affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

19 agosto, 2010

Il ROF-2010: Sigismondo


Seconda tappa personale al ROF, in un teatro praticamente esaurito, con Sigismondo (quarta e penultima recita).
Parliamo subito della regìa, affidata a Damiano Michieletto, che era uno dei cardini del ROF-31. Orbene, la trama (termine eccessivo) del Foppa sarà pur farraginosa quanto si vuole, ma ruota attorno ad un aspetto centrale che dovrebbe risultar chiaro anche ad un bambino (ma, si sa, un regista à-la-page mica può abbassarsi a quel livello): la doppia identità di Aldimira-Egelinda, da cui nascono tutti gli improbabili sviluppi del dramma. Volendo proprio inventare qualcosa di moderno, il regista poteva proporci una storia tipo Bruneri&Canella, per fare un esempio a caso.
Invece no, Michieletto vuol strafare e scrive di sana pianta una sceneggiatura demenziale (sic!): prendendo lo spunto dai vaneggiamenti del povero Sigismondo, ambienta tutto il primo atto in un manicomio (e poi ci fa riferimento anche nel finale) dove Zenovito (che dovrebbe comparire solo nella seconda parte) è il primario. Ma non inventa proprio nulla, chè già tempo fa il bad-boy Peter Sellars aveva ambientato in un ospedale nientemeno che la Cantata 82 di Bach… Insomma, una regìa da festival, si usa dire, che dovrebbe portare idee e innovazioni; invece siamo alle solite: non ci fosse la musica (di Rossini, nella fattispecie, o di Verdi, o Wagner, o Puccini, o Bach) messinscena come queste – parliamoci chiaro - faticherebbero a trovare spazio in teatrini underground. Insomma, qui nel manicomio ci dovrebbero internare il regista (smile!)
La novità interessante è invece rappresentata dal maestro Michele Mariotti che – a dispetto dei risvolti nepotistici del suo ingaggio al ROF – conferma le sue buone qualità, e sfata il vecchio adagio nemo profeta in patria: guida sicura dell'orchestra e attacchi precisi ai cantanti, con quella sinistra manina-morta sospesa per aria, à-la-Abbado, che taluni gli rimproverano, ma che pare davvero efficace, stanti i risultati che ottiene. Lo risentiremo domenica nel conclusivo Stabat Mater. L'altro trionfatore della serata è Sigismondo, al secolo l'imponente (per stazza fisica e vocione) Daniela Barcellona.
Dopo la deliziosa sinfonia, che Mariotti conduce con gran verve e rispetto dei dettagli, ricambiato da scroscianti applausi, il sipario si apre su uno stanzone di manicomio, per ora occupato da persone rispettabili, vestite di tutto punto (dignitari del povero Sigismondo? che cantano il coro di apertura O prence misero). Il primario (apprenderemo molto più tardi trattarsi di Zenovito) si aggira fra i letti, per ora muto, seguito da Radoski (Enea Scala) e Anagilda (Manuela Bisceglie) che si uniscono ai lamenti. C'è anche Ladislao - che sappiamo essere il responsabile dell'ammattimento del Re, avendone calunniato la sposa Aldimira, mandata a morte - alias Antonino Siragusa, in uniforme marziale, che canta L'immago tiranna, raccogliendo consensi, a dispetto delle chiare difficoltà che mostra (e sempre mostrerà) sugli acuti.
Entra poi Sigismondo (e la Barcellona riceve subito applausi sul Non seguirmi, ormai t'invola) con camicia di forza, spinto su una sedia a rotelle e in preda a tremori da alzheimer. Ora, il Re di Polonia sarà pure in preda a vaneggiamenti e incubi, ma che sia tutt'altro che impazzito ce lo dimostra dì lì a poco il suo argomentare con Ladislao, laddove il Re spiega al suo plenipotenziario (traditore) che Ulderico, Re d'Ungheria e padre di Aldimira, sta riarmandosi per fargli guerra e riprendersi la figlia, e che ci si deve quindi preparare per contrastarlo; non solo, ma lui ha già bell'e pronta in testa una strategia, che prevede per Ladislao il ruolo di ricognitore nelle file nemiche. Viceversa, se è matto il Re, allora, vista l'agitazione che lo possiede (per i rimorsi del passato tradimento) anche lo stesso Ladislao dovrebbe portare – in luogo dell'uniforme - la camicia di forza fin da subito, e non solo alla fine dell'opera, quando verrà giustamente punito…
A questo punto, nell'originale, dovremmo avere un cambiamento radicale di ambiente: dalla reggia (sic!) di Sigismondo (dove l'atmosfera è… pesante) alla dimora agreste e bucolica di Zenovito, in cui è custodita la (creduta) morta Aldimira, sotto l'identità di Egelinda (al secolo Olga Peretyatko). Lì dovrebbero sopraggiungere dapprima Sigismondo con i suoi per una finta battuta di caccia, e poi Ladislao, cui il Re (un interdetto, stando a Michieletto!) aveva dato lì appuntamento, avendolo mandato in perlustrazione ai confini con l'Ungheria del minaccioso Ulderico. Invece siamo sempre al manicomio, e Aldimira-Egelinda vi arriva all'ora delle visite, recitando O tranquillo soggiorno (smile!) e cantando la sua aria Oggetto amabile, con qualche incertezza della sua vocina non proprio potente. Il pubblico però apprezza (nel seguito devo dire che la bella Olga non sfigurerà per nulla). Finalmente parla, e poi canterà, anche il primario Zenovito, Andrea Concetti , mentre il coro (sempre impeccabile, sotto la guida di Paolo Vero) canta Al bosco, alla caccia.
Ecco Ladislao, che fa al Re (matto?) un allarmato briefing sulle sue perlustrazioni e poi scorge Egelinda-Aldimira e ne resta scioccato (Vidi, ah no… che allor sognai) al punto che di Egelinde ne vede addirittura altre tre, spuntate da sotto i letti del manicomio (quindi, caro Michieletto, almeno qui dovevi decidere di internare pure lui!) Sigismondo e Aldimira finalmente si incontrano e Barcellona/Peretyatko ci offrono un illustre esempio di bel canto, nella squisita Tanti affetti, accolte da una vera ovazione.
Ora Zenovito comincia a mettere in atto il suo disegno (smascherare Ladislao): gli propone di presentare Egelinda - al popolo e poi a Ulderico – come la vera Aldimira. Ladislao, sempre più turbato, si prepara a contrastare il disegno, mentre Zenovito canta alla finta figlia Tu l'opra tua seconda, dove Concetti – anche se non potentissimo - mette in nostra una bella sicurezza, ben assecondato dal violoncello obbligato.
Torna Ladislao per prendersi Egelinda, ma Zenovito non è fesso, e gli comunica che la ragazza rifiuta di venire. Ecco quindi il duetto (mentre assistiamo ad un gratuito tentativo di stupro) Perché obbedir disdegni, con incisi della basiliana calunnia, fra Ladislao ed Egelinda, concluso da Siragusa-Peretyatko con il Dubbiosa, smarrita, accolto da convinti applausi.
La scena del finale primo si apre con Sigismondo (Quale, o ciel, d'idee funeste) sempre più turbato dalla somiglianza di Egelinda con Aldimira. Sullo schubertiano Dimmi, Egelinda, in corte chiede alla ragazza di seguirlo alla reggia, presentandosi come Aldimira. Lei accetta a patto di essere garantita della sua incolumità. La fanfara di guerra e il coro annunciano il sopraggiungere delle truppe di Ulderico, e tutti corrono alla reggia di Sigismondo per preparare la difesa. In realtà Michieletto ci rappresenta tutto ciò come il processo di dimissione del paziente Sigismondo dal manicomio (?!) mentre un matto si appiccica, a mo' di alter-ego, a ciascun protagonista (mah!) Meno male che cantanti e orchestra pongono rimedio all'affronto, concludendo alla grande, fra scroscianti applausi.
Il secondo atto è ambientato – toh, più o meno come nel libretto, anche se sullo sfondo si vedono dei matti contorcersi dentro alcune nicchie - in un salone della reggia di Sigismondo, ma con mobili accatastati come fosse disabitata da chissà quanto; mobili che vengono poi pian-piano risistemati. Michieletto ci presenta un Sigismondo in uniforme sì, ma sempre come ubriaco e fuori di sé, anche quando fa una specie di discorso alla nazione, incentrato sull'emergenza che si deve affrontare. Per poi presentare Egelinda come Aldimira, al che il coro prorompe nel Viva Aldimira, nostra regina.
Qui abbiamo il duetto Sigismondo-Aldimira, in cui il Re cerca di appurare la verità, e Aldimira è tentata di svelarla, ma sempre si trattiene (Tomba di morte e orrore, e poi Sospiro, deliro). Il duetto si conclude con Affetti teneri, accolto dal pubblico con un grande applauso a Barcellona e Peretyatko.
Radoski e Anagilda hanno la certezza che Egelinda è in realtà Aldimira: lui è pentito di aver affiancato Ladislao nel tradimento, lei si sente tradita da lui e vede svanire la prospettiva di sposare Sigismondo: qui la Bisceglie canta l'unica aria a lei destinata (Sognava contenti) e tutto sommato se la cava più che dignitosamente, meritandosi il suo applauso a scena aperta. Poi estrae una pistola (?!) e minaccia Radoski, che fugge.
Ecco Ladislao, in preda a dubbi sempre più neri (di Egelinde adesso ne vede quattro!) che canta passabilmente Giusto ciel che i mali miei, accolto da applausi. Poi Radoski passa ad Aldimira una lettera (scrittale a suo tempo dall'amante respinto Ladislao) che servirà alla fine per chiarire tutto.
Si prepara l'incontro-scontro con Ulderico, e Aldimira dichiara la sua fedeltà a Sigismondo (Ah Signor, nell'alma mia) dove la Peretyatko, che è andata in crescendo nella serata, guadagna grandi applausi, così come il coro (D'allori nobili).
Ora entra Ulderico, vero padre di Aldimira, impersonato dallo stesso Andrea Concetti, che nel primo atto vestiva i panni del padre finto della regina. Ladislao cerca di salvarsi spifferandogli il presunto inganno (Egelinda-Aldimira). All'apparire di Aldimira, Ulderico resta colpito, ma perplesso, e la scena precipita nella più alta suspence, con il quartetto Qual silenzio periglioso cantato da Sigismondo, Aldimira, Ladislao e Ulderico (dove Michieletto, ancora, fa appiccicare un matto ad ogni protagonista, come a dire che, tanto, son tutti matti). La scena si conclude con la dichiarazione di guerra di Ulderico (All'armi, all'armi) accolta come sempre da applausi.
Siamo al finale: i polacchi sono in rotta, sconfitti dai magiari (coro O sorte barbara). Sigismondo vorrebbe ancora combattere, ma è catturato da Ulderico. Abbiamo qui il definitivo show-down, con Ladislao che, nel libretto, cade battendo la testa e riacquista così un minimo di onestà, confessando tutto. Per Michieletto invece è Radoski, pentito, che spara un colpo di revolver all'ex-sodale e lo ferisce, riducendolo a più miti consigli.
Tocca alla Barcellona (Io sono un disperato! Alma rea) dare spettacolo di canto e interpretazione, chiudendo con il Fremi pur, io non ti temo, gloria morte a me sarà, che fa letteralmente cadere il teatro dagli applausi.
Poi la meritata punizione per i cattivi fratelli (Ladislao e Anagilda) e il definitivo sigillo del concertato che chiude in bellezza.
Trionfo ultra-meritato per tutti (i musicanti, sia chiaro!)
Per me una corsa folle – ma benedetta - per acchiappare l'ultimo treno per Rimini.

