affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

10 marzo, 2010

Da una casa di morti alla Scala


Z mrtvého domu di Leoš Janáček è forse il fiore all'occhiello del cartellone scaligero 2009-2010: prima rappresentazione italiana in lingua originale, direttore-super (Esa-Pekka Salonen) e regista-super (Patrice Chéreau). Il fatto di arrivare buona ultima – tre anni dopo la prima di Vienna, e poi Aix e il Met - a mettere in scena questa co-produzione dovrebbe dare alla Scala qualche vantaggio legato all'esperienza, sul fronte registico, ma anche musicale. Prima di questa produzione - creata originariamente e già in DVD da Boulez, cui è subentrato, dal Met, Salonen – avevamo la fondamentale interpretazione dei Wiener con Charles Mackerras, autore della moderna edizione critica di quest'opera che Janáček non aveva fatto in tempo ad ultimare in tutti i dettagli, e che i suoi contemporanei – magari in buona fede - avevano inizialmente adulterato alla grande, particolarmente nel finale, dove l'originale era stato totalmente travisato. Agli interessati segnalo che sabato 20 marzo, ore 18, la Bayerischer Rundfunk trasmette una registrazione dell'opera dal Met, con Salonen.
Lo scorso 24 febbraio, presso il Ridotto Toscanini, il consueto incontro di Prima delle prime - meritoria iniziativa de Gli amici della Scala - aveva ospitato un'interessante presentazione di Angelo Foletto (che di questi incontri fu l'ideatore più di 10 anni fa) e del Prof. Fausto Malcovati, che si erano soffermati sul retroterra letterario (dostojevskiano, da esperienza diretta) dell'opera e sulla maestrìa con cui Janáček ha saputo tradurre in suoni – ma prima ancora in una solida struttura drammatica - questo allucinato e allucinante squarcio di vita vissuta dentro un campo di lavoro russo della prima metà del 1800.
Janáček resta ancorato saldamente alla tonalità (e alla modalità) anche se nelle ultime opere decide – ma sembrerebbe più che altro per vezzo? – di abolire le armature di chiave dai suoi pentagrammi (con ciò infarcendoli poi di bemolli, diesis e bequadri, a la dodecafonica…) Altra curiosità: il personaggio di Aljeja fu assegnato dal compositore ad una soprano, decisione rispettata da Mackerras a suo tempo (l'estensione va dal MIb grave al SIb acuto) ma in questo, come in altri allestimenti, è interpretato da un tenore, il che riduce ad una sola (e marginale) la voce femminile all'interno dell'opera.
Opera davvero quasi unica nel suo genere, sia dal punto di vista della trama, di fatto inesistente e ridotta ad una sequenza di flash di vita nel bagno penale (Janáček eveva personalmente fatto un cut&paste di spezzoni del testo russo) e conseguentemente dal punto di vista musicale: una sequenza di motivi, frasi e incisi che apparentemente sembra caotica e priva di qualunque narrativa. E forse non solo apparentemente, se dobbiamo credere a ciò che lo stesso compositore confidò del suo modo di procedere nella stesura della parte musicale. La stessa ouverture, scritta prima del resto, ha solo vaghissimi legami con il corpo dell'opera. Anche senza studiare la partitura, basterà leggere la minuziosa analisi di Harry Halbreich per rendersi conto di come siamo di fronte ad una musica che – con uso stupefacente del colore e del timbro – ci fa vedere con l'orecchio la condizione di vita di quello spicchio di società e lo stato esistenziale di ciascuno dei suoi componenti, ognuno dei quali ha una diversa personalità, una diversa storia e un diverso approccio al proprio futuro.
Finisce con l'invocazione alla libertà (questo il finale adulterato della prima edizione, che chiudeva con un maestoso SI maggiore):




.
.
poi frustrata – nell'originale oggi per fortuna ripristinato - dal perentorio DO con cui la guardia urla il suo terzo Marrrš! Però un fondo di speranza rimane, se è vero che la marcia finale (a sipario velocemente calante) è un allegro che sfocia nel REb maggiore.
Ora, suonare e cantare un'opera siffatta credo sia un'impresa di per sé (questo ne spiega forse lo scarso numero di rappresentazioni) e quindi va dato merito a Salonen e ai cantanti di aver offerto una prova maiuscola, che gli ha meritato un grande tributo da parte del pubblico di una Scala che mostrava pochissimi vuoti, nonostante il nevischio imperversante là fuori.
Qualche considerazione sull'allestimento, che per un'opera siffatta è a dir poco cruciale.
Mentre le scene di Peduzzi (quanto poi imposte dal regista è da vedere) sono di una piattezza fino eccessiva (almeno all'inizio del secondo atto – siamo all'aperto ed è una giornata di sole, per quanto siberiano - un pochino di luce e di colore in più non dovrebbero mancare) devo dire che la regìa di Chéreau mi è sembrata di una fedeltà quasi assoluta al testo e alla musica di Janáček. Persino minuziose didascalie del libretto sono rispettate quasi alla lettera. Giustamente il regista aggiunge idee sue proprie, e geniali (come il particolare degli occhiali persi da Gorjancikov e recuperati da Aljeja, oltre che le movenze curatissime di ciascun personaggio). Ma chiunque abbia letto il libretto (non necessariamente anche Dostojevski) si immagina precisamente di vedere in scena ciò che Chéreau ci propina. Praticamente perfetto, e complimenti!
Ma allora viene spontanea la domanda (maliziosa) al grande regista: perché non ha seguito la stessa strada quando (35 anni fa ormai) inscenò il Ring del centenario a Bayreuth, o anche quando (2 anni fa o poco più) ci presentò il Tristan, qui alla Scala?
Non solo, ma lo Chéreau di questa Casa sembra anche avere sconfessato quello che, proprio a proposito del Ring, negava ogni cittadinanza alla Zeitlösigkeit dell'Opera, calando proditoriamente il mito wagneriano nell'attualità di oggi. Invece oggi abbiamo uno Chéreau che ci mostra – e lo dichiara apertamente nelle sue esternazioni – una vicenda che è fuori dal tempo, uguale a se stessa in tutte le epoche e sotto tutti gli orizzonti. Mah…
Chiudo prendendomi la soddisfazione – io dilettante-nessuno - di irridere al sommo Paolo Isotta, che sul Corriere ha scritto una recensione zeppa di sciocchezze e meritevole di querela da parte degli eredi del compositore. A cominciare dall'affermazione secondo cui il libro di Dostojevski sia ormai introvabile (giudicate voi). Poi, per lui nell'opera manca ogni barlume di quella commozione mistica onde Dostoevskij è pieno. Ma che opera ha visto? O che tasso alcolico aveva nel sangue? E ancora: Non narreremo delle vicende testuali dell'ultimo lavoro del compositore ceco, tanto complicate esse sono. Ma che libretto ha letto? Forse quello in ceco, dove anche lui – come la maggior parte di noi - non ci capisce nulla?
Ma la migliore è questa frase: E non ripeteremo nemmeno una sua colossale ingenuità, che porta gli occhi suoi propri a disprezzare il suo genio, essere la lingua ceca già musica, anzi la sola musica possibile, e i tentativi, paradossalmente a tratti riusciti, di scrivere musica ricalcante la lingua del suo Paese. Sì, era proprio ubriaco (Isotta, mica Janáček) adesso è sicuro!
Dopo aver dato del giovane a Salonen (essendo tutto relativo, il finlandese sarà magari giovane rispetto a Isotta, ma ha pur sempre 52 anni, o Isotta ha scoperto la sua esistenza solo oggi?) la chiusa dell'articolo è precisamente da gulag: Scrive Janáček in esergo alla partitura: «In ognuno di questi criminali c'è una scintilla divina». La sua Opera dimostra radicalmente il contrario. Intanto, se vogliamo stare all'ufficialità – il frontespizio della partitura, per l'appunto – Janáček vi scrive "In ogni creatura (tvor) una scintilla divina"; e poi, basta ascoltare la musica per convincersi che è proprio così. Ma Isotta lo pagano anche?

09 marzo, 2010

La nona di Mahler secondo Esa-Pekka

Esa-Pekka Salonen di questi tempi risiede a Milano: tra concerti e opera non ha davvero un minuto libero. Ieri sera ci ha proposto, alla Scala, in un concerto della Filarmonica, la sua vision dell'ultima sinfonia (completata) di Gustav Mahler. Teatro affollato, ma non proprio al completo, orchestra disposta alla moderna (rinforzata di un corno e un clarinetto) e puntualità quasi …finlandese!

È stato giustamente osservato come nelle 6 misure introduttive ci sia in realtà tutta la sinfonia: così come uno zigote, un'unica cellula, contiene i suoi 46 cromosomi, che determineranno infallibilmente la natura del futuro individuo.









.

.

Salonen fa emergere mirabilmente arpa e secondo corno (che cita il Mahler diciannovenne di Das klagende Lied) prima di lanciare i secondi violini nell'esposizione del primo tema (che riprende il discorso da dove lo aveva lasciato Das Lied von der Erde - Abschied e Leb wohl…) Insomma, come ogni interprete che si rispetti, sa conquistare immediatamente il pubblico, catturandone l'attenzione e l'interesse, che poi non scenderanno più, fino alla fine.

Il primo movimento è un continuo alternarsi – una curva bioritmica, si direbbe – di serenità, allegrezza e sconforto, se non addirittura disperazione. Ci si sente lo stato d'animo di un uomo che ricorda, ma anche vive tuttora, momenti sublimi, di grandezza, di felicità, di gloria (basti pensare ai richiami del finale della prima sinfonia). E poi, immancabilmente, al culmine dell'ebbrezza, arriva la depressione, lo schianto repentino, il pessimismo più cupo, persino un mortorio! Allo stesso modo gli incantevoli giorni delle sue ultime estati Toblachiane venivano immancabilmente interrotti dal duro richiamo del dovere, dall'alienante città (Vienna o NewYork, fa lo stesso). Come nel finale della sesta? Sì, ma là c'era non poca affettazione, martellate in primis, qui invece l'anima è proprio nuda! Non sono un finlandese, e quindi posso solo sospettarlo: ma, secondo me, il finlandese Salonen di questi sbalzi improvvisi di umore deve saperne molto, a livello personale; e ciò gli consente di compenetrarsi come pochi altri in questa schizofrenica partitura. Da lasciare letteralmente senza fiato - dopo le reminiscenze dell'Abschied (Die Welt schläft ein…) - la stupefacente cadenza che conclude il movimento, sul primo tema