affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

09 novembre, 2010

Gergiev-Kavakos aprono la stagione dei Trepper Philharmoniker



Con un programma tutto russo è stato Valeri Gergiev ad inaugurare la stagione della Filarmonica della Scala. Fosse per lui, i fabbricanti di bacchette da direzione d'orchestra andrebbero inesorabilmente falliti. Ma lui non ne ha bisogno poiché di bacchette ne ha 10, quante le dita delle sue mani, che muove vorticosamente, come fossero ali di colibrì. Ospite di riguardo Leonidas Kavakos, che invece si guarda bene dal suonare a mani nude (smile!)

 
Prima del concerto, in un Piermarini esaurito - bene, bene! - Ernesto Schiavi, Direttore artistico della Filarmonica, insignisce Gergiev del titolo di Socio onorario dell'Orchestra, in omaggio ai suoi 20 anni di consuetudine con i filarmonici, iniziata nel 1990 con un concerto di contenuto assai vicino a quello odierno.

 
Che come antipasto prevede Il lago incantato, un breve (neanche 8 minuti) poema sinfonico di Anatoli Ljadov, sottotitolato Leggenda. Non è propriamente il classico brano con cui spesso si apre fragorosamente un concerto (qui ci poteva stare a meraviglia, per dire, l'ouverture di Ruslan&Ludmila) per consentire a qualche ritardatario di prender posto senza disturbare troppo, o per richiamare all'ordine il solito indefesso chiacchieratore, o magari per consentire a qualche appisolato-precoce di rimettersi in linea. No, questa è musica fatta apposta per prender sonno, cullati dagli arpeggi… dell'arpa (smile!) dagli arabeschi carillon-eschi della celesta e dalle semicrome dei violini, mutuate dal wagneriano Waldweben. Cosa simile fu perpetrata già lo scorso maggio da laVerdi all'Auditorium, con esiti ugualmente imbarazzanti. Francamente, la barcarola di Offenbach è (in questo genere) davvero imbattibile… ma qui ci voleva – evidentemente – il passaporto russo!

 
Si comincia a far sul serio (ecco, per la verità qui qualcuno potrebbe obiettare…) con l'Opus 35 di Ciajkovski. Che il concerto sia diventato famoso (almeno da noi) grazie allo spot brandy-brindereccio dei mai abbastanza rimpianti Vianello-Mondaini è peraltro cosa da non demonizzare, datosi che il buon Piotr per primo, per fargli una bella campagna pubblicitaria, si servì nientemeno che dei favori di tale Carmen (una escort di cui il nostro gay si era maledettamente infatuato, smile!):


 
Kavakos cavalca a meraviglia questa partitura – che ai tempi fu considerata ineseguibile – passando disinvoltamente dalla leziosità dell'iniziale Allegro, alla struggente malinconia della Canzonetta, al vorticoso e impervio Allegro vivacissimo che chiude l'opera. L'orchestra lo spalleggia a dovere, eccetto forse alcuni interventi troppo invadenti dei due corni. Trionfo per lui, ricambiato da un lungo bis distensivo quasi a disintossicarsi dalla droga ciajkovskiana.

 
A bilanciare l'impalpabilità e i tratti morfeici del Liadov che aveva aperto la serata, la chiusura è un Ciajkovski che – perlomeno nei due movimenti esterni della sua Quarta - più assordante e fracassone non si potrebbe. Questa sinfonia è – con l'eccezione di parte dei due movimenti interni – una specie di distillato di retorica del dolore, un romanticismo che in certi momenti parrebbe in avanzato stato di decomposizione, ma che sa ancora scatenare forze smisurate. Diciamo la verità, il Ciajkovski serio verrà fuori più avanti, un 15 anni dopo, allorquando tutti i suoi nodi esistenziali arriveranno fatalmente al pettine, con la Patetica. Qui invece siamo in buona misura all'affettazione, all'autoflagellazione piuttosto gratuita; assai poco giustificata, fra l'altro, dai casi dell'esistenza (per dire, l'idea della sinfonia venne a Ciajkovski nell'inverno del 1876, cioè assai prima della crisi seguita al matrimonio immediatamente naufragato con Antonina, e quando il compositore stava pensando anche all'Onegin). Una cosa simile accadrà al Mahler della sesta (rispetto alla nona, per intenderci). In effetti, perlomeno a me, questa sinfonia lascia proprio l'impressione di un gigantesco fuoco di paglia: ti dà l'illusione di un'eruzione vulcanica ma poi, in quattro e quattr'otto, non ne resta che poca cenere, che se ne vola via con la prima folata di vento.

 
Detto tutto il male possibile (smile!) dell'opera, va invece dato a… Valery quel ch'è tutto suo, di diritto. Una lettura strepitosa, per me, con punte di diamante nei contro-soggetti, come il passaggio in SI maggiore del primo movimento, dove i legni dialogano con i violini in una specie di gioco a rimpiattino; o l'emozionante entrata, nel secondo movimento, del tema in SOL maggiore (un tema in sè insulso, che scende e sale banalmente da tonica a dominante) che davvero è parso emergere come una venere dalle acque, pieno di freschezza e leggerezza; e la prima irruzione dell'oboe nello scherzo, dopo il generale pizzicato degli archi; e poi il tema della betulla del finale, che nelle mani di Gergiev trasloca dagli archi a tutti gli ottoni con un crescendo mozzafiato.

In due parole: un trionfo.

 
Quanto alla Filarmonica, quando viene strigliata a dovere da un Kapellmeister che evidentemente non tollera approssimazioni e facilonerie, mostra di non essere poi così da discarica come molti la descrivono. Ecco perché la nomina, da parte del Teatro alla Scala - che è allo stesso tempo cliente e fornitore unico dell'orchestra (per le due stagioni concertistiche) oltre che datore di lavoro dei professori (per la stagione opera-balletto) - di un Direttore musicale, che la prenda per mano (e magari pure per le orecchie, quando serve!) si mostra ogni giorno di più come improcrastinabile.

08 novembre, 2010

Le Nozze (d’argento) di Figaro al Maggio


Un Figaro quasi ventennale è tornato a maritarsi a Firenze (dove debuttò nel 1992, dopo Vienna). È quello ideato da Jonathan Miller (e qui ripreso da Gianfranco Ventura) ormai alla terza apparizione fiorentina, dopo quella del 2003.

Eppure mantiene intatta tutta la sua freschezza e piacevolezza, a dimostrazione del fatto che regìe (cosiddette, con intento minimizzante se non spregiativo) tradizionali si conservano negli anni assai meglio di tante che vanno alla ricerca di qualche recondito significato dell'opera, su cui costruire Konzept improbabili o del tutto strampalati.

Che le Nozze – come il loro antesignano ispiratore Mariage – contengano impliciti o ammiccanti riferimenti a fenomeni di tipo socio-politico-cultural-eroto-psicologico lo si comprende e lo si apprezza perfettamente proprio dalla rappresentazione originale, senza bisogno che qualche regista in cerca di notorietà a buon mercato ce lo venga a spiegare con trasposizioni di vicenda e personaggi nel tempo e nello spazio. (Si perdonerà tranquillamente l'invenzione di Miller di presentarci due pargoletti della Contessa, uno ancora in fasce…)

Sapientissima poi è la direzione attoriale: già dall'entrata di Figaro&Susanna, e giù giù fino al gigantesco rimpiattino finale, magistralmente reso col semplice impiego di tre colonne, dietro cui far nascondere di volta in volta i personaggi. E va dato atto a tutti gli interpreti di aver assolto al meglio il compito relativo alla presenza scenica. (Qualche eccesso di palpeggiamenti non ha fatto scadere lo spettacolo in avanspettacolo.)