17 agosto, 2010

Il ROF-2010: Demetrio e Polibio

Ieri sera, terza e penultima rappresentazione di Demetrio&Polibio per il ROF, al Teatro Rossini, direi affollato, anche se forse non gremito all'inverosimile nei suoi (ad occhio e croce) meno di 800 posti. Pubblico, come vedremo, assai ben disposto e - direbbero i maligni - di bocca fin troppo buona.

La recita comincia con… la fine di un'altra, svoltasi in un teatro virtuale situato al di là del fondo scena: vediamo il protagonista (di spalle) che raccoglie gli applausi del pubblico e quelli dei macchinisti dietro di lui, fa gesti di giubilo a mo' di centravanti dopo un gol, finchè il sipario del suo teatro si chiude. Entrano ora gli addetti alle operazioni di chiusura del teatro. Tutto ciò mentre si suona la sinfonia dell'opera da rappresentare per davvero, il Demetrio&Polibio, per l'appunto.

È chiaro che è tutto invenzione del regista, il fantasioso professor Livermore (che fa opportunamente rima con Stranamore… e non per nulla si avvale dei trucchi del mago Alexander) e non certo dell'autrice del libretto, tale Vincenzina Viganò Mombelli, che ci mise tutta la sua (più o meno povera) immaginazione per ambientare l'opera nella reggia di Polibio, Re dei Parti! Ma sappiamo che la musica di Rossini è talmente flessibile, malleabile e scenario-independent (direbbe un albionico) da farsi apprezzare qualunque cosa le si appiccichi addosso. Peraltro notiamo che il testo – un poema degno in verità della vispa-teresa – viene invece rispettato alla lettera, anche quando contiene profondità filosofiche del tipo: Non assiste ragion i sensi tuoi, ma ben chiami ragion ciò che tu vuoi.

Ignorati del tutto – e meno male – i due comprimari Onao(Alcandro) e Olmira che, in una versione dell'opera, intervengono – con soli recitativi – all'inizio della seconda scena, alla fine della terza e, nell'atto II, all'inizio della seconda, quarta e quinta scena.

Dicevamo, la sinfonia: è un po' come rivedere un filmato dei palleggi di Maradona quindicenne… si capisce già cosa ne verrà fuori a breve! Peccato che i lodevoli sforzi di Corrado Rovaris e dei bravi ragazzi dell'Orchestra Rossini siano alquanto vanificati dallo strampalato vai-e-vieni che imperversa in scena, che finisce per distrarre lo spettatore. Domanda: come mai una tradizione pluricentenaria prevedeva che – durante la sinfonia – il sipario rimanesse rigorosamente chiuso? Vuoi vedere che era per far sì che il pubblico si concentrasse completamente sulla musica? Comunque l'esecuzione è accolta da discreti applausi.

Allontanatisi gli addetti e i pompieri, al termine dell'ispezione di routine, da alcuni bauli e cassoni fuoriescono ora – a mo' di fantasmi – i personaggi dell'opera da rappresentare, vestiti con costumi da primo ottocento (1800, dopo, non prima, di Cristo!) A proposito, scene e costumi sono opera degli studenti dell'Accademia di Belle Arti di Urbino.

I primi a cimentarsi sono Mirco Palazzi (Polibio ) e Victoria Zaytseva (Siveno) che vengono subito messi alla prova, con le arie della prima scena (Mio figlio non sei e Laccio sì caro) in cui il Re dei Parti e il figlio adottivo arrivato dalla Siria esternano il reciproco amore suggellato poi dalla promessa di Polibio di dare in sposa a Siveno la figlia Lisinga, al che la Zaytseva canta la bellissima Pien di contento in seno. I due se la cavano discretamente e gli applausi non mancano. Già da questo abbrivio compare qualche modesto trucco del mago Alexander, come lo sdoppiamento dei personaggi (ottenuto facendo entrare e muovere in scena delle loro controfigure) o la levitazione di candele e candelabri, che vagano su e giù nello spazio, o lingue di fuoco che si sprigionano dal palmo delle mani dei protagonisti.

Adesso si presenta Yijie Shi nei panni di Eumene (Demetrio, Re di Siria sotto mentite spoglie) per avanzare a Polibio la richiesta – sdegnosamente respinta - di riavere Siveno (per riconsegnarlo appunto al Re di Siria): tutto ciò viene esposto in un lungo recitativo, a cui segue il duetto Non cimentar lo sdegno concluso da un rapinoso Odio, furor, dispetto, in cui esplode la reciproca avversione tra i due sovrani. Quest'ultima parte della seconda scena è presentata invero bene, e i due (Palazzi-Shi) si meritano applausi. Il mago Alexander qui usa degli specchi trasparenti per mostrarci i personaggi, che vi si specchiano, e le loro controfigure, che traspaiono da dietro (?!)

La terza scena è dedicata alla cerimonia dello sposalizio fra Siveno e Lisinga. L'ambiente sembra una lavanderia industriale, con centinaia di abiti appesi a lunghe funi ad altezze diverse (ambientazione che tornerà anche più avanti). Il coro Nobil, gentil donzella (discreto l'esordio dei praghesi di Lubomìr Màtl) introduce la giovane, al secolo Marìa Josè Moreno, che subito deve affrontare una delle diverse prove assai difficili di cui Rossini la gratifica: Alla pompa già m'appresso. Portata a termine non senza affanno, ma generosamente premiata dal pubblico. Poi lei e la Zaytseva si esibiscono nel bellissimo e ispirato duetto Questo cor ti giura amore, ben portato e accolto con grande favore dal pubblico. Segue poi il recitativo in cui Polibio esterna agli sposi i suoi timori (riguardo ad Eumene) al che Siveno, ma più ancor Lisinga promettono di combattere fieramente per opporsi ai siriani. E qui c'è il terzetto con coro Sempre teco ognor contenta che in realtà poggia in prevalenza sulle spalle della Moreno, che in certi momenti sembra faticare a tener botta agli innumerevoli virtuosismi di cui il brano è disseminato e mostra anche qualche calo di troppo. Applausi comunque per tutti, poi la scena si chiude con il recitativo di Polibio e Siveno, che pregano che il pericolo passi.

Nella quarta scena torniamo da Eumene, che organizza con i suoi il rapimento di Siveno (coro Andiamo taciti). I seguaci del siriano recano delle fiaccole, e ciò è effettivamente in linea con il libretto, visto che poi appiccheranno incendi alla reggia di Polibio. Eumene spiega, nel recitativo, di aver corrotto tutti gli uomini di Polibio e poi impartisce gli ordini per l'azione (sembra il dapontiano metà di voi qua vadano, ed altri vadan là…) prima di attaccare la grande e impegnativa aria (con coro) All'alta impresa tutti, che Shi porta a termine con buona sicurezza, meritandosi un grande applauso.

Ora arriviamo alla quinta scena, dove troviamo Lisinga in atto di mettersi a letto. In realtà è sdraiata su un pianoforte a coda, che si libra a mezz'aria (!?) La breve aria Mi scende sull'alma è un'altra perla degna del Rossini maturo: la Moreno qui non va affatto male, e viene gratificata da applausi a scena aperta. Eumene, che era lì accanto fin da prima con i suoi, li ferma – nel recitativo accompagnato - e si appresta a rapire quello che pensa essere Siveno. Invece scopre trattarsi di Lisinga, che prende comunque in ostaggio. Qui inizia il duetto Eumene-Lisinga (Ohimè, crudel, che tenti) che poi sfocia direttamente, con l'arrivo di Polibio e Siveno e del coro - e mentre divampa un incendio appiccato dai seguaci di Eumene - nel grande concertato del finale primo, dove è sempre la Moreno ad aver la parte più ardua. Grandi applausi al termine dell'atto, mentre arrivano in scena i vigili del fuoco, a spegnere l'incendio.

