affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

19 maggio, 2010

A Bologna una Carmen havanera


Ieri a Bologna la Carmen con il secondo (?) cast. In realtà la parte del protagonista, come annunciato a inizio-recita, resta sulle spalle del titolare Andrew Richard, invece che su quelle della riserva Raffaele Sepe.
Allestimento proveniente dall'est (Lituania) regìa di Andreys Žagars e ambientazione a Cuba, come lascia intendere da subito il pre-sipario dipinto con gli inconfondibili colori della bandiera di quel Paese. Visto che, a proposito della recente Carmen scaligera, Barenboim aveva richiamato un triangolo (Spagna-Africa-Cuba) viene spontaneo fare della dietrologia e immaginare qui un triangolo rosso: Riga-Bologna-Havana... ai tempi di Brezhnev (?)
Vedremo poi – sembra incredibile – come questa paradossale ambientazione sia assai meno deformante, rispetto all'originale, di quella pretenziosa, cervellotica e incompetente che ci è stata di recente propinata da sua maestà il Teatro alla Scala. E sarei pronto a scommettere che sia costata una piccola frazione del capitale speso da Lissner, fornendo nel complesso un risultato migliore: secondo i sedicenti parametri virtuosi di Bondi, a Bologna dovrebbero andare in proporzione il doppio dei fondi che a Milano! Altra nota positiva: la partecipazione del pubblico. Il Comunale di Bologna sarà pure un teatrino, ma ieri sera era praticamente colmo, proprio come se il pubblico volesse stringersi attorno a chi quel teatro fa vivere per fargli sentire il suo sostegno, in tempi assai grami.
Allora, a Cuba! La manifattura, sullo sfondo, con un gran lider-maximo imbracciante un mitra dipinto sulla facciata, ornata di scritta patriottica (cadente); volantini che scendono con slogan inneggianti il socialismo, gente abbigliata di conseguenza ed anche qualche filo spinato a ricordarci che non è tutto oro ciò che luccica. Micaëla arriva in bicicletta e José, invece che alla sua spilletta, è indaffarato attorno ad un antidiluviano sidecar militare made-in-DDR. Nel secondo atto saremo al Bar-Sevilla (per ricordarci qualcosa?) con foto del Che in bella vista. Nel terzo vedremo in scena un catorcio tipo Buick degli anni di Batista che servirà da mezzo di locomozione (e da alcova, vero Dancaïre?) ai contrabbandieri (e saremo sul molo dell'Avana, invece che sui monti andalusi). Nel quarto atto saremo fuori da un malandato impianto sportivo del regime, dove Escamillo (che è un pugile, datosi che a Cuba la corrida è da tempo proibita, mentre la boxe è sport nazionale) si prepara a trionfare sul ring.
Orbene, se si esclude la bizzarrìa di questa ambientazione, per il resto la regìa è quanto di più rispettoso si possa immaginare dello spirito dell'opera (libretto e musica). A partire dalla scena iniziale, illuminatissima e ben rappresentante l'atmosfera descritta da Meilhac-Halévy e splendidamente musicata da Bizet: una piazza dove regna una sana e ordinaria confusione. La taverna di Pastia del secondo atto è precisamente un bar piuttosto popolare, dove troviamo allegria e gioia di vivere, frammisti ai traffici piuttosto loschi del Dancaïre e soci.
I personaggi si muovono in modo naturale, senza eccessiva affettazione, se si esclude forse la Micaëla, qui presentata all'inizio come un poco sbarazzina e un poco stupidella (ma sempre meglio che bigotta o santarellina) che però si riscatta nel drammatico intervento nel terzo atto. Carmen ha quella giusta dose di volgarità che si addice ad una gitana (che non è certo una professionista di flamenco) e quell'ostinazione viscerale e fatalistica che la portano alla rovina. Ben centrato anche José, un ragazzo apparentemente maturo, che invece passa dall'iniziale serenità dei buoni propostiti alla totale catastrofe determinata dalla sua infatuazione per la gitana. Escamillo è sì un tipo spavaldo, ma che mai eccede in gratuite spacconerie. Gli altri personaggi sono ben calati nei rispettivi ruoli.
Ecco, in definitiva, una regìa affatto propensa ad interpretazioni cervellotiche (Cuba a parte); né ad introdurre elementi estranei all'originale. Insomma, ci presenta (quasi) esattamente ciò che leggiamo sul libretto! Capìta l'antifona, cari Dante&Peduzzi?
La prestazione musicale mi è parsa di livello più che dignitoso. La versione impiegata era quella di Oeser, quindi non la più moderna, ma pur sempre materia prima originale e non adulterata (tipo Guiraud, per intenderci). Recitativi peraltro decimati, forse più del solito, cosa tale da far perdere il senso dell'azione, in un paio di momenti, a chi non ha perfettamente in testa la vicenda. Sul fronte delle note, oltre all'iniziale pantomime, che ormai sembra essere considerata come un refuso, altri tagli più o meno giustificati, come la prima strofa - quella che si sente da lontanissimo - dell'arrivo di José nel secondo atto, con annesso recitativo. E a proposito di Mariotti, per me si merita comunque un bel 7+ per la cura con cui ha sempre condotto l'orchestra in funzione del canto; il modo poi con cui ha affrontato alcuni particolari, oltre che i quattro preludi, testimonia di una grande sensibilità e profondità di lettura. Efficacissimo il suo crescendo nella chanson bohème, dove Bizet prescrive un metronomo accelerante da 100 semiminime (andantino) a 108 (sul primo tra-la-la-la) poi a 126 (animato, sul secondo tra-la-la-la) quindi a 138 (plus vite) e infine a 152 (presto) per l'orgiastica conclusione. Insomma, un Kapellmeister che – a 31 anni – promette assai bene. L'orchestra lo ha seguito benissimo, in specie gli strumentini, che hanno parti fondamentali in quest'opera (perdoneremo un paio di stecchine degli ottoni).
Carmen era Nora Sarouzian (che a dispetto del nome orientaleggiante è franco-canadese): già sentita qui nella Salome, in una parte minore ma non banale (il Paggio) ha mostrato una voce assai potente, anche se come Carmen dovrà ancora crescere (ma avrà occasione di farlo con i suoi prossimi impegni) in specie nell'espressività, oggi ancora così-così, oltre che nella precisione di certi attacchi, dove è parsa talvolta un po' calante.
José, come detto, ancora il titolare Andrew Richards. Voce stentorea, da tenore eroico-verista, che lascia un po' a desiderare nei difficili passaggi del duetto con Micaëla, mentre pare più sicuro ed efficace nei momenti più drammatici. Una prestazione comunque da apprezzare.
Escamillo era il bulgaro Deyan Vatchkov. Fisico e presenza davvero notevoli, gli perdoneremo la pronuncia non impeccabile (vedi toreiador…) a fronte di una prestazione di tutto rispetto. Migliorabile, soprattutto nei suoni alti, un po' forzati, ma insomma, non canta tanto peggio di gente che si vede sulle copertine patinate di riviste glamour!
La Micaëla di Beatriz Diaz è stata, come detto, forse troppo caricaturata dal regista (nel primo atto). Vocalmente se l'è cavata in modo dignitoso, sia nel duetto del primo atto, ma soprattutto nella sua esternazione del terzo.
Frasquita e Mercedes (Anna Marìa Sarra e Giuseppina Bridelli) hanno assolto bene il loro compito: negli interventi del secondo atto e – soprattutto – nella scena delle carte del terzo (dove compare, sui parlez-parlez, una citazione - involontaria? - delle Allegre comari di Nicolai).
Efficaci, vocalmente e senicamente, Mattia Campetti e Antonio Feltraccio nei ruoli del Dancaïre e del Remendado. Bravi, insieme alle tre gitane, nel difficile concertato del secondo atto. Come pure Alexey Yakimov (Zuniga) e Benjamin Werth (Morales) che hanno parti secondarie, ma per nulla irrilevanti.
Bravissimi i piccoli del coro di Silvia Rossi nei due difficili interventi (primo e quarto atto) e sempre all'altezza i grandi di Paolo Vero.
Applausi a scena aperta dopo le principali arie, e gran trionfo per tutti alla fine, col palco invaso anche dagli orchestrali e sul quale è sceso, e da tutti additato, l'articolo della nostra Costituzione che reclama più rispetto da Bondi&C.