Sul fronte musicale, detto dei tagli alle due arie dell'Atto IV (Marcellina, scena IV, Il capro e la capretta e, per par-condicio, Basilio, scena VII, In quegli anni) arie che Massimo Mila definiva argutamente scritte per obblighi di natura sindacale, dirò che la direzione del nordico Arild Remmereit mi è parsa forse un po' troppo freddina (smile!) ma non del tutto disprezzabile: insomma, nel complesso positiva, a meno di non cercare il proverbiale pelo nell'uovo. Del pari rimarchevole la prestazione del Coro di Piero Monti e delle sue due soliste Sarina Rausa e Nadia Sturlese, tutti chiamati ad un compito peraltro non proibitivo.

Nel mio personalissimo cartellino (la vittoria delle azzurre del tennis mi ha richiamato alla mente il grande Rino Tommasi) la palma della migliore va alla Contessa Rachel Harnisch, quasi perfetta ed acclamatissima nella sua aria della scena VIII dell'atto III.

Vocina piccola, ma gradevole, quella della Susanna di Olga Peretyatko, cui mi sento di perdonare un paio di urletti di troppo.

Ruxandra Barac ha interpretato un Cherubino efficacissimo scenicamente, vocalmente discreto (nella sua Canzona della terza scena dell'atto II) ma non più.

La Marcellina di Laura Chierici (che non ha un sindacato a proteggerla, smile!) e la Barbarina di Paola Leggeri (che invece ha cantato – meschinella – la sua cavatina) se la son cavata onestamente.

Quanto ai signori, i due protagonisti principali meritano un plauso, anche se non sembrano dotati di voci particolarmente potenti (in particolare il Pietro Spagnoli del Conte, peraltro assai bene impostato). Vito Priante è stato un Figaro forse poco sanguigno e troppo sempliciotto, ma il pubblico non ha mancato di gratificarlo ampiamente.

Gli altri: Umberto Chiummo come Bartolo, Gianluca Floris (anche lui non iscritto a sindacati) in Basilio, Antonio Feltracco in Curzio e il fin troppo avvinazzato Giuseppe Di Paola in Antonio l'hanno sfangata onorevolmente, nelle scarse parti solistiche, ma soprattutto nei concertati.

Alla fine grandi applausi per tutti, in un Comunale pieno come un uovo, cosa che non può non far piacere, oltretutto in un pomeriggio (peraltro piovigginoso) dove il teatro doveva competere con pedatori viola e velleitari rottamatori.

05 novembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 9


Dopo tanto Mahler (ma siamo solo a metà… si riprende con l'anno nuovo) l'agenda de laVerdi ci propone una parentesi russa: Rimsky e Stravinsky.

 
A proposito di musicisti russi, laVerdi è con il lutto (virtuale) al braccio, per la scomparsa – lo scorso 2 novembre - del suo Direttore Emerito, Rudolf Barshai.

 
Ieri sera sul podio è il sessantunenne Muhan Tang, uno dei pochi (ancora) direttori cinesi in circolazione da noi (ma laVerdi ne ha preso una tutto per sè…)

 
Si comincia con la Suite da Lo Zar Saltan di Rimsky, di cui avevamo avuto un antipasto nel 15° concerto della stagione scorsa, con l'esecuzione, allora, del solo ultimo brano (Le tre meraviglie). La Suite incorpora in sostanza tre Introduzioni: all'atto I (partenza e addio dello Zar) all'atto II (la Zarina e il figlio galleggiano sul barile) e all'ultima scena dell'atto IV (le 3 meraviglie). Sono tutte aperte dalla celebre fanfara, che rappresenta una specie di motto dell'intera opera:

Fanfara che ritorna più volte nell'ultimo brano, come separatore fra le tre meraviglie. A proposito delle quali, il motivo che introduce i guerrieri è una chiara citazione – il primo tema del Principe Kalendar - dalla Sheherazade (di una decina d'anni anteriore) che si ascolterà più tardi:

Ed in effetti l'opera ha, con Sheherazade, parecchie affinità di ambientazione, nel fantastico mondo orientale.

 
E l'orientale Tang ne cava un'interpretazione coinvolgente, mettendo in luce la smagliante tavolozza di colori della suite.

 
Un po' di trambusto per riconfigurare (smagrendola) l'Orchestra: ottoni tutti concentrati a destra (corni in alto, trombe sotto ai fagotti e tromboni-tuba all'estrema) per lasciare il violino solista con le spalle sgombre da strumenti troppo invadenti. E quindi arriva il fiammingo (a dispetto del nome) Yossif Ivanov a suonarci – con uno Stradivari della bella età di 311 anni, dal suono cupo e pastoso - il Concerto in RE per violino di Igor Stravinsky. È in realtà quasi una sinfonia concertante del violino con gli altri strumenti dell'orchestra. (Qui una recente esecuzione ai Proms con Shaham). Attacca con un problematico accordo di 11ma (MI-LA) ripetuto all'inizio di tutti i movimenti. Nel primo (Toccata) fa curiosamente capolino anche un inciso che ricorda un motivo dell'Oberon di Weber!

 
Seguono le due Arie: la prima più mossa, con frequenti contrappunti in pizzicato degli archi bassi. La seconda più elegiaca, con sommesso accompagnamento quasi esclusivamente limitato ai soli archi e con il motto dell'accordo iniziale che torna un paio di volte a separare le sezioni del brano.

 
Ma il concerto non fa che confermare i lunghi sguardi all'indietro di Stravinsky, che qui si rifà nientemeno che a Bach (magari un po' anche a Paganini…): nel Capriccio finale dopo corno e fagotto, il nostro fa intervenire - a duettare con il solista - anche il Konzertmeister (nella fattispecie: Luca Santaniello) come nel Concerto per due violini del sommo Johann Sebastian.

 
Ivanov ci mette tutto l'ardore e il virtuosismo necessari per farci digerire questo pezzo non proprio facile, meritandosi applausi scroscianti dal (non oceanico) pubblico dell'Auditorium. Che lui ripaga con un bis paganiniano (il 13mo capriccio dell'op.1).

 
Ecco poi il gran finale, con la celebre Sheherazade, formalmente denominata Suite sinfonica, in realtà qualcosa che sta a metà fra sinfonia in 4 movimenti (Preludio – Ballata – Adagio – Finale, come li voleva chiamare l'Autore, secondo un'idea poi abbandonata) e poema sinfonico, con tanto di programma esterno (Il mare e la nave di Sinbad – Il Principe Kalendar - Il Principe e la Principessa – La festa di Baghdad, il mare e il naufragio) e di motivi che ritornano ciclicamente, anche se Rimski ci tenne a precisare che si tratta solo di spunti musicali impiegati in diverse circostanze, nulla a che vedere con i Leit-motive di marca wagneriana.

 
Per la verità non sembrerebbe proprio così, a partire dal famoso assolo di violino (che ha permesso a Luca Santaniello di dare il meglio di sé) inizialmente in MI minore, che impersona invariabilmente la protagonista, introducendoci le diverse storie da 1000&1notte che la furba Sheherazade racconta al sultano, per sfangarla ogni volta:


 
Le due terzine evidenziate formano la base di uno dei temi del primo movimento (il mare su cui veleggia la nave di Sinbad) che si contrappunta all'altro, subito esposto all'inizio, e poi sapientemente variato:
È il tema che rappresenterebbe il sultano cattivone, ma poi anche la nave di Sinbad. Fra la sua iniziale esposizione (in cui Tang mette tutta l'enfasi dovuta) e quella del motto di Sheherazade sentiamo i fiati emettere cinque accordi che ci richiamano i quattro del Sogno mendelssohniano (e che torneranno proprio in chiusura dell'opera).

 
Il secondo movimento, dopo l'introduzione del violino solo, vede il fagotto, seguito poi dall'oboe, esporre il tema di Kalendar (la cui reminiscenza abbiamo ascoltato prima nel Saltan):

L'altro tema che gli fa da contraltare è questo, con l'incipit che ricorda vagamente il Sultano:
Tema che viene sviluppato in modo strepitoso, su un tempo Allegro molto. Il fagotto ha ancora modo di mettersi in evidenza, con alcune cadenze solistiche sulla seconda sezione del primo tema, che poi riprende il sopravvento fino alla chiusura.