Il secondo atto si apre con il coro Ah che la doglia amara, nobile e mesto, che compiange il povero Polibio, privato della figlia. Tutti sono sdraiati a terra, come moribondi per il dolore. Polibio ora canta (per bocca di Palazzi) Come sperar riposo, un'aria assai difficile, che poi trasmuta in duetto, per l'intervento di Siveno (Venite, o fidi miei) cui si aggiunge ulteriormente il coro (Si voli dunque a lei). Buona prestazione di Palazzi-Zaytseva e scroscianti applausi.

La seconda scena principia con il recitativo di Lisinga ed Eumene (che tiene in ostaggio la ragazza) che precede il sopraggiungere di Polibio e Siveno. Siamo ancora in una tintoria-lavanderia, anche se gli abiti appesi sembrano sgualciti e sbrindellati. Qui abbiamo il grande quartetto Donami omai Siveno, che si può così sommariamente articolare: battibecco Eumene-Polibio, ciascuno dei quali punta un pugnale alla gola del/la figlio/a dell'altro; Lisinga e Siveno che si offrono come vittime, pur di salvare l'altro/a; esternazione di Eumene, che dichiara essere il padre di Siveno; scambio di prigionieri e quartetto Padre/figlia/figlio qual gioia io provo, dove i padri si rallegrano per aver riavuto i figli e questi sperano (illusi!) in una generale riappacificazione; Eumene che rifiuta di riconciliarsi con Polibio (All'armi, o fidi miei) e trascina via Siveno, che si dispera con l'amata (Tu mi dividi, o dèi!) Una cosa musicalmente strabiliante, se si pensa che fu composta da un ragazzo! Qui i quattro protagonisti e Rovaris con l'orchestra ce la mettono davvero tutta e – in un modo o nell'altro, mentre i cantanti sono appollaiati sulla catasta di bauli fatti vorticosamente ruotare dalle loro controfigure e da altre comparse – riescono a sfangarla senza troppi danni, così meritandosi l'apprezzamento del pubblico.

Si passa alla terza scena, dove Eumene racconta a Siveno di come lo fece trasferire, sotto mentita paternità, dalla Siria, per salvarlo da una sanguinosa rivoluzione. Siveno comprende, ma confessa di non poter vivere ormai lontano dalla sua famiglia acquisita (Perdon ti chiedo, o padre). Qui la Zaytseva è abbastanza convincente, per lo meno sul pubblico presente in sala, che non lesina gli applausi.

All'inizio della quarta scena troviamo Lisinga che lamenta l'assenza dello sposo, invocando la morte. Ma suo padre l'avverte che Eumene non è lontano, e Lisinga si offre di combattere in prima persona, per liberare Siveno. Dopo aver arringato i suoi, canta – contrappuntata dal coro - un'aria davvero irta di difficoltà e costellata di acuti: Superbo, ah tu vedrai. Forse non è l'ideale per la volonterosa Moreno, che tuttavia riesce a non andare in tilt e il generoso pubblico non le fa mancare il suo applauso.

All'inizio della quinta scena troviamo un Eumene vaneggiante, essendo stato abbandonato dal figlio Siveno, andato in cerca di Lisinga. Lungi dal figlio amato è cantata da Shi con sufficiente portamento, ben sostenuto anche dal coro. Sopraggiungono Lisinga e i suoi (Eumene scellerato) e si apprestano a trucidare il siriano, quando subentra Siveno, a difendere il padre, frapponendosi fra lui e la punta di una sciabola (!?) brandita da Lisinga. Eumene finalmente si decide ad arrendersi e benedice gli sposi, mentre i cori inneggiano a Siria e Persia. Applausi per tutti.

La scena finale si apre col coro Festosi al Re si vada. Polibio resta interdetto vedendo Lisinga con Eumene, ma questi svela finalmente la sua vera identità: è Re Demetrio. Che chiude la sua esternazione con due versi da antologia: La nostra fede con più tenaci nodi ora si stringa / Siven viva felice con Lisinga. Poi tocca ancora all'ormai esausta Moreno aprire il coro finale (Quai moti al cor io sento) sul quale si chiude in bellezza. Trionfo per tutti, con ovazioni per i quattro protagonisti e per Rovaris e Màtl.

Tutto sommato, uno spettacolo dignitoso, in linea con la definizione datane dagli stessi organizzatori: low-cost. Senza privare di nulla il pubblico, e senza offesa per Livermore e gli accademici di Urbino, poteva diventare benissimo anche un low-low-cost, se presentato in forma di concerto (ma in tal caso, col pubblico meno distratto dalle magìe, per voci e suoni sarebbe stata davvero un'altra musica…)

11 agosto, 2010

Quel che sia Consonanza, Dissonanza, Harmonia & Melodia.


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DA i Mouimenti tardi & ueloci, adunque, insieme proportionati nasce la Consonanza, considerata principalmente dal Musico, la qual dichiarando da nuouo dico, ch'ella è compositione di suono graue & acuto, che peruiene alle nostre orecchie soauemente & uniformemente, & hà possanza di mutare il senso; ouero è (secondo che la definisce Aristotele) Ragion de numeri nell'acuto & nel graue. Dallequali definitioni potiamo comprendere, che la Consonanza nasce, quando due suoni, che sono tra lor differenti senz'alcun suono mezano, si congiungono concordeuolmente in un corpo; & è contenuta da una sola proportione. Ma perche di due opposti, ritrouandosi l'uno in essere, è necessario, che si ritroui anco l'altro, & si habbia di loro una istessa scienza; però essendo la Dissonanza contraria alla Consonanza, nel modo ch'io la dichiarai nel principio del Secondo delle Dimostrationi; non sarà difficile saper quello, ch'ella sia; percioche ella è compositione di suono graue & d'acuto, laquale aspramente peruiene alle nostre orecchie. Et nasce in tal maniera, che mentre tali Suoni non si uogliono vnire l'un con l'altro, per la disproportione, che si ritroua tra loro; & si sforzano di restar nella loro integrità; offendendosi l'un l'altro peruengono senz'alcuna soauitade all'Vdito. Ne solamente si ritrouano due Suoni tra loro distanti per il graue & per l'acuto, che consonino; ma tali Suoni anco si odono molte fiate tramezati da altri suoni, che rendono soaue concento; com'è manifesto; & sono contenuti da più proportioni; però i Musici chiamano tal compositione Harmonia. Onde si dè auertire, che l'Harmonia si ritroua di due sorti; l'una dellequali chiamaremo Propria, & l'altra non Propria. La Propria è quella, che descriue Lattantio Firmiano, in quello dell'Opera di Dio, dicendo; i Musici nominano propriamenteHarmonia il concento di chorde, ò di uoci consonanti ne i loro modi, senza offesa alcuna delle orecchie; intendendo per questa il concento, che nasce dalle modulationi, che fanno le parti di ciascuna cantilena, per fino à tanto che siano peruenute al fine. Harmonia propria adunque è compositione, ò mescolanza de suoni graui & de acuti tramezati, ò non tramezati, la qual percuote soauemente il senso; & nasce dalle parti di ciascuna cantilena, per il proceder che fanno accordandosi insieme, fin à tanto, che siano peruenute al fine; & hà possanza di dispor l'Animo à diuerse passioni. Et questa Harmonia non solamente nasce dalle Consonanze; ma dalle Dissonanze ancora; percioche i buoni Musici pongono ogni loro studio di fare, che nelle Harmonie le Dissonanze accordino; & che con marauiglioso effetto consonino di maniera, che noi la potiamo considerare in due modi; cioè, Perfetta & Imperfetta. La Perfetta quando si ritrouano molte parti in una cantilena, che uadino cantando insieme, di modo che le estreme siano tramezate dall'altre; & la Imperfetta, quando solamente due uanno cantando insieme, senza esser tramezate da alcun'altra parte. La non propria è quella, c'hò dichiarato di sopra; la quale più presto si può chiamare Harmoniosa consonanza, che Harmonia; conciosia che non contiene in se alcuna modulatione; ancora c'habbia gli estremi tramezati da altri suoni; & non hà possanza alcuna di dispor l'Animo à diuerse passioni; come l'Harmonia detta Propria; laquale di molte harmonie Non proprie si compone. Et se ben pare, che l'Harmonia Propria non habbia da se tal forza; tuttauia l'acquista col mezo del Numero & dell'Oratione; cioè, del Parlare, ò delle Parole, che se le accompagnano; le quali tanto più, ò meno commuouono; quanto più ò meno sono accommodate al Rhythmo, oueramente al Metro con proportione. La onde poi da tutte queste tre cose aggiunte insieme; cioè, dall'Harmonia propria, dal Rhythmo & dall'Oratione; nasce (come uuol Platone) la Melodia. Ma come l'Harmonia Non propria si diuida in quella, ch'è detta Semplicemente, & nella detta Ad un certo modo; & quello che sia l'una & l'altra; da quello, ch'io hò scritto nella Quarta & Quinta definitione del Secondo delle Dimostrationi, si potrà comprendere; come etiandio si potrà dalla Prima & dalla Seconda conoscer quello che sia Consonanza Propriamente & la Communemente detta; nelle quali essa Consonanza si uiene à diuidere.


ISTITVTIONI HARMONICHE DEL REV. M. GIOSEFFO ZARLINO DA CHIOGGIA,
Maestro di Capella della Serenissima Signoria DI VENETIA. Seconda Parte. Capitolo 12. (MDLVIII)

07 agosto, 2010

Il ROF-2010

Snobbati (quasi) del tutto Bayreuth e Salzburg (colpevolmente, ma il mare della Sardegna è una giustificazione più che valida) si torna alla musica sul più casereccio Adriatico dove, da lunedi 9 agosto, va in onda (smile!) il ROF edizione 31. Con due novità assolute e una ripresa: Sigismondo, Demetrio&Polibio e Cenerentola.

