affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

13 luglio, 2010

Muti e il Requiem di Cherubini a Ravenna

Il prossimo 14 settembre ricorrono i 250 anni dalla nascita del grande musicista fiorentino, avvenimento che per la verità non sembra aver suscitato eccessivi entusiasmi celebrativi.

Va dato perciò merito a Riccardo Muti per aver chiuso il cartellone concertistico del Ravenna-festival guidando la sua Cherubini, l'Orchestra Giovanile italiana, la Stagione Armonica e musicisti delle Accademie di Lubiana e Zagabria, e del Conservatorio di Trieste, con coristi italiani, sloveni e croati, nel Requiem in DO minore, opera che ri-suonerà anche stasera in piazza a Trieste nell'ambito dell'iniziativa Le vie dell'amicizia.

E proprio in onore agli amici sloveni e croati la serata si è aperta con l'esecuzione dei tre inni nazionali; e poi, prima del Requiem, dalla presentazione di due composizioni corali: Libertas animi dello sloveno Andrej Misson (2008) e Himna slobodi del croato Jakov Gotovac (1928). A dispetto degli 80 anni che le separano, non sono poi musicalmente così distanti, ancorate alla tonalità ed alle tradizioni orientali e slave.

Si racconta che Beethoven ammirasse il Requiem di Cherubini più di quello di Mozart, al quale peraltro il nostro è debitore. Nessun solista qui, ma soltanto cori, onde evitare – selon Cherubini - tentazioni melodrammatiche. Che peraltro emergono qua e là, come nel plateale colpo di tam-tam che segue la fanfara di apertura del Dies Irae, prima dell'ingresso in tremolo degli archi alti: curiosa la notazione, che lo pone sul rigo dei bassi del coro:
























O anche nei poderosi accordi di MIb maggiore che chiudono (due volte) il Tempo a cappella dell'Offertorium, precorrendo quelli (in FA) del Sanctus verdiano.

Straordinaria, a proposito dell'Offertorium, la tripla fuga sul Quam olim Abrahae, che non sfigura per nulla rispetto a quelle, colossali, del futuro Requiem brahmsiano.

Insomma, 50 minuti di grande musica, che il pubblico che gremiva il Pala De André ha ascoltato in raccoglimento davvero… religioso. Esplodendo poi in un lungo e liberatorio applauso per le legioni di coristi (200) e strumentisti (100), per i maestri dei cori e, inutile aggiungerlo, per Riccardo Muti, che con pagine come questa sembra davvero immedesimarsi spiritualmente, prima ancora che musicalmente.

E così, un Festival che era partito, ahinoi, con la pesante tegola della forzata defezione di Abbado ha avuto una conclusione trionfale.

07 luglio, 2010

Muti libera la Betulia a Ravenna

La Betulia liberata di Mozart (composta su testi di Metastasio dopo una visita a Padova) è stata portata da Riccardo Muti a Ravenna, dopo il recente festival di Salzburg. E come in Austria, anche in Romagna Muti ha eseguito, come antipasto, a S.Apollinare, l'oratorio di Jommelli di pari oggetto.

L'azione sacra del quindicenne Teofilo (sono due ore e un quarto di musica) mostra già i segni del genio, a cominciare dall'Overtura in RE minore, 172 battute che non la fanno sfigurare al confronto di altre più mature e più celebri. Lo schema è quello dell'Oratorio, con recitativi ed arie che si alternano con perfetta regolarità. La prima parte dell'opera comprende 8 recitativi e arie, più il coro finale; la seconda comprende 7 recitativi e arie (incluso il coro finale).

Qua e là compaiono spunti che ritroveremo nel Mozart più maturo, come ad esempio l'incipit dell'aria-4 Pietà, se irato sei, che ci richiama da vicino quello del tempo centrale della Sinfonia Concertante per violino e viola.

Nella seconda parte abbiamo due recitativi fondamentali: il primo, semplice, all'inizio, fra Ozìa e Achior, una vera e propria tenzone filosofica fra il monoteismo del primo e il politeismo del secondo. E l'altro, accompagnato, che contiene il racconto di Giuditta, che descrive con grande realismo e particolari macabri e raccapriccianti la scena della decollazione di Oloferne:




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Certo, è ancora un Mozart piuttosto scolastico, che rispetta alla lettera le forme consolidate del suo tempo, e che ancora dovrà maturare le geniali innovazioni che ne faranno uno dei giganti della nostra civiltà musicale.

I sei della compagnia di canto, il coro Philharmonia di Walter Zeh e i ragazzi dell'Orchestra Cherubini hanno assecondato al meglio la direzione di Muti, che sappiamo avere una particolare predilezione per tutto ciò che in qualche modo si riconduce alla scuola napoletana (Mozart incontrò Jommelli poco prima di comporre la Betulia).

La decisione di proporre quest'opera in forma completamente scenica (con la regia di Marco Gandini) è assai coraggiosa, dato che le forme e i contenuti meglio si presterebbero ad una esecuzione in concerto. L'azione manca, se si esclude l'episodio dell'incontro Giuditta-Oloferne, comunque raccontato dalla protagonista (pure mostrata sulla scena della decollazione) e non vissuto in presa diretta; salvo che in alcuni recitativi, dove più personaggi dialogano fra loro, e i quattro interventi del coro, per il resto abbiamo arie cantate da un personaggio solo, che espone, per così dire, la sua visione del mondo, mentre tutti gli altri (protagonisti e coro) se ne stanno ad ascoltare, immobili o con lenti movimenti ed espressioni del volto a trasmettere i rispettivi stati d'animo.

Insomma, per quanto Gandini, con Italo Grassi (scene, molto interessanti), Gabriella Pescucci (costumi, assai appropriati) e Marco Filibeck (luci) abbiano fatto il massimo – e di ciò glie ne va dato merito – non si è potuta evitare quella staticità che è proprio congenita a questo tipo di opera, e che oltretutto si accompagna alla relativa monotonìa (per le nostre orecchie, assuefatte al Mozart posteriore) della parte musicale.

Alla fine però grande e meritato successo, con ripetute chiamate per ciascuno e per tutti, in un Alighieri gremito.

04 luglio, 2010

Giro di vite alla Fenice

No, non si tratta di un ennesimo decreto di Bondi per ripicca verso una città che ha rieletto a sindaco un esponente dell'opposizione… Ma dell'opera di Benjamin Britten: The turn of the screw, la cui ultima recita è andata in onda ieri pomeriggio.

Sulla strada per il Teatro, una interessante sosta alla Chiesa di San Maurizio Martire, dove è allestita la mostra Vivaldi e il suo tempo. Mostra – soprattutto – di strumenti musicali, a corde e a fiato, che ospita tesori della collezione di Artemio Versari, venerabile contrabbassista del Comunale di Bologna, docente ed esperto di strumenti d'epoca. Un bell'aperitivo prima di apprezzare la virtuosistica compagine cui Britten affida il sostegno della sua opera.

Bravissimi tutti gli interpreti. A cominciare dai due ragazzini, nei panni di Miles e Flora: l'undicenne Peter Shafran, che mostra un'esperienza da cantante navigato, che non ha bisogno di guardare continuamente il Direttore per prendere gli attacchi. Cosa che fa di continuo Eleanor Burke (12 anni) comunque sempre brava (poi mi è simpatica perché assomiglia in modo impressionante alla mia seconda figlia, quando aveva la sua età…)

Julie Mellor e Allison Oakes erano rispettivamente la governante Grose e miss Jessel e direi che se la sono cavata egregiamente, soprattutto la prima.

Eccellente Marlin Miller, nei ruoli del Prologo e di Quint: ha una voce da tenore più eroico che barocco (quale era Pears, dedicatario dei ruoli) ma si cala molto bene nel personaggio del peccatore-adescatore.