 
Il terzo movimento – una classica love-scene - non apre con il motto di Sheherazade, ma direttamente con il delizioso tema principale:

Esso occupa la prima parte del movimento, ed è caratterizzato anche da ampi svolazzi del clarinetto e poi del flauto a chiuderne le apparizioni. Poi ecco un delicatissimo intermezzo, dove compare un nuovo tema più mosso e grazioso:

Al quale subentra per poco il primo tema, chiuso da una cadenza dell'oboe. Dopo una pausa ecco riapparire il motto di Sheherazade, sempre nel violino solista di Santaniello, che ci costruisce qui anche degli arabeschi di biscrome. L'arpa di Elena Piva (che è opportunamente dislocata in posizione avanzata, vicina al violino di spalla che deve accompagnare nei diversi assolo) poi oboe e clarinetto ancora a descrivere ampie arcate sonore, indi il corno, solo, a proporre il primo tema; infine è il secondo che riprende il sopravvento e porta alla conclusione, con una lunga e splendida cadenza.

 
Il movimento finale inizia, come il primo, con il tema del sultano, ma ora in tempo Allegro molto. Ecco però subito dopo, in Lento, il motto di Sheherazade, che il violino espone in corda doppia (e tripla per gli accordi finali) quindi con maggiore corposità di suono rispetto alle precedenti apparizioni. Ancora si scatena il tema del sultano, Allegro molto e frenetico, cui il violino solista risponde con il motto di Sheherazade, adesso in corda tripla (e quadrupla sugli accordi finali) come a ribadire la capacità di resistenza della sultana alla ferocia del marito.

 
Attacca ora (Vivo) la strabiliante festa di Baghdad, una vera orgia sonora in cui il ritmo della musica cambia di sovente, da 2/8 a 6/16 a 3/8, come chiaramente indicato in partitura:

Su questo ritmo sentiamo inizialmente un tema che ricorda vagamente gli italiani saltarelli del ciajkovskiano Capriccio e della quarta
di Mendelssohn, ma poi Rimsky introduce, sapientemente variati, praticamente tutti i temi già ascoltati in precedenza: ed ecco l'orgia sonora, con l'ottavino e i due flauti (Massimiliano Crepaldi, Valeria Perretti e Ninoska Petrella) – in particolare - chiamati a virtuosismi a dir poco pazzeschi, bruscamente interrotti da una corona puntata (di una croma) scritta a cavallo della barra di separazione fra le battute, che Tang tiene proprio corta, neanche il tempo di tirare il fiato. È un momento di emozione grandissima, poi subito (Più stretto) la sarabanda riprende più infuocata che mai, per poi sfociare (Allegro non troppo maestoso, in 6/4) sulla vista della nave che veleggia sul mare aperto fino a …schiantarsi sullo scoglio su cui si erge la statua del cavaliere di bronzo!

 
La favola volge al termine, e Sheherazade/Santaniello ancora fa sentire il suo motto (sempre in MI minore) prima che il tema del sultano, ora cupo e lento negli archi bassi, ci dia quasi l'impressione che il cattivone si stia addormentando, ormai dimentico delle sue sanguinose intenzioni. Ecco i cinque accordi mutuati dal Sogno, e poi Sheherazade può a sua volta infilarsi serenamente sotto le lenzuola, cullata dal suo motto, ora trasfigurato in MI maggiore, seguito dall'accordo in pianissimo dei fiati e dai pizzicato degli archi, che chiudono l'opera.

 
Assieme al Capriccio spagnolo e alla Grande Pasqua russa, Sheherazade era considerata dallo stesso Autore come il culmine del suo periodo nazionale: Con questi tre lavori la mia orchestrazione raggiunse un grado considerevole di virtuosismo e di luminose sonorità pur senza essere influenzata da Wagner, ma entro i limiti della convenzionale configurazione dell'orchestra di Glinka. Queste tre composizioni presentano anche una considerevole riduzione nell'uso del contrappunto; il suo posto è preso da un forte e virtuosistico sviluppo di ogni genere di figurazione che sostiene l'interesse tecnico delle mie composizioni.

 
Che ne sia convinto o no, il pubblico riserva all'opera – e naturalmente a Tang e ai magnifici interpreti - il grande successo che si merita da più di 120 anni.

 
Prossimamente si torna in Mitteleuropa, con due possenti sinfonie.

30 ottobre, 2010

Zauberflöte al Grande

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Ancora il Circuito Lirico Lombardo in evidenza, con la mozartiana Zauberflöte. Una recente co-produzione di Jesi-Treviso-Fermo che viene ripresa in Lombardia. Dopo le due rappresentazioni al Ponchielli di Cremona, è approdata al Grande di Brescia (poi a gennaio sarà a Como e Pavia). Come sempre, l'orchestra è quella dei Pomeriggi Musicali, in questa occasione condotta dall'albionico Oliver Gooch, con il coro diretto da Antonio Greco.

La regìa e i costumi sono del pregiato marionettista Eugenio Monti Colla. Insieme a Roberto Gritti, che manovra le luci, ha allestito un Flauto in cui convivono in modo intelligente e piacevole i diversi aspetti dell'opera: quello magico, quello massone e quello popolar-leggero. Insomma, ha coadiuvato al meglio il grande Teofilo, che riuscì a padroneggiare mirabilmente con la sua divina ispirazione - cavandone uno dei capolavori più straordinari del teatro musicale - il bizzarro intruglio partorito dalla mente un po' troppo fervida di Schikaneder.

Da 220 anni studiosi, critici, recensori ed esegeti si sbizzarriscono a trovare - spesso inventandosele per mettersi in mostra – le altezze (e le magagne) e le più recondite e cerebrali significanze che si celerebbero nell'opera. Cercando ad esempio di spiegare (o di dimostrarne l'insussistenza) le palesi contraddizioni e bizzarrie del libretto. Chi – uno per tutti, Massimo Mila - attribuendole a un qualche incidente di percorso – accaduto durante la composizione dell'opera - che avrebbe portato il librettista-cantante-guitto-gaudente (e Mozart al seguito) a stravolgere tutta la trama originaria del Flauto – derivata dalla Lulu di Liebeskind – e nientemeno che a ribaltare, dopo 2/3 del primo atto, le personalità dei due sovrani. E chi - uno per tutti, Sergio Sablich - ad affannarsi a spiegare e dimostrare il contrario, e quindi la perfetta e mirabile concezione unitaria dell'opera, con argomentazioni tanto dotte e sottili, quanto poco razionali.

Quanto poi ai nobili fini etici e morali che sarebbero alla base dell'opera, basterà ricordare come le femmine ribelli (per così dire) vi fanno tutte una brutta fine, chè la teoria e pratica massonica relegava la donna a ruoli decisamente subalterni (le femministe avrebbero parecchio da ridire sul razionale presentato dal sapientone-massone Sarastro per giustificare la restrizione di libertà imposta alla povera Pamina: Un uomo deve guidare i vostri cuori, poiché senza di lui suole ogni donna deviare dalla via che le è propria. Le parole saranno anche auliche, ma il concetto resta quello che usava ripetere il simpatico Bracardi: la dona c'ha 'n cervelo de galina!)