Le prime (9-10-11) saranno tutte trasmesse in diretta su Radio3 (ore 20).

Io invece, trovandomi da quelle parti, ho costruito il mio personale programma post-ferragostano in modo da percorrere quattro tappe in rigorosa successione cronologica di composizione: quindi prima Demetrio&Polibio (1806) poi Sigismondo (1814) indi Cenerentola (1817) e – per chiudere in bellezza – lo Stabat Mater (1842).

Demetrio&Polibio è di fatto l'opera prima di un Rossini appena quattordicenne. Il che rende l'ascoltatore ancora più stupefatto, di fronte alla grande maestrìa che l'imberbe ragazzino mette in mostra. I personaggi, oltre al coro, sono solo quattro (l'opera fu scritta per essere interpretata dalla famiglia Mombelli, più il maggiordomo!) La trama – partorita dalla fantasia della moglie del Mombelli - è di quelle classiche per l'epoca (un po' come i reality dei giorni nostri):

  • Polibio, Re dei Parti (basso) ha adottato come figlio un ragazzo, Siveno (contralto en-travesti) arrivato dalla Siria in circostanze piuttosto misteriose;
  • Demetrio, Re di Siria e padre di Siveno (tenore) fa visita (sotto le mentite spoglie di Eumene) a Polibio, per recuperare il figlio;
  • Polibio glielo nega, celebrando invece le nozze di Siveno con Lisinga, sua figlia (soprano);
  • Eumene cerca di rapire Siveno, ma al suo posto si trova fra le mani Lisinga, che usa come ostaggio per reclamare il figlio;
  • Eumene annuncia a tutti di essere il padre di Siveno;
  • Polibio ed Eumene si scambiano Lisinga e Siveno e si separano;
  • Eumene racconta a Siveno i retroscena della vicenda, e Siveno lo lascia per andare a prendere Lisinga;
  • Polibio e Lisinga decidono di affrontare Eumene; Lisinga è sul punto di ucciderlo;
  • Siveno arriva e ferma Lisinga, mentre Eumene svela la sua vera identità: Demetrio;
  • generale riappacificazione e tutti vissero felici e contenti!

In alcune versioni del libretto si trovano altri due personaggi: Olmira (tata di Lisinga, soprano) e Onao (o Alcandro? fedelissimo di Polibio, tenore) che peraltro sono impegnati soltanto in brevi recitativi di contorno (al ROF, stando alla locandina, verranno giustamente ignorati).

Ma è la musica, come detto, a lasciare stupefatti: a partire dalla sinfonia, per passare ad arie, duetti, quartetti, cori e concertati. E non per nulla già da questa prima opera Rossini si farà imprestare spunti e brani musicali da impiegare in opere successive.

Sigismondo soffre di un libretto (di Giuseppe Foppa) che definire squinternato è fargli un complimento. Ma sappiamo che, nel caso di Rossini in particolare, anche i testi più squallidi vengono nobilitati dalla strabiliante vena musicale. Che peraltro qui mostra qualche scadimento, rispetto ad opere immediatamente precedenti (Tancredi e l'Italiana) tanto che Rossini stesso non esitò ad incoraggiare il pubblico a fischiare!

Nell'opera manca qualsiasi azione, e tutto il plot si incentra su un'improbabile serie di scatole cinesi di equivoci incentrati sull'identità di una donna (Aldimira, soprano) moglie del Re Sigismondo di Polonia (contralto en-travesti) creduta morta dopo essere stata ripudiata dal Re dietro false accuse di Ladislao (dignitario traditore, tenore, spalleggiato dalla sorella Anagilda, mezzosoprano e dal confidente Radoski, tenore) e che invece è viva e vegeta, col nome di Egelinda, in casa di Zenovito (fedele al Re, basso). Sigismondo incontra per caso Egelinda, viene attratto dalla sua somiglianza (sfido!) con la (creduta) defunta moglie e, consigliato da Zenovito, che vuole smascherare Ladislao, decide di presentarla come la rediviva Aldimira al popolo e al di lei padre Ulderico (Re di Ungheria, basso) onde placarne le ire. Lo sbifido Ladislao cerca di approfittare della situazione avvertendo Ulderico dell'inganno. Battaglia fra polacchi e magiari, che prevalgono, poi tutto si chiarisce quando Aldimira mostra uno scritto galante di Ladislao a lei indirizzato (e conservato da Radoski) che certifica la sua vera identità. Tutti felici e contenti quindi, salvo il fetentone Ladislao, meritatamente punito.

Davvero una roba da chiodi! È un miracolo che Rossini ci abbia comunque scritto sopra della musica sopraffina, oggetto di altri imprestiti ad opere successive.

Cenerentola è opera affermata da sempre e non ha bisogno di lunghe presentazioni. Anche qui – come spessissimo in Rossini - il ruolo della protagonista è affidato ad un contralto. Il principe Don Ramiro è ovviamente un tenore; i suoi collaboratori sono Dandini (baritono) e Alidoro (basso). Tisbe e Clorinda (mezzosoprano e soprano) sono le sorellastre cattive di Angelina (Cenerentola). Don Magnifico (basso) è il padre delle ragazze. La trama, che Jacopo Ferretti chiaramente mutuò – peraltro eliminando tutti gli effetti magici - dalla fiaba di Charles Perrault, è al solito infarcita di travestimenti, scambi di persona, e quindi di agnizioni, che portano al lieto fine. È per certi versi anche parente della trama del Barbiere, dove Rosina si innamora dello squattrinato Lindoro, per poi scoprire che è il Conte: qui Cenerentola si innamora del (finto) cameriere, che alla fine si manifesta come il principe.

Come suo solito, Rossini si auto-imprestò per la Cenerentola la sinfonia e brani musicali da opere precedenti.

Lo Stabat Mater è un capolavoro del Rossini maturo (e ormai in via di auto-pensionamento). In 10 numeri, impegna i quattro classici solisti (soprano, mezzosoprano, tenore e basso) più il coro. Musica più da teatro che da chiesa, è stato scritto. Un po' come per il Requiem di Verdi… quindi straordinaria!

05 agosto, 2010

Un altro orecchio ai Proms-2010

Valery Gergiev è stato il protagonista assoluto del Prom-26, dirigendo le due sinfonie mahleriane che sono comunemente definite come i due fronti del confine che separa il ciclo-Wunderhorn dal resto della produzione sinfonica del boemo (definizione suggestiva, quanto fallace, peraltro).

L'Orchestra era davvero particolare: la World Orchestra for Peace, fondata dal venerabile Georg Solti 15 anni fa, che riunisce – per particolari eventi – fra i migliori musicisti del pianeta; con un po' di sano patriottismo, elenco i membri che provenivano stasera da orchestre italiane (3 su 92):

  • Valentina Bernardone, secondo violino della Mozart di Bologna;
  • Simone Briatore, secondo violino della Santa Cecilia;
  • Sandro Laffranchini, violoncello della Scala.

Insieme a colleghi arrivati dal Giappone, dalla Palestina, dalla Cina, dall'Australia e naturalmente da tutti i Paesi europei e americani, ci hanno dimostrato che esiste anche il volto umano della globalizzazione.

04 agosto, 2010

Un orecchio ai Proms-2010

La Terza di Mahler, andata in onda questa sera sotto la direzione sopraffina di Runnicles, è solo un mattone del mastodontico edificio dei Proms, una manifestazione che davvero non ha pari al mondo, e non solo per la quantità delle proposte.

Restando a Mahler, in questa edizione vengono presentate 6 delle 9 sinfonie e i principali cicli di Lieder. Domani stesso sarà Gergiev a dirigere la Quarta e la Quinta.

Impressionante poi la dotazione documentale disponibile in web: per ciascun concerto è accessibile fra l'altro il programma di sala, sempre corposo e curatissimo.

Tutti i programmi restano poi accessibili on-demand per 7 giorni dopo la diretta, in modo che ciascuno li possa ascoltare con calma.

Il sito web è ricchissimo di funzioni di ricerca: per data, per compositore, per artista…

L'11 settembre, all'interno dell'enorme concerto di chiusura, ci sarà nientemeno che Renée Fleming, che canterà lieder di Strauss e arie di Dvorak e Smetana.

Eh sì, è proprio la bi-bi-sì

02 agosto, 2010

Il Ring secondo Thielemann

Confesso di aver preferito il mare della Sardegna agli ascolti radiofonici del Ring di Bayreuth (complimenti ad Amfortas per l'abnegazione e le splendide recensioni!) Per pura curiosità mi sono collegato domenica sera per ascoltare il finale del Crepuscolo, dove ho avuto l'ennesima conferma di una invenzione del pur grandissimo Thielemann (oggi indubbiamente il miglior interprete wagneriano).

Si tratta dell'ultima pagina della partitura, dove Wagner fa morire il vecchio mondo e il vecchio ordine costituito e ne fa nascere – o ce ne fa intravvedere - altri, nuovi. Su questa pagina il buon Christian ha – da tempo - aggiunto di sana pianta una sua personale notazione, come riporto in figura (ho omesso le ultime due battute e mezza, dove suona soltanto l'accordo di REb maggiore). È ormai come un marchio, una di quelle pisciatine che i cani lasciano sul loro percorso per segnalare la loro presenza: e non è una caratteristica esclusiva del maestro tedesco, ma un atteggiamento comune a molti grandi direttori.