Su tutti Anita Watson, perfettamente a suo agio nel ruolo della protagonista-senza-nome: voce piena, potente, e grande presenza scenica.

Jeffrey Tate e i 16 professori della Fenice hanno saputo cavar fuori ogni dettaglio e ogni tesoro dalla partitura britteniana: trionfo anche per loro. Peccato che il Teatro presentasse ampi vuoti, sia in platea che nei palchi; vuoti – è un vezzo poco nobile – aumentati di numero dopo l'intervallo.

Regìa, scene e costumi erano di Pier Luigi Pizzi. Un approccio generale assai serio e conservativo: scene sobrie e funzionali (due piani verticali: sotto il soggiorno e gli ambienti di studio dei ragazzi, sopra la camera di Miles) e due diversi fondi: le finestrone sull'ingresso della casa e il bosco e il lago per le corrispondenti scene. Costumi e suppellettili allineati all'epoca del racconto di James (fine '800).

Quanto alla regìa, nessun'idea strampalata (un campione di Regietheater potrebbe, che so, trasformare i fantasmi in due personaggi di fumetti, che escono dalla play-station su cui giocano i bambini) e aderenza sostanziale all'originale, diciamo con qualche eccessiva (per me) sottolineatura in più rispetto alle esplicitazioni che già la librettista Piper e Britten avevano fatto sul testo di James.

Come ad esempio la prematura presenza dei piccoli all'apparizione di Quint alla finestra (Atto I, Scena V) che toglie un filo di drammaticità a ciò che poi accade nella Scena VIII. O anche (Atto I, Scena VI) Quint che appare proditoriamente (rispetto al libretto) a spiegarci da chi il piccolo Miles ha imparato certe filastrocche (malo, malo).

O ancora (Atto I, Scena VII) la piccola Flora che – all'apparizione di miss Jessel – invece di ignorarla (o fingere di ignorarla, come vuole il libretto) le tende la bambola con cui giocava: cosa che stride poi clamorosamente con il comportamento della piccola nella scena VII dell'Atto II, dove lei negherà sdegnosamente di vedere l'ex-istitutrice, riapparsa sul lago.

Poi anche il comportamento dei due fantasmi è piuttosto caricato (anche se ciò non stravolge il senso generale del racconto): nell'ultima scena (VIII) del primo atto, invece di presentarsi i tempi diversi (prima Quint, sulla torre, che chiama Miles che sta giù nel giardino; poi la Jessel, che dal lago chiama Flora, affacciata al balcone) i due fantasmi ex-amanti si presentano ai due piccoli insieme, anzi allacciati in atteggiamento palesemente erotico. Il che contrasta assai con la lettera – se non con lo spirito – del libretto.

Ancor più esplicito è il comportamento dei due nella prima scena del secondo atto, laddove Quint, entrando poco dopo la Jessel che gli chiede ragione della sua chiamata, le pianta subito la mano su una tetta, come se non si fosse intuito che fra i due doveva esserci stato qualcosa di piccante, quando erano in vita… E i due non sono in un chissà dove (nowhere nel libretto) bensì accomodati (si fa per dire) sulla scrivania dell'Istitutrice (dove di certo dovevano averne combinate di cotte e di crude da vivi, e magari in presenza dei fratellini).

Non solo, ma invece di scomparire, Quint e Jessel si sdraiano affiancati sulla scrivania, proprio mentre arrivano Miles e Flora che, invece di avviarsi verso la chiesa (già si odono le campane) recano un velo scuro con cui coprono i due fantasmi, depositandovi sopra le corone di alloro e di giglio che portavano in testa. Solo dopo si accodano all'Istitutrice e alla governante per recarsi in chiesa. Questa scena, di per sé gratuita, ha però due grandi pregi: il primo è di dare un valore immediato e concreto alla frase dell'Istitutrice che, rivolta alla Grose, afferma: I tell you they are not with us, but with the others, i due piccoli sono lì, ma non con loro, bensì con i fantasmi; il secondo è di natura pratica: andatosene Quint con il velo, la Jessel resta su quella scrivania, quindi già in posizione per la scena successiva, dove verrà per l'appunto sorpresa dall'Istitutrice.

Insomma, al di là di queste piccole (o meno piccole) forzature, una regìa del tutto aderente al libretto e di sicura efficacia.

Quindi non resta che fare i complimenti a tutta la squadra: questo è un esempio di come si possa ancora oggi fare del buon teatro musicale.

01 luglio, 2010

Un gratuito Faust alla Scala

La seconda recita del Faust (quinta in calendario, ma arrivata dopo tre annullamenti causa sciopero) è stata gentilmente offerta al pubblico dalla Direzione del Teatro. Che rimborserà il prezzo del biglietto, a risarcimento del danno provocato al livello artistico della rappresentazione dalle agitazioni delle maestranze, che anche ieri sera – pur non scioperando – hanno manifestato contro il decreto (anzi ormai la Legge-Bondi) presentandosi (orchestrali e coro) in abiti borghesi. Gesto – questo di Lissner - tanto squisito quanto eccessivo, datosi che il casual ai professori d'orchestra può addirittura far bene, lasciandoli più liberi nei movimenti (personalmente non avrei nulla in contrario che vestissero così anche a SantAmbrogio) e – non lo avessero annunciato nel pistolotto in apertura di spettacolo – forse nessuno si sarebbe accorto che il coro era in borghese, vista la totale improbabilità dei costumi di tutto il resto della compagnia.

Piuttosto, se un motivo per il risarcimento esiste, è da individuarsi nell'intollerabile sequela di lungaggini che ha esasperato un pubblico (assai scarso in platea e palchi, per la verità) costretto a sorbirsi 5 minuti di ritardo iniziale, cui se ne sono aggiunti almeno altrettanti per il proclama sindacale, accolto da applausi, ma anche da vivaci rimostranze (certo che il gradimento di Berlusconi fra il pubblico scaligero dev'essere un filino più basso del 68% sbandierato dal nostro PM ad ogni piè sospinto… forse è per questo che lui alla Scala non ci mette piede?) e poi addirittura 40 minuti di secondo intervallo, roba che neanche a Bayreuth! Col risultato di far abbassare l'ultimo sipario 10 minuti dopo mezzanotte, con gente che da un po' se ne andava alla spicciolata, per non perdere l'ultimo metrò.

Peccato, perché in fin dei conti questo Faust non è peggio di altre disdicevoli imprese di questa stagione scaligera. Nekrosius propone una regia piuttosto strampalata e piena di simboli ed ammiccamenti (vuoi bambineschi, vuoi ridicoli) ma con qualche spunto intelligente, e soprattutto non si sogna di inventarsi un Konzept che stravolga la sostanza dell'originale (messaggio per tali Dante e Padrissa, tanto per non far nomi, ma cognomi): insomma, ci presenta passabilmente il Faust di Barbier-Carré-Gounod, almeno nello spirito, se non proprio nella lettera. E la compagnia di canto (Kapellmeister incluso) sarà pure di livello modesto (per le pretese della Scala) ma non certo peggio di altre, anche assai più titolate, che hanno allietato le serate di questa stagione.

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Si comincia con il sipario che si alza poco dopo l'inizio dell'Introduction, mostrandoci Faust in un ambiente che presenta due vie di fuga, delimitate da strutture di legno: lui è effettivamente ad un bivio della sua esistenza: libri aperti cosparsi in giro sul pavimento, ed un grosso macigno (il fardello degli anni e della sapienza?) che il nostro cerca di spostare con gran fatica. Peccato che proprio mentre lui è curvo sotto il peso del pietrone, l'orchestra abbia ormai esaurito il suo tema cromatico e oscuro, e presenti quello dolce, in FA maggiore (quello dell'aria di Valentin) che francamente stride con ciò che lo spettatore vede. Due comparse abbigliate da rondoni (con le ali che paiono a volte delle stampelle!) si aggirano nell'ambiente (torneranno anche più avanti) forse a impersonare il destino (ma perché non sono direttamente dei corvi?)