17 maggio, 2010

Il Ratto secondo Mehta al Maggio

Ieri pomeriggio al Maggio la seconda di Die Entführung aus dem Serail.

La prima considerazione che viene spontanea riguarda la partecipazione di pubblico. Ahinoi tale da dar ragione, ancora una volta, a chi sostiene che il teatro musicale sia ormai ridotto ad hobby elitario e come tale da finanziarsi privatamente da parte di quella élite e non impiegando fondi pubblici: nonostante tutta l'attenzione e la pubblicità che in queste settimane è stata data al problema – decreto-Bondi e scioperi-anti-Bondi – il Comunale presentava ampi spazi vuoti; ed anche per le due restanti rappresentazioni (19 e 21 maggio) sono tuttora disponibili in internet parecchie decine di posti. Insomma, uno dei capolavori assoluti della musica, rappresentato in una città che ha una millenaria cultura e una tradizione invidiabile (giustamente si vanta di aver inventato il moderno teatro musicale) non riesce ad attirare 8.000 persone in 4 giornate. Erano molti di più gli interisti che nel solo pomeriggio di ieri hanno invaso Siena.

Note del tutto positive, invece, sul fronte artistico: una performance di alto livello, sotto tutti i punti di vista. Si tratta di una ripresa della produzione del 2002, diretta da Zubin Mehta e con la regìa di Eike Gramms. E al proposto, dirò che si tratta di una regìa assolutamente tradizionale, intendendosi con ciò l'assenza di qualunque velleitaria ed intellettualoide proposizione di un Konzept, dal regista immaginato - o inventato di sana pianta – a partire dall'originale.

Che nel Ratto si rappresenti una civiltà (orientale-islamica, più o meno travisata) è certamente vero. Come è vero che l'opera abbia una sua morale, laddove si irride a tutti i mamma-li-turchi di questo mondo, mostrando un Pascià magnanimo e riducendo a caricatura il cattivone integralista Osmin. Ma trarre da ciò conclusioni politiche sarebbe del tutto arbitrario (ma c'è chi arbitrariamente lo fa). Fare insinuazioni sull'irreprensibilità delle due ragazze occidentali è lecito (i sospetti li hanno gli stessi loro fidanzati) ma da qui a presentarle come sgualdrinelle (come si è già visto) ce ne corre parecchio.

Insomma, questa regìa si limita – ed è un suo merito – a presentarci ciò che Mozart e i suoi librettisti ci hanno tramandato: poi ciascuno di noi può trovare da sé mille spunti di riflessione, che vanno dal piano morale a quello politico, da quello sessuale a quello psicanalitico; e divertirsi a scovare, nel libretto e nella partitura, riferimenti più o meno plausibili.

Sul fronte musicale, note generalmente positive. Tagliati buona parte dei parlati, come consuetudine, ma ciò che è rimasto era sufficiente alla comprensione della trama. Zubin Mehta, che ha un'antica consuetudine con il Ratto, ha conservato il suo approccio settecentesco: orchestra con organico cameristico (oggi ci fanno sorridere le lamentazioni di Mozart, che non trovava carta musicale con abbastanza righi per le sue turcherìe…) e suono sempre dosato sapientemente, anche nei fracassi che accompagnano i Giannizzeri (dove ai piccoli timpani, ai tamburi, triangolo e piatti si è aggiunto un curioso strumento turco, due mezzelune con campanellini appesi poste in cima ad una lunga asta, battuta per terra dallo strumentista). Mai l'orchestra ha oscurato le voci, né ha ecceduto in facili enfasi. Encomio speciale per i due corni, davvero impeccabili.

Ingrid Kaiserfeld è stata una Konstanze più che discreta (fisico a parte, smile!) che ha superato bene le impervie difficoltà della parte. Jörg Schneider è un tenorino ben adatto al ruolo di Belmonte. E il suo fisico proporzionato a quello della fidanzata (ri-smile!) Un poco debole sulle note basse la Chen Reiss (Blonde) e molto efficace il Pedrillo di Kevin Conners, voce chiara ma robusta e recitazione davvero notevole. Maurizio Muraro è stato un Osmin eccellente, voce potente anche nelle frequenti escursioni sotto il rigo in chiave di basso cui Mozart lo chiama e ottima presenza scenica. Per tutti applausi a scena aperta dopo le arie principali e dopo i concertati.

Una doverosa menzione anche per il parlante Karl-Heinz Macek, perfetto nella parte di Bassa Selim. Ottimo il coro di Piero Monti, con i quattro solisti in evidenza.

Alla fine gran trionfo e ripetute chiamate, singole e di gruppo. Una bella festa, che francamente molti si sono persa (ma possono ancora rimediare mercoledi e venerdi).

07 maggio, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 30

Ancora Wayne Marshall sul podio de laVerdi – krumiri! obietterà qualcuno (non io, che in due giorni mi son visto scippare un Simone e una Frau) - in un programma davvero tosto.