Insomma, Monti Colla non ha cercato minimamente di coprire le magagne del libretto, che sono molte e piuttosto clamorose, e la sua regìa lascia perciò aperte tutte le domande che lo spettatore inevitabilmente si pone: perchè Astrifiammante ci viene presentata come regina del bene e madre offesa, nel primo atto, e poi campionessa del male e aspirante terrorista nel secondo? A proposito, se la Regina rappresenta il male, perché allora fa distruggere il male-serpente per salvare Tamino? E perché non ha usato le armi (che più tardi scopriremo possiede) per difendere Pamina dal sequestro di Sarastro? E perché presenta i tre fanciulli-angeli-custodi come suoi fedeli, se invece si scopre dopo che questi sono al servizio e alla corte di Sarastro? A proposito del quale, se non è (più) un tiranno sanguinario, ma il sommo sacerdote della nobile massoneria, perché ha commesso un odioso delitto (il sequestro di persona) per strappare Pamina alla madre prima di incontrare l'aspirante-iniziato Tamino, giudicato idoneo a guidare la principessa sulla retta via? E come mai ci sono degli schiavi nella sua reggia? E perché tiene al suo servizio Monostatos, un bieco aguzzino (per poi divertirsi a punirlo ripetutamente)?

Parliamoci chiaro, non ci fosse sotto la musica del divino Mozart, questa sarebbe una farsa, e pure mal riuscita, come un tale Richard Strauss, che di teatro musicale si intendeva appena un pochino, non esitò a rilevare. Monti-Colla si limita – meritoriamente – a presentarci ciò che troviamo scritto su libretto e partitura, mostrandoci il serpentone-drago con fumanti narici, fatto secco dalle tre dame (e questa è effettivamente una libertà) con colpi di bacchetta magica, i tre genietti che svolazzano sopra una bianca nuvoletta, i leoni di Sarastro che muovono le minacciose mascelle di cartapesta, le belve che fanno capolino al suono del flauto di Tamino, e i diversi paesaggi e palazzi dove si svolge la trama. I personaggi si muovono il minimo necessario, salvo Papageno che interpreta al meglio il ruolo da macchietta che Schikaneder si era costruito per sè.

Quanto alla musica, Gooch ne dà un lettura convincente, nella qualità ed anche nella quantità, facendoci ad esempio ascoltare tutti i ritorni del Dreimalige Akkord previsti nella scena parlata all'inizio del secondo atto. A proposito di parlato, è pesantemente tagliato, come sempre, ma forse meno di altre volte. Francamente rimane sempre il dubbio sulla sua efficacia in generale e particolarmente nel caso di rappresentazioni davanti ad un pubblico di lingua non krukka. Assolutamente all'altezza il coro di Greco.

La compagnia di canto si è dimostrata di livello più che accettabile, a partire dai due principi innamorati, il Tamino di Leonardo Cortellazzi e la Pamina di Serena Gamberoni.

Filippo Bettoschi, assai bravo nella parte attoriale di Papageno, se l'è cavata piuttosto bene anche sul fronte voce, ricevendo un particolare applauso all'uscita singola.

L'Astrifiammante Regina della notte è Clara Polito. Che mostra qualche affanno nelle parti più spiccatamente virtuosistiche: per la verità arriva abbastanza bene ai diversi FA sovracuti che la sua parte comporta.

Il Sarastro di Stefano Rinaldi Miliani ha tutta la necessaria autorevolezza scenica: l'unico appunto che gli si può muovere è la scarsa udibilità del famoso FA sotto il rigo, sul doch della sua reprimenda a Pamina.


Dignitoso anche il Monostatos di Anicio Zorzi Giustiniani, forse meno cattivo di quanto servirebbe. Laura Catrani assolve bene il suo compito (del resto limitato nella quantità) nei panni di Papagena.

Le Dame Loredana Arcuri, Angela Nicoli, Lorena Scarlata e i Genietti Silvia Spruzzola, Beatrice Palumbo, Simona Di Capua sempre gradevoli nelle loro ripetute apparizioni. Han fatto del loro meglio anche Alessandro Calamai e Marco Voleri, nei panni dei Sacerdoti/Armigeri.

Dopo che, durante la rappresentazione, erano praticamente mancati applausi a scena aperta, grandi ovazioni e trionfo per tutti alla fine.

29 ottobre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 8




Sempre ed ancora Mahler all'Auditorium, sul cui podio questa settimana sale il magiaro Adam Fischer, che diventò famoso – purtroppo per noi – in un momento assai triste per la musica (italiana in particolare, ma non solo): la scomparsa di Giuseppe Sinopoli. Era la primavera del 2001 e Sinopoli avrebbe dovuto tornare a Bayreuth a fine luglio per la sua seconda stagione (su 5) di Ring. Fu proprio Adam Fischer a sostituirlo – con merito, va detto subito - per quell'anno e per i tre successivi. Da allora Fischer ha accumulato 62 presenze sul podio della collina verde, dirigendovi anche Parsifal (2006 e 2007).

 
Ma lui dev'essere proprio destinato a sostituzioni dell'ultima ora: esattamente una settimana fa è stato chiamato d'urgenza a Monaco per rimpiazzare, in uno dei concerti dell'Orchestra della Radio Bavarese, il titolare Mariss Jansons, improvvisamente ammalatosi. Poi è andato con quell'Orchestra in una tournée in Spagna, da cui è rientrato il 25 ottobre, giusto in tempo per annunciare le sue dimissioni dall'Opera di Stato di Budapest, di cui era in pratica Direttore musicale; motivo: interventi del nuovo governo di destra (vuoi vedere che Bondi ha fatto scuola anche laggiù? smile!) che avevano già portato alla sostituzione del Direttore artistico.

 
Si comincia con Gli addii dell'imparruccato Josephus Haydn. Alla prima di questa sinfonietta, nell'estate del 1772, c/o Estheráz, residenza estiva dei principi di cui Haydn era musico stipendiato, accadde una cosa alquanto insolita: durante l'ultimo movimento, al presto improvvisamente subentrò un adagio (che strano…) al che gli orchestrali, uno dopo l'altro, spensero il lume sul leggio e se ne andarono alla chetichella, lasciando lo stesso Haydn e il primo violino a chiudere la sinfonia. Qui il momento in cui se ne va anche l'ultima viola:

La geniale trovata servì a far capire al principe Nikolaus, padrone di casa, che era finalmente ora di chiudere bottega e tornare tutti alle rispettive dimore ed alle proprie mogli, su ad Eisenstadt (distante peraltro meno di 50 Km) mettendo fine ad una vacanza (del principe) più lunga e noiosa del previsto (per gli orchestrali).

 
Fischer, che viene proprio dagli stessi paraggi dei principi austro-ungarici, mostra di saperla lunga anche in fatto di Haydn (non per nulla ne ha registrato tutte le sinfonie proprio nel palazzo Esterhàzy di Eisenstadt!) e ci regala un'esecuzione gradevolissima, che rispetta anche il copione scenografico, con i professori che se ne vanno in punta di piedi e - non essendovi lumi da spegnere sui leggii – con le luci sopra il palco che vengono progressivamente ridotte di intensità, fino a creare quasi il buio totale allorquando se ne va anche Fischer, lasciando Luca Santaniello e Lycia Viganò ad esalare – allontanandosi dalla scena - gli ultimi accordi di FA#.

 
Insomma, ci sono le dovute sceneggiate, ma per fortuna non le pagliacciate che si son viste proprio a casa di Haydn!

 
Il piatto forte è la Settima sinfonia di Mahler, introdotta prima del concerto da Carlo Lanfossi, che ha cercato di spiegare come mai questa sinfonia non ha mai incontrato grande popolarità. Forse perché, dopo le notevoli innovazioni portate (in senso positivo) dalla quinta e (in senso involutivo) dalla sesta, qui sembra che Mahler senta quasi il bisogno di ritornare indietro, magari proprio alla quinta, ma in realtà anche alla sua seconda. Intanto la macro-struttura è quasi identica a quella della seconda: due movimenti estremi, fra loro labilmente collegati dal ritorno del tema principale, e tre movimenti intermedi (due andanti e uno scherzo) che paiono quasi fuori dal contesto (ed infatti le due Nachtmusik furono composte per prime, assieme al completamento della sesta, un anno prima dei restanti tre movimenti).