Dopo le irruzioni di ragazze e contadini, che sviano l'attenzione di Faust dall'ampolla del veleno, arriva Méphistophélès: tutto nero come un pipistrello e con attrezzo atletico in spalla, un'asta che serve evidentemente a superare ostacoli apparentemente impossibili. Al seguito un piccolo marinaretto, che gli fa da aiutante, o da remora, tanto per movimentare la scena.

La visione di Marguerite è proposta tramite riciclaggio delle prefiche della Emma Dante, che accompagnano la ragazza (e che poi torneranno via via nel corso del dramma): un simbolo non proprio fuori posto, poiché – a differenza di Carmen – qui è già chiaro fin dall'inizio che tutta la faccenda puzza di …bruciato. Certo che la scena resta piuttosto poco poetica, a dispetto delle quattro battute con cui Gounod chiude il MI maggiore della visione, citando esplicitamente il Sogno mendelssohniano!

Méphistophélès dà a Faust il suo filtro di eterna giovinezza, e in cambio si beve il veleno destinato al professore (questa Nekrosius ce la dovrebbe spiegare). Poi, seguito dal discepolo ringiovanito e rivestito a nuovo (e dal marinaretto-remora) si avvia di rincorsa con la sua asta, a superare ogni ostacolo!

Il secondo atto inizia con la Kermesse, dove si dovrebbe vedere gente agitata e allegra. Qui appare il coro (in borghese, ma pochi se ne accorgerebbero) che resta però piuttosto fermo, lasciando a poche comparse (e alle prefiche ed altri oscuri individui, dei menagramo evidentemente) di mimare siparietti più o meno piccanti e di animare la scena. Questa sarà una costante: il coro sempre fermo, anche quando (valsons!) dovrebbe ballare il walzerone del finale d'atto. Che sia una stranezza della regia, o una forma di sciopero bianco anti-Bondi? C'è poi Wagner, con un gomitolone di spago in mano, il cui significato dovrà esser chiaro al regista e alla sua ristretta cerchia di amici.

Arriva Valentin ad esporre l'aria appositamente scritta da Gounod per un baritono inglese che si sentiva giustamente castrato, in assenza di un proprio pezzo di bravura. È accompagnato da Siébel, su cui val la pena dire un paio di cose. Ora, già ci ha pensato Gounod a prendersi gioco di lui, facendolo interpretare (en-travesti) da un soprano, ma Nekrosius mostra un accanimento degno di miglior causa, affibbiandogli una malformazione congenita, facendone insomma un povero paraplegico che zoppica in modo plateale. Roba da avanspettacolo, aggravata da altre gratuite ed offensive gag: come quella dove Méphistophélès gli infila sotto un piede una zeppa, per… chiudere il dislivello fra le due gambe!

Senza infamia né lode il resto, salvo la mancanza dell'esplicito gesto esorcizzante (le spade incrociate che tutti oppongono a Méphistophélès, e che qui si riducono a due giocattoli impugnati dal marinaretto…) Dopo il walzer che nessuno balla, con l'intermezzo dell'approccio di Faust a Marguerite, che dà modo al tenore di esibire il suo SI acuto, si chiude per il primo intervallo (solo una mezzoretta).

Il terzo atto si apre con un altro gratuito sgarbo del regista al povero Siébel, il cui cofanetto (sic!) colmo di fiori viene trafugato da Méphistophélès, insieme ad una lettera della cui presenza non v'è traccia nel libretto. Poi c'è la cavatina di Faust, col DO acuto della présence, e la presenza di Marguerite si materializza, con lei che avanza fino al proscenio portandosi dietro una sedia (Faust da parte sua ne maneggia un'altra) per poi uscirsene lateralmente (ma quanto lo pagano Nekrosius per queste trovate?)

Nella lunga scena dell'arcolaio, l'arcolaio manca, ma tanto è un dettaglio secondario. Al suo posto Marguerite gioca con una bambola (lei è davvero una bambina ingenua, non c'è che dire) e così canta i suoi recitativi che introducono la canzone del Roi de Thulé e l'aria dei gioielli, di cui la ragazza prende due enormi gocce, mentre si intravedono (ma solo dal loggione) anche montagne di perle dentro la vera e propria cassa del tesoro procurata da Méphistophélès.

La scena successiva (incontro Méphistophélès-Marthe e poi il quartetto a due coppie) si svolge non all'aperto, ma in un ambiente interno, nella casa, dove compaiono ancora prefiche varie, più che altro a distrarre l'attenzione dello spettatore. Poi il duetto fra Faust e Marguerite, introdotto dall'invocazione di Méphistophélès, in DO maggiore, che ricorda – orrore! – nientemeno che quelle di Brangäne nel secondo atto del Tristan. Marguerite, invece che alla finestra, si accomoda su una panca-divano sul proscenio per la sua esternazione, con i due che la spiano in un angolo. Poi Méphistophélès dà un bel pugno in testa a Faust (come dirgli: visto, stupidone?) e lo spedisce fra le braccia della ragazza, poi disteso per terra, accanto al divano su cui giace Marguerite (?!)

Nel quarto atto cominciano i tagli, prima vittima la scena e recitativo iniziale di Marguerite, che comincia dal Il ne revient pas! Qui si vede una piccola culla che a un certo momento viene letteralmente impalata, per poi precipitare a terra, a significarci la brutta fine che fa il piccolo di Marguerite. Altro taglio non da poco è la scena con Marguerite-Siébel e la romanza di quest'ultimo/a (Si le bonheur) per cui si passa direttamente in chiesa, dove arrivano due enormi croci nere, circondate e movimentate da prefiche, menagrami vari, rondoni e altri spiriti malignazzi, oltre al coro in borghese che canta il suo spurio dies-irae. Una scena davvero impressionante, nulla da dire.

Si torna in piazza, col famoso coro dei soldati e con Siébel che arriva zoppicando col suo immancabile cofano-pedana-sgabello, seguito dal reduce Valentin, ansioso di rivedere la sorellina. Invece arrivano Faust e Méphistophélès che, appeso alla sua asta (sorretta da un paio di prefiche) canta la sua oltraggiosa serenata, il che fa impazzire Valentin. Il successivo duello non esiste, in pratica: Valentin è sopraffatto da forze oscure e preponderanti, cade ferito e poi, come ogni eroe che si rispetti, prima di tirare definitivamente le cuoia ha ancora tempo ed energie per fare il suo pistolotto strappalacrime. Tutto come da copione.

Devastato – come prevedibile, altrimenti si finiva alle due di notte – il quinto atto. In pratica, salvo l'introduzione di Walpurgis e una piccola parte della scena del palazzo di Méphistophélès e della valle di Brocken, si passa direttamente alla prigione di Marguerite, dopo che la ragazza è apparsa a Faust in abito da sposa e in mezzo a bianchi gigli. Quindi niente Choeur des Feux Follets, niente Chant bachique. E - ci mancava pure ! – niente balletti. Faust e Méphistophélès arrivano alla prigione in carrozza chiusa, con asta sul tetto e l'immancabile seguito di marinaretto, prefiche e quant'altro.

La scenografia della prigione ribalta – intelligentemente – quella che aveva accompagnato il resto dell'opera (la doppia via di fuga, la Y, il bivio): qui abbiamo invece una V, un imbuto aperto sul proscenio e chiuso sul fondo: non ci sono e non ci devono essere alternative, né vie di fuga. Marguerite, invece del suo arcolaio, si è portata un tamburello per il punto-e-croce. Solo che – impazzita, poverina! – tiene il tamburello con due mani e manovra l'ago con i denti (grazie Nekrosius!)

