affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

16 aprile, 2010

Lulu alla Scala

Ieri sera la terza recita di Lulu alla Scala. Teatro con parecchi vuoti già all'inizio e poi ulteriormente vuotatosi nei due intervalli (nobbuono!)

Dopo la Casa di Janacek, anche per quest'altra Opera del '900 viene impiegata la tecnica della partenza-lampo (solo per il primo atto, però): luci in sala accese, l'orchestra che ancora borbotta, il Direttore che entra in buca strisciando sui gomiti come un marine in azione di commando, per non esser visto da alcuno, raggiunge il podio, vi sale e attacca di botto, nel mentre le luci in sala si spengono ex-abrupto, cogliendo tutti di sorpresa. E va 'bbè.

Comincio dalla regìa di Peter Stein, più scene, costumi e altri accessori. L'ambientazione è più o meno quella prevista da Berg, che ha spostato in avanti l'epoca della vicenda di una cinquantina d'anni, collocandola ai suoi tempi (1930). Questo ha comportato qualche piccola o grande modifica al testo di Wedekind (ad esempio l'illuminazione elettrica, citata da Alwa per il matinée, o il telefono usato da Schön, in luogo di un biglietto recapitato a mano, per avvertire la polizia del suicidio del pittore) ma anche qualche inevitabile incongruenza, come il permanere dell'annuncio – del tutto strampalato, nel 1930 - dello scoppio della rivoluzione a Parigi! (Viceversa il tracollo delle Jungfrau tutto sommato ci sta bene lo stesso, visti i tempi di depressione post-'29).

Per il resto Stein si attiene – a volte con una meticolosità certosina – alle didascalie di cui Berg ha cosparso la partitura. Anche le scene – suppellettili e furniture a parte – sono del tutto rispettose delle indicazioni originali (Berg ha lasciato addirittura dei disegni sulle planimetrie dei vari ambienti). Evidentemente questo tipo di Opere (stesso discorso per la Casa di Chéreau) non eccita la fantasia interpretativa - e spesso dissacrante - dei registi, a differenza di quanto avviene per i capolavori più conosciuti e rappresentati (vorrà pur dir qualcosa?)

Naturalmente ci sono anche alcune deviazioni rispetto all'originale, ma direi tutte più che accettabili ed anzi piacevoli o appropriate. Ad esempio il costume di Lulu (quella in carne e ossa e quella rappresentata sui poster) che non è propriamente quello di un Pierrot come chiunque se lo immaginerebbe: in particolare lascia in bella mostra le gambe della protagonista (il che non guasta per nulla, trattandosi di una donna bella e piacente come Laura Aikin, una che sembra nata per fare Lulu). Discorso analogo per la Geschwitz, che in luogo di un tailleur di taglio vistosamente maschile, indossa sì una giacca vagamente maschile, ma sotto ha una lunga gonna, con spacco vertiginoso che le scopre le lunghe gambe (belle anche queste, della Natascha Petrinsky). Oppure come il colore del salone parigino del terzo atto, non bianco stuccato, ma rosso pomodoro; in cui spicca l'arancio carico della tenuta (abito e pelle!) del Banchiere (sarà una pubblicità occulta o una satira feroce di un famoso conto?)

Nel prologo, dopo che Lulu è stata portata in scena come un manichino, quando il domatore annuncia al pubblico che metterà la sua testa fra le fauci di una belva feroce, in realtà la infila fra le gambe della medesima Lulu: ecco, un'invenzione geniale!

Altra libertà che Stein si prende sul libretto è il famoso interludio fra le due scene del secondo atto, dove Berg prescrive la proiezione di immagini (film muto, o foto) che raccontino la vicenda dell'arresto, processo, carcerazione e poi liberazione di Lulu. Qui vengono semplicemente proiettate sul sipario delle diapositive, che recano precisamente i termini che Berg ha lasciato scritti sulla partitura. Se posso fare qui un appunto, mi è parso che la sincronizzazione delle diapositive con le battute musicali cui sono da Berg associate non fosse perfetta: ad esempio quella recante Ein Jahr Haft (un anno di detenzione) è arrivata qualche attimo dopo la battuta apicale dell'Interludio, quella dove il pianoforte esegue la scala ascendente e poi - dopo una corona puntata su cui si dovrebbe appunto vedere la scritta di cui sopra - quella discendente. Ma va bene lo stesso.

Però la caratteristica che più mi ha colpito di questa regìa è l'approccio leggero (un misto di sarcasmo e satira più o meno feroce) che pervade sei delle sette scene dell'Opera. Tutto ciò che vediamo fino a metà del terzo atto, morti e ammazzamenti compresi, ci fa più divertire e sorridere, che non partecipare a un dramma. Le movenze dei vari personaggi (tutti bravissimi i cantanti ad interpretarle!) sono da commedia, se non proprio da farsa. Ci rappresentano in modo assai efficace – almeno a mio modesto giudizio – la fatuità e l'irresponsabilità di un intero mondo (quello borghese, ovviamente) che - ai tempi di Wedekind (e del Berg giovane) - andava verso la catastrofe ballando il walzer e che – ai tempi del Berg maturo, che lasciò tracce di antisemitismo proprio sulla partitura di Lulu – navigava altrettanto irresponsabilmente verso il naufragio del nazismo e del secondo conflitto mondiale.

Tutti i nodi arrivano al pettine nella scena finale, dove c'è solo dramma, desolazione, disperazione nera e morte per tutti. Guarda caso sono proprio gli stessi interpreti dei personaggi del bel mondo borghese che tornano quasi a prendersi la rivincita su quella parte della società che non ha voluto stare al gioco.

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La musica. Le mie prime personali impressioni, derivate dall'ascolto radiofonico della prima del 6 aprile, erano state positive, se non proprio entusiastiche: orchestra (e direzione) all'altezza e cantanti di buon livello. E l'audizione dal vivo di ieri sera ha confermato sostanzialmente questo giudizio: prestazione musicale di tutto rispetto.

