assai).

In Attila compare – per la verità abbastanza di sfuggita e in modo superficiale, con qualche accenno a Wodan – anche il conflitto fra le ataviche religioni nordico-levantine e il Cristianesimo. Guarda caso, più o meno in quegli stessi anni, Wagner componeva Lohengrin, dove quel conflitto esplode invece in modo drammatico, e musicalmente straordinario, per tramite della straripante personalità di Ortrud.

Quanto ai presunti risvolti patriottico-risorgimentali del contenuto di Attila, varrà solo la pena di constatare come i personaggi di maggior peso politico che si oppongono all'invasore siano: un Papa (!) e un generale doppiogiochista (!!) I poveri Odabella e Foresto tutt'al più potranno incarnare il naturale risentimento popolare verso gli eccessi delle orde barbariche. In compenso, è proprio il condottiero barbaro il personaggio dell'opera che possiede e mostra la statura morale più alta e una indiscutibile nobiltà d'animo…
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E come ce l'hanno propinato, Lavia-Luisotti, questo capolavoro?

Gabriele Lavia – da velleitario esponente del Regietheater – si inventa un suo Konzept dell'opera: la barbarie permanente, o ricorrente. E lo rappresenta in tre scenari diversi, accomunati dalla presenza di teatri distrutti. Secondo lui, dalla barbarie, appunto, che si accanirebbe contro i luoghi in cui si racconta l'Uomo (così scrive sul programma di sala). Per il regista, l'Attila (quello di Verdi, si badi bene, perché è questa l'opera che lui deve mettere in scena!) incarna il Mito dell'oppressione, il Mito della privazione della Libertà, il Mito della fine della Verità di cui la Libertà è l'Essenza. Attila è la "Barbarie". Ora, come si possa conciliare questa vision con la trama e i contenuti del libretto e soprattutto della musica di Verdi, è un mistero che solo Lavia deve conoscere, beato lui! A noi, poveri pirla, non resta che fare un atto di fede nella sua superiore chiaroveggenza.

Peraltro pare che il nostro predichi male e razzoli… quasi bene: del suo Konzept restano solo le scene di teatri diroccati, mentre i personaggi escono abbastanza coerentemente con libretto e musica. Rivestiti peraltro da costumi bizzarri, tutta roba chiodata, da metallari, coperta dagli immancabili cappottoni DDR. Resta da dire di un dettaglio quasi comico nella scena del tentato avvelenamento di Attila, sventato da Odabella: già è al limite dell'assurdo nel libretto, ma Lavia fa ancor di meglio. Dunque: Odabella regge la coppa di vino destinata ad Attila; Foresto, sotto i suoi occhi, ci versa il contenuto della fiala col veleno; Uldino, lì accanto, prende la coppa e la reca al suo capo; dopodiché Odabella avverte Attila del pericolo. Una cosa semplicemente grottesca.

E veniamo quindi alla musica. Luisotti non fa sconti in fattura su enfasi e bordate di ff (che per Verdi, ligio alle convenzioni, significava il più forte possibile… solo i tardo-romantici inventeranno i fff e ffff); però sa anche dosare con discreta efficacia gli ingredienti più intimistici e lirici della partitura. Da incorniciare l'alba di Rio Alto, ben assecondata anche dalle luci. In un paio di occasioni invece si fa prendere la mano (o vuol proprio strafare): il Cara patria di Foresto inizia in Allegro assai moderato, poi sul verso ma dall'alghe di questi marosi si dovrebbe fare Poco animato, indi stringendo poco a poco; invece Luisotti passa di colpo e direttamente dall'Allegro assai moderato ad un Prestissimo degno del miglior Cipollini… Stessa solfa nel travolgente Finale II, dove si dovrebbe partire da un Allegro e poi passare a un Più animato e infine ad un Più mosso; il maestro invece salta tutti i passi intermedi e si butta a capofitto in un Allegro con fuoco tanto impressionante e strappa-applausi, quanto gratuito. Ma insomma, una direzione nel complesso accettabile, e ben supportata da un'orchestra compatta, che garantisce a Luisotti un gran trionfo finale.

Orlin Anastassov (che viene più o meno dai paraggi di Attila) ha dato forfait (voci maligne attribuiscono la defezione ad un improvviso invito ad una festa in suo onore da parte di una certa Ildegonda, smile!) ed essendo indisponibile anche il vice (Pertusi) lo ha sostituito sui due piedi Enrico Iori, non nuovo per la verità a cantare il flagello. Datosi che probabilmente avrà avuto solo il tempo di scambiare quattro chiacchiere col maestro prima di entrare in scena, la sua prestazione la giudicherei più che sufficiente, e così l'ha pensata anche il pubblico.

Marco Vratogna era lo sbifido Ezio. Che però non dovrebbe cantare in modo sbifido… Comunque è rientrato nel generale livello di passabile mediocrità: per lui qualche applauso dopo il duetto iniziale con Iori, accoglienza fredda all’aria dell’Atto II e però applausi alla fine.

Elena Pankratova come Odabella non mi è dispiaciuta: più efficace nell'esordio eroico (applaudito) che nell'aria dell'Atto I, che forse le è costata (immeritatamente, per me) quegli unici buh che si sono uditi alla fine dalla seconda galleria.