Al termine del suo emozionante Anges purs, anges radieux! che sale dal SOL al LA e infine al SI, sul fondo comparirà una cosa bianca, a rappresentare evidentemente il paradiso – Christ est ressuscité, DO maggiore - concesso a Marguerite, che vi si adagia, mentre Méphistophélès cerca ancora di difendere il possesso della sua asta miracolosa.

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Come sono andate le cose sul fronte musicale?

Irina Lungu è stata per me una più che discreta Marguerite: bella voce, forse non potentissima, ma gradevole, senza urla né eccessivo vibrato. E perfettamente calata nella parte, di ragazza ingenua e fragile, facile preda e vittima di tutti i mali e pregiudizi della società. Per lei anche l'unico vero applauso a scena aperta.

A Nino Surguladze va almeno riconosciuto il merito di aver stoicamente sopportato le vessazioni del regista! Senza infamia né lode la sua prestazione, peraltro decapitata della romanza del quarto atto che è la parte forse più importante di questo ruolo.

Sylvie Brunet è stata una Marthe dignitosa, per ciò che la parte prevede. Così come dignitoso è stato Olivier Lallouette, che impersonava Wagner.

Il Valentin di Dalibor Jenis ha avuto luci ed ombre, gli darei una risicata sufficienza. Mi è piaciuto più nella scena della morte che nell'aria del secondo atto, dove mostrava carenze nelle note basse (il MIb di attacco).

Roberto Scandiuzzi mi è piuttosto piaciuto, dico la verità: un Méphistophélès abbastanza autorevole, voce che passa bene – pur se non sempre perfettamente intonata - e grande presenza scenica.

Marcello Giordani era Faust: si è beccato una contestazione, ma io tenderei a dargli una sufficienza chiara. La sua voce si è sempre sentita perfettamente, ha sparato i suoi due acuti in modo pulito, non ha commesso strafalcioni, e di questi tempi è già qualcosa.

Stéphane Denève ha diretto più che discretamente, mai soffocando le voci, neanche negli insiemi fracassoni e l'orchestra – grazie agli abiti casual? – è parsa a suo agio con le delicatezze e i languori di questo Gounod.

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Insomma, un Faust per nulla malvagio che sta – io non ho dubbi – ampiamente sopra la media del livello delle produzioni di questa stagione.

30 giugno, 2010

Shakespeare-Prokofiev alla Scala “tagliata”

Anche se il balletto non è propriamente nelle mie personali preferenze, ho deciso di fare un'eccezione per il Romeo e Giulietta in programmazione alla Scala. Ma più che altro perché è una delle rare occasioni per ascoltare l'intero corpus della musica di Sergei Prokofiev (di solito, nei concerti, si ascoltano delle brevi Suites). E ne vale davvero la pena perché si tratta forse del meglio che il novecento storico abbia saputo esprimere.

La fredda ed anche scontrosa accoglienza che i corpi di ballo riservarono a suo tempo a questa musica è la più lampante dimostrazione della sua grande valenza. Per carità, non che i balletti di Ciajkovski o Delibes siano solo musica dozzinale, da buttar via, ma Prokofiev è davvero su un altro pianeta.

L'orchestra ha risposto bene, soprattutto negli ottoni (corni in primis) che sono chiamati a passaggi di grande difficoltà. Lo yankee Kevin Rhodes ha mostrato di padroneggiare assai bene questa bellissima partitura.

Sul livello artistico della serata non mi pronuncio per incompetenza, salvo segnalare l'accoglienza più che positiva del pubblico.

All'inizio, il solito – di questi tempi – siparietto sindacale: era appena stato approvato al Senato il famigerato decreto-Bondi, di cui si è ripetuto l'epicedio. Orchestrali – solo loro, per fortuna! - in borghese. Fuori, fino a pochi minuti prima dell'inizio, un concertino di protesta di fiati filarmonici:

29 giugno, 2010

Da che nascono i Suoni graui, & da che gli acuti.















DAL Mouimento adunque nascono i Suoni & le Voci; ma perche de i mouimenti alcuni sono Equali, & alcuni Inequali; & de questi alcuni sono tardi & rari, & alcuni veloci & spessi; però è da sapere; che da i primi nascono i Suoni graui, & da i secondi gli acuti; & questo è manifesto al Senso; percioche se noi pigliaremo uno Istrumento musicale, nel quale siano tese molte chorde, & percuoteremo insieme equalmente alcune di esse, di modo che la percussione fatta all' una, non sia più forte di quella fatta all'altra; ritrouaremo nelle chorde, che danno i Suoni più graui, i Mouimenti più tardi & più rari, & più lungamente durare il lor Suono; & nelle più acute i Mouimenti più ueloci & spessi, & li Suoni più presto mancare. Conciosia che le Chorde piu lasse debolmente percuotono l'Aria, & piu dura il Suono, che nasce da loro; & questo è per la tardità de i Mouimenti; ma quelle che sono piu tirate, percuotono l'Aria gagliardamente & con prestezza, & è men durabile il Suono, che da esse procede; percioche per la uelocità de i Mouimenti cessa tanto piu presto & arriua al fine. Ogni giorno vediamo per esperienza, che la chorda piu tesa rende il Suono piu acuto; & se la tiriamo piu di quello, ch'è tirata, ritrouiamo in essa Mouimenti piu veloci; & il Suono fatto piu acuto, di quel ch'era di prima; & se la rallentiamo, i suoi Mouimenti sono piu tardi, & il Suono produtto da lei piu graue; conciosia che 'l Mouimento quanto piu è tardo, tanto piu è uicino al suo fine; cioè, al fermarsi; & il Suono quanto è più graue, tanto è piu uicino alla taciturnità. Si debbe però intender di quella Tardità, che si ritroua nel fine de i Mouimenti violenti; percioche tali Mouimenti sono per loro natura gagliardi nel principio & ueloci, nel fine poi sono deboli & tardi; essendo che à poco à poco uanno perdendo la sua uelocità. Et questa tardità si ritroua nella chorda, quando è vicina al fermarsi; conciosia che allora è piu debole & piu lassa. La onde il Mouimento di qualunque chorda percossa nel principio è ueloce, & rende molto Suono; ma à poco à poco debilitandosi il Mouimento lo và perdendo. Nascono etiandio i Suoni graui dalle chorde grosse, & dalle sottili gli acuti; percioche 'l Suono acuto non tanto nasce dalla velocità del Mouimento, quanto dalla sottigliezza della chorda, che è piu penetratiua nell'Aria. Ne ci dobbiamo imaginare, che qualunqne uolta vna Chorda sia percossa, ch'ella generi solamente un Suono; anzi bisogna esser certi, che i Suoni & le Percussioni siano molte; & che tante uolte, quante da quella è l'Aria percossa, che renda tanti Suoni differenti, secondo la uelocità, ò tardità de i Mouimenti fatti in essa chorda; & che percuoti l'Aria, fino à tanto che tal chorda tremi. E' ben uero, che le Differenze de i Suoni graui & acuti, nati dalla chorda, non sono vdibili; il che può auenire non sono dalle percussioni, che sono ueloci, & in tal maniera congiunte, che paiono à noi una sola; ma etiandio per i minimi Interualli, che si ritrouano da un Suono all'altro; de i quali l' Vdito non è capace, si per la sua picciolezza; com'anco perche sono molto congiuinti; onde l'Vdito resta ingannato nella cosa vdibile, quasi all'istesso modo, che fà il Vedere nella cosa visibile; conciosia che sè alcuno pigliarà in mano un tizzone acceso, & lo girerà velocemente à torno; parerà che nell'Aria sia un cerchio di fuoco; nondimeno secondo la uerità non sarà cosi; percioche dalla uelocità del Mouimento unito, & dalla Forma di tal figura, la quale non hà angoli, l'occhio resta ingannato. Essendo adunque i Suoni graui fatti da i Mouimenti tardi & rari, & gli acuti da i ueloci & spessi; potiamo dire, che dalla aggiuntione de i Mouimenti si facino i Suoni de graui acuti; & per il contrario dalla diminutione, de acuti graui. Di modo che essendo fatti i Suoni acuti dalla maggior parte de i Mouimenti, & i graui dalla minore; da tal differenza, che consiste in una certa pluralità, è necessario che cadino sotto il Numero; & che comparato il maggior numero loro al minore, si ritroui quella comparatione & proportione tra loro, che si ritroua tra i Numeri semplici nella quantità discreta. Et si come tali Mouimenti, comparati secondo 'l Numero, parte sono tra loro Equali, & parte Inequali; cosi ancora i Suoni sono tra loro parte Equali & parte distanti l'un dall'altro per l'Inequalità. Onde in quelli, che non sono discordanti per alcuna Inequalità, non si può trouare alcuna Consonanza; ne meno il suo opposto, ch'è la Dissonanza; conciosia che la Consonanza è concordanza de più suoni tra loro differenti & inequali, redotta in uno; & la Dissonanza è mistura di suono graue & acuto, che offende l'Vdito. Adunque si come dalle Quantità, che sono tra loro inequali, l'una comparata all'altra (nel modo che nella Prima parte vedemmo) nascono Cinque generi di proportione, detti di Maggiore inequalità; de i quali le Specie sono infinite; cosi ancora dalla comparatione de i Suoni tra loro inequali, nascono cinque generi & infinite Specie. Et benche i Suoni si ritrouino in atto nell'Aria, come nel loro proprio soggetto; & che di loro per uia del soggetto non ne possiamo hauere alcuna cognitione, ò ragione determinata; essendo che i termini loro sono incogniti à noi; tuttauia in quanto nascono da i Corpi sonori, che sono Quantità commensurabili, & si ritrouano in loro in potenza; dalla misura loro ne habbiamo perfetta cognitione; percioche i suoi termini sono conosciuti dalla diuision delle chorde, come già nella Prima parte hò detto; dalla quale noi cauiamo le Ragioni de i Suoni graui & de gli acuti, & le lor differenze; & questo secondo 'l Numero delle parti, che le misurano; dal qual Numero uenimo ad esser certi della quantità de Suoni; & non pur di essi; ma delle Voci ancora, le quali senza dubbio sono Suoni; applicando però essi suoni, che nascono da i corpi Sonori alle Voci; le quali sono prodotte da i Corpi humani.