 
Qui non ci sono voci umane, ma il programma interno richiama assai la Auferstehung, oltre che la quinta, magari in abito borghese e in versione laica, dalle stalle alle stelle (smile!) Si inizia quasi con un calvario (anche se non è proprio il mortorio della Totenfeier, nè lo spettrale richiamo della trombetta della quinta, ma poco ci manca). Qui è il corno tenore in SIb, dislocato da Fischer fra tromboni e tuba, ad aprire in un'atmosfera per nulla idilliaca:
Tutto il primo movimento lascia trasparire uno sforzo continuo per scalare impervie asperità, in cerca di qualche provvisorio altopiano dove respirare aria pulita. È vero che poi si chiude in MI maggiore, ma nulla prima di allora giustificava eccessivi ottimismi.

 
Ecco la prima Nachtmusik, costellata da marce ora faticose, ora più scorrevoli, sempre oscillante fra maggiore e minore (come si sente la vicinanza di composizione con la sesta…) È un ambiente simile a quello dei berlioz-iani pellegrini dell'Harold, qui in più ci sono anche dei campanacci (forse per ammortizzarne il costo – smile! - dopo l'impiego nella precedente sinfonia) pur se limitati a pochissime battute. Segue il cupo scherzo, una specie di sgangherato walzerone da halloween, che rivaleggia in bizzarria con la predica di SantAntonio ai pesci della seconda (quello della quinta, diciamolo pure, è al confronto di livello nobile). Una nuova Nachtmusik comincia ad introdurre un po' di pace e serenità, anche se siamo più al Prater che al Musikverein, con tanto di chitarra e mandolino (meno pacchiani, peraltro, del martellone della sesta, trattandosi pur sempre di strumenti a corda, smile!)

 
Da ultimo arriva il Rondò, che contiene dentro di sè molto teatro (e non parlo dei Meistersinger, né della Vedova Allegra, che pure vi aleggiano chiaramente) e chiude la sinfonia, dopo un ritorno preoccupante del primo tema del movimento iniziale, in modo quasi esilarante, come a voler scacciare - proprio mentre si affacciavano per davvero all'orizzonte, guarda caso – i fantasmi che Mahler si era inventato nella sesta.

 
Adam Fischer, che dirige a memoria, ne dà – a mio avviso - un'interpretazione del tutto convincente: tempi sempre stringati, nessun cedimento a sdolcinamenti o rilassatezze, cui pure un Direttore sarebbe tentato, in particolare nelle due serenate… Ne esce una settima che mostra, accanto ai limiti ahimè congeniti, tutte le sue interessanti qualità: appunto, come è stato scritto, interessante, non bella!

 
Splendida invece la prestazione dell'orchestra, lungamente acclamata alla fine, con le diverse parti e sezioni giustamente chiamate da Fischer a ricevere applausi speciali.

 
Il prossimo appuntamento è tutto russo, con Stravinski servito in un sandwich di Rimski.
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22 ottobre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 7



Altra tappa della lunga marcia mahleriana, il settimo concerto de laVerdi. In programma, dopo un antipasto mozartiano, la monumentale Auferstehungs-Symphonie, con il malesiano d'adozione Claus Peter Flor sul podio (ma Xian Zhang è stata vista aggirarsi in platea...) Alla vecchia conoscenza de laVerdi il clima equatoriale deve far bene, viste le sue rotondità (smile!) che, insieme alla capigliatura, lo fanno apparire in distanza come James Levine.

 
Con un'orchestra poco più che cameristica (dove i due corni sono posti a destra del podio) è il 28enne Martin Helmchen ad aprire il concerto con il K503 di Mozart. È quello dove compare un tema che (prima in modo minore, poi in maggiore) assomiglia vagamente alla Marsigliese. Nel caso di contestazioni di plagio, pare debba darsi ragione a Mozart, chè Allons enfants venne al mondo – si dice - qualche mese dopo.

 
A proposito di plagi, o più bonariamente di citazioni, l'Allegretto conclusivo si apre con una citazione quasi letterale di una gavotta dai balletti dell'Idomeneo. Ma anche lo Stravinski del Pulcinella, affermando di rifarsi a Pergolesi (in realtà ad altri musicisti settecenteschi, quali Gallo e Monza) ci propina la stessa (quasi) melodia, solo spostandone l'accentazione:
Sappiamo che Mozart attinse a piene mani idee e spunti da opere di musicisti italiani e non (proprio con Il Prigioner superbo di Pergolesi è stata rilevata una rassomiglianza notevole dell'ouverture della Zauberflöte) per cui non è da escludersi che per questo tema anche lui si sia ispirato – 140 anni prima – alle stesse fonti del musicista russo…

 
Il bravo Martin Helmchen interpreta questo gioiellino quasi in punta i piedi, con grazia e delicatezza tutta settecentesca. Ci offre anche un bis, sempre mozartiano, meritandosi calorosi consensi.

 
La Seconda di Mahler – introdotta prima del concerto dal musicologo-pianista-compositore Pietro Dossena - è una di quelle composizioni costruite da un musicista in disperata ricerca di se stesso e di una strada maestra che ancora non è riuscito a trovare (perché obiettivamente – a meno di non essere fuori dal mondo, come tale Bruckner, oppure di adeguarcisi borghesemente, come Strauss - trovare strade maestre nella musica, a fine '800, non era propriamente uno scherzetto, dovendosi l'artista muovere costretto fra i denti della tenaglia Wagner-Brahms). Ha scritto in modo fulminante Ugo Duse: Egli (Mahler) si trova al centro del problema sinfonico.

 
E per la verità, in questo problema, ci si dibatte come un pesciolino fuor d'acqua: scrive dapprima un Poema sinfonico in 5 parti, che poi – depennato Blumine – rinomina arditamente Sinfonia in RE maggiore. Prima ancora di farla eseguire ha già scritto una Totenfeier, un ibrido fra una marcia funebre e un'anticipazione ipertrofica della Tod und Verklärung (priva – per il momento - di Verklärung) che il suo futuro amico-rivale Richard Strauss comporrà di lì a poco. (Siamo accanto alla tomba di una persona amata, scrive Mahler in uno dei suoi, poi rinnegati, programmi. Strauss immaginerà invece di essere al capezzale di un moribondo, per la cronaca). Ci infila un Dies-Irae, à la Berlioz, poi una scimmiottatura dell'Andante moderato del terzo movimento della nona beethoveniana. Quando la fa sentire al pianoforte a Hans von Bülow, manca poco che questi non lo strozzi seduta stante! Ma proprio ai funerali del cornuto-da-Wagner Mahler troverà l'ispirazione per il tempo conclusivo della sua seconda: ascoltando l'ode funebre di Klopstock.

 
Nel frattempo il nostro aveva già aggiunto al minestrone: un assai poco sinfonico, e a tratti pure sguaiato Ländler (forse per scimmiottare gli stucchevoli minuetti settecenteschi) e poi – ma sì, esageriamo! – non uno, ma ben due Lieder dal Wunderhorn (uno senza e uno con parole). Il primo è la Predica di Sant'Antonio ai pesci; il testo – che qui non si ode – ci dice che ascoltano attentissimi, nell'ordine: carpe, lucci, stoccafissi, anguille, storioni, gamberi e tartarughe. Finita – e piaciuta - la predica, se ne tornano ciascuno alle proprie occupazioni… precisamente come i comuni mortali! (dico: in una sinfonia? smile!) Il secondo (Luce primordiale) è invece supportato dalla nobile voce del contralto, e procede su una melodia di spiccato ascendente bruckneriano; curioso che, a sbarrare la strada dell'Uomo verso Dio, non sia qualche bieco lucifero, ma un angioletto! (Ma questo, amici miei, era l'ambientino del Wunderhorn).

 
Infine Mahler, reduce dal funerale di von Bülow, chiuderà il tutto con l'Auferstehung, e avrà una bella pretesa a chiamare sinfonia un pot-pourri del genere. Ma di peggio farà con la successiva Terza, limitata all'ultimo momento, e solo per aver di che chiudere la Quarta, a sei movimenti, invece che sette (Messiaen arriverà appena 50 anni più tardi a scrivere una sedicente sinfonia – Turangalila – in dieci movimenti!)