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Come si può notare, dopo l'ultima esposizione del tema (1) del Crepuscolo (prime due battute nella figura) Wagner introduce le ultime 7 battute, dove espone il tema (2) cosiddetto della Redenzione, semplicemente omettendo qualunque segno di legato a cavallo della barretta verticale. Perciò prescrivendo solo un'impercettibile cesura fra i due motivi (Crepuscolo-Redenzione): una semplice presa di respiro (anche la tonalità non cambia). Quindi non ci dice che finisce un mondo, punto (come fa Thielemann, che ci aggiunge una vera e propria corona puntata, che domenica ha fatto durare almeno due semiminime!) e poi ne comincia un altro, con tanto di Redenzione: ci dice invece che il mondo che viene è la diretta continuazione di quello che è andato in rovina.

Analizziamo allora queste ultime sette misure: esse sono occupate dal tema della Redenzione in violini e flauto che porta all'accordo finale (3 misure) di REb; apparentemente sembra la pura e semplice riesposizione di una melodia ottimistica e beneaugurante, ma in realtà la partitura d'orchestra contiene mille riferimenti e reminiscenze, quasi a condensarvi l'intero Ring!

Intanto chiediamoci: cosa ci rappresenta, il tema della Redenzione, a dispetto della consolante etichetta? Esso era comparso, in precedenza, solo in una ben precisa ed isolata circostanza (terzo atto di Walküre): l'annunciazione da parte di Brünnhilde a Sieglinde della sua prossima maternità; ed allora, perché non pensare che il tema null'altro rappresenti se non il Siegfried appena concepito, e quindi, visto lo svolgersi successivo dei fatti, una promessa non mantenuta?

La caduta di settima (3) che si ripete tre volte, altro non è che la maledizione dell'amore di Alberich (si veda il so verfluch' ich die Liebe del Rheingold!) Dopo le due prime cadute abbiamo una risalita sull'intera scala di REb, fino alla tonica. Questa risalita (4) è in realtà un frammento di due terzine che si trova nell'esposizione originale del tema nella Walküre, ma che qui richiama scopertamente le Figlie del Reno dell'inizio atto, là risalendo, in tonalità SOL, da tonica a sesta, qui da sopratonica a sensibile. Sulle prime due cadute di settima, ottoni e legni suonano (5) la seconda maggiore discendente (il tema del Rheingold) già associata (nel racconto di Waltraute del primo atto, e poco prima nell'esortazione di Brünnhilde) al Wotan che sogna la restituzione dell'anello al Reno, come strumento di salvezza, se non per lui personalmente, almeno per il suo ordine costituito.

Poi c'è l'accompagnamento dei bassi (6) con una discesa che ci ricorda la chiusa del tema del Walhall, come presentatoci nel Rheingold. Quindi abbiamo nientemeno che la comparsa del tema della schiavitù (7) ottenuta facendo "scendere" tutti i fiati, flauti esclusi, di una seconda minore, SIb-SIbb. Ciò è funzionale all'introduzione dell'accordo di sesta minore (8) che ci ricorda chiaramente l'anello (!)

In sostanza, in sole quattro misure, accanto alla presunta Redenzione, Wagner ci ricapitola: la fallace speranza riposta in Siegfried, il Walhall, l'amore maledetto da Alberich, le Figlie del Reno, la speranza di salvezza di Wotan, la schiavitù e l'anello!

Di fatto: il mondo che viene si porta dietro tutti i cromosomi di quello che muore.

Servono delle conferme? Prima: chi sopravvive al cataclisma? Le Figlie del Reno e Alberich (toh!) Seconda: sapete qual'è il salto di tonalità fra l'originale esposizione del tema della Redenzione, nella Walküre (SOL) e quella di quest'ultima comparsa (REb)? Precisamente un tritono, lo sbifido diabolus in musica!

Insomma, è come se Wagner abbia voluto chiudere la sua divina commedia non con un gesto di religiosa speranza, ma con un ghigno beffardo!

Ecco perché trovo quella corona puntata di Thielemann davvero fuori posto…

27 luglio, 2010

Il Lohengrin di Neuenfels: perché è Eurotrash


La nuova produzione bayreuthiana di Lohengrin, che ha aperto fra i buh (per il regista Hans Neuenfels) l'edizione 2010 dei Festspiele ha riportato (prevedibilmente) alla luce il problema delle regìe moderne, o post-moderne, del teatro musicale. Che sono in genere costruite con il seguente procedimento: il regista cerca nell'originale uno spunto (magari cui l'Autore stesso nemmeno aveva pensato!) interessante per lo spettatore moderno, ci costruisce sopra il suo Konzept, e poi ne trae tutte le conseguenze, poco o punto curandosi di quanto esse finiscano per allontanare la sua interpretazione dall'originale.
Prendiamo appunto il Lohengrin di Neuenfels. Come ha acutamente osservato A.C.Douglas (uno dei più autorevoli blogger americani in campo musicale) l'operazione di Neuenfels è assolutamente interessante e intelligente, ma salvo che per un piccolo particolare, come si vedrà.
Che spunto ha tratto Neuenfels dalla lettura del Lohengrin? Quello di una società – la nostra, perchè lo spettatore del 2010 non è quello del 1850, caspiterina! – che si avvia all'autodistruzione poiché priva di amore, dove ogni individuo è indifferente agli altri. E come rappresentarla? Come un laboratorio in cui si fanno esperimenti su una popolazione di topi (così vengono vestiti i coristi).
Poi accade che a noi, individui insignificanti di questa società senza amore, venga concessa una possibilità – come dire – di salvezza: possiamo finalmente diventare più umani, persone migliori ed avvicinarci all'utopìa della perfezione. Chi ci porta questa possibilità? Lohengrin!
Ma c'è una condizione (un trucco?): noi dobbiamo avere una fiducia cieca e totale in Lohengrin, e non chiedere spiegazioni. La cosa pare funzionare e infatti – alla fine del primo atto – i topi si tolgono la loro pelle di topo e sotto di essa appaiono dei moderni abiti gialli, che mostrano persone giovani, innocenti e credenti. Però sempre con mani e piedi da topo, perché deve essere chiaro che – sotto-sotto – sono sempre topi da laboratorio.
E infatti l'illusione svanisce e il dubbio insinuato da Ortrud in Elsa arriva come una bara piena di piume di cigno a metter fine all'utopìa. E poi, quando Lohengrin si prepara a partire, ecco che, invece del cigno, Lohengrin mostra un enorme uovo da cui esce un orribile e mostruoso neonato. Che si taglia il cordone ombelicale, lo fa a pezzi e li butta, come codini, agli individui lì convenuti, perché la festa è finita, e loro devono tornare topi quali erano in partenza.
Beh, conclude A.C.Douglas, in fin dei conti un'idea per nulla malvagia.
Qual è il piccolo, insignificante dettaglio che manda tutto a (meretrici) buh?
È la musica, stupido!

25 luglio, 2010

Piccola cronaca remota dell’apertura dei Festspiele 2010 a Bayreuth

Dopo la defezione del Telramund pugliese Lucio Gallo (di cui pare nessuno si sia accorto, neanche quelli di Radio3, tranne i tipografi costretti a correggere le locandine già stampate) questo Lohengrin ha rischiato di perdere (anzitempo, smile!) anche la sua Elsa Annette Dasch. Mentre si preparava ad una delle ultime prove per il suo debutto sulla verde collina, è stata proditoriamente colpita al capo da un oggetto scagliato dal paparino di Lohengrin, tale Parsifal, evidentemente invidioso delle imprese amorose del figlio (…questa è ovviamente una ricostruzione romanzata del piccolo incidente occorso alla bella soprano).

Poi tutto si è sistemato e la kermesse ha potuto prendere il via, col solito preludio costituito dall'arrivo e dalla passerella del solito caravanserraglio dei soliti vip che, in cambio dell'enorme – per loro – sacrificio di dover sopportare ore e ore di musica – per loro - pallosa, possono sfoggiare le loro strampalate acconciature ed essere visti in tutto il mondo, senza tirar fuori un solo centesimo. Qualcuno, negli intervalli, viene anche intervistato e – toh, che strano! – racconta mirabilie anche delle più grandi idiozie viste e/o udite. Però la cosa non si ripeterà più fino al prossimo… fine luglio 2011.

In attesa che la (ormai non più) piccola Kathi decida di far irradiare anche le immagini delle rappresentazioni in mondovisione (è solo questione di tempo, di montagne di quattrini in ballo e del modo più furbo e sicuro per estorcerli a milioni di interessati, proprio nella più genuina tradizione inaugurata dal capostipite della famiglia) ci accontentiamo ancora della radio, quella cara e vecchia a MF (o addirittura in OM!) o quella nuova digitale, che ci arriva sul laptop o magari sul telefonino. Una goduria, questa! e sarà da vertigine quando il tutto funzionerà in chat, con Kaufmann che implora: Elsa, che vuoi tu osare? e una eccitata cinesina che interloquisce: La tua cosa più glande!

Non per essere maliziosi, ma l'ascolto radiofonico ha molto spesso il grande privilegio di non farci distrarre (termine politically correct per: vomitare) da immagini e scene propinate dal famoso regista-tabagista di passaggio (che si sussurra sarà richiamato nel 2013 per allestire il Ring del bicentenario. Auguri).

Esauriti gli argomenti seri, veniamo alla cronaca.

Le operazioni si aprono alle ore 15, quando le radio cominciano ad occuparsi dell'avvenimento. Alle 15:57 arrivano in diretta i primi suoni: è la fanfara che chiama il pubblico a raccolta, dal balconcino sovrastante l'ingresso. Per il primo atto ci propina il richiamo dell'Araldo del Re Heinrich:




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Poi il classico brusìo della sala, l'ingresso in incognito del Kapellmeister (il giovane di belle speranze Andris Nelsons, anche lui al debutto giù nel torrido Orchestergraben) e infine le quattro sezioni dei violini attaccano la perfetta triade di LA maggiore, seguite da flauti e oboi e poi dai quattro violini solisti, in armonici. È lo straordinario incipit, che sempre toglie il respiro.