ISTITVTIONI HARMONICHE DEL REV. M. GIOSEFFO ZARLINO DA CHIOGGIA,
Maestro di Capella della Serenissima Signoria DI VENETIA. Seconda Parte. Capitolo 11. (MDLVIII)
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24 giugno, 2010

Ma cosa ha fatto di male l’Orchestra Verdi?

Nel 2009:

- ha prodotto 265 concerti: uno per ogni giorno feriale dell'anno, comprese le… ferie!

- ha avuto più di 5.000 abbonati.

- ha gratificato con la sua musica più di 190.000 persone.

- ha incassato al botteghino (biglietti + abbonamenti) più di 1.200.000€.

- ha incassato per concerti fuori programma (soprattutto fuori sede) quasi 1.800.000€.

- ha occupato (mediamente, e solo per le attività artistiche) più di 200 persone.

Queste cifre - da sole – dovrebbero già dire qualcosa: giusto come riferimento, il più grande teatro italiano (la Scala) ha avuto, nel 2009, 500.000 spettatori e circa 10.000 abbonati. Del resto, basta che ognuno faccia riferimento a istituzioni che gli sono vicine (che so, il Teatro lirico della propria città) per rendersi conto che i numeri de laVerdi sono di assoluto rilievo.

E ancor più lo sono se si guarda nel campo delle istituzioni concertistiche. Se si escludono Santa Cecilia (che è inserita fra le Fondazioni lirico-sinfoniche, insieme ai teatri) e l'orchestra RAI (che gode per sua natura di un trattamento sui-generis) laVerdi è – e di gran lunga – al primo posto in Italia, considerando tutti gli indicatori sopra citati: eventi, spettatori, abbonati, ricavi diretti e personale artistico occupato.

E invece – e da qui la domanda del titolo – è all'ultimo posto della classifica quanto a consistenza di contributi pubblici, che sappiamo essere indispensabili per la sopravvivenza di qualunque istituzione artistica (le Fondazioni liriche hanno ricavi diretti che coprono dal 5% al 20% dei costi, al massimo – Scala - al 40%; il resto deve essere coperto da finanziamenti, pubblici o privati).

Proprio in questi giorni si discute tanto – e a ragione - dei tagli di Bondi. Ecco, laVerdi questi tagli li ha subiti quasi ininterrottamente, dalla sua fondazione (1994) ad oggi! Nel senso che: da Stato, Regione, Provincia e Comune ha ricevuto – e neanche sempre – solo qualche briciola. E solo dopo grandi sforzi e fatiche, un paio di anni fa, ottenne dal Ministero una somma una-tantum a parzialissima riparazione, per così dire, dei torti subìti.

Ma la latitanza delle pubbliche Istituzioni è poi ripresa, con pochi squarci di luce. Prima il Comune di Milano e poi la Regione Lombardia si sono convinti che laVerdi meriti almeno il trattamento di altre associazioni concertistiche, ed hanno cominciato ad erogare qualche contributo. Ma è lo Stato che ancora non fa – per così dire – il suo dovere. Dopo aver riconosciuto che laVerdi ha il buon diritto ad accedere alle risorse centrali (del FUS) per una certa cifra annua, pur al di sotto della media, ha di fatto stretto i cordoni della borsa. Il risultato è che laVerdi ha chiuso il 2009 con un passivo che è precisamente pari al mancato contributo dello Stato.

Intendiamoci: nessuno qui si lamenta per il sostegno dato all'Orchestra Sinfonica Siciliana, o a quella dei Pomeriggi Musicali, o a qualunque altra Istituzione musicale italiana, ci mancherebbe! Quei fondi ancora non bastano a coprire i loro costi di gestione, e tutte le Istituzioni, lo sappiamo, sono sempre e costantemente in rosso.

No, la cosa inspiegabile – e francamente scandalosa – è che a laVerdi venga riservato un trattamento iniquo, rispetto a quello – comunque inadeguato – riservato ad altri.

E paradossalmente, invece, è proprio laVerdi a costituire l'esempio di gestione più virtuosa, secondo i parametri posti dal tagliatore Bondi: nessuno spazio a indennità strampalate (tipo straordinari erogati per 5 minuti in più di prove); rigoroso calmiere sui cachet degli artisti ospiti (certo, a costo di rinunciare a nomi altisonanti, che però di altisonante hanno spesso solo il… cachet); flessibilità totale nell'organizzazione del lavoro (se serve, il riposo si fa al mercoledì, invece che al lunedì); iniziative di education (dei giovanissimi, ad esempio) a carico della Fondazione; trasferte in Regione, in Italia e anche all'estero, per portare musica e cultura anche dove mancano istituzioni locali.

Ne fa fede anche l'eccellente indicatore degli incassi al botteghino (biglietti + abbonamenti) che rappresentano, in un certo senso, il risultato diretto e più genuino della produzione di un'orchestra (o di un teatro) sia in termini contabili, che in termini di missione (poiché costituiscono precisamente la remunerazione che lo spettatore è disposto a riconoscere a chi gli fornisce lo spettacolo).