Si comincia con Il lago incantato di Anatoly Konstantinovich Liadov, uno più o meno contemporaneo di Mahler, tanto per orizzontarsi. In effetti la composizione è del 1909, quando Mahler stava completando Das Lied von der Erde. Si tratta di un breve schizzo (sottotitolato leggenda, in RE bemolle) dove archi, arpa e celesta, con leggeri interventi degli strumentini, la fanno da padroni, per descriverci la pace notturna del laghetto ghiacciato. Il massimo rischio che si corre qui è quello di appisolarsi, e anche Marshall, pur con la sua proverbiale verve, può ben poco. Tutto finisce però in 8 minuti, compresi 30 secondi di silenzio finale, ottenuto dal Direttore che tiene le braccia alzate per un'eternità, neanche fosse la nona di Mahler…

Rischio del tutto scongiurato invece da Alban Gerhardt, che ci suona il celeberrimo Concerto per violoncello di Dvorak.


.


Marshall, al suo solito, parte in quarta, poi si placa un pochino. Gerhardt ci fa sentire il suo violoncello con grandi cavate e – specie nel secondo movimento – dà spettacolo. Poi, dopo due bis con cui ringrazia i ripetuti applausi, non contento ancora e non ancora stanco di suonare, si va a sedere a fianco di Mario Grigolato e dà il suo contributo al brano che chiude il concerto.

Che è lo stravinskiano Uccello di Fuoco. Per la verità in origine era stata programmata la versione integrale del balletto, per ricordarne il centenario della composizione (1910). Ma poi si è ripiegato sulla più tradizionale – e breve – seconda suite del 1919, che richiede anche un organico meno ipertrofico di quello del balletto.

Questa suite comprende 5 dei 23 numeri del balletto, più l'Introduzione, e precisamente:

n°3. Danza dell'Uccello di fuoco;

n°9. Danza-rondò delle Principesse;

n°18. Danza infernale delle creature di Kastchei (costui è una sorta di Klingsor! e farà la stessa fine);

n°19. Ninna-nanna;

n°23. Scomparsa del palazzo di Kastchei e delle sue creature magiche e ritorno alla vita dei cavalieri pietrificati, allegrezza generale.

I brani si susseguono con alternanza quasi regolare di tempi lenti e mossi. Bizzarra e pretenziosa la tonalità dell'Introduzione: sette bemolli in chiave (neanche fosse il Götterdämmerung!) DO bemolle, che enarmonicamente si trasformerà alla fine in SI.

La danza dell'Uccello di fuoco è in FA#, tempo Allegro rapace (smile! a Stravinski non faceva difetto lo humor, evidentemente, ma mi dite come fa uno strumentista a suonare rapace?)

La danza delle Principesse è in SI maggiore, con il languido recitativo dell'oboe:





che fa da sostegno al rondò, cui rispondono gli archi prima e i flauti poi.

Torna l'Allegro, qui feroce (3/4) per la danza infernale, caratterizzata nella prima parte da sette schianti che si inframmezzano alle sarabande dei fiati e alle sparate di corno, trombone e trombe; poi si interpone una sezione in 2/4, con le trombe a dettare un ostinato ritmo anapestico (doppia semicroma + croma); ancora una successione di passaggi in 3/4 e 2/4 che porta la danza ad un autentico parossismo, cui segue una caduta proprio da spossamento, che porta alla successiva…

Ninna-nanna, un Andante in MI bemolle minore che, invece di condurre (come nel balletto) al provvisorio risveglio del mago Kastchei, porta direttamente alle 16 battute di misterioso e notturno tremolo (flautando) di tutti gli archi, che prelude al finale. La cui apoteosi, dopo l'esposizione del tema Lento e maestoso (3/2) si apre con la perorazione, in 7/4, degli ottoni:















Che, dopo un passaggio a velocità dimezzata (Maestoso) sfocerà nelle otto battute finali (in 3/2, fff, molto pesante) con tutti gli archi in tremolo a tenere l'accordo di SI maggiore, mentre i fiati percorrono smaglianti accordi su un arco (DO-DO#-FA-DO#-DO) prima di confluire sulla tonalità della chiusa. Qui, prima delle ultime tre battute dell'accordo finale, Marshall si inventa una corona puntata, cosa tanto proditoria quanto di effetto supremo, che strappa ovazioni e grida quasi sconsiderate dal pubblico, testimone di una prestazione davvero maiuscola!

Il prossimo concerto presenterà un piccolo Schubert e il bartokiano Barbablu!.

06 maggio, 2010

Aspettando che inizi il Ring alla Scala

Una interessante conferenza del professor Franco Serpa – nell'ambito dell'iniziativa Prima delle Prime – ha introdotto il tema del Ring, il cui nuovo ciclo (2010-2013) prenderà inizio – scioperi/Bondi permettendo – il 13 maggio alla Scala con Das Rheingold.

Serpa è uno dei nostri massimi esperti wagneriani (e non solo). Può ben vantarsi di aver assistito, nel lontano 1950, al primo ciclo nibelungico in lingua originale, quello di sua-denazificata-maestà Wilhelm Furtwängler, prodotto dalla Scala. Prima di parlarci del Rheingold ha ricapitolato la genesi del Ring all'interno della parabola esistenziale ed artistica di Wagner e nella prospettiva storica e della civiltà europea di metà '800. Io conservo ancora, come una reliquia, il suo saggio sul Ring comparso più di 20 anni fa sulla mai abbastanza rimpianta rivista Musica&Dossier, scritto che ha non poco contribuito a spingermi a studiare, oltre che ascoltare, questa che è da considerare la più straordinaria realizzazione dell'ingegno umano nel campo musicale.

Se posso permettermi un modesto appunto alla sua presentazione del Rheingold – è sempre eccitante, perché temerario, prendersi lo sfizio di muovere un appunto ad un accademico di S.Cecilia! – questo riguarda la luce in cui Serpa ha inquadrato il personaggio chiave (quello che dà il nome all'intero ciclo): Alberich. Che dal professore è stato definito come l'incarnazione del male, un essere congenitamente malvagio. Ecco, qui io mi permetto di dissentire: Alberich diventa malvagio, questo certamente, ma solo dopo che gli è stato fatto un torto (da tre stupidelle note come Le Figlie del Reno) anzi il più gran torto che si possa fare ad un essere vivente, negargli l'amore. Ed è precisamente la prospettiva disperante di dover vivere senza amore - Erzwäng' ich nicht Liebe… - che convince il nano, perso per perso, a maledirlo e ad impossessarsi dell'oro - doch listig erzwäng' ich mir Lust? - con tutto ciò che ne consegue.