Fabio Sartori è stato un Foresto abbastanza dignitoso, sempre in controllo e mai (apparentemente almeno) in difficoltà. Anche per lui buon gradimento di pubblico.

Gianluca Floris come Uldino aveva pochi versi da cantare solo, più che altro da contribuire a vari cori e concertati, e ciò ha fatto passabilmente bene.

Ernesto Panariello impersonava Leone. Il quale ha da cantare da solo 4 versi, 16 battute in tutto, poi si mescola al coro del Finale I. Però in quelle poche battute dovrebbe mettere (tonante, recita la didascalìa) tanta paura addosso al flagello, da convincerlo a rinunciare all'impresa. Ma dato che per i librettisti Attila non rinuncerà affatto, mi pare del tutto logico (smile!) che l'intervento del Papa-Panariello sia stato quanto di più fiacco e improduttivo si potesse immaginare… Il pubblico però gli è stato grato di non aver fatto finire l'Opera a metà (ari-smile!)

I coristi (adulti e bianchi) della Scala devono proprio stare sui coglioni agli estensori delle locandine web del Teatro: non parvenu. Quindi, un doppio bravi! a loro e al loro condottiero Casoni.

In conclusione: a parte l'isolata contestazione alla cicciottella Pankratova, buon successo, segno che il pubblico ha gradito (quanto e quanti spettatori poi abbiano una minima conoscenza dell'originale è oggigiorno questione non secondaria, ma… quaternaria). Prosit e – per quanto mi riguarda – looking forward to PesaROF!
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12 luglio, 2011

L’Italiana in Algeri alla Scala



Ieri sera, in un Piermarini desolatamente semideserto, terz'ultima recita dell'Italiana, con il primo cast (minimamente rinforzato) degli artisti dell'Accademia.

Il quasi quarantenne allestimento del grande Jean-Pierre Ponnelle (ripreso da Lorenza Cantini) sta lì a dimostrare come le cose fatte con serietà, misura ed intelligenza non temano il logorìo del tempo e mantengano intatta tutta la loro freschezza e godibilità. Ma l'opera non è solo regìa, è soprattutto musica e interpreti: pretendere che il pubblico spenda - per un posto di platea e palco ad una recita di fine anno di una pur rispettabile scuola - la stessa cifra che spende per la Walküre inaugurale è cosa bizzarra non solo rispetto alle leggi del mercato, ma anche a quelle dell'arte. E così soltanto le gallerie avevano un aspetto vagamente normale: per il resto, occupazione posti sotto il 50%, a occhio e croce.
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Che Rossini rappresenti uno snodo fondamentale nello sviluppo della musica dell'intero '800 non è certo una novità, ma sempre si resta sorpresi nello scoprire i sotterranei legami che uniscono compositori e relative opere. Ecco, nell'Italiana troviamo tracce del passato e anticipazioni del futuro. Come non riconoscere il magico flauto di Papageno nell'inciso che compare già all'inizio della prima scena?
 

E il coro Viva il grande Kaimakan, non cita quasi alla lettera l'epinicio che chiude il Ratto?

E questi non sono che due dei tanti tributi di Rossini al grande Teofilo. Ma poi come non scorgere, nell'Introduzione al secondo atto, il motivo dell'Allegro marziale che ritroveremo in Norma?

E qualcosa del Finale II dell'Italiana sembrerebbe essere rimasto in testa persino al Brahms dell'ultimo tempo della sua prima Serenade:

Sappiamo poi che tracce di Rossini si trovano anche in Wagner, a testimonianza di un fil rouge che percorre un intero secolo di musica...
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Bene, come ci hanno propinato questo capolavoro Allemandi&C?

Il Direttore ha tenuto insieme l'Orchestrina con sufficiente autorità, staccando tempi appropriati (anche se nei due concertati finali ha un po' frenato, forse per timore di conseguenze sul palcoscenico). I ragazzi se la sono cavata dignitosamente, inclusi i corni, ripresisi bene dopo un non felicissimo esordio.

Quanto alle voci, i fuori-quota Pertusi e Taormina si son distinti assai più sul fronte macchiettistico che su quello canoro: Pappataci e Kaimakan dovrebbero far ridere sì, ma cantando sempre, non vociando o sghignazzando spesso e volentieri. Meglio han fatto i due negretti (Yende e Brownlee) che se la sono cavata discretamente, esibendo anche i loro DO e SI acuti con sicurezza. Tornatore e Polinelli (quast'ultimo più impegnato sul piano atletico, che su quello canoro) hanno sostenuto le loro parti di contorno con apprezzabile impegno. Chi (mi) ha in parte deluso è la ex-scolara Rachvelishvili: ha un vocione impressionante, che emerge però quasi esclusivamente negli acuti; per il resto… un ritorno in Accademia forse le farebbe bene (che ne dici, Daniel?) Bravi invece i ragazzi del Coro di Caiani (che la locandina online del teatro ignora sciaguratamente).

Comunque lo scarso pubblico ha mostrato di gradire, tributando applausi a scena aperta e all'uscita finale a tutti. Ma – ripeto – a far cilecca (e siamo proprio nel bel mezzo di bufere dei rating) è stato il price/performance.
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