Se a laVerdi arrivassero contributi – proporzionalmente – come quelli che ricevono in media le altre Orchestre, laVerdi non avrebbe alcun problema finanziario e potrebbe anzi potenziare il suo intervento e i suoi servizi culturali alla collettività!

Insomma, un esempio da imitare, che in cambio viene… punito!

E però senza che la protesta contro queste evidenti ingiustizie sia mai andata a scapito del pubblico: che non è stato privato di un solo appuntamento, neanche in questo periodo di manifestazioni e scioperi più o meno selvaggi messi in atto – giustamente, per carità – in opposizione ai provvedimenti di Bondi (in realtà: di 3monti).

Conforta il fatto che i milanesi (pubblico, ma anche prestigiose istituzioni, finanziarie e non) mostrino di credere in questa realtà. Grazie all'intervento di importanti Banche, la Fondazione ha potuto acquistare l'Auditorium di Milano Fondazione Cariplo, la cui proprietà verrà nel prossimo futuro in parte ceduta al pubblico, tramite vendita di azioni della società Immobiliare Rione San Gottardo, cui è intestata la casa dell'Orchestra. Importante anche la crescita del numero dei soci: solo negli ultimi 10 mesi (da inizio settembre 2009 a giugno 2010) i soci effettivi (che sono un po' la base popolare della Fondazione, 550€ all'anno di quota) sono passati da 97 a 128, un segnale sicuramente incoraggiante.

Insomma, sarebbe tempo che le pubbliche Istituzioni (Ministero in testa) prendessero finalmente atto – dopo 16 anni! – di questa realtà importante per la collettività (non soltanto milanese) e le consentissero di operare con un minimo di serenità e di sicurezza del domani.

E il domani prossimo è ancora da record: 38 concerti (su 3 turni) nella stagione principale (con tutto Mahler e Schumann) più le diverse iniziative (Verdi Barocca, Crescendo in Musica, Stagione da Camera, ciclo Nino Rota e trasferte varie). Un'offerta difficilmente eguagliabile, e non solo in Italia!

22 giugno, 2010

Britten torna a Venezia

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Dal 25 giugno al 3 luglio La Fenice ospita un'opera moderna: The turn of the screw (Il giro di vite) di Benjamin Britten. Opera cui ha dato i natali, il lontano 14 settembre 1954, allora con l'Autore sul podio e il compagno Peter Pears a sostenere i ruoli del Prologo e del fantasma di Quint. Adesso sarà Jeffrey Tate a dirigere la smilza orchestra e Pier Luigi Pizzi ad allestire lo spettacolo.

Come altre importanti opere di Britten (ad esempio l'antecedente Peter Grimes – che tratta in modo esplicito di un caso di sfruttamento di minori da parte di un personaggio in perenne conflitto con la società - e la posteriore Death in Venice – che descrive, sempre apertamente, il rapporto morboso fra un maturo signore ed un ragazzino avvenente) anche questa trae origine da un preesistente racconto, scritto da Henry James alla fine del 1800. Si tratta di una storia di apparizioni di fantasmi, ambientata a metà del diciannovesimo secolo in una vecchia dimora di campagna nell'Essex, a est di Londra.

Ma ad attirare l'attenzione di Britten non furono certo i fantasmi, bensì una precisa componente del racconto, che rappresenta concetti particolarmente (e ossessivamente?) cari al compositore. Il primo – che emerge esplicitamente dalle pagine di James – è relativo alla manipolazione di minori (due orfani, Miles e Flora, fratello e sorella, 10 e 8 anni, nella fattispecie). Il secondo – correlato al primo, e ancor più autobiografico per Britten, ma assai più sfumato, nascosto, criptato nel racconto di James – è il sostrato omosessuale (con risvolti pedofili!) della storia, in particolare per quanto attiene il rapporto fra il piccolo Miles e il fantasma di Quint (e, in certa misura, anche fra la piccola Flora e il fantasma di miss Jessel).

Il racconto dello scrittore americano ha programmaticamente dei contorni nebulosi (l'ombra di un'ombra, come lo stesso autore ebbe a definirlo); da gran furbone qual'era, lo scrittore sapeva bene come catturare l'interesse e l'attenzione dei suoi lettori (e proporre argomenti scabrosi senza correre troppi rischi) per cui lasciò deliberatamente aperte tutte le strade dell'interpretazione della sua opera, in modo che ciascun lettore sia portato inevitabilmente ad avanzare le proprie personali ipotesi riguardo la realtà (poca) e le suggestioni (innumerevoli) che vi vengono presentate. Sono quindi del tutto accademiche, pur se interessanti, le interminabili discussioni che da più di un secolo dividono i sostenitori dell'interpretazione apparizionista e di quella psicanalitica del racconto di James. Il quale si interessava alle ricerche sui fenomeni paranormali e alle storie dei classici fantasmi che popolano vecchi manieri britannici, ma allo stesso tempo – avendo purtroppo una sorella schizofrenica – era anche portato a seguire i progressi della psicanalisi. E sotto-sotto, tanto per gradire, non era estraneo a tendenze omosessuali.

Secondo la prima corrente di pensiero, i due fratellini orfani – di cui lo zio tutore nulla vuol sapere, pur garantendogli ogni risorsa materiale - furono oggetto, in passato, di innominabili quanto presunti o ipotizzati soprusi da parte di persone ormai defunte (Quint e Jessel) che ora appaiono nella casa come fantasmi per prendersi anche le loro anime e contro i quali si batte eroicamente la nuova, giovane istitutrice dei piccoli. Peccato però che questa sia la versione dell'istitutrice medesima, che è anche l'unica campana che si ascolta nel racconto di James (il diario in 24 capitoli scritto dalla ragazza) dove peraltro nessun testimone conferma le apparizioni e dove troviamo solo una serie di circostanze sospette e di sospettose insinuazioni, di retroscena misteriosi e di misteri mai spiegati.

Per la seconda, invece, i ragazzini sono oggetto di attenzioni equivoche e morbose, comunque ossessive, proprio da parte di chi (l'istitutrice) ha assunto il compito della loro custodia ed educazione. Costei sarebbe affetta da complessi (di origine erotica, nei confronti del tutore dei ragazzi, o anche di natura esistenziale, legati all'educazione ricevuta dal padre) che le provocherebbero di conseguenza un raptus di possessività - in particolare nei confronti del piccolo Miles – che a sua volta la porterebbe ad inventarsi le figure e le apparizioni dei fantasmi – in realtà costruzioni del suo inconscio, della sua mente instabile e della sua schizoide personalità - proprio per poter manipolare e finalmente possedere i piccoli. Con la conseguenza disastrosa di essere lei stessa la causa diretta dell'ammattimento della piccola Flora prima, e poi della morte del piccolo Miles; altro che salvarli dagli spiriti maligni!

Torniamo ora a Britten e alla sua amica librettista Myfanwy Piper per domandarci quale fu il loro approccio nella stesura del libretto, e quindi della musica dell'Opera. Intanto si potrebbe a prima vista immaginare che i due fossero abbastanza indifferenti rispetto all'interpretazione (apparizionista o psicanalitica) da dare alla storia, poiché a loro premeva soprattutto una cosa: mettere in scena un soggetto dove dei bambini fossero in qualche modo manipolati (non importa da chi) e posti al centro di vicende equivoche ed inquietanti. Ciò resta comunque ed invariabilmente vero, quale che sia l'interpretazione che si dà del racconto di James; cambia solo il soggetto che minaccia la serenità dei fanciulli: da un lato i malvagi fantasmi di ignobili persone defunte a caccia di anime, dall'altro l'apparentemente (ed ossessivamente) amorevole istitutrice, vittima dei suoi complessi freudiani. O magari – terza scelta - tutti quanti insieme!