___
Sistemato (smile!) Serpa, veniamo ad un protagonista chiave della rappresentazione: il regista. Guy Cassiers – con qualche anno in più sulle spalle – sembra ripetere l'esperienza che nel 1976 fece tale Patrice Chéreau (allora trentenne): essendo grande esperto di teatro di prosa, ma poco o nulla conoscendo di teatro musicale e di Wagner e di Ring in particolare, viene chiamato alla messa in scena di un'edizione importante (Bayreuth mi perdonerà l'affronto, se lo paragono alla Scala) dell'Anello. Peraltro Cassiers ha il vantaggio non indifferente di arrivare dopo mille esperienze fatte da altri; essendo – fino a prova contraria – intelligente è da sperare che da esse prenda il grano e butti il loglio, non viceversa!

In web sono disponibili alcuni documenti che testimoniano dell'approccio generale e della preparazione di questo Rheingold. Qui una serie di filmati, girati nelle ultime settimane. Due di questi (1-4) sono – con traduzione italiana - pubblicati sul sito del Teatro. Qui invece (è un pdf di 5Mega, attenzione!) un documento (in tedesco) con alcune considerazioni, diciamo così, filosofiche del nostro. Si può fare qualche illazione, qualche considerazione di prima mano? Vediamo un po'.

Dalla stessa locandina del Teatro, dai vari filmati, e dalle dichiarazioni del regista che li accompagnano si evince, intanto, un aspetto non proprio marginale: la presenza di una coreografia, quindi l'impiego di danzatori ad accompagnare alcune scene del dramma. Come giustificano Cassiers (filmato n°5) e un suo coreografo (filmato n°3) questa scelta piuttosto azzardata? Con la volontà di meglio chiarire allo spettatore ciò che si nasconde nella personalità dei vari protagonisti, spiegandone i reconditi segreti attraverso il movimento di danzatori. È legittimo sollevare seri dubbi su questa trovata? Per me purtroppo sì. Perché? Ma perché in Wagner, e nel Ring in particolare, quel compito che Cassiers intende affidare ai danzatori è invece affidato – e in modo insuperabile – alla musica! È ascoltando questa, i leit-motive che ne emanano, che noi comprendiamo, ricordiamo, anticipiamo fatti, cogliamo sentimenti, sensazioni, collegamenti e relazioni. Quei danzatori, invece, non finiranno per caso per distrarre la nostra attenzione proprio da ciò che è più importante e prezioso?

Quanto all'impostazione concettuale, da ciò che si vede e legge in alcuni spezzoni dei filmati e nel documento pubblicato sul sito della Staatsoper, sembrerebbe di evincere l'intendimento di Cassiers di presentarci – a partire dal Rheingold – un Ring con forte carattere attualizzante, per così dire. Così fanno pensare i riferimenti ai moderni processi di globalizzazione, alla spersonalizzazione delle relazioni, agli egoismi regionali ed etnici, alla ricerca di spazi virtuali in cui rifugiarci, all'affidarsi a capipopolo, alla speranza in improbabili redentori… tutte manifestazioni della nostra attuale (in)civiltà. Ora, che nel Ring si possa trovare tutto ciò è quasi pacifico… tutto sta a vedere però quale strada deciderà di percorrere il regista: ci vorrà mostrare, attraverso riferimenti all'attualità, i caratteri universali del Ring o al contrario – speriamo di no – deriverà, da quei caratteri universali, dei particolari legati alla nostra attualità? In altri termini, userà il particolare per rappresentarci l'universale, oppure ci farà perdere quest'ultimo, mostrandocene una minima, parziale e soggettiva materializzazione?

Sul fronte musicale abbiamo pochi indizi. Uno è del tutto tranquillizzante (o almeno dovrebbe): si chiama Daniel Barenboim. Pochi come lui conoscono il Ring fin nei minimi dettagli e possiamo sperare che ripeta la prestazione del Tristan di un paio d'anni fa. Se devo manifestare un po' di sorpresa dall'ascolto degli spezzoni di musica che sentiamo nei filmati, questa riguarda (video n°2) il tempo che Barenboim fa prendere a Fricka-Kammerloher per la frase Um des Gatten Treue besorgt. Una cosa insopportabilmente lenta! Spero proprio che sia solo l'effetto-prima-prova. Bella sonorità e gran portamento invece nel Folge mir, Frau di Pape, proprio all'inizio dello stesso video.

___

Oggi pomeriggio, come mobilitazione anti-Bondi, una specie di lodevole sciopero-alla-rovescia, una prova aperta al pubblico. Divisa in due: alle 14 le prime due scene e alle 19 le altre due. Ho seguito la prima parte (adesso vado in Auditorium per laVerdi). Che dire?

Qualcosa dell'orchestra, che mi è parsa ben messa, soprattutto nella sezione ottoni, che sappiamo essere allo stesso tempo il suo tallone d'achille e la punta di diamante di Wagner. Barenboim ha fatto ripetere più volte l'incipit degli otto corni, ma insomma direi che come partenza non c'è male. Sui cantanti non esprimo alcun giudizio, chè immagino non si impegnino al massimo nemmeno ad una generale, figuriamoci ad una prima prova d'insieme.

Su regìa, scene e costumi invece penso si possa non dico giudicare, ma almeno riferire (ripeto: prime due scene!) Innanzitutto la regìa è di quelle che non fanno danni, quindi nemmeno suscitano entusiasmi (oggi spesso i secondi si accompagnano ai primi). Figlie del Reno in nero lungo, scalze a sguazzare in una bassa piscinetta (recuperata per caso dal Tannhäuser?) e Alberich con abito anonimo, ma con stivali per non bagnarsi troppo. Gratuite ed eccessive le moine delle ninfe, ma nulla di grave. Fondale con immagine marina più che fluviale, con acqua appena increspata (Wagner scrive che si deve vedere il Reno muoversi da destra a sinistra, figuriamoci!) Poi appare una lama di luce e il fondo si indora, ma non troppo, prima di rabbuiarsi dopo l'impresa di Alberich. Un paio di telecamere pendono dall'alto e ogni tanto qualche personaggio vi si avvicina e il suo primo piano è proiettato sul fondo (?!?)

Nella transizione compaiono i danzatori, che accompagnano la salita all'Olimpo con movenze francamente mediocri. Nella seconda scena, fondo fermo fin quasi alla fine, un ambiente a metà fra Cappadocia e Colorado; poi si zooma su una cosa che dovrebbe richiamare la wagneriana gola sulfurea, ma sembra un calanco e basta. Personaggi quasi sempre impalati, tranne Loge, che si muove e contorce come si addice alla sua stramba personalità. A che serva un mimo-ballerino che a sua volta lo scimmiotta, lo sapranno soltanto regista e coreografo. Così come abbastanza cervellotiche sono le silhouette proiettate sullo sfondo. Sospiro di sollievo nel sentire che il tempo di Fricka (Um des Gatten Treue besorgt) non è assolutamente quello del filmato.