 
Insomma, la seconda è un gigantesco (e sufficientemente confuso) agglomerato di idee, sentimenti, sensazioni, imprecazioni, prediche e preghiere. Formalmente indefinibile, come la sua stessa genesi del resto spiega benissimo: due movimenti estremi - labilmente collegati da un paio di motivi - e tre movimenti centrali piuttosto avulsi dal contesto. È sempre abbastanza piaciuta, e ancor oggi piace, forse proprio perché non soggiace a regole rigide, è una specie di fantasia costruita con musica ora drammatica, spesso orecchiabile, a volte tronfia ed enfatica, e infine nobilmente religiosa.

 
Per dire, un tema come questo, che compare nel primo movimento, è più tipico di un Lied o di un'Aria d'opera che di una sinfonia, non lo si può negare:
E infatti ritorna poi nel finale, a sostenere la teatrale e fugata perorazione del coro, sui versi della redenzione:
E tutto il Finale, più che un movimento di sinfonia, assomiglia ad una teatrale cantata sulla fine del mondo, con tanto di trombe del giudizio e resurrezione dei corpi. Certo, la strada per simili trovate era stata aperta – involontariamente? – da tale Beethoven e pure il classico Mendelssohn ci si era una volta inoltrato, con la sua Lobgesang. Ma Mahler va oltre, mettendoci anche un'orchestrina supplementare (4 trombe, 4 corni, timpani, grancassa, piatti e triangolo) piazzata in lontananza (Verdi aveva fatto, con più parsimonia, qualcosa del genere, ma in un Requiem, non in una sinfonia!)

 
Pertanto non ha proprio tutti i torti chi ha accusato Mahler di aver inquinato la forma sinfonica con l'Opera e il Lied, perpetrando un'operazione speculare a quella wagneriana, di inquinamento dell'Opera con contenuti sinfonici. A ben guardare, dopo Mahler si ritornò abbastanza nell'alveo delle regole, come dimostrano le poche (e spesso piuttosto velleitarie) sinfonie composte dopo di lui da Sibelius, Prokofiev e (in buona parte) da Shostakovich. Insomma, quello di Mahler fu un onesto ed apprezzabilissimo tentativo di mantenere in vita una forma musicale ormai ridotta allo stremo; uno sforzo immane, il suo, che ha dato anche risultati di assoluto valore, ma non ha potuto far altro che accompagnare amorevolmente la sinfonia sulla strada che portava – per l'appunto – al cimitero.

 
Claus Peter Flor poi, con una lettura - tutta fatta di opposti-estremismi – in cui ha pervicacemente amplificato a dismisura tutti i contrasti dinamici e agocici della partitura, ha contribuito (credo io) ad alimentare le malevole dicerie degli anti-mahleriani, che sostengono essere questa non una sinfonia, ma una sua parodia, infarcita di sesquipedali effetti senza cause.

 
Cervellotica anche la decisione, nientemeno che annunciata su un volantino allegato al programma di sala, di voler rispettare i 5 minuti di pausa fra la Totenfeier e il Ländler. A parte che qualcuno del pubblico ne ha approfittato per uscire e rientrare (magari in ritardo!) dalla sala, ma i 3 (non 5) minuti di intervallo sono serviti solo a far entrare sul palco il coro e le due soliste, assenti all'inizio: quindi buonanotte al raccoglimento (ci mancavano solo gli applausi di benvenuto!) Anche la disposizione delle soliste è apparsa assai strana: Gerhild Romberger va a sedersi sul proscenio per Urlicht, poi trasloca – mentre già l'orchestra sta esplodendo l'incipit del Finale - proprio in fondo al palco, dietro il coro, dove la attende Sibylla Rubens.

 
Il Finale è poi anche inquinato da qualche infelice incespicamento delle trombe, che peraltro non guasta la prestazione, complessivamente eccezionale, dell'Orchestra. Anche il coro di Erina Gambarini è stato come sempre all'altezza. Come pure le due soliste, nonostante la dislocazione piuttosto strampalata.

 
Alla fine, dopo tutto quel fracasso, che per la verità - venendo dopo un nobilissimo coro cantato quasi tutto sottovoce - sa molto di paradiso paesano (da Wunderhorn, appunto) applausi e ovazioni non possono comunque mancare.

 
Sempre Mahler, stavolta notturno e in compagnia di un Haydn in vena di saluti, nel prossimo concerto.
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21 ottobre, 2010

Noseda per Sesto agli Arcimboldi



Ieri sera Gianandrea Noseda ha diretto un concerto per una raccolta di fondi a supporto di iniziative socio-culturali del Comune di Sesto San Giovanni, sua città natale.

La sede era l'enorme Arcimboldi, che si trova formalmente sul territorio di Milano, ma è in realtà ad un tiro di schioppo da Sesto, e sul cui sagrato spiccano i cinque blocchi di ferro delle Scogliere (scultura di Giuseppe Spagnulo) che magari non saranno stati sfornati da qualche pressa della vecchia Falck, ma ricordano assai efficacemente l'ormai tramontata vocazione siderurgica della vicina ex-Stalingrado d'Italia.

Che da anni è alle prese con un lento ma inesorabile processo di riconversione al terziario, e dove sterminate aree, un tempo occupate da altoforni e laminatoi – Noseda dice di ricordare ancora la sirena che da ragazzino lo svegliava ogni mattina - sono divenute terreno di conquista (e campo di battaglia) per i soliti noti palazzinari, piombati qui da ogni dove, che le amministrazioni comunali (quasi ininterrottamente di sinistra, o di centro-sinistra) cercano in qualche modo di tenere a bada, per limitarne quanto meno i danni.

Il concerto è stato una specie di prova generale di quello che – proprio questa sera, 21 ottobre – inaugura la stagione del Regio. Dopo il Boris, con cui ha aperto quella operistica, Noseda si ferma quindi in Russia – paese che lui conosce bene per essere stato a lungo Direttore ospite al Mariinskij – per proporci due opere fra loro assai distanti come struttura e concezione, oltre che come data di composizione. Una curiosità nella disposizione degli ottoni dell'orchestra: corni a destra, trombe a sinistra e tromboni-tuba al centro.

Nella prima parte viene eseguita la cantata Alexandr Nevskij di Prokofiev, tratta dalle musiche che l'autore compose nel 1938 per l'omonimo film di Eisenstein, il regista della C(or)azzata (smile!) Potemkin. Film patriottico (chiaramente apologetico del simpatico Baffone) e che mette alla berlina i tedeschi dell'odiato nazista-anti-bolscevico Hitler. E quindi ritirato precipitosamente dalle sale cinematografiche sovietiche all'indomani della firma del trattato Molotov-Ribbentrop (23 agosto 1939) per esservi riammesso puntualmente il 22 giugno 1941, il giorno stesso dell'invasione tedesca (ah, la Realpolitik!)
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Dalle 21 sezioni della colonna sonora del film, Prokofiev estrasse la cantata, che è costituita da sette brani, per orchestra, voce e coro:

1. La Russia sotto il giogo mongolo: cupa introduzione in DO minore, eseguita dalla sola orchestra, a presentarci la triste condizione della Russia (attorno al 1200) percorsa dalle orde degli sbifidi invasori Mongoli. In realtà proprio Nevskij sarà piuttosto arrendevole e diplomatico con figli e nipotini di Gengis Khan (del resto assai poco interessati ad imporre religioni, molto a riscuotere le decime) arrivando ad accettare per la sua Novgorod un ruolo di vassallaggio (tributi inclusi, che lui stesso riscuoterà!) nei loro confronti, per potersi interamente dedicare con ostinazione (e ferocia, diciamolo pure) a fronteggiare le minacce cattoliche provenienti dall'occidente.