Ma a Britten importava anche e assai – senza dubbio – far emergere in modo chiaro, o meno criptico rispetto a James, gli elementi di omosessualità (e pedofilia) nascosti dentro la nebbia del racconto. E ciò richiedeva necessariamente di presentare sulla scena i protagonisti di quei rapporti e di mostrare al pubblico che quei rapporti esistevano per davvero. Ecco quindi che, con il pretesto che non si potrebbe costruire un'opera - da musicare e rappresentare in teatro - esclusivamente centrata su un unico personaggio (l'istitutrice, appunto) e sul di lei racconto, Britten e Piper poterono introdurvi anche gli altri personaggi della storia: i piccoli (Miles e Flora), la governante della casa (Mrs. Grose) ma soprattutto, e in-primis, i fantasmi di Quint e di miss Jessel. I quali in James sono esclusivamente visti o percepiti dall'istitutrice (e da nessun altro!) e non profferiscono verbo alcuno, mentre nell'opera di Britten appaiono non solo a tutti gli spettatori (oltre che all'istitutrice) ma anche ai fratellini… e soprattutto parlano (anzi cantano, come si conviene a personaggi di un'opera musicale) sia ai ragazzi, sia fra di loro.

Naturalmente la maestrìa musicale di Britten si incaricherà di stabilire tutta la fitta rete di relazioni fra i fantasmi e i piccoli, mentre sul piano visivo è l'ultima scena del primo atto il teatro scelto da Britten/Piper per renderci esplicito e inequivocabile (e non solo presunto, quindi indimostrabile, come in James) lo scabroso e malsano rapporto esistente – e preesistito – fra i quattro. Quint parla a Miles e Miles risponde; Jessel parla a Flora e Flora risponde; ed è come se riprendessero discorsi interrotti da poco tempo, fra loro esiste una scoperta complicità, non vi possono essere dubbi! E da qui tutta la nebbia di James svanisce: la prima scena del secondo atto ci mostra Quint e Jessel che si incontrano – in un luogo indeterminato, che potrebbe essere l'inconscio dell'istitutrice - e letteralmente discutono della loro situazione, del loro passato, dei loro progetti, di come catturare definitivamente le personalità dei piccoli. La Piper qui introduce il famoso verso di Yeats («The ceremony of innocence is drowned») che è in effetti il programma politico dei due fantasmi-amanti-corruttori-pedofili.

Poi – nella quinta scena – Quint istigherà Miles a rubare la lettera dell'istitutrice, pronta per essere spedita allo zio dei ragazzi, e Miles eseguirà immediatamente l'ordine. Infine, nella drammatica scena conclusiva, Quint cercherà disperatamente di convincere Miles al silenzio, a non tradire i loro segreti. E alla fine, sconfitto, ammetterà: Ah, Miles, we have failed. Proprio così: noi abbiamo fallito!

Insomma, il risvolto apparizionista del libretto fu evidentemente una scelta quasi obbligata per Britten/Piper, ma per ragioni - come dire - ideologiche prima che artistiche, e meno ancora per necessità legate all'allestimento. È però interessante rilevare come nell'opera siano presenti – anche e soprattutto nella natura dei motivi musicali – degli indizi non trascurabili di affinità, se non di complicità, fra i personaggi dei fantasmi (Quint in primo luogo) e la stessa istitutrice, indizi che fanno quindi riemergere sottilmente anche i risvolti freudiani della vicenda. È come se Britten, ancora una volta, avesse voluto mostrarsi equidistante dalle interpretazioni del racconto di James, ma non prima di aver introdotto nella sua propria opera ciò che gli premeva di più.

Bene, vedremo a Venezia come Pier Luigi Pizzi ci presenterà questa storia, che non cessa mai di affascinare. A proposito del titolo, ci sono almeno tre possibili origini: una, del tutto generica e presumibilmente estranea alla volontà di James, che deriva dall'uso che dell'espressione si faceva – e ancora si fa? - nelle carceri (il giro di vite che serviva a far parlare un testimone reticente); l'altra, presa dal prologo del racconto, dove si afferma che la storia di un fantasma che appare ad un bimbo dà un giro di vite alla drammaticità dell'evento (e quella che riguarda due bimbi, provoca due giri di vite); infine, nel capitolo XXII del racconto, la protagonista (l'istitutrice) usa il termine su di sé, nel senso di dare, con un giro di vite, ulteriore forza alla sua volontà; insomma, di darsi la carica in vista del momento tòpico della vicenda: il suo finale show-down con il piccolo Miles e il fantasma di Quint.

Sul versante musicale, Britten impostò il suo lavoro con rigide e matematiche ed anche artificiose e gratuite simmetrie: 8 scene per ciascuno dei 2 atti (più il Prologo) tutte precedute da un'introduzione orchestrale. Le 16 introduzioni propongono rispettivamente un tema e sue 15 variazioni.

Dopo il Prologo e come introduzione alla prima scena, abbiamo l'esposizione al pianoforte del tema, una serie dodecafonica, suddivisa in 3 tetracordi (ciascuno composto da due coppie di note distanziate di una quarta) che poi comparirà, variata (anche attraverso operazioni fiamminghe di inversione, retrogradazione, etc.) per altre 15 volte, precedendo come si è detto le altrettante scene dell'opera:

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È questo il solo e labile riferimento alla tecnica e alla scuola dodecafonica, cui Ben Britten rimase sempre sostanzialmente estraneo (anzi, arrivando quasi ad irriderla ed offenderla in Death in Venice) conservandosi fedele alla tradizione e introducendo al massimo qualche dissonanza nelle sue composizioni, rigorosamente ancorate alla tonalità (nello Screw abbiamo, ad esempio, il chiaro contrapporsi di LA naturale e di LA bemolle, a rappresentare ingenuamente – semplifico – il bene e il male).

Quanto all'orchestrazione, è assolutamente cameristica, con 13 soli esecutori: quintetto d'archi (2vl-vla-vc-cb) flauto (prende ottavino e contralto), oboe (prende corno inglese), clarinetto (prende clarinetto basso), fagotto e corno; poi arpa, percussioni varie e pianoforte (alternato a celesta).

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Interessanti approfondimenti sono reperibili in sul sito del Teatro, allegati al libretto dell'opera (circa 7 Mbyte pdf).

18 giugno, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 36

Chiusura davvero in grande per la stagione 2009-2010 de laVerdi. Con lo sfoggio di tutta l'impressionante potenza di fuoco di cui è capace: in un Auditorium quasi pieno (ma che si è purtroppo smagrito nell'intervallo… bah) abbiamo ascoltato un'opera – il Paulus - che da decenni non si dava in Italia, e vorrà pur dir qualcosa!

Orchestra con disposizione moderna, senza organo (che dovrebbe suonare solo in 13 dei 45 brani e spesso con pura funzione di pedale) e con controfagotto a sostituire l'antico serpente. Il venerabile Rilling – che con questo Mendelssohn bachiano è proprio a casa sua - dirige a memoria!

E a proposito di Bach, cui Mendelssohn non nascondeva affatto di ispirarsi, in questo oratorio ne aleggia proprio lo spirito, dai contenuti religiosi alle forme. Già l'Ouverture cita scopertamente – a parte la tonalità di LA, invece di MIb - il Bach della Cantata BWV-140 Wachet auf, ruft uns die Stimme:

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Questi stessi versi e note compariranno poi nel grandioso Corale N°15, in RE maggiore.