Non è colpa sua, ma Youn nella parte di un gigante (Fasolt) è proprio una presa in giro: meno male che ha una voce strepitosa a dir poco! Il suo fratellone Fafner è letteralmente il doppio di lui (per questo non faticherà a farlo secco alla fine, smile!) I personaggi entrano ed escono sempre salendo e scendendo dal/al piano di sotto. Plausibile per la fuga di giganti e Freia, come per la discesa finale di Wotan-Loge. Gratuito per gli ingressi: a che servono le quinte laterali? Dopo la perdita di Freia, l'invecchiamento degli dèi è simulato da accasciamenti e dall'intervento di mimi-danzatori che si aggiungono al mucchio. Mah!

Un'ultima notazione sui costumi. Fricka e Freia (ma sono solo sorelle o anche gemelle?) son vestite identiche. Wotan (con lancia di ordinanza) in giacca e jeans, come Loge. Fasolt in jeans e Fafner in smoking (si deve capire subito che sarà lui a godersela, alla fine). Froh anche lui in casual e Donner senza martello ma con l'impermeabile: sì perché lui è il dio del tuono (smile!)

Ecco, è tutto qui: nessuna particolare ambientazione, né moderna, né vichinga… Si intravede alla fine della prova – Barenboim ci fa sentire per ben tre volte le 18 incudini - un po' della terza scena, dove probabilmente compare molta tecnologia, in onore alla produttività nibelungica, ma vedremo.

___
Ultima informazione: venerdi 7, ore 21, sul Canale 5 FD, la RAI trasmette proprio un Rheingold diretto da Barenboim: è una registrazione dal vivo del 1991 a Bayreuth (pubblicata in CD da Teldec).

04 maggio, 2010

Niente Boccanegra alla Scala

Essendo saltata la recita di questa sera ed esauriti da tempo i posti per l'ultima, invece della mia modesta cronaca farò un paio di considerazioni, come dire, ambientali.

La prima è francamente di costume, e riguarda le contestazioni, a chiunque rivolte. Dalle numerose reazioni che si possono leggere sui vari blog, si deduce che i buuh emessi da chi scrive – chiunque egli/ella sia - sono sempre giustificati, ineccepibili, meritati, doverosi, spontanei e disinteressati: stavolta son toccati a Barenboim, peggio per lui, se li è voluti. Invece i buuh emessi – in altre occasioni, vedi al Gatti di SantAmbrogio-08 - da altri spettatori, sono sempre e matematicamente dovuti a prevenzione, pregiudizio, complotto, sabotaggio e malafede. Ecco, allo stadio e al bar-sport tale Aristotele è molto, ma molto più di casa!

La seconda riguarda nello specifico il Kapellmeister Daniel Barenboim. Si leggono al proposito sofismi di questo tipo. Datosi che:

a. Barenboim conosce solo Wagner e con costui si identifica… e che:

b. Verdi e Wagner sono separati da una distanza stellare… ne consegue automaticamente che:
c. Barenboim si trova a distanza stellare da Verdi, e quindi non può che dirigerlo in modo schifoso.

Peccato che i presupposti a. e b. siano – come minimo - assai difficilmente dimostrabili, quando non apertamente e palesemente falsi. Ergo non può che essere contestabile la conclusione c.

Personalmente io trovo invece che la dimestichezza di Barenboim con Wagner possa essere di grande utilità nell'affrontare questo Verdi. Che non per nulla fu da molti biasimato, ma da altri apprezzato, per aver cominciato a recepire taluni concetti e princìpi del musikdrama del crucco. A proposito del quale sarà il caso di ricordare che mise in pratica, in modo totale e insuperabile, proprio quel recitar cantando - di italica invenzione sul triangolo Firenze-Mantova-Venezia - che invece si era poi andato corrompendo e trasformando in scimmiottar gorgheggiando.

___

Una nota anche sugli scioperi, conseguenti alla firma del Presidente, conseguente alla presentazione del Decreto Bondi.

Prima considerazione: abbiamo assistito ancora una volta ad una manfrina all'italiana. Eravamo abituati a quelle del SantAmbrogio scaligero: minaccia di scioperi, poi due finte pacche sulle spalle per mandare in onda la prima e quindi regolari scioperi alla seconda e alla terza, magari intervallati da un regolare concerto della "autonoma" Filarmonica.

Stavolta c'era di mezzo la prima del Maggio, con la Loren già scomodatasi, figuriamoci! E così il compaesano della diva si è prestato al giochetto: rimanda la firma di un paio di giorni, e il Maggio può aprire in gloria, per chiudere subito dopo e – pare – ad oltranza! Spiace davvero che il Presidente, quello buono, si sia abbassato a tanto.

Quanto al Decreto in sé, di certo non fa della beneficenza a nessuno. Parliamoci chiaro: come già per la riforma della scuola della neo-mammina Gelmini, questo è un provvedimento che serve principalmente ed immediatamente a tagliare, quindi non è tanto di responsabilità di Bondi, quanto di Tremonti, che deve avere una paura blu di far la fine della Grecia e – non potendo/volendo prendersela con i suoi amici evasori e mentre l'avanzo primario è diventato, grazie al Governo di cui fa parte, un bel ricordo - cerca tutti gli espedienti per raccattare qualche spicciolo, inventandosi scudi, tagli ed altre simili piacevolezze.

Seconda considerazione: se il Presidente ha francamente scherzato, dando ragione a Berlusconi quando parla di "analisi degli aggettivi" dei testi dei decreti, non da meno hanno fatto i Sindacati. Essendo evidente a tutti che le osservazioni di Napolitano erano una foglia di fico. Sappiamo bene che il Presidente può ottenere una radicale revisione di un decreto, o il suo accantonamento, soltanto se ne paventa la palese incostituzionalità o la palese mancanza di copertura finanziaria. Nulla di tutto ciò nelle osservazioni di Napolitano. E allora i Sindacati – fossero ancora una cosa seria – avrebbero dovuto o confermare tutti gli scioperi, incluso il blocco della prima del Maggio, oppure rimandarli tutti, aspettando i previsti incontri con il Governo. Pollice verso anche per loro, sorry!

30 aprile, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 29

Interessante, e abbastanza leggero concerto all'Auditorium.

Sul podio il 34enne slovacco Juraj Valčuha, che sarà sempre più di casa in Italia, essendo da qualche mese Direttore Principale dell'Orchestra Nazionale della RAI.