2. La vittoria di Nevskij nel 1240 sugli svedesi presso la Neva (tonalità di SIb). Le cronache - piuttosto romanzate - dell'epoca narrano di un'armata nordica (svedesi, norvegesi e finnici, guidati da tale Spiridon) arrivata dal Baltico sulla Neva - con tanto di benedizione papale e con arcivescovi al seguito - e intenzionata a conquistare Novgorod e tutta la regione del lago Ladoga, per imporvi il cattolicesimo. Nevskij, aiutato da sei valorosi eroi (e da miracoli di santi e sante in paradiso…) la domenica del 15 luglio guida il suo popolo alla vittoria sugli invasori, ai cui superstiti non resta che ammucchiare i cadaveri dei loro capi e vescovi su alcune navi e affondarle nella Neva! E proprio dal nome del fiume deriva l'appellativo Nevskij affibbiato dopo la vittoria al ventenne (!) principe Alexander Yaroslavich, di cui il coro canta il ricordo, su una nobile melodia, che è diventata un po' la sigla dell'opera:

Sì, una battaglia abbiamo sostenuto sulle rive della Neva, presso la profonda Neva, presso l'ampia Neva.

3. I crociati a Pskov, in DO# minore, dove il coro evoca i Cavalieri Teutonici e le loro visite (non propriamente di cortesia) sul suolo russo. Gli odiati Nemtsy (termine dispregiativo, tipo testa-di-rapa) che dopo Pskov si apprestano ormai a conquistare Novgorod, sono descritti da Prokofiev con parole e musica che – cripticamente o scopertamente – sono indirizzate a colpire un paio di rappresentanti, o simpatizzanti, della cultura musicale tedesca. Tanto per cominciare, i cavalieri cantano versi in latino, e già questo la dice lunga: il latino era – per i russi - la lingua del Papa di Roma e di tutti coloro che al Papa erano in qualche modo asserviti. Si ricorderà che Musorgski, nella seconda versione del Boris, fa comparire a Kromy due gesuiti polacchi, cui mette in bocca delle giaculatorie in latino, musicate in modo da rendere i due immediatamente riconoscibili, e quindi disprezzabili come vermi dal popolo russo. Qui i teutonici cantano: Peregrinus expectavi pedes meos in cymbalis, che di per sè non significa proprio un bel nulla, meno di qualunque filastrocca strampalata. Ma significa molto quando si scopre – come ha fatto un solerte soprano del BBC Symphony Chorus - che si tratta della giustapposizione di parole estratte da diversi testi della Symphony of Psalms di Igor Stravinski! Cioè di quel traditore della patria, del quale notoriamente Prokofiev aveva una considerazione (perfettamente ricambiata peraltro) che non arrivava ai talloni. Quanto alla musica, non ci vorrà molto a riconoscervi più di una somiglianza con O Fortuna, dagli ancora freschi di stampa Carmina Burana, ultimo prodotto di colui che una propaganda appena un pochino faziosa poteva far passare benissimo come cavaliere-teutonico-filo-nazista: Carl Orff. Come si vede, anche la musica può diventare, all'occorrenza, un'arma da impiegarsi sul campo di battaglia…

4. Sollevati, o popolo russo! Nevskij, che si era nel frattempo ritirato a vita privata, tornando a fare il pescatore nella sua natìa Pereslavl, sul lago Pleshcheyevo, a nord di Mosca (quasi 500Km a sud-est di Novgorod!) viene supplicato, dagli abitanti della città minacciata, di tornare a guidare la lotta del popolo russo contro gli invasori teutonici. La musica (prevalentemente in MIb, poi in RE) descrive - con campane a festa e strombazzamenti che supportano il coro, con fiero cipiglio, ma anche con calme melodie tipicamente russe - la chiamata alle armi del popolo contro gli invasori:

Sollevati, o popolo russo a gloriosa, a mortale battaglia! Sollevati, popolo libero e difendi la nostra amata patria!

5. La battaglia sul ghiaccio del lago Chudskoye (al confine fra Russia ed Estonia) combattuta il 5 aprile del 1242, un sabato (dopo la domenica sulla Neva: evidentemente i week-end a quei tempi - in mancanza del campionato - erano dedicati allo sport della guerra). Lì, sullo stretto che collega la parte settentrionale del lago (Peipus) con quella meridionale (Pskov) presso una località chiamata roccia del corvo Nevskij sconfigge i Cavalieri Teutonici (e i loro alleati estoni Chud) guidati dal principe-vescovo Hermann di Buxhöveden. La cronaca romanzata, e mostrata nel film, ci informa che Nevskij, dopo un'intera giornata di battaglia corpo-a-corpo (incluso un suo vittorioso duello equestre con lo stesso Hermann) respinge i crociati sul ghiaccio del lago, che crolla sotto il peso delle loro metalliche armature e li inghiotte, ibernandoli direttamente! In realtà, magari, la vittoria dei russi fu specialmente dovuta al loro numero enormemente preponderante (ma ciò dichiarano gli sconfitti, toh!) Nella musica che accompagna la battaglia si trova anche un poco di Bruckner (introduzione della terza sinfonia) e ancora i Carmina dei Teutonici, che hanno la lezione che si meritano.

6. Il campo della morte, in DO minore. Una fanciulla, Olga, cerca il suo amato fra feriti e deceduti nella feroce battaglia. Il suo mesto e ansioso peregrinare è sottolineato dalla voce del mezzosoprano, presente soltanto in questo numero, che canta una straordinaria melodia:

A colui che cadde per la Russia in morte nobile, io bacerò i morti occhi, accarezzerò la sua fredda fronte.

7. Nevskij entra trionfalmente in Pskov riconquistata (in SIb maggiore). L'accordo che introduce il brano sembra portarci – non a caso – davanti La Grande Porta di Kiev di Musorgski. Ma subito il coro intona nuovamente – qui con grande enfasi - il nobile canto del secondo brano, e poi quello del quarto, per sottolineare l'apoteosi del popolo intero:

Nessun nemico calpesterà la nostra grande Russia! Sollevati in armi, nativa madre russa!

Si chiude con la gloria al Principe, che verrà addirittura canonizzato dalla Chiesa ortodossa, che gli ha dedicato più di una cattedrale (come quella di Parigi, costruita a metà dell'800).

Noseda ne dà un'interpretazione asciutta e stringata, senza lasciarsi andare a facili enfasi e a tempi retoricamente dilatati. Impressionante il volume di fuoco (smile!) sfoderato nel numero della battaglia. Come sempre perfetto il coro di Gabbiani, nelle melodie sussurrate, come nei poderosi e solenni proclami; brava la Nadežda Serdjuk, applaudita dopo il suo numero (al solito non si sa se per deliberato omaggio alla sua prestazione, o per… ignoranza dei contenuti della cantata) ma tutti – maestri, solista e professori – sono stati veramente all'altezza del compito e lungamente acclamati.

Seconda parte con la Seconda di Rachmaninov, composta 30 anni prima del Nevskij. Un'opera – come quasi tutta la produzione del nostro – che guarda all'indietro, proprio negli stessi giorni in cui un tale Mahler faceva da battistrada a Schönberg&C, verso nuovi orizzonti. Sinfonia che sta comunque riconquistando terreno, se è vero che solo a Milano la si è sentita per altre due volte in meno di un anno: con Pappano e i Filarmonici della Scala a novembre 2009 e poi con Zhang all'Auditorium lo scorso maggio.

Noseda ci mette tutta la passione del suo cuore, che ancora batte in russo, evidentemente: serve quanto meno a farci meglio digerire la mappazza. L'unico problema che ha, poveretto, è la partitura formato-tascabile che si ritrova sul leggìo, con le pagine che si rigirano da sole. Il pubblico, folto ma largamente insufficiente a riempire l'enorme anfiteatro, apprezza assai e applaude lungamente il suo beniamino e l'orchestra del Regio, davvero superba in tutte le sezioni.
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18 ottobre, 2010

L’Orchestra Verdi ancora alla Scala per opere di bene .