Dell'incipit del N°1, il coro che apre l'Oratorio, si ricorderà addirittura Wagner, nel principio del suo Lohengrin! (a dispetto del trattamento non propriamente urbano riservato a Mendelssohn dall'antisemita Wagner nel suo libello Das Judenthum in der Musik).

A confermare la predilezione di Mendelssohn per i temi religiosi e biblici – tipico approccio luterano - l'ultima parte dell'ultimo coro (Lobe den Herrn, meine Seele) verrà più avanti ripresa dal compositore ed inserita – diversamente musicata, a parte l'incipit - nella sua seconda sinfonia, come secondo dei 10 brani vocali della Lobgesang:

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Un bravo ai quattro solisti – il soprano Simone Schneider su tutti - e soprattutto al coro di Erina Gambarini, che ha anche fornito le due voci di basso soliste (i falsi testimoni) per il N°3 e che ha surrogato con i soprani anche la parte assegnata alle voci bianche nel N°35.

Successo pieno e calorosi applausi per tutti per questa degna chiusura di stagione.

Appuntamento il 5 settembre alla Scala per l'inizio di una nuova avventura!

17 giugno, 2010

Manfred a Torino

Ieri sera, l'ultima recita al Carignano di Manfred. Che, da sabato 19 (diretta su Radio3, ore 20) si trasferisce per altre 5 rappresentazioni al Regio.

Uno spettacolo assai interessante ed intelligente, cose non facili da raggiungere con un'opera come questa, che è né carne né pesce, si potrebbe dire. E si comprende perché la stragrande maggioranza delle (pochissime) esecuzioni avviene in forma di concerto e magari (come nel caso di Carmelo Bene) con il solo protagonista a recitare, accanto ad orchestra e coro. Insomma, trovare il giusto equilibrio fra recitato puro, recitato su sfondo musicale e cantato, e rendere lo spettacolo coinvolgente, senza inutili lungaggini o dispersioni o cadute di tensione non è propriamente una cosa facile.

Di ciò va reso onore al regista Andrea De Rosa e ai suoi collaboratori per scene, costumi e luci, oltre che a tutta la compagine musicale ed attoriale.

Due parole sul testo, nella nuova traduzione di Enzo Moscato. Giustamente, in vista dello spettacolo sceneggiato, è stato dato abbastanza spazio anche a parti – di puro recitato - che quasi sempre vengono espunte. Una di queste è la presenza del cacciatore di camosci che nell'originale di Schumann appare solo di sfuggita (poche parole nel N°4, Alpenkuhreigen) mentre nel poema di Byron occupa la scena finale della prima parte e quella iniziale della seconda. Ignorati invece – ma con piena giustificazione – i personaggi e i relativi recitati di Hermann e Manuel, che non aggiungerebbero valore e farebbero probabilmente cadere la tensione del finale.

Altri interventi rispetto al testo originale di Byron (e in parte di Schumann) riguardano i personaggi extraterreni (spiriti, maghe, parche): per evitare di disorientare uno spettatore che non conosca preventivamente e a fondo il poema di Byron, si son fatte delle semplificazioni. Mentre in Byron (nella prima scena) abbiamo sette spiriti, più una voce e in Schumann solo 4 (cantanti) e poi (nella seconda parte) abbiamo le tre parche più Nemesi e (nella terza) lo spirito di Manfred, qui abbiamo solo tre figure recitanti femminili che li impersonano tutti: nella prima parte (sulla Jungfrau) due di esse espongono alcuni versi del monologo di Manfred (rendendolo così meno pesante); nella seconda assumono le vesti delle tre Parche. Una di esse, togliendosi la bionda parrucca e rimanendo con una cuffia nera, assume poi il ruolo di Nemesi e, alla fine, quello dello spirito di Manfred.

Anche grazie alla corposità (relativa) delle parti recitate il tutto dura quasi 90 minuti, senza intervalli: una cosa del tutto sopportabile e dove l'attenzione e la tensione rimangono sempre alte.

La scena è spartana: sullo sfondo del palcoscenico è disposta l'orchestra, separata dal proscenio da un sipario semi-trasparente. Si intravede appenda durante le parti musicate, mentre resta totalmente al buio durante i recitati puri. Davanti l'orchestra, ma sempre dietro la zanzariera, un'impalcatura di tubi innocenti: vi si collocano, all'inizio, i quattro cantanti-spiriti; poi serve a rappresentare le vette della Jungfrau, accogliendovi Manfred e il cacciatore; quindi, poco più in basso, fa da baita del cacciatore medesimo, all'inizio della seconda parte; infine vi compaiono gli spiriti di Ariman, cioè …il coro di Gabbiani, per la conclusione della seconda parte.

Sul proscenio, anzi sopra la buca (vuota) dell'orchestra, un praticabile dove sta un tavolaccio sul quale giace supina (fin da quando il pubblico fa l'ingresso in sala e fino alla fine) Astarte. A significare la centralità di questa figura, che è un po' l'idée-fixe di Manfred, che crede di vederla ad ogni piè sospinto (anche nella materializzazione dello spirito - nella prima parte - e in quella della maga delle alpi - nella seconda) e il cui ricordo, con annessa colpa, accompagna ogni suo atto e parola. Il suo corpo è completamente nudo, a rappresentare, credo, il contenuto peccaminoso, la colpa e la vergogna della relazione di Manfred con la sorella. Non a caso, il corpo verrà rivestito solo alla fine, allorquando Manfred troverà pace (secondo Schumann peraltro, e non secondo Byron) sdraiandosi per morire (finalmente, dopo tanti tentativi) a fianco dell'amata, sul canto del Requiem.

Manfred e il cacciatore e poi l'abate (questi ultimi impersonati dallo stesso attore, visto che rappresentano – in opposizione a Manfred – la gente normale) scendono talvolta in platea, per dare maggior enfasi ad alcune parti dei loro recitati.

E a proposito di recitazione: Valter Malosti (che è subentrato alla francese Frédérique Loliée, originariamente destinata al ruolo en-travesti, ma che ha dato forfait da tempo, causa maternità) ci ha mostrato un Manfred genuino, dalla personalità instabile, un tipo complessato e un po' vanesio, afflitto da problemi esistenziali e da sensi di colpa, presuntuoso e megalomane, ma allo stesso tempo fragile e inquieto. Certo, un'interpretazione assi distante da quella che molti hanno ancora in mente (e che si può rivedere in parte su Youtube) di Carmelo Bene.

L'altro recitante che ha in questa edizione un ruolo importante è Marco Cavicchioli che – come detto – impersona il cacciatore e poi l'abate. Efficace la sua interpretazione, di persone normali, gioviali e senza complessi, che fa da grande contrasto con quella del protagonista. Brave le altre, Daniela Piperno, Francesca Cutolo e Milvia Marigliano, che pure hanno parti importanti, anche se quantitativamente limitate.

Paola Caterina D'Arienzo è Astarte: la sua fatica più grande è stare per 100 minuti svestita e sdraiata su un duro pancone (salvo i pochi momenti in cui Manfred la solleva, e le poche sillabe che deve pronunciare durante la sua apparizione). Insomma, lei interpreta un simbolo, più che una persona.

Sul fronte musicale, direi che Gianandrea Noseda (da suo concittadino non posso che tifare per lui!) e Roberto Gabbiani con il suo coro (e i bassi e baritoni che cantano la maledizione) oltre agli spiriti solisti (Daniela Pini, Cristina Barbieri, Matthias Stier e Andrea Papi) hanno fatto del loro meglio per farci apprezzare quest'opera, che non sarà un capolavoro assoluto, ma che non merita neanche il mezzo oblìo in cui è caduta.

Alla fine, quasi 10 minuti di applausi continuati – e più che meritati - hanno accolto interpreti e direttori.
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