Si comincia con L'apprenti sorcier di Paul Dukas. Come per la stravinskiana Sacre, i non più giovani non possono non averlo scoperto con Fantasia! Sono i tre fagotti, col loro suono scuro e misterioso, ad esporre in FA minore il famoso tema:



.

E alla fine si meritano quindi applausi speciali.

Arriva ora, per proporci il Concerto per corno di Penderecki, un musicista che è di casa qui, essendo artista residente: Radovan Vlatkovic, che ha avuto anche l'onore di tenere a battesimo, un paio d'anni fa, proprio questo concerto. Il compositore polacco, dopo una gioventù assai radicale (in termini di adesione alle tendenze moderne e post-moderne del '900) già dai quarant'anni è approdato a lidi più sereni e meno irti di scogli: lui stesso riconoscendo che anche la rivoluzione seriale, nel campo della musica (come quella comunista in politica?) stava procurando più danni che altro.

Questo concerto impegna il solista in difficili acrobazie, ma è anche pervaso da ampie arcate melodiche. L'orchestra dialoga per lo più con la sezione dei fiati e sempre con molta leggerezza, quasi a non voler disturbare più di tanto il solista. Vlatkovich non lo si scopre oggi, e per sopramercato ha fatto un bis da supervirtuoso dello strumento, che lui sa suonare anche senza usare le chiavi (come fosse un corno all'antica) muovendo a dovere la mano destra dentro la campana. Per lui quindi un grande successo.

Si chiude con il canto del cigno di Rachmaninov, le Danze sinfoniche. Sono proprio un bigino di tutta la precedente produzione del russo trapiantato in USA. E quindi, a chi Rachmaninov piace, piacciono assai. I tre movimenti hanno anche dei sottotitoli - mattino, mezzogiorno, sera – che peraltro non sembrano propriamente rispecchiati sul pentagramma. Spettrale e strambo il walzer centrale, mentre i brani esterni sono caratterizzati da gran fracasso alternato a momenti di lirica quiete.

Maiuscola in tutti i modi la prestazione dell'Orchestra, che comprende anche il sax contralto e il pianoforte, oltre ad una corposa batteria di percussioni. Valčuha l'ha guidata con gesto preciso ed autorevole, confermando di essere uno dei giovani Direttori da tener d'occhio.

Il prossimo concerto sarà di marca slava, con direttore caraibico!

La Frau secondo Mehta al Maggio (via-radio)

Mancando una firma di Napolitano, si è potuto procedere all'apertura del Maggio n°73, con Mehta che faceva proprio ieri i 74!

Una più che buona Frau, tenuto conto di tutte le difficoltà che un'opera simile contempla. Mehta, che la dirigeva per la prima volta, è parso padroneggiare da par suo questa immensa partitura (anche perché si è ben guardato dall'eseguirla in-toto!)

Le due protagoniste, Adrianne Pieczonka e Elena Pankratova davvero splendide, una meglio dell'altra, soprattutto nel finale, dove sono chiamate ad autentiche imprese nell'ottava alta.

L'Imperatore Torsten Kerl se l'era cavata discretamente nei primi due atti, poi nel terzo è proprio crollato. Un po' se l'è voluta, quando ha preteso di chiudere il die Himmelsboten eilen hernieder aus der Luft con un LA acuto, invece di quello un'ottava sotto, scritto in partitura, e così si è suicidato: stecca evidente e voce andata definitivamente a quel paese. Da lì non ha più passato il SOL, figuriamoci cosa poteva fare sul DO acuto, con cui avrebbe dovuto chiudere il beide in prüfenden Flammen gestählt, che invece le due signore hanno sparato in modo superbo.

Ottimo il Barak di Albert Dohmen, che non ha avuto sbavature neanche sui diversi FA cui Strauss chiama il personaggio.

La Lioba Braun ha una voce possente, che però, nelle note sotto il rigo, diventa sgradevolissima e volgare: va bene che interpretava un misto di megera, strega e fattucchiera, ma insomma è una parte pur sempre da cantare!

Gli altri più che sufficienti. Bravi i coristi, soprattutto i piccoli.

29 aprile, 2010

Carlo Felice: un Tristan con lo sconto

No, non era una riduzione del prezzo dei biglietti… siamo a Genova, figuriamoci. No, si è trattato di un generoso regalo alla coppia Storey-McKrill (ma soprattutto al primo) sotto forma di un brutale taglio al grande duetto del secondo atto, sei strofe a testa abbuonate ai due protagonisti! Sarebbe interessante scoprire se si sia trattato di un episodio (magari legato alla presenza imprevista del tenore britannico, che doveva avere un turno di riposo, rimpiazzato da Sergey Nayda, ma che l'altoparlante, dopo l'intimazione a silenziare i telefoni, ha annunciato in scena) o invece non fosse un provvedimento già pianificato in partenza. In tutti i modi, nobbuono.

Invece chissà se un bel taglio ai prezzi d'ingresso non avrebbe contribuito ad evitarci l'immagine di una platea sì e no riempita al 50%. Sento dire che anche le recite precedenti non sono state da più… Brutto affare, perché porta acqua al mulino dei tagliatori di (teste) fondi e di chi sostiene che il teatro musicale non sia (più) un'arte da promuoversi con risorse pubbliche. Uguale a: buonanottealsecchio!

La performance: in sintesi, qualcosa fra il discreto e il mediocre, ma vediamo meglio, cominciando da regia&accessori. Intanto va premesso che in origine la regia doveva essere affidata a Giancarlo Cobelli, ma che poi se ne è fatto carico - proprio à la Wagner – il venerabile Gianluigi Gelmetti. Il quale – sulle scene di Maurizio Balò – ha fatto la cosa più saggia (per nulla ovvia ai tempi d'oggidì): applicare le direttive che l'Autore ha lasciato scritte sulla partitura fra, o sopra, o sotto i pentagrammi.

Peraltro qualche trovata gratuita la vediamo comunque, ad esempio: Tristan prima, e Kurwenal poi (già, lo scudiero imita sempre il condottiero!) si feriscono mortalmente con atti esplicitamente suicidi, afferrando le lance di Melot e Marke per trafiggersi con esse: trattasi nel primo caso di un'evidente forzatura dell'originale, nel secondo di un'invenzione bella e buona.

Invece dubito che siano dipese da Gelmetti alcune scelte francamente discutibili, legate all'impiego di movimenti mimici, sullo sfondo – ma non solo - della scena: nel secondo atto, a sottolineare il (tagliato) duetto d'amore e nel terzo a simulare lo scontro fra i fedeli di Kurwenal e quelli di Marke. Inoltre, all'inizio del terzo atto, vediamo ben 5 comparse in scena, dapprima immobili, poi indaffarate attorno a Tristan, che non sono assolutamente previste nell'originale e che finiscono per distogliere l'attenzione dello spettatore dalle vaneggianti esternazioni dell'eroe ferito.