Il Preludio scorre assai bene e Nelsons dimostra per ora di essere all'altezza del non facile compito.

Nel primo atto compare subito Samuel Youn, che impersona l'Araldo del Re: una parte per nulla secondaria, che viene sostenuta con grande dignità ed efficacia. Non altrettanto direi di Re Heinrich (l'uccellatore… di brabantini) che è Georg Zeppenfeld, poco appariscente. Come e peggio di lui Telramund che, in luogo del nostro Gallo, era Hans-Joachim Ketelsen: di casa a Bayreuth nella penultima decade e recuperato in fretta e furia, è parso incerto persino nell'intonazione.

Brava Annette Dasch, che deve aver perdonato l'invidioso – e molto provvisorio – suocero per il citato scherzetto della vigilia: voce forse non potentissima, ma assai espressiva.

Jonas Kaufmann ha mostrato i suoi ormai noti pregi e difetti: quando canta a piena voce, nulla da eccepire. Quando deve fare una mezza-voce, come all'entrata, sul saluto al cigno, emette suoni sgradevoli, a metà fra il falsetto e l'ingolato.

Ingiudicabile – per ora - Evelyn Herlitzius in Ortrud, visto che ha cantato solo nel concertato finale, che mi è parso peraltro costellato da diverse imprecisioni nelle varie entrate.

Un primo atto senza infamia né lode, accolto alla fine da applausi non proprio entusiastici e da diversi buh (immagino alla intellettualoide regìa di Neuenfels).

Nell'intervallo, a Radio3 parla, da Firenze, Daniele Spini, il quale confessa di non avere presente la faccia di Kaufmann ed è anche lui convinto che Telramund sia cantato da Lucio Gallo. Poi fa considerazioni magari anche interessanti, dialogando con Guido Bossa e Marco Mauceri che è sul posto.

Poco dopo le 18 riecco la fanfara che preannuncia il secondo atto; suonando il tema del dubbio che si è insinuato nel cuore di Elsa:




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Si inizia col duetto Telramund-Ortrud, che riserva qualche sorpresa: Ketelsen pare decisamente migliorato, mentre la Herlitzius mi delude assai, urlando gli acuti, su cui ha uno sgradevolissimo vibrato e mostrando difficoltà evidenti di intonazione negli attacchi.
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Sempre bene la Dasch e sempre uguale a se stesso Kaufmann, che spara bene i LA acuti in forte, ma continua a falsettare le frasi da cantare piano (come Komm, lass in Freude… e anche Elsa, erhebe dich… e infine Heil dir, Elsa…)
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Discreti i cori che costellano l'atto. Per l'accoglienza alla fine, idem come sopra: un isolato bravo! (ma per chi?) applausi di cortesia e un sottofondo di buh, indubbiamente per la regìa.
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Secondo intervallo: il regista Denis Krief e Marco Mauceri da Bayreuth sospettano di volontà dissacratoria da parte di Neuenfels. Krief parla di parodia e Mauceri confessa di aver chiuso gli occhi per godersi la musica. Evviva la sincerità! Finalmente si annuncia che Telramund non è Lucio Gallo!
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Alle 20:30 l'ultima fanfara per il terzo atto; che chiama tutti col tema del Gral:






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Dopo il rumoroso preludio, ecco la famosa marcia nuziale, attaccata da Nelsons con un piglio invero eccessivo: dal moderatamente mosso ha cancellato di sana pianta il moderatamente! Forse nell'allestimento di Neuenfels pioveva e il corteo doveva fare in fretta…

Il duetto Lohengrin-Elsa ripropone pregi e difetti dei cantanti, soprattutto di Kaufmann, che poi mostra il suo lato-B (quello meno presentabile) nella prima parte di In fernem Land e in seguito nel Mein lieber Schwan. Tagliate – more solito - le 97 battute che precedono l'arrivo del cigno. La Herlitzius fa ancora a tempo a urlare smodatamente le sue maledizioni, e finalmente il Gral chiude con gran fracasso.

Applausi – più o meno calorosi - per tutti i Musikanten.

Una bufera di buh per Neuenfels: meno male che a noi poveri pirla è stata risparmiata la fatica di spremerci le meningi per capire il suo Konzept!

20 luglio, 2010

Domenica 25 Bayreuth apre con Lohengrin

Fra pochi giorni Lohengrin aprirà una nuova tornata della kermesse di Bayreuth. Molto atteso il debutto di Jonas Kaufmann, che potrebbe installarsi sulla verde collina per qualche decennio, eventualmente passando – verso il 2050, duecentesimo della prima del Lohengrin - dal ruolo del protagonista a quello di Telramund, analogamente a quanto sta facendo di questi tempi il buon Topone (smile!)

L'altra ansiosa (?!) attesa riguarda, come sempre, la regìa, affidata all'ex-bambino terribile Hans Neuenfels. Che vede Lohengrin come un particolare tipo di salvatore, un consulente impegnato in un pazzo compito: risolvere un’intricata situazione in un’azienda bloccata da lotte, invidie e odio. E che opera, in un laboratorio, facendo test su animali che si vogliono umanizzare. Qualche allibratore forse offrirà di scommettere su quanti buh saluteranno l'allestimento. Ma ormai questo è ciò che rende vivace il Festival.

Per chi seguirà alla radio invece sarà interessante ascoltare la direzione musicale di Andris Nelsons, un lettone che sembra seguire le orme del suo famosissimo compatriota Mariss Jansons.

Piccola delusione per noi italiani, il mancato debutto, causa malattia (?!) di Lucio Gallo come Telramund: per sentire una voce italiana a Bayreuth bisognerà aspettare ancora…

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Soggetto e poema

Wagner scrisse in tutto 13 opere; Lohengrin rappresenta lo spartiacque fra il periodo per così dire tradizionalista della sua produzione, e quello più decisamente innovativo:

fino al 1845: Die Feen / Das Liebesverbot / Rienzi / Der fliegende Holländer / Tannhäuser

1845-1848 Lohengrin

dopo il 1849: Der Ring / Tristan und Isolde / Die Meistersinger von Nürnberg / Parsifal

Si tratta perciò di un lavoro che, pur conservando alcuni legami con la tradizione (dell'opera italiana e del grand-opéra francese) contiene i germi della concezione del dramma musicale che Wagner sta maturando e che si materializzerà, di lì a poco, con il Ring.

Il protagonista maschio (come nelle precedenti due opere) sembra essere sempre al di sopra di ogni giudizio e discussione, sia quando è un corsaro maledetto (Holländer) o quando è uno sfrenato edonista (Tannhäuser); qui invece, è addirittura una specie di angelo venuto dal cielo, a incarnare la provvidenza; ma una provvidenza misteriosa, inspiegabile, onirica e per certi versi paradossalmente persecutoria.

La protagonista femmina è vista come un oggetto passivo: nell'Holländer e nel Tannhäuser svolge il ruolo di donna pia, consolatrice e redentrice, al servizio dell'uomo sfigato e peccatore; qui è invece una donna innocente, indifesa e bisognosa di protezione, ma alla quale è negato persino il diritto di sapere chi è l'uomo mandato da Dio in suo soccorso; e il suo stesso atto di disobbedienza a tale divieto non nasce da una sua positiva volontà di emancipazione, ma rappresenta una chiara manifestazione della debolezza del suo carattere, che soggiace alla straripante personalità di Ortrud.

I cosiddetti comprimari (qui, Friedrich e Ortrud) sono invece gli autentici protagonisti drammatici, a cui Wagner affida i momenti più forti e innovativi dell'intera opera (soprattutto nel secondo atto, la cui prima scena non sfigura certo davanti a quella con cui Klingsor e Kundry apriranno il secondo atto del Parsifal); gli interpreti devono perciò essere un baritono e un soprano pesanti di assoluto valore.

Le principali novità che il Lohengrin introduce a livello musicale sono diverse.

Quasi totale abolizione dei numeri chiusi (arie, cavatine, duetti); ci sono in realtà parecchi dialoghi in musica, precursori di ciò che Wagner farà nel futuro, anche se non siamo ancora ai celebri declamati del Ring.

Della tradizione del grand-opéra, da cui Wagner sta progressivamente allontanandosi, restano qui solo i cori - peraltro già trattati in modo innovativo, nella polifonia delle voci, e che molto raramente cantano all'unisono - e l'inizio della scena finale, con bande e cavalli in palcoscenico!

Comincia a prendere corpo la tecnica dei leitmotive, temi che si legano a personaggi o situazioni e che ritornano più volte nel corso dell'opera (es.: il tema del Gral, quello di Lohengrin, il tema del divieto a chiedere l'identità di Lohengrin, il tema del cigno…); comunque, siamo proprio agli inizi, nulla di confrontabile con la mirabile tecnica di elaborazione dei temi che Wagner perfezionerà a partire dal Rheingold, ma la strada è ormai chiaramente tracciata.

L'orchestra è quella tradizionale (Wagner non ha ancora inventato le sue tubette): tuttavia l'orchestrazione e la coloritura del suono (il preludio ne è un fulgido esempio) sono già molto più avanti rispetto al Tannhäuser, che non per nulla verrà radicalmente rimaneggiato dopo quasi vent'anni dalla sua composizione.

Preludio

75 battute, in tonalità di LA maggiore, con due modulazioni (all'inizio, sulla dominante MI maggiore e - al culmine del preludio - sulla sottodominante RE maggiore).

È solo ed esclusivamente incentrato sul tema del Gral, presentato in una continua progressione del volume del suono, ma non del tempo, che deve restare sempre lento (primo test per il direttore, spesso portato invece ad accelerare) dall'inizio nei violini divisi, flauti e oboi, fino all'apogeo (a piena orchestra, piatti inclusi, a circa due terzi della durata) per poi degradare ancora fino alla fine.