Su tutti la Lulu della Laura Aikin, ma anche la Geschwitz della Natascha Petrinsky. Efficace e di voce stentorea la Magdalena Hofmann che interpreta lo Studente e il Groom. All'altezza gli uomini, da Thomas Piffka (Alwa) all'ultraottantenne Franz Mazura (un efficacissimo Schigolch) a Stephen West (voce sicura e potente, sia in Schön che in Jack). Un encomio si merita il corpulento Robert Wörle, che veste ben cinque diversi panni (due muti, o quasi: il Primario e il Professore; e tre cantati: Principe, Maggiordomo e Marchese). Han fatto dignitosamente la loro parte Roman Sadnik (Pittore e poi Negro) Rudolf Rosen (Domatore e poi Atleta) e Johann Werner Prein (Direttore e Banchiere) come pure gli altri interpreti minori.

Gatti ha diretto da par suo, dovendo dislocare parte delle percussioni in barcaccia, per far posto in buca all'ingombrante pianoforte a coda. Straordinario davvero l'Interludio fra la seconda e la terza scena del primo atto, musica che viene direttamente dalla nona di Mahler, ma che ha anche alcune sfumature che ricordano la spettrale veglia di Hagen! Purtroppo ciò che finisce per sfuggire un po' all'orecchio è il suono della Jazz-Band, nella scena del teatro, che effettivamente si dovrebbe udire in distanza, ma che si fatica a percepire chiaramente (per lo meno dalle gallerie). Impressionante davvero l'accordo dodecafonico (nel senso che vi compaiono precisamente tutte e 12 le note della scala cromatica!) con cui viene sottolineata dall'intera orchestra la morte della protagonista.

Alla fine gran trionfo per tutti, Aikin e Gatti (che si porta dietro in palcoscenico la sua spalla Francesco De Angelis) in testa, chè lo scarso pubblico che ha stoicamente resistito fin dopo le 11:30 di notte non ha fatto certo mancare il suo apprezzamento!

15 aprile, 2010

L’enorme terza di Mahler a Bologna

Ieri sera il Teatro Manzoni di Bologna ha ospitato – in esemplare unico! – la sterminata Terza Sinfonia di Gustav Mahler, diretta da Asher Fisch. Con l'Orchestra e i Cori (di femmine e piccoli) del Comunale, si è esibita Veronica Simeoni.

Mahler aveva steso delle note programmatiche – poi ritirate dalla circolazione, ma di tanto in tanto ricomparse qua e là – per introdurre ciascun movimento della sinfonia, orientando l'ascoltatore a coglierne lo spirito. A parte l'iniziale Risveglio di Pan, irrompe l'estate, che a mala pena dà l'idea del gigantesco, complesso ed interminabile movimento che apre l'Opera, gli altri cinque sottotitoli hanno in comune Quel che mi racconta… E cos'è precisamente ciò di cui Mahler è in ascolto? I fiori di campo, Gli animali del bosco, La notte, Le campane del mattino e L'amore.

Comunque, rimossi i titoli (altri ancora ne aveva indicati informalmente) Mahler ha lasciato esplicitamente in vigore la suddivisione dell'intera sinfonia in due parti: l'una costituita dal primo, ipertrofico movimento (che da solo occupa un terzo della durata totale) l'altra dai restanti cinque. (Qualcosa di simile il boemo farà per la sua ottava, con la giustapposizione del Veni Creator alle ultime scene del Faust.)

L'inizio è appunto un movimento (in struttura quasi da fantasia, più che da classica forma-sonata) che propone le più svariate idee, dalle frasi monumentali e solenni degli ottoni, agli squilli di trombetta, alle marcette da Prater di Vienna, con interventi del clarinetto in MIb (tipico delle bande). Insomma, un minestrone, ma di quelli proprio saporiti!

Segue il Menuetto: sembrerebbe una presa in giro, dato che siamo a cavallo fra '800 e '900! Ma poi si sviluppa con grande libertà (tempi di 3/8 e 2/4) e anche con momenti di fracasso, certo assai lontani dall'imparruccato Haydn!

Il terzo movimento è introdotto da un tema preso da un lied del Wunderhorn. Al trio compare la cornetta da postiglione (dislocata dietro le quinte, dovendosi udire da lontano) che intona una melodia che in certi tratti richiama (in tempo lento e ritmo languido) una Jota Aragonesa:








A un certo punto la trombetta in orchestra emette uno squillo che sembra ricordarci quello famoso del secondo atto del Fidelio, poi il movimento chiude con un crescendo di tutta l'orchestra.

Nel quarto movimento arriva il contralto a cantare versi del nietzschiano Zarathustra, ma a un certo momento, nei violini, sentiamo comparire nientemeno (!) che La Paloma:









Poi è la volta dei piccoli e del coro femminile a cimentarsi con i versi di un altro lied del Wunderhorn. Il contralto interloquisce con incisi di cui ci si dovrà ricordare nel Das Himmlische Leben che chiuderà la quarta sinfonia, e che in origine pare dovesse fare da finale a questa (ma sarebbe stato davvero troppo…)

L'incipit dell'ultimo movimento espone un tema parsifaliano, o magari cita (quasi alla lettera) l'Op.135 di Beethoven:












Questo Adagio anticipa in qualche modo quello della futura nona sinfonia: certo qui siamo ancora dei giovani di belle speranze, la vita – posizione, famiglia, opere – è ancora (quasi) tutta davanti… là invece vi si sentirà la fine vicina e vi si accumuleranno ricordi di cose grandi e di grandi disfatte. Ma insomma, il Mahler che troviamo qui è già (e sempre, potremmo dire) lui. Anche quando cita esplicitamente un inciso dell'Otello (prima scena, la tempesta):











Effettivamente, in questa sinfonia c'è ampia materia probatoria per tutti coloro che denigrano Mahler, riconoscendogli come unico merito quello di essere un gran scopiazzatore; insomma, di scrivere della Kapellmeister-Musik, musica che un direttore d'orchestra compone assemblando idee, motivi, temi, ritmi e quant'altro (altrui) gli rimane in testa di tutto ciò che interpreta ogni giorno salendo sul podio.