Ma siamo sempre lì: Tristan è un'opera tutta cerebrale, centrata sull'introspezione psicologica, quindi assai statica, difficile da digerire; per di più in tedesco, lingua che pochi capiscono e che magari i cantanti sbiascicano male. E allora, per evitare che lo spettatore medio si esasperi, bisogna attirarne l'attenzione con qualche improbabile accessorio.

Altra domanda che viene spontanea: perché le ambientazioni, tutte, devono essere buie, spoglie e deprimenti? Nei primi due atti Wagner prescrive ambienti lussuosi (la nave ammiraglia del RE di Cornovaglia, perdinci!) e la residenza principesca di Isolde, immersa in una specie di parco botanico. Invece noi vediamo il fasciame decrepito di una barcaccia (smile!) che fa invariabilmente da pavimento e pareti. Certo, alla Scala un paio d'anni fa Peduzzi aveva fatto anche di peggio, ma questo non è un buon motivo per assolvere lo scenografo.

Com'è andata sul piano musicale?

Qualche osservazione ambientale. Gelmetti fa aprire il sipario sempre all'inizio – non alla fine – dei tre preludi: peraltro la scena è quasi al buio, si intravedono solo le strutture e i personaggi sono immobili. Quindi, tutto sommato, poco male, anche se vien da domandarsi perché l'Autore abbia puntigliosamente indicato sulla partitura la battuta precisa per l'alzata del sipario.

Secondo: la voce del marinaio che canta la sua canzone all'inizio dell'opera e il suono del corno inglese che canta la sua melodia all'inizio del terzo atto arrivano forse un po' troppo da lontano. In compenso, alla conclusione del primo atto, le tre trombe e i tre tromboni previsti da Wagner sulla scena sono in realtà dislocati su due loggette che danno direttamente sulla parte bassa della platea. Per chi, come il sottoscritto, stava proprio lì sotto, un effetto sgradevolissimo, in quanto si udivano solo quegli ottoni, e nulla di quanto usciva dalla buca e dalla scena.

In dettaglio. Gelmetti – sempre senza bacchetta - ha fatto onestamente la sua parte, con un po' di discontinuità: nei primi due atti ha tenuto bene a bada l'orchestra, impedendo che coprisse le non potentissime voci dei protagonisti; ma nell'atto conclusivo ha mollato briglie e ormeggi e le voci han faticato a passare; penalizzato soprattutto Storey nel suo finale vaneggiamento. Discreta l'esecuzione dei preludi, con tempi sempre staccati appropriatamente e senza strappi indebiti. Qualche passo non ha avuto il giusto amalgama di suono (vedi i due passaggi dei violoncelli che annunciano l'arrivo di Tristan – atto II – dove il FA tenuto dei due corni ne copriva eccessivamente la melodia). Bellissimo invece l'effetto del corno inglese di Claudio Binetti (fatto salire sul palco alla fine a godersi un meritato applauso) nella gioiosa perorazione all'arrivo di Isolde nel terzo atto.

Ian Storey è stato un Tristan così-così: presenza scenica notevole, ma voce poco penetrante; francamente a due anni (e rotti) di distanza dal suo debutto nel ruolo alla Scala non mi è parso aver progredito di molto; è arrivato discretamente fino in fondo, grazie al fiato risparmiatosi nel secondo atto!

Elaine McKrill era Isolde: poco udibile nell'ottava bassa, buona in alto, però i due SI alla fine del duetto li ha francamente urlati. Discreto il Liebestod, anche se il conclusivo Lust lo ha tenuto sì e no una minima, anziché la prescritta semibreve. Problemi di fiato, evidentemente.

Brangäne era Monika Waeckerle. Prestazione più che dignitosa, la sua, voce potente e passante, forse un vibrato non troppo gradevole, però merita un plauso.

Jukka Rasilainen è stato un buon Kurwenal, la sua voce non si è mai persa, timbro forse troppo leggero per il personaggio, ma ottima resa. Per me, il migliore, con la Waeckerle.

Il König Marke di Andrzej Saciuk piuttosto discutibile: la voce c'è, ma l'interpretazione francamente ha deluso; già la presenza fisica, per chi ha in mente Mattila o Salminen, è imbarazzante (ma qui il poveraccio non ne ha colpa!) però il monologo del secondo atto lo ha tirato via (complice Gelmetti?) alla maniera di quei curati che recitano giaculatorie a mitraglia… tanto nessuno ci capisce nulla e ci si interessa!

Gli altri (Roberto Accurso, Melot; Antonio Poli, marinaio e pastore; Alessandro Battiato, timoniere) han fatto dignitosamente la loro parte, come il Coro di Franco Sebastiani.

Alla fine grandi applausi per tutti, assolutamente doverosi perché un Tristan è pur sempre un Tristan, mica noccioline!

Ma chissà se erano anche di liberazione, dopo quattro ore e mezza (ancora poche, per via dei tagli) di impegno. O perché nel frattempo l'Inter aveva raggiunto la finale?

27 aprile, 2010

Comincia il Maggio

Giovedi 29 si inaugura il 73° Maggio con la straussiana Die Frau ohne Schatten, diretta da Zubin Mehta. Il cartellone operistico è completato dalla mozartiana Entführung e dalla nuova opera di Marco Betta, Natura viva. Interessante anche il calendario dei concerti, con la Staatskapelle Dresden (diretta da Mehta, dopo il recente divorzio di Luisi) con Buchbinder, poi Daniel Barenboim (solo e con Mehta) l'astro nascente Omer Meir Wellber, poi il giovane venezuelano Matheuz, quindi Hogwood, Kremer, fino alla chiusura col venerabile Kurt Masur nella IX di Beethoven.

Se si dà un'occhiata alla biglietteria online si nota che, a parte le prime delle due opere famose e i principali concerti, dove ci sono pochi posti ancora disponibili, le altre rappresentazioni della Donna e del Ratto mostrano ancora ampi vuoti… da riempire! Un video in cui Mehta celebra le lodi della Frau e invita gli indecisi a recarsi alle urne non dev'essere comparso a caso sulla home del Teatro, seguito da un altro del Direttore Artistico, Paolo Arcà. Insomma, non ci si può lamentare dei tagli di Bondi, se poi i Teatri restano mezzi vuoti.

Qualche nota sul capolavoro di Richard Strauss.

Opera fiabesca e fantastica (una nuova Zauberflöte si è scritto) e zeppa di simboli, che il grande Hoffmannstahl mise insieme in modo davvero straordinario, a partire da storie, miti e fiabe orientali, abilmente mescolati a cultura nostrana e addirittura a temi politici del suo (e del nostro) tempo, legati all'emancipazione femminile. Apologia – apparentemente (?) conservatrice - dell'amor coniugale, della maternità (la sfruttò il fascismo per supportare la sua campagna demografica!) e della calvinistica operosità, celebra la supremazia dell'umano – ragione e pietas - su tutte le superstizioni e le fallaci credenze e chimere.

Musicalmente l'Opera si fonda sull'uso sapiente di leit-motive, secondo la concezione wagneriana: temi che ritornano via via, in forme sempre variate o in relazione fra loro. Il primo e principale viene esposto nella prima scena dall'Imperatore, sui versi con cui esprime tutta la sua ossessiva, possessiva (maschilista?) e superficiale infatuazione per l'Imperatrice, la bianca gazzella, la meravigliosa preda, da lui conquistata:

Denn meiner Seele - und meinen Augen - und meinen Händen - und meinem Herzen - ist sie die Beute - aller Beuten - ohn' Ende!

Tutta l'orchestra lo riprende – con fuoco – così:




















.

.

Il tema ricomparirà mille volte e sotto mille diverse forme, magari anche sguaiate, come nel caso del canto degli scombinati fratelli di Barak, nel secondo atto, che sembra uscire da una birreria di Monaco!





-

.

All'inizio del terzo atto c'è una delle più fulminanti genialate di Hofmannstahl. Il concetto che si vuole esprimere qui è che la straordinaria potenza del legame affettivo coniugale (pur nella chiara separazione dei ruoli: uomo=guida, donna=madre) alla fine emerge sempre vincitrice – contro tutte le tentazioni, i pregiudizi, i dubbi, le incomprensioni e le colpe di questo mondo – e rende due persone quasi una sola entità, in perfetta armonia e in totale comunione di sensi. Ebbene, cosa ti inventa il nostro? Colloca i due coniugi (Barak e la sua Frau) in due locali (sotterranee caverne, più propriamente) attigui, ma tali per cui i due non possono né vedersi, né soprattutto ascoltarsi. Né essi sanno di essere spazialmente vicini: ciascuno è solo, immerso in un totale e disperante isolamento, e canta la sua pena, la sua contrizione per le passate offese recate all'altro/a e il suo lancinante desiderio di rivedere il coniuge. Ma ecco che le due voci si sovrappongono, in perfetta consonanza e armonia! Un vero e proprio duetto, in siffatte condizioni! Naturalmente ci pensa poi Strauss a scriverci sopra una musica sbudellante (che richiama anche vagamente Siegmund-Sieglinde):



.

L'incipit dei due (prime tre note) è quello del tema più sopra ricordato, mentre le prime sei note cantate dalla Frau ci ricordano Elektra… insomma, ci si muove in un universo – quello straussiano - pieno di riferimenti, di richiami, di sensazioni.

La Frau è un'opera lunga, davvero di dimensioni wagneriane (tre atti di più di un'ora cadauno) e mette quindi a dura prova la resistenza dei cantanti (e dello spettatore?) In più, richiede risorse – materiali e artistiche – di altissima qualità e in gran quantità. Per questo non la si esegue tanto di frequente e anche per questo viene quasi sempre sottoposta a tagli – più o meno ammessi a suo tempo dallo stesso Strauss – soprattutto nei tre ruoli femminili (Amme, Kaiserin e Frau). Così faceva (purtroppo) anche quel grande amico di Strauss che fu Karl Böhm. Una delle poche (se non l'unica) edizione davvero integrale (non vi manca una sola nota da quanto scritto in partitura) sembrerebbe quella di Georg Solti con i Wiener.

Sentiremo come la eseguirà Mehta, al suo primo incontro con la Frau.

24 aprile, 2010

In memoriam

Questa mattina, in vista del 25 Aprile, l'OrchestraVerdi ha ospitato nientepopodimeno che il Capo dello Stato (ricevuto e accompagnato dalla comunale Moratti e dal provinciale Podestà) per una degna celebrazione di questa ricorrenza. Subito dopo Napolitano si è spostato alla Scala, per la manifestazione ufficiale, quella con le massime cariche istituzionali (centrali e locali).

Che l'attuale Presidente (Cervetti) e il Direttore Generale (Corbani) della Fondazione fossero (lustri orsono) compagni di partito - anzi di corrente, quella cosiddetta migliorista del PCI – dell'attuale Capo dello Stato, può spiegare il particolare privilegio che Giorgio Napolitano ha voluto riservare alla Verdi (e non è la prima volta, dopo l'intervento in web-conference in occasione della commemorazione di Paolo Grassi). In questi giorni del resto è bene che qualche sano punto di riferimento patriottico e costituzionale rimanga ben saldo, vista la deriva preoccupante della nostra politica (dove, nella maggioranza di governo, fra delfini ripudiati e guizzanti trote, per la difesa delle Istituzioni ci si deve affidare ad un nipotino, per quanto pentito, del duce…)

Onde evitare che un qualche leghista di passaggio avanzasse obiezioni, invece di far cantare al coro (e magari al pubblico) l'orecchiabilissima, ma troppo schierata, bella ciao, si è prudentemente ripiegato sul più ostico Canto sospeso (tanto al leghista di cui sopra, se gli si chiede chi fosse Luigi Nono, lui risponderebbe: "Boh, un re spagnolo, o inglese"; sempre meglio di: "Un compositore pirla, e per di più comunista").

Si tratta di nove pezzi, sei dei quali (2-3-5-6-7-9) presentano testi di lettere di condannati a morte nelle varie resistenze al nazifascismo, testi esposti, in italiano, dai due recitanti, prima e durante l'esecuzione. Parole come queste:

Addio mamma, tua figlia Ljubka se ne va nell'umida terra.

Parole che non hanno avuto bisogno di suggello da parte del Presidente, entrato ed uscito fra gli applausi.

Qui l'esecuzione che ne fece Bruno Maderna a Venezia nel 1960: 1-2; 3-4-5; 6-7; 8-9. Su Youtube è reperibile anche un'interpretazione di Abbado con i Berliner.

Oggi è stato Francesco Maria Colombo a dirigere l'Orchestra, con il Coro di Erina Gambarini e i tre solisti (dislocati in orchestra, a sinistra, fra violini secondi e corni) più due voci recitanti (sul proscenio).

Dialogo ascoltato in Largo Mahler, all'uscita:

" Ma chi c'era?"

"Il Presidente"

"Ma quale?"

"Quello buono!"