(Wagner anticipa qui, in qualche modo, l'impianto del preludio del Tristan).

Atto I

L'ambientazione resta immutata per tutto l'atto (le rive della Schelde); da un lato re Heinrich con i suoi germanici (e quattro trombe sulla scena) e dall'altro i brabantini, con Friedrich e Ortrud: le due etnìe devono essere sempre ben distinguibili, perciò spesso cantano in cori separati o su linee melodiche diverse e hanno anche due diversi temi, o segnali di riconoscimento.

Tutta la prima scena è occupata da una serie di racconti: l'araldo che spiega cosa fa re Heinrich da quelle parti, il re che fa il suo discorso politico, Friedrich che presenta la falsa accusa di fratricidio nei confronti di Elsa, ancora il re che apre il giudizio, infine l'araldo che chiama Elsa a difendersi. Tutto ciò serve a farci conoscere gli antefatti ed i presupposti dell'azione: quindi si tratta di monologhi o dialoghi, in forma quasi di recitativo, dove Wagner sembra sperimentare la tecnica del declamato, qui ancora con dei risultati piuttosto modesti.

Nella seconda scena, entra Elsa e subito si cambia musica, poichè cominciano ad affacciarsi i leit-motive dell'opera: ancora prima che lei canti, già compaiono due temi, o frammenti di tema, a rappresentarne la fragile personalità e lo stato d'animo dimesso, mentre ascolta le domande del re. Poi, il racconto del suo sogno è preceduto dal tema del Gral e accompagnato da quello di Lohengrin. Ancora, dopo la reiterazione dell'accusa da parte di Friedrich, la domanda del re all'accusatore e poi ad Elsa circa la soluzione della contesa attraverso una tenzone è preceduta, in entrambi i casi, da un possente motivo, esposto da tromboni e tube, che anticipa quel tema del patto che per tutto il Ring tornerà infinite volte a rappresentare la forza e l'inesorabilità della legge e dell'autorità costituita (come si vede, il Lohengrin contiene tanti indizi di ciò che presto si manifesterà apertamente nella produzione di Wagner).

Ancora il tema del sogno ricompare ad anticipare la risposta di Elsa su chi sarà il suo cavaliere. Poi Wagner mostra di sapere come far stare col fiato sospeso gli spettatori, riempiendo di suspence (Elsa che deve invocare più volte il suo salvatore) gli attimi che precedono l'arrivo di Lohengrin sulla barchetta trainata dal cigno. Lohengrin è accolto da un coro generale, che è però suddiviso così: primo coro maschile, secondo coro maschile, entrambi con quattro linee melodiche, e coro femminile, con due linee melodiche; si arriva fino a otto diverse voci sovrapposte!

La terza scena si apre con il tema del Gral nei violini, che introduce i saluti di Lohengrin: al cigno, che lo ha trainato fin lì - ed il relativo tema mostra chiaramente la sua derivazione da quello del Gral (i legami cigno-Gral torneranno molti anni più tardi, nel Parsifal) - e al re, col coro misto che lo accompagna, su sei diverse linee di voci. Poi l'offerta di protezione e di amore di Lohengrin, ancora sul tema del Gral, che Elsa accetta (accompagnata dal tema del suo sogno) ma con la condizione che lei mai gli chieda chi egli sia. E il severo tema del divieto, che si compone di due sezioni, e del cui incipit si ricorderà Ciajkovski nel suo Lago dei Cigni (toh!) appare qui per la prima volta, reiterato da Lohengrin con crescente fermezza:







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Un coro misto a sei voci suggella la dichiarazione d'amore di Lohengrin per Elsa, riprendendo ed estendendo il tema già esposto al momento del saluto di Lohengrin al re.

Lohengrin proclama di scendere in campo per Elsa contro Friedrich, che il coro dei suoi brabantini cerca di dissuadere, cantando diviso in ben sei parti! Friedrich insiste e quindi si prepara la tenzone: l'araldo del re ha ancora occasione di occupare il proscenio, quasi scortato dalla prima sezione del tema della legge, che ne sottolinea le raccomandazioni ai duellanti (come si vede, la sua è una particina non proprio trascurabile, come si constaterà anche nel secondo atto).

Il re fa una lunga invocazione al cielo (e il Gral fa subito capolino) perchè la vittoria premi il buon diritto, poi inizia un grande concertato a cinque: Elsa, Lohengrin, Ortrud (che qui canta per la prima volta) Friedrich e il re, cui presto si aggiungono il coro maschile e poi quello femminile, per un totale di nove linee melodiche! Finalmente si arriva al duello Lohengrin-Friedrich, che è davvero rapidissimo (solo 21 battute di musica) proprio come lo sarà quello Siegfried-Fafner nella seconda giornata del Ring.

Dopo il grido di vittoria di Lohengrin e della folla, Elsa alza il suo canto di ringraziamento e di giubilo (qualcosa di simile a ciò che farà Eva, nei confronti di Sachs, nei Meistersinger). Poi inizia il colossale concertato finale, con i cinque protagonisti - ciascuno dei quali esprime il proprio stato d'animo - e i cori, dove si raggiungono anche le dieci linee melodiche sovrapposte! (soltanto nella scena della baruffa nei Meistersinger, Wagner farà ancor di peggio).

Il tema di Lohengrin, in tutti i fiati, sostiene l'ultima parte del concertato e introduce la cadenza finale (con gli ottoni a produrre un grandissimo fracasso).

Atto II

Non c'è dubbio che questo sia l'atto drammaticamente e musicalmente più intenso (quindi, per gli interpreti, il più arduo da eseguire e, per lo spettatore, il più impegnativo da seguire, anche per la sua lunghezza) dell'intera opera. Forse non è un caso che Wagner lo abbia lasciato per ultimo, in fase di composizione, per meglio farlo maturare nella sua mente (effettivamente qui si sente che il Ring, cioè il futuro, è ormai vicino).

Il preludio orchestrale (degno dei secondi atti del Siegfried o del Götterdämmerung) è caratterizzato dall'esposizione di una lunga melodia negli strumenti gravi, che ben rappresenta musicalmente la personalità oscura e demoniaca di Ortrud; tale melodia è all'inizio interrotta da due spettrali incisi del tema del divieto, suonati dal corno inglese (anche la scelta di questo strumento è illuminante, poichè conosciamo il ruolo che esso avrà poi nel Tristan). È notte, siamo nel centro di Antwerp, fra palazzi e cattedrali (alcuni strumenti sono posti sulla scena, perchè il loro suono deve provenire dall'interno dei palazzi).

La prima scena è davvero il segnale della svolta che Wagner comincia ad imprimere alla sua arte: il dialogo tra Friedrich e Ortrud, pur con qualche cedimento a vecchi stilemi (un paio di versi di Friedrich ripetuti e il canto finale di vendetta dei due all'unisono) è di una potenza drammatica straordinaria ed inoltre mostra con quale sapienza Wagner sia ormai in grado di padroneggiare tutti i risvolti psicologici dei personaggi e dell'azione: lo sfogo di Friedrich contro Ortrud, responsabile delle sue sfortune, poi lei (che anticipa addirittura certi tratti della Kundry del Parsifal) che comincia a tessere la tela della sua vendetta, dapprima riportando al suo fianco il marito ormai sconfortato e poi convincendolo che è Elsa l'anello debole della catena dei loro nemici, sulla quale esercitare quindi la massima pressione psicologica, affinchè infranga il divieto impostole (oboi e clarinetti, poi il corno inglese, ce ne ripropongono il lugubre tema).

Nella seconda scena, che si apre con l'apparizione di Elsa al balcone del palazzo (accompagnata da un frammento della melodia che sosterrà il corteo nuziale, alla fine dell'atto) Ortrud passa all'azione, facendosi riconoscere da Elsa e cominciando ad insinuare in lei dei vaghi dubbi circa la sua futura felicità: nelle sue parole si odono invocazioni a divinità (Wodan, Freia) che ci diverranno familiari nel Ring, mentre qui rappresentano le religioni antiche e le credenze pagane, cui Ortrud è legata, contrapposte al moderno cristianesimo impersonato da Lohengrin. Senza rendersene conto, Elsa sta cadendo nella rete di Ortrud, che procede nella sua azione demolitrice con insinuazioni sempre più pesanti sull'identità di Lohengrin, e lo fa cantando sul tema del divieto, sempre sottolineato dal perfido suono del corno inglese!

Elsa invita Ortrud a seguirla nel palazzo, cantando sul frammento di una melodia che tornerà nel terzo atto, all'inizio del suo dialogo notturno con Lohengrin. La scena si chiude con un duetto delle due, sostenuto e poi concluso da una lunga e bellissima linea melodica, e con Friedrich che si compiace del fatto che l'infelicità stia entrando in quella casa.

Da qui in avanti e per le restanti tre scene, l'atto è tutto un susseguirsi di momenti drammatici, che ne interrompono altri più sereni o maestosi (caratterizzati dalla presenza costante dei cori): sono Ortrud e Friedrich a rompere più volte la solennità dei festeggiamenti, tessendo la loro trama volta a soggiogare la fragile personalità di Elsa, continuando a insinuarle atroci dubbi sull'identità di Lohengrin (a proposito, Lohengrin si identificherà come tale solo alla fine dell'opera; prima, nessuno conosce il suo nome; il parallelo con il primo atto della Walküre - Siegmund - è evidente).

Vediamo: la terza scena rappresenta l'alba del nuovo giorno e la città che si rianima (con i due cori maschili, divisi in otto voci) poi l'araldo che ha ancora modo di mettersi in bella mostra, annunciando i proclami del suo re. Ancora i due cori che acclamano Lohengrin, prima dell'intervento drammatico di Friedrich, che per ora si fa riconoscere solo dai suoi fidi, promettendo vendetta contro lo straniero innominato.