Personalmente tendo ad assolvere il nostro, soprattutto quando – ed è il caso di Bologna – la sua musica ci viene propinata più che dignitosamente. Del resto, nessuno ha inventato mai nulla (salvo Adamo, smile!) e lo stesso Wagner (tanto per dire) ha fatto ampia man-bassa di suoi predecessori – dal vituperato, perché ebreo, Mendelssohn, al più vituperato ancora, perché ebreo e in più non abbastanza compiacente, Meyerbeer!

Asher Fisch (guarda caso, un ebreo!) deve avere invece un'affinità elettiva con Mahler (anche se qui l'ebreo Mahler sta abbracciando il cristianesimo) un po' come Bernstein, ma anche come il filo-nazista Mengelberg (guarda un po' come va il mondo…) Il direttore israeliano rispetta la partitura al millimetro e l'orchestra lo asseconda alla grande. Ottoni strepitosi (salvo qualche piccola défaillance dei corni, solo nei movimenti interni) - compreso il solista alla cornetta, che non ha mancato una virgola - legni impeccabili e archi (viole messe in prima fila, violoncelli arretrati) sempre precisi e convincenti. Solista e cori hanno un compito non proprio improbo (come nell'ottava, per dire) ma se la cavano benissimo: la Simeoni porge il suo Nietzsche con grande nobiltà e una bella voce calda e poi accompagna i cori di Paolo Vero e Silvia Rossi che scandiscono i bimm-bamm delle campane.

Alla fine applausi convinti (inquinati da un paio di ululati di disapprovazione? ma per che cosa o chi?) e simpatica passerella dei ragazzi, ragazzini e piccoli della Rossi che scendono in platea a ricevere il meritato riconoscimento. Ancora diverse chiamate per Fisch e ulteriori ovazioni per tutti.

Brava Bologna a darci di queste emozioni!

09 aprile, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 26

Oleg Caetani (figlio d'arte, per tramite di Igor Markevitch) è ospite de laVerdi, con programma tutto gallico.

Si comincia con i quattro preludi dalla Carmen. Grande musica, davvero. Che Caetani esegue in ordine precisamente inverso, rispetto all'opera. Evidentemente per lasciare da ultimi la corrida e il Toreador, su cui si chiude in gloria e gran fracasso (sacrificando quindi l'ultima, drammatica sezione del Preludio Atto I). Insomma, è stato come percorrere quella straordinaria opera col fastREW sul videoregistratore!

Entra ora la bella argentina-franco-tedesca Sol Gabetta (in un lungo – e largo, per far posto allo strumento - color verde islam) per cimentarsi con il primo, e di gran lunga più famoso, Concerto per Violoncello di Saint-Saëns. Un'opera che rompe con gli schemi formali tradizionali per portarsi – lisztianamente - su una forma ciclica, tutta pervasa dal tema principale, subito esposto dal violoncello, in LA minore:




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Tema che viene poi ripreso e riciclato e rimuginato dall'orchestra e dal solista in diverse tonalità (FA maggiore e poi MI, ancora in RE e quindi in FA) prima di ripresentarsi in SIb (al termine dell'intermedio Allegretto con moto, in quella tonalità) poi in MI maggiore (per l'ultima volta nel solista) e quindi, dopo un altro passaggio più lento, in LA minore e FA maggiore in orchestra. Dopodichè lascia il posto ad altro, prima che si arrivi alla coda finale, con la brillante chiusa in LA maggiore.

Non mancano ovviamente molte difficoltà virtuosistiche (corde doppie, armonici) che la Gabetta supera sempre con grande brillantezza e sicurezza. E alla fine ci concede un grande bis lèttone, dove al suono dello strumento si accompagna anche la sua voce da soprano!

Dopo l'intervallo, il lungo (perché completo) balletto Daphnis et Chloé di Ravel. Dico, oggi (ma forse sempre) nessuno esegue in concerto, al completo, neanche un balletto di Ciajkovski (non per niente sono state inventate le suites). In effetti, al confronto, la Suite n°2 (che abbiamo ascoltato di recente alla Scala con Mehta) ha il pregio, oltre che della molto minor durata, della maggior concentrazione e, in ultima analisi, della miglior adattabilità ad un'esecuzione in concerto e senza balletto. E qui, per di più, anche senza il coro (che nell'originale interviene spesso, cantando – pur senza parole - sia a bocca chiusa che aperta) il che toglie ulteriormente spessore e pathos all'Opera.

In ogni caso, Caetani e i professori ce la mettono tutta per farci digerire la colonna sonora in assenza… del film (che è oltretutto abbastanza complesso, come trama). Bravi a tutti e applausi più che meritati per l'abnegazione, pari a quella del pubblico che – a differenza della recente Turangalila di Messiaen – ha contato pochissime defezioni durante i 60 minuti o giù di lì dell'esecuzione.

Il prossimo appuntamento sarà invero terribile!

07 aprile, 2010

Lulu è tornata alla Scala

Radio3 ha trasmesso ieri sera la prima di Lulu dalla Scala. Un'esecuzione apparsa – almeno alle mie orecchie – di ottimo livello. Daniele Gatti mi è sembrato assolutamente a suo agio con questa complessa e difficile partitura (con cui si cimentava per la prima volta con l'Orchestra della Scala, dopo averla diretta pochi mesi fa a Vienna con la Mahler) percorrendola rispettosamente in tutti i meandri; e l'orchestra ha risposto degnamente, in tutte le sezioni.

Laura Aikin, veterana del ruolo (alla sua quinta produzione di Lulu) sembra proprio nata per questo personaggio. Voce pulita e leggera, mai un urlo, nemmeno sui diversi RE acuti che deve affrontare. Intervistata nel primo intervallo, mostra anche di saperla lunga sul personaggio, che evidentemente ha studiato assai anche dal punto di vista psicologico ed esistenziale, e non solo musicale. Una Lulu enigmatica, che non è né femmina fatale, né donna sfruttata, né mangia-uomini, né ingenua, né mentitrice: è un po' tutte queste cose, di volta in volta; un essere indecifrabile, che sembra rispondere solo ad una specie di istinto animalesco (il serpente?)