Dopo il concerto inaugurale della stagione, laVerdi è tornata al Piermarini per un concerto a favore dell'Istituto dei Ciechi di Milano. Sul podio uno dei Direttori Principali Ospiti dell'Orchestra, il venerabile Helmuth Rilling. Il programma è assai vicino a quello diretto dallo stesso Rilling in Auditorium lo scorso aprile.
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In un teatro assai affollato si comincia con la breve Ouverture dal Paulus di Mendelssohn (lo scorso giugno Rilling aveva diretto, sempre in Auditorium, l'intero oratorio). Vi compare fin da subito il famoso tema bachiano Wachet auf, ruft uns die Stimme, ripreso e variato su una severa fuga, dopo l'introduzione lenta, e riproposto con enfasi e solennità nel finale.
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Dopo il necessario (?) trambusto per traslocare il pianoforte, arriva Davide Cabassi per cimentarsi con il Concerto n°23 in LA maggiore di Mozart (ad aprile era stato un altro bravo pianista italiano, Roberto Cominati, ad interpretarlo). Come sempre estroverso e quasi scanzonato, sorridente ed ammiccante a direttore e orchestrali, l'ex-barbuto 34enne ci offre una lettura sobria e serena del K488, specie nel languido movimento contrale, nella relativa FA# minore.
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Grandi applausi per lui, che ci regala come bis una virtuosistica Sonata di Padre Antonio Soler (qui da 2:10 a 6:05).
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Chiude la Praga, 38ma sinfonia, in RE maggiore, del sommo Teofilo. Che Rilling – come suo costume – esegue con i ritornelli canonici, sia nell'Allegro iniziale, che nel Presto conclusivo.

Applausi convinti e ripetuti, premiati con la ripresa della solenne Ouverture del Paulus, che chiude il concerto proprio come l'aveva aperto. Un bravo a tutti i ragazzi de laVerdi, che - non sarà superfluo ricordarlo – avevano chiuso la colossale sesta mahleriana in Auditorium alle 17:30!
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15 ottobre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 6



Nuovo appuntamento mahleriano all'Auditorium (con parecchie poltrone vuote, ahinoi). Sul podio il 52enne albionico Paul Daniel.

Che dirige in apertura il Concerto per violoncello di Schumann (compositore austriaco, secondo qualcuno, smile!) interpretato allo strumento solista da Daniel Müller-Schott. Orchestra assolutamente classica, con tutti i fiati a coppie (naturalmente banditi tromboni e tube) timpani e archi.
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Dopo le quattro battute iniziali, con gli accordi dei legni, il violoncello canta la nobile melodia del tema principale:



Da essa si sviluppa, in pratica, tutto il concerto, che in realtà Schumann aveva inizialmente battezzato come Konzertstück, termine effettivamente più appropriato a definire una composizione che si allontana parecchio dalla forma classica e tradizionale.

Già le indicazioni dinamiche sono in lingua tedesca (ma qui siamo proprio all'etichetta) ma poi, nel movimento iniziale, manca la struttura di forma-sonata, sostituita da una serie di riproposizioni del tema in diverse tonalità, inframmezzata da motivi affidati all'orchestra. Seguono l'intermezzo lento e il finale molto vivace, verso il termine del quale Schumann scrive una cadenza accompagnata (qui a 6:27 eseguita da Rostropovich con un barbuto Bernstein nel lontano 1976) cui si attiene anche il giovane violoncellista tedesco, al contrario di quanto fanno altri interpreti, come il sommo Pablo Casals, che esegue (qui a 4:37) con Ormandy nel 1953 una sua cadenza solistica basata sul tema principale.

Müller-Schott sciorina una buona prestazione, anche se forse bada più, come dire, al virtuosismo e alla precisione, che alla poesia. Ma si merita un caldo applauso e concede un bis britteniano.

Ecco poi il piatto forte della serata, la Sesta mahleriana. La consueta conferenza di presentazione della sinfonia è stata tenuta ieri sera da un giovane ma valentissimo musicista e musicologo: Davide Verga. Che ha incentrato tutta l'attenzione sugli aspetti per così dire filosofici della tragicità che pervade questa sinfonia. Sulla Sesta e i suoi enigmi ho scritto alcune considerazioni circa un anno fa, in occasione del concerto della London Symphony alla Scala, che si possono leggere qui.

Paul Daniel non passa, per la verità, per grande interprete mahleriano, per di più paroneggiare questo mostro che è la sesta non dev'essere per nulla facile. Intanto però, che scelta ha compiuto riguardo la sequenza dei movimenti (scherzo-andante o andante-scherzo?) su cui Mahler per primo ebbe infiniti tentennamenti? Prima di dare la risposta, mi permetterei di indicare alcune diverse prospettive interpretative che possono condizionare la scelta (ciascuna ha i suoi pro e contro, come lo stesso Mahler ebbe occasione di sperimentare):

1. Se si guarda all'equilibrio dell'opera in termini di durate temporali, sembrerebbe pacifico mettere lo scherzo in seconda posizione: abbiamo in questo caso i movimenti 1+2 che occupano 35 minuti e poi l'andante di 15 minuti che serve a prender fiato prima dell'altra mezz'ora del finale burrascoso. In questa soluzione la Sesta si avvicina quasi alla Quinta (che ha tre movimenti mossi, poi il calmo adagietto prima del finale allegro).

2. Se si guarda alla forma classica - che secondo taluni, Adorno in testa - sarebbe alla base della concezione artistica della Sesta, allora l'andante dovrebbe venire prima dello scherzo (in fondo anche Beethoven fece uno strappo alla regola soltanto con la sua Nona, per il resto collocò sempre il movimento più lento in seconda posizione).

3. Poi c'è la vista da poema sinfonico, autorizzata sia dai riferimenti extramusicali e autobiografici, che dalle arditezze di certe indicazioni dinamiche e dall'uso di strumenti che nulla hanno a che fare con la sinfonia classica (celesta, campanacci da mucca, martello e altre percussioni). Secondo tale approccio verrebbe ancora da preferire lo scherzo in posizione avanzata, in quanto avremmo: il ritratto di Alma, poi le piccole Putzi e Gucki che giocano in riva al lago, quindi un accorato sguardo all'indietro verso i bei giorni passati, e infine le tre mazzate del destino che abbattono definitivamente l'artista e l'uomo.

Daniel – come ci sia arrivato lo saprà lui – ha deciso per la soluzione Andante-Scherzo, quella che per la verità sta tornando di moda, dopo che per lunghissimo tempo i direttori hanno privilegiato l'altra (ma in attesa che il ritrovamento di qualche appunto, diario, lettera, faccia ri-pendere la bilancia dalla parte opposta). E quindi anche i colpi di martello ligneo del finale sono ridotti a due. Abbastanza inconsueta anche la disposizione degli archi, un misto fra quella alto-tedesca e quella moderna: i violini secondi vengono in prima fila, a destra del direttore, ma a sinistra – dietro i violini primi – traslocano le viole, mentre violoncelli e bassi restano sulla destra.

Che dire dell'esecuzione? Attestata e riconosciuta l'abnegazione di tutti, non si può certo parlare di un modello. Daniel ha parecchio gigioneggiato (segno per me di insicurezza su come domare il mostro) già dal tema di Alma e poi nello scherzo. Il finale ha purtroppo sofferto anche di alcune evidenti stecche di corni e trombette. Insomma, c'è qualcosa da migliorare, magari per le due prossime repliche.

E la prossima settimana arriva un altro toro mahleriano da prender per le corna, sperabilmente (ma l'orchestra ci è già riuscita in passato): la Resurrezione, preceduta da un beneaugurante Mozart al pianoforte.

Però laVerdi è infaticabile, e domenica 17, dopo la replica pomeridiana di questo concerto correrà alla Scala per fare un'opera di bene.
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