La quarta scena si apre con Elsa che esce dal palazzo, scortata dai cori maschili, su una dolcissima melodia, ondeggiante dal MIb al MI naturale al MIb, che era fugacemente apparsa all'inizio della seconda scena. Si aggiunge poi anche il coro femminile e dei fanciulli, fino alla nuova rottura, clamorosa questa, da parte di Ortrud, che affronta Elsa pubblicamente. Elsa cerca di reagire, spalleggiata dai cori, ma Ortrud ha ormai scardinato le sue certezze…

Scena quinta: arriva il re, poi Lohengrin, in cui Elsa cerca conforto e protezione. Si avviano maestosamente verso la cattedrale, ma ecco la nuova irruzione di Friedrich, che questa volta affronta tutti a viso aperto, reclamando giustizia contro le arti magiche di Lohengrin (ed è nientemeno che il motivo della legge, comparso nel primo atto, a sottolinearne, per ben due volte, le pretese). Lohengrin si difende a sua volta, dichiarando che solo ad Elsa è tenuto a rivelare la sua identità; e la prima sezione del motivo del divieto, sempre nel timbro cupo e rabbrividente del corno inglese, sostenuto dal clarinetto basso e dai fagotti, si insinua ancora malignamente, quasi a rappresentare musicalmente lo strumento di questa specie di lavaggio del cervello, cui Elsa è sottoposta e a cui per il momento resiste (ma ormai sarà ancora per poco…)

Inizia ora un concertato generale, che sarà chiuso dal tema del divieto: i cinque personaggi principali vi esprimono i rispettivi stati d'animo, con i cori maschile, femminile e dei fanciulli (significative le parole di Ortrud, poi riprese da Elsa: "il dubbio sta nel profondo del cuore").

Poi il re acclama ancora Lohengrin, ma in quel mentre ecco una nuova drammatica intrusione, ancora di Friedrich, che stavolta avvicina Elsa, rimasta sola in disparte, e le propina le ultime insinuazioni su Lohengrin (promettendole inoltre di intervenire quando lei e lo sposo saranno soli, la notte successiva) prima che questi lo allontani e conduca Elsa con sè, avviando la fine dell'atto, che è maestosa e toccante, con il corteo nuziale che entra nella cattedrale accompagnato da una musica celestiale, organo compreso, ma tuttavia velata dall'immanente presenza di Ortrud, col tema del divieto che si ripresenta per l'ennesima volta, ed in modo a dir poco tracotante, fortissimo in trombe e tromboni, poco prima della chiusa.

Atto III

Subito dopo il vigoroso preludio (molto trascinante, ma per la verità piuttosto fuori dal contesto, quasi un ultimo cedimento agli stereotipi del grand-opéra) ecco la prima scena, con la famosa marcia nuziale, che si dovrebbe sempre eseguire con la massima delicatezza e leggerezza (ma ahinoi, quante volte sarà stata strapazzata da beceri organisti di parrocchia, che la suonano invece come se dovesse accompagnare una sfilata di panzer!)

Poi la seconda scena, il dialogo Lohengrin-Elsa, in un crescendo drammatico fino al suo apice (la domanda proibita sulle labbra della donna, che infrange il divieto…) e all'irrompere di Friedrich, trafitto da Lohengrin; il lungo dialogo fra Elsa e lo sposo innominato traccia già la strada su cui, in futuro, si muoveranno altri duetti wagneriani: Siegmund-Sieglinde e Tristan-Isolde.

Dapprima i due si inseguono sullo stesso tema musicale, chiudendo la frase su una cadenza classica e tradizionale, verdiana si direbbe. Poi Lohengrin ne introduce un altro, cui Elsa risponde col ricordo del suo sogno (e il tema di Lohengrin si affaccia negli strumentini…) Ma ecco che in lei comincia ad affiorare l'ansia: come risuona dolce il mio nome sulle tue labbra, dice allo sposo, ma quando potrai tu sentire il tuo dalle mie?

Lohengrin cerca di sviarla intonando una nuova, dolcissima melodia, ma Elsa è ormai incamminata sulla china che la perderà… ed infatti il tema del divieto si insinua ancora, durante la sua replica, sempre nel corno inglese, spalleggiato dal clarinetto e dall'oboe.

Lohengrin cerca di fare ancor meglio… anche musicalmente, intonando un nuovo bellissimo tema (di cui Richard Strauss si ricorderà in Salome) ma ottiene l'effetto opposto, poichè è costretto a motivare - e quindi ribadire - il suo divieto (il cui tema gli strumentini sottolineano impietosamente).

Lohengrin afferma, stentoreo, che lui viene da un mondo di luce e amore (e lo fa quasi sulle stesse note con cui, più tardi, rivelerà il suo nome!) Ma Elsa sta ormai cedendo, e canta la sua angoscia, sempre più fuori di sé: adesso - sul relativo tema - vaneggia del cigno che torna a riprendersi Lohengrin e a portarlo lontano da lei… infine sbotta: voglio sapere chi sei! e il tema del divieto letteralmente esplode, fortissimo nei corni, a spalleggiare gli strumentini: la frittata è fatta, Elsa sciorina tutte le domande proibite, mentre a Lohengrin non resta che pronunciare frasi smozzicate di delusione e di dolore.

A questo punto Wagner ci propone uno dei suoi magistrali colpi di teatro: Friedrich, come aveva promesso ad Elsa alla fine del secondo atto, entra con i suoi compari, Elsa lancia a Lohengrin la spada, con cui Friedrich viene steso all'istante (qui val la pena di notare un particolare: è il timpano a sottolineare, con i suoi rintocchi lugubri, la morte di Friedrich; Wagner utilizzerà questo strumento altre volte, in simili circostanze: nel Rheingold, ad accompagnare gli ultimi rantoli di Fasolt, ammazzato dal fratello Fafner, nella Walküre, allorquando Hunding verrà annichilito da un solo gesto di Wotan, nel Götterdämmerung, per raccogliere l'ultimo pensiero per Brünnhilde di un Siegfried morente).

A questo punto ritorna, ma sfiorito e dolente, uno dei temi che avevano poco prima sottolineato la felicità di Elsa e Lohengrin. Elsa implora pietà, ma le risponde, nientemeno!, che il tema della legge. Poi è sul tema di Ortrud che inizia la transizione verso la scena successiva: Lohengrin annuncia che spiegherà tutto davanti al re e al popolo, e lo fa sul tema del divieto, che poi accompagna Elsa e infine, prima fortissimo, poi più smorzato, seguito dal Gral, nei tromboni, chiude la scena.

Nella terza scena si torna quindi sulle rive della Schelde, dove arrivano le masse (prima i brabantini, a cavallo!, divisi in quattro gruppi che sopraggiungono da direzioni diverse, poi i germanici col re) che intonano un colossale inno, puramente strumentale, con fanfare, squilli di tromba e secchi colpi di timpano in gran quantità (e con strumenti che suonano anche sulla scena, compreso un tamburo a tracolla). Per distinguere le varie bande, Wagner le fa suonare in tonalità diverse: la prima esecuzione dell'inno è in MIb maggiore, poi c'è una transizione a RE maggiore e da qui a FA maggiore, tonalità in cui l'inno viene presentato per la seconda volta; adesso si passa a MI maggiore e da qui al solenne DO maggiore, esposto dalle truppe del re, e che sorregge la terza ed ultima replica dell'inno, chiusa dall'intervento del coro maschile al completo. (Non c'è dubbio che questa scena sia un estremo tributo di Wagner alle regole del grand-opéra e certo, se qui il direttore si lascia andare, il rischio di cadere nel grossolano e nel banale è altissimo).

Ora siamo alla stretta finale: il saluto del re, il trasporto della salma di Friedrich, l'arrivo di Elsa, accompagnata dall'ultima apparizione del tema del divieto (che il ritmo qui ci rappresenta come un vero e proprio fardello, pesante e difficile da sopportare), l'arrivo di Lohengrin, come sempre accompagnato dal suo tema e dai cori al completo.

Poi, dopo aver annunciato che non potrà restare in quella terra, e appoggiandosi su un poderoso intervento del tema della legge, Lohengrin chiede e ottiene assoluzione per l'uccisione di Friedrich, quindi dichiara rotta la sua unione con Elsa, per colpa di lei, che ha tradito il giuramento fatto, e si appresta a fare le sue rivelazioni…

È il tema del Gral, sempre in LA maggiore, a introdurre l'auto-identificazione di Lohengrin, dove viene sottoposto ad una serie continua di modulazioni, lungo il racconto della storia e del significato di Monsalvat e dei cavalieri che vi operano con Parzival, padre di Lohengrin, il cui tema esplode nel momento in cui il suo nome viene finalmente rivelato a tutti. Quindi, il commiato di Lohengrin da Elsa e dal re (purtroppo questa parte, caratterizzata anche da un concertato a tre voci, più i due cori, viene spesso e volentieri – e financo a Bayreuth - tagliata da direttori che vanno ben al di là della volontà del compositore).

L'arrivo del cigno, accolto da Lohengrin, con il suo tema fattosi quasi lamentoso, l'ultima invocazione (quasi un'imprecazione, per la verità) e l'addio di Lohengrin ad Elsa, poi ancora un sussulto drammatico: è l'estremo colpo di coda di Ortrud, il cui sfogo, la sfrontata confessione e il grido di vendetta degli déi pagani contro i moderni miscredenti, portano alle battute finali: la trasformazione del cigno nel piccolo Gottfried, il fratello del cui omicidio Elsa era stata fraudolentemente accusata, la partenza di Lohengrin, sempre accompagnato dal suo tema, Elsa che spira e il Gral che chiude con un fortissimo LA maggiore.