Thomas Piffka (Alwa) ha avuto qualche esitazione nel primo atto, poi si è ben ripreso, centrando anche il paio di DO acuti che gli sono riservati. Brava anche la Geschwitz di Natascha Petrinsky, come pure Stephen West, nei duplici panni dell'assassinato Schön e dell'assassino Jack. Buono lo Schigolch di Franz Masura. Meno entusiasmanti Roman Sadnik (Pittore e poi Negro) e Robert Wörle (il Principe). Gli altri su standard più che dignitosi.

Accoglienza – una volta tanto, alla prima – senza contestazioni, come avvenne anche settimane fa in occasione della Casa di Janacek. Chissà perché? Perché son Opere quasi sconosciute? O difficili? O non di belcanto? Intervistato alla fine, Daniele Gatti ha manifestato un'ammirazione totale per quest'Opera, che lui ha riportato alla Scala dopo più di 30 anni: resta il fatto che Lulu di anni ne ha altri 50 ancora (pur mutilata del terzo atto) e qualcuno dovrebbe chiedersi – invece di meravigliarsene, come i simpatici cronisti di Radio3 - come mai ancora non abbia sfondato




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(prossimamente qualche impressione dal vivo).

02 aprile, 2010

Lulu torna alla Scala

La sesta opera del cartellone 2009-2010 è – dopo La casa morta – un altro pilastro del '900, Lulu di Alban Berg, che da martedi prossimo va in scena al Piermarini, dopo Vienna e Lione, compartecipanti alla produzione.

Come al solito è stata preceduta dalla consueta e sempre interessante Conferenza Prima delle Prime, tenutasi il 31 marzo nel Ridotto Toscanini e guidata da Angelo Foletto, Giacomo Manzoni, Carlo Maria Cella e Sonia Grandis (che ha recitato parti del libretto).

Sarà rappresentata in versione completa, tre atti, quindi non propriamente tutta farina del sacco di Berg, datosi che il terzo atto, a parte un paio di intermezzi orchestrali già completati dall'autore, e comunque impiegati oggi con qualche variazione, era rimasto allo stato di abbozzo e fu reso eseguibile – nel 1979, e solo dopo la morte della moglie di Berg, sempre fieramente oppostasi all'operazione – da Friedrich Cerha.

Per quanto Berg non rispetti alla lettera l'ortodossia dodecafonica di Schönberg, è pur vero che l'Opera presenta un insieme di caratteristiche costruttive – partendo dalle macrostrutture, per arrivare ai dettagli tematici – che ne fanno più un prodotto di (fredda) ingegneria, che non di (calda) ispirazione musicale. La palindromica simmetricità della struttura (paradigmatico, ai limiti dell'ossessione, l'interludio fra prima e seconda scena del secondo atto, tutto simmetrico, quasi alla singola nota, rispetto allo Höhepunkt percorso dal pianoforte alla battuta 687) e la derivazione matematico-cabalistica di sotto-serie tematiche, a partire dalla serie fondamentale, rendono la narrativa di assai ardua digestione. (Il che per me rappresenta – detto di passaggio - il limite più grande di tutta la produzione musicale fondata sulla tecnica seriale - o ad essa in qualche modo tributaria - e ne spiega abbondantemente l'insuccesso di pubblico dopo quasi un secolo e a dispetto di grandi e anche lodevoli sforzi di promozione!)

Sulla perfetta simmetria della struttura, rispetto alla parabola esistenziale di Lulu, ci sarebbe da eccepire: in effetti il chiaro momento di spartiacque andrebbe individuato prima della metà del secondo atto, precisamente nell'istante in cui Lulu scarica le 5 revolverate nella schiena di Schön-sr (Atto II, Scena I, battute 553-555, DO#-RE-MIb-MI-FA, un crescendo cromatico di pallottole esplose dal pianoforte!) Perché è in quel preciso momento che cambia proprio di 180° il rapporto fra Lulu e tutto ciò che la circonda: da ricattatrice a ricattata! Da donna che sceglie e/o comanda e usa a sua discrezione mariti ed amanti, fino a costringerli – con ricatto implicito o esplicito: della carne o dell'onore - in quei ruoli, diventa donna che dovrà subire ogni sorta di vessazioni: dal ricatto economico, oltre che sessuale (a Parigi) a quello del sesso come unica fonte di sostentamento per sé e per le tre persone che – a diverso titolo – non può non tenersi a carico (a Londra). Mentre sul piano materiale Lulu conduce un'esistenza agiata, ed oltre, fino a metà del terzo atto (fuga da Parigi) con il solo intervallo della detenzione (Atto II). Insomma e per fortuna, l'Opera non è poi così inchiavardata entro banali schemi geometrici.

Daniele Gatti, che nel 2008 diresse un buon Wozzeck (prima delle non proprio paradisiache esperienze di Parsifal a Bayreuth e DonCarlo a SantAmbrogio) torna sul podio della Scala e vi dirige Lulu per la prima volta. Speriamo bene… anche se il video che campeggia sulla home-page del Teatro non sia propriamente di quelli che fanno accorrere scettici e incerti (ad ora qualche decina di posti è offerta in web per 5 delle 6 recite).

01 aprile, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 25

Siamo nella settimana santa, e quindi non poteva mancare una bachiana Passione all'Auditorium. Non è la monumentale e più famosa e ieratica Matthäus, ma la più breve, sanguigna (e anziana) Johannes.

Sulla data della prima esecuzione c'è una convergenza quasi generale: 7 aprile, Venerdi Santo del 1724, nella Nikolaikirche di Lipsia. Peraltro nell'introduzione dell'autorevole edizione (tascabile) Eulenburg-965, il professor Arnold Schering – che pure a Lipsia era di casa - pone la prima esecuzione un anno indietro, nel 1723. (La cosa non ci toglierà il sonno, peraltro).

Ruben Jais ed Erina Gambarini hanno guidato l'Orchestra (in veste barocca, con Gianluca Capuano all'organo) e il Coro de laVerdi ad una prestazione maiuscola, nella quale ben si sono portati i sei solisti, una vera squadra internazionale: Makoto Sakurada, il tenore giapponese che ha legato fra loro tutti i passi dell'Opera, nella veste di Evangelista; il contralto australiano David Hansen; il basso cileno Christian Senn, che impersonava Pilato; il basso-baritono norvegese Håvard Stensvold, Gesù; la soprano bulgara Sonya Yoncheva; il tenore australiano Steve Davislim; più il corista Marco Bellasi, Pietro. Per l'Aria Es ist Vollbracht! si aggiunge agli strumentisti Amélie Chemin, con la preziosa viola da gamba.

Alla fine un vero e proprio trionfo per tutti, con ripetute chiamate, applausi ritmati, e bravi! a ripetizione.









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Prossimamente, vive-la-France!

31 marzo, 2010

Un simpatico Tannhäuser indiano alla Scala

Ieri era la quinta e penultima rappresentazione, alla Scala, per il Tannhäuser di Mehta-Fura, dopo accoglienze, diciamo così… mixed. Teatro pieno, ma non pienissimo, e successo quasi pieno per tutti.

Tanto per entrare direttamente in-medias-res, sappiamo come Wagner avesse i suoi (buoni) motivi per ambientare l'opera in Germania, precisamente in Turingia, con tanto di meticolosi riferimenti logistici a due località nei pressi di Eisenach (città natale di un certo Bach - si noti bene - non di Buddha!): il castello della Wartburg, che si trova a meno di 2Km a sud-ovest della cittadina, e il fantomatico postribolo di Venere (il Venusberg) che nella versione parigina è da Wagner dislocato con temeraria precisione presso l'Hörselberg, 5Km - o giù di lì - ad est della stessa Eisenach.

Ecco cosa scrive Wagner sulla partitura d'orchestra, Atto I, Scena III, al momento per Tannhäuser di tornare all'aria aperta, dopo la sbornia del Venusberg: Tannhäuser, che non ha abbandonato la propria positura, si trova improvvisamente trasportato in una bella valle. Cielo azzurro, limpida luce del sole. A destra, sullo sfondo, la Wartburg; a sinistra, in lontananza, il Hörselberg. (…) Nel frattempo, da dietro la scena e da molto lontano, come se venisse da Eisenach, si ode il rintocco delle campane di una chiesa. Insomma, Wagner quasi-quasi ci dà le coordinate GPS del metro-quadro su cui Tannhäuser si trova: lui è più o meno a metà strada fra Hörselberg e la Wartburg (più vicino a quest'ultima) ed ha alle spalle Eisenach. Da qui in avanti tutta l'Opera è ambientata inequivocabilmente in quei precisi paraggi. Così come l'Aida è ambientata in Egitto e i Meistersinger a Norimberga, e la Tosca a Roma, la Bohème a Parigi (che dire di una Bohème ambientata a Mumbay, con Rodolfo che, affacciato alla finestra, canta: "Nei cieli bigi guardo fumar dai mille comignoli Parigi"?)

Ma qui Wagner non viene preso alla lettera (e neanche sul serio, per la verità) e perciò abbiamo un Tannhäuser indiano, in omaggio al Maestro, ovviamente. Avesse diretto Salonen, si andava in Finlandia, col Venusberg collocato in una gigantesca sauna pubblica. Dirige Chung? In Korea, no problem. Dudamel? La Wartburg di Maracaibo, perbacco, chi non la conosce?

Insomma, Padrissa e i suoi sono in grado di ambientare qualunque opera in uno qualunque dei 190 (o quanti sono) Paesi del pianeta. L'unico problema che hanno è trovare un direttore all'altezza nel Burkina-Faso o all'Isola di Pasqua!

Viceversa, sarei pronto a scommettere che – avesse Wagner ambientato la sua storia in India - Padrissa ce l'avrebbe trasferita in Turingia (smile!)

E sempre facendo cose divertenti, mica pizza&fichi! (Del resto, chi non si è mai divertito leggendo la famosa tragedia Ifigonia in Culide?)

Insomma, Tannhäuser assurto al rango di divertissement, ohibò! E dobbiamo consolarci, perché in giro c'è di molto, ma molto peggio.

Leggendo il corposo programma di sala abbiamo la conferma (non che avessimo dubbi) che Padrissa&C sono gente che studia bene i soggetti da mettere in scena. Quindi sanno benissimo che, sul piano esteriore (e superficiale?) del contenuto, Tannhäuser non racconta miti, ma casomai storie medievali (e per buona parte vere) con personaggi e luoghi squisitamente autentici e germanici; sul piano filosofico-religioso, mostra il contrasto insanabile (o sanabile solo una volta passati all'altro mondo) fra carne e spirito, fra l'impulso animalesco – e in quanto tale nemmeno poi peccaminoso – verso eros e sesso, e l'anelito umano verso il trascendente e il divino; infine, sul piano artistico, descrive (autobiograficamente) lo straniamento dell'artista-innovatore dalle consuetudini e dalle (più o meno ipocrite o interessate) convenzioni cui l'establishment è ancorato, e con le quali è però costretto fatalmente a fare i conti o addirittura a venire a patti, o a scontrarsi mortalmente. Addirittura Padrissa&C intendono dedicare questo allestimento a tutti i Tannhäuser di questo mondo, teste matte da Giordano Bruno a Michael Jackson, passando per Richard Wagner e John Lennon! Lodevole intenzione davvero.

Siccome però il pubblico è quello che è (e secondo alcuni non è cambiato troppo dai tempi di Parigi 1861, Jockey Club di buona memoria) è meglio non andare troppo sul difficile, e quindi si parte mostrando immagini, filmati e ologrammi di un bordello in piena regola (peraltro questo combina perfettamente con ciò che scrive Wagner nel libretto, cose del tipo: si formano coppie in cui ciascuno trova l'oggetto dei propri desideri, e poi si confondono e rimescolanoe subito dopo: le Baccanti eccitano gli amanti a una lussuria sempre più sfrenata. Costoro, inebriati, si abbandonano ad ardenti amplessi.) Se si può fare qui una critica, è di tipo economico: quanto sarà costato al regista (cioè dire: a NOI) girare tutte quelle scene con innumerevoli ragazze e ragazzi, tassativamente nudi ed aggrovigliati? Quando invece Padrissa e i suoi qui potevano tranquillamente propinarci immagini di filmetti groupsex o gangbangorgy scaricate gratis da internet, così dispensando Lissner dal prosciugare il FUS, e senza per questo creare scandalo, né essere irriverenti o dissacranti nei confronti dell'Autore.

Nel Venusberg, mentre la Gertseva-Venus è sufficientemente nuda, e mostra così le sue – di gran lunga migliori – qualità, il protagonista Robert Dean Smith è coperto da regolamentare pastrano, il che ci consente di tenere aperti gli occhi mentre canta (passabilmente, benino o così-così, le sue lodi-maledizioni). Ma, dopo essere faticosamente sfuggito al bordello dall'aria divenuta ormai irrespirabile, dove si va a cacciare il povero Tannhäuser? Nella severa Wartburg, direte voi, tempio della virtù e dell'arte. Ecco cosa vediamo all'inizio del secondo atto: mentre Elisabeth saluta la teure Halle, ci sono simpatici ragazzi e ragazze che fanno un balletto tipo Smeraldo anni'70. Ma non basta, quando arrivano gli ospiti, sul solenne canto Con gioia salutiamo la nobile sala dove sempre e soltanto arte e pace possan dimorare, i ballerini si scatenano ancor più, in una cosa bollywoodiana (io veramente me lo ricordavo come il twist): roba da far pensare al povero Tannhäuser di esser caduto dalla padella nella brace (adesso si capisce bene perché, durante la tenzone, gli prenderà la voglia matta di tornare là da dove era venuto!) Sì, anche Wagner si può ballare, incredibile! Perché, come ad esempio Ciajkovski nello Schiaccianoci, ha scritto musica in 4/4 o 3/4 o 2/4 o 6/8 e così via. Chi ci aveva mai pensato? Brava la Fura a scoprirlo!

Ma a proposito di balletto, bisogna sapere che nel 1860, quando a Wagner finalmente furono aperte le porte dell'Opéra di Parigi (grazie all'intercessione della crucca Pauline von Metternich, che era entrata nelle grazie nientemeno che dell'Imperatore Napoleone III) il compositore fu avvertito che, nel secondo atto dell'opera, doveva essere tassativamente programmato un balletto. Chè a quell'ora i simpatici membri del Jockey Club, dopo essersi ben saziati e abbeverati di champagne, arrivavano a teatro per ammirare le nude gambe (allora non si andava oltre) di compiacenti ragazze che, qualche mezz'ora dopo, sarebbero finite direttamente nei loro letti. Orbene, sembra un'enormità, ma Wagner si rifiutò cocciutamente di sottostare a simile imposizione. E sfidando l'Imperatore in persona (che pagava in toto l'allestimento, si noti bene!) Wagner si rifiutò di infilare un balletto a quel punto dell'opera (considerando già fin troppa concessione la nuova, pornografica scena del Venusberg del primo atto).

Ma a noi che 'cce frega? dice Padrissa, siamo in democrazia, mica in un impero, Wagner è morto, e il balletto lo mettiamo dove ci pare! E infatti il pubblico apprezza molto.

Per la tenzone canora – una scena che si richiama nientemeno che al Symposium di Platone, e sappiamo quanto Wagner ammirasse la Grecia! - ci spostiamo invece al lunapark. Infatti, nell'austera Wartburg (o Bangalore, fate voi, visto che son tutti in turbante) ci sono - ad ospitare i canori contendenti - dei caddy da golf, o macchinine da autoscontro, ciascuna dotata di arpista, una specie di tata (anzi Tata, siamo in India!) o badante del Minnesanger di turno. Invece del motore elettrico, due robusti negroni che spingono e tirano qua e là. Ma tanto ha poco di che vantare austerità, la Wartburg, sappiamo quale indegna gazzarra vi si svolgerà, di cui vien data colpa al povero Tannhäuser, costretto a partire per Roma al seguito di pellegrini inturbantati e circondati da coloratissime, ma un po' fastidiose donnicciole che chiedono la carità (in Turingia proprio così funzionava, sapevate?)

Nel terzo atto tornano i pellegrini da Roma (sempre con donnicciole a latere). Elisabeth attraversa il corteo in cerca del suo Tannhäuser, sperandolo graziato dal Papa. Non ritrovandolo, che fa? Sentiamo Wagner: in atteggiamento doloroso, ma tranquillo (…) con grande solennità canta il suo sacrificio e resta in devota estasi. Insomma, non versa una sola lacrima, ma nobilmente offre la sua vita alla Vergine, per ottenerne l'intercessione in favore del reprobo. Ma una scena così sarebbe poco appariscente, e così il regista fa issare Elisabeth su un trespolo fino a 10 metri di altezza e da qui la pia donna allaga letteralmente di lacrime una piscina che occupa metà del palco. (Insieme alla piscinetta di cristallo del Venusberg, è forse una trovata per pubblicizzare qualche aquafan, visto che si va verso la bella stagione).

Ai bordi della quale piscina arrivano quattro lavandaie a lavare degli enormi panni, che scopriamo servire (una volta stesi, più sporchi di prima!) a proiettarci sopra immagini che supportano la parte cruciale del racconto di Tannhäuser del suo calvario a Roma: l'incontro disgraziato con un Papa talebano che, invece di perdonarlo cristianamente, lo invia direttamente all'inferno. E sulle lenzuola vediamo le immagini di un Papa (in visita in India, 1986?) che Padrissa ha accuratamente scelto fra quelli più retrivi, assolutisti, e diciamo pure repellenti che la storia della cattolica Chiesa ricordi: Woitilaccio! Mancava solo un titolo di giornale: "Giovanni Paolo II copriva i preti pedofili" …ma la regìa è stata pensata quando lo scandalo ancora non aveva occupato le prime pagine di giornali e tv, che peccato!

La scena del funerale di Elisabeth è un pout-pourri di idee genialoidi e di improbabili riferimenti alla biografia di Wagner. Sul laghetto di acqua-pianto, arriva un incrocio di piroga indiana e gondola veneziana, carica di lumini, su cui viene portato il feretro; il che è un incrocio fra Gange e Venezia: il funerale di Wagner a Bollywood? Ma allora qui si scimmiotta per caso lo Herheim del Parsifal attualmente in cartellone al tempio? Sulla trasformazione di Elisabeth in Venere (stella, non tenutaria) bisognerebbe scrivere enciclopedie e libelli, lasciamo perdere, siamo qui per divertirci, mica per pensare.

A proposito, sul programma di sala c'è una dottissima presentazione del professor Quirino Principe, che conclude con una considerazione (a proposito della lingua - originale o italiana - in cui rappresentare l'Opera): Quanti italiani amanti del teatro d'opera, ascoltando Tannhäuser in lingua originale, capiranno la meravigliosa complessità culturale di quest'opera? Vien da ridere, ma ovviamente il professore pensava a Tannhäuser, non al Bruschino o all'Elisir.

In sostanza, oggi ci si accontenta di tener buona ancora – ma per quanto ancora? perché la modernità prima o poi chiederà anche qui il suo pizzo – la musica di Wagner; le parole si lascino pure lì, perché tanto sono solo un ostrogoto grammelot, che serve giusto a far uscire i suoni dalla bocca dei cantanti. Tutto il resto: nel cesso, sostituito da trovate più o meno genialoidi. Che termini usare per operazioni di tal genere? Anticulturale, diseducativa, truffaldina?

Invece: divertimento assicurato, il pubblico ha gradito e – a differenza della prima – non ha contestato nessuno, men che meno il regista (che però non si è fatto vedere al proscenio).

Questo è lo stato-dell'arte, oggi, anno di grazia 2010. E dobbiamo accontentarci, essendoci in giro anche di peggio.

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La musica.

Mehta non mi è per nulla dispiaciuto. Come già nel Ring ascoltato uno-due anni fa al Maggio, tiene un approccio assai pragmatico, facendo ben emergere il lato italiano (meno male, non indiano!) presente – e come! – in Wagner, particolarmente in opere come questa. Nessuna enfasi gratuita, tempi forse più celeri rispetto ai metronomi di cui Wagner ha disseminato la partitura (ma che lui per primo invitava Kapellmeister e cantanti a prendere abbastanza con le molle, privilegiando la loro personale sensibilità). In un paio di occasioni ha forse lasciato troppa briglia al fracasso dell'orchestra, coprendo le voci, ma in complesso – per me – la sua è stata una direzione lodevole.

Dei cantanti, rispetto al recente Tannhäuser torinese, salverei giusto la Harteros-Elisabeth, gli altri da discreto (Dean Smith, voce debolissima, però, e Zeppenfeld-Langravio) a mediocre (Trekel-Wolfram) a insufficiente (Gertseva). Gli altri ancora, senza infamia, né lode. Bene al solito il coro di Casoni e i piccoli di Caiani.

Oggi si passa però a cose serie, da settimana santa: una passione bachiana all'Auditorium.

29 marzo, 2010

Il Parsifal di Bieito, al prezzo di quello di Wagner

Io devo condividere i miei pensieri e le mie sensazioni con il pubblico. Devo comunicarli, per questo sono diventato regista.

Mai definizione più appropriata fu data del fenomeno deteriore del Regietheater.

Il signor Bieito ha dei pensieri? Ha delle sensazioni? Le vuole/deve comunicare. Fantastico, siamo tutti occhi e orecchie!

Ma che ti combina il furbastro? Mica si mette a faticare per comporre testi e musica di un dramma, che ci comunichi i suoi pensieri e sensazioni, no!

Lui prende testi e – soprattutto – musica di un'opera d'arte ormai da secoli (si può dire) entrata nell'Olimpo, e li usa per vestirci i suoi brillanti pensieri e sensazioni!

E il pubblico paga per vedere il suo Parsifal, come per vedere quello di Wagner!

Ecco alcune sentenze del maestro da incorniciare:

Per me Parsifal tratta della crisi della religione. All'inizio del ventesimo secolo i simboli religiosi erano molto importanti. Oggi li abbiamo persi, ne abbiamo altri: Cristiano Ronaldo e David Beckam, in questa direzione si muove la nostra società.

La musica di Wagner sottintende un'architettura di arte. In scena presentiamo un'architettura, che simbolizza la fine del mondo. Ciò è appropriato per Wagner, che si spinse sempre ai confini per guardare nell'abisso. Ciò dà l'impressione dell'Apocalisse: un'architettura della fine del mondo.

Per me Parsifal rappresenta il poveraccio, culturalmente rozzo. Verrà stilizzato come un eroe, un nuovo Gesù Cristo. È il nuovo super-modello della società.

Sì, sono considerazioni davvero siderali; dico, chi sono al confronto Hegel, Goethe, Schopenhauer, Freud, Baricco?

Interessante la nota sulla locandina del Teatro: avvertiamo il nostro pubblico che in questo allestimento sono presenti scene di esplicita violenza, per cui preghiamo di tenerne conto in caso di presenza di minori o bambini.

Qualcuno (non molti) cerca ancora di dissentire.

26 marzo, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 24

È Ciajkovski il clou del concerto. Preceduto però da due composizioni dell'eclettico Leonard Bernstein, che non a caso è assai caro al Direttore.

Forse su una locandina, o su un programma di sala, non è politically correct scriverlo, ma il filo conduttore del programma è – pochi dubbi – l'omosessualità. Innanzitutto dei due autori, sia pure da essi vissuta in modo assolutamente diverso: con serenità, naturalezza e in (quasi) piena armonia con la vita coniugale e la famiglia, da parte di Lenny; e invece con patologica tensione, colpevolezza e ossessione, da parte di Piotr Ilijc. Ma è poi anche presente, in modo esplicito, in una delle opere in programma, la Serenade di Bernstein, che si richiama direttamente al platonico Simposio, dove l'amore omosessuale è al centro (o quasi) dell'attenzione.

Si apre però con Divertimento for Orchestra. Commissionato per celebrare il centenario della Boston Symphony (1980) a Bernstein – che era proprio di casa a Tanglewood, dove sorge il Music Center della BSO. Ora, la sigla BC (Boston Centenary) in musica (anglosassone) sta per SI-DO, e queste due note diventano la sigla dell'opera, suddivisa in 8 brani.

I - Sennets & Tuckets sono due termini coniati in Albione ai tempi di Shakespeare, traducendo onomatopeicamente (e maccheronicamente) Sonata e Toccata. Bernstein ci mette ritmi sincopati e grande uso di percussioni e batteria.

II – Waltz dovrebbe essere un walzer, ma è una cosa dall'andamento assai bizzarro, irregolare, anche se delicatissimo. Perché è scritto in 7/8, tempo invero inconsueto (ma anche Ciajkovski non sarà da meno).

III – Mazurka, contrariamente a ciò che si può immaginare, è in tempo lento, affidata soprattutto agli strumentini. Vi sentiamo l'oboe suonare un inciso della quinta beethoveniana.

IV – Samba: qui ci siamo proprio, rispetto al titolo, e si scatenano tromba, trombone e caraibiche percussioni.

V – Turkey Trot, una divertente parodia del fox-trot, richiama abbastanza scopertamente America da West Side Story.

VI – Sphinxes, sfingi è un breve movimento lento, oscuro, impenetrabile.

VII – Blues prolunga l'atmosfera pensosa del brano precedente.

VIII – In Memoriam; March "The BSO forever". Dopo un doveroso omaggio ai padri fondatori della BSO, ecco il panegirico… che sembra quasi portarci – con Nino Rota - al circo felliniano!

Wayne Marshall, da buon caraibico, si trova proprio a suo agio a dirigere queste note, quasi danzandovi sopra, e strappa applausi convinti.

Ecco poi Serenade, un concerto per violino, archi, arpa e percussioni, eseguito in prima assoluta a Venezia, Biennale 1954. Ispirato al Symposium di Platone (che di questi tempi è di attualità anche per via dei tanti Tannhäuser in programmazione in Italia) è suddiviso in 5 movimenti, corrispondenti agli interventi nella tenzone dei diversi personaggi:

I. Phaedrus & Pausanias (lento e allegro): il violino introduce il delicato tema di Fedro, l'amore come il dio più antico (un inciso tornerà in West Side Story… Maria); poi arriva, allegro e marziale, il tema di Pausania, dell'amore celeste, ma anche… omosessuale; i due temi poi si fondono mirabilmente, con le percussioni che imperversano.

II. Aristophanes (allegretto): si noti che Bernstein inverte la sequenza degli interventi (nel Simposio è Erissimaco a parlare prima di Aristofane il quale, con una scusa, salta il suo turno e parla dopo, criticando sia Pausania che Erissimaco). Il movimento – senza interventi delle percussioni - alterna un tema languido, femminino, e uno secco, mascolino: un modo per presentarci poeticamente il mito dell'andrògino, caro ad Aristofane.

III. Eryximachus, the doctor (presto): Erissimaco è un medico, ma possiede anche grandi conoscenze musicali (un Sinopoli ante-litteram!) e il suo è un appassionato intervento in favore dell'armonia, nel corpo come nello spirito. In questo brevissimo movimento (poco più di 100 secondi) il solista propone delle idee e l'orchestra, con poderosi interventi delle percussioni, risponde sempre e perfettamente a tono.

IV. Agathon (adagio): Agatone descrive l'Amore come il più buono e bello e giovane di tutti gli dèi. E Bernstein ci costruisce un mirabile adagio (anzi, se si esclude un centrale climax, con fortissimo delle percussioni, quasi un… adagietto mahleriano!)

V. Socrates & Alcibiades (molto tenuto e allegro molto vivace): Socrate è introdotto, in tempo sostenuto, dall'intera orchestra, che lascia poi spazio al solista, concertante con il violoncello. È la nobile perorazione del filosofeggiare di Diotima di Mantinea. Poi arriva Alcibiade, ubriaco, e l'orchestra infatti dà in escandescenze, con le percussioni a contrappuntare rumorosamente il solista.

Bravissimo Sergej Krylov e grande successo quindi per lui, che ci ripaga con un monumentale regalo: la bachiana Toccata e Fuga in RE minore! Una cosa stratosferica!

Dopo la pausa, eccoci a Ciajkovski e alla Sesta Sinfonia. Wayne Marshall qui fa una cosa davvero temeraria, ma assolutamente grande: da patetica, la trasforma in tragica, una cosa mahleriana, a tratti quasi espressionista!

Nel primo movimento troviamo una chiara reminiscenza dalla Carmen (Ciajkovski ne disseminò più ancora nel Concerto per Violino): lui si era davvero infatuato dell'Opera di Bizet:





..

Il secondo movimento, in quell'asimmetrico tempo di 5/4 (2+3) è preso da Marshall con molto brio, tutto teso, senza sdolcinamenti.

Nel terzo movimento abbiamo davvero un'esplosione di carica vitale, con il finale fracasso che scatena uno spontaneo applauso. Che fosse dovuto a ignoranza, o a genuina manifestazione di giubilo, poco importa: era del tutto meritato! E la cosa ripropone l'antico interrogativo: se siano da contemplare ed accettare applausi a scena aperta, nel bel mezzo di un'esecuzione (come si usava nell'800, peraltro).

Il quarto movimento presenta il famoso tema ottenuto per mirabile fusione di due linee melodiche separate (Violini I + Viole e Violini II + Celli):













. la cui risultante va letta (e appare all'orecchio) alternando le note di Violini II e Violini I.

Marshall lo affronta con decisione, stringendo un po' il tempo. Solo alla fine si ferma, piantato di fronte a violoncelli e contrabbassi, che hanno esalato la triade di SI minore in pppp. E resta lì, quasi in trance, per 4, 5, 6, 7 secondi (come chiudesse la nona di Mahler): qualcuno applaude, lui ancora resta immobile, l'applauso rientra, poi lui cala le braccia e finalmente, poco a poco, arriva l'applauso corale, crescente e interminabile! Una patetica da ricordare!

Si avvicina la Pasqua, e quindi ecco, per la prossima settimana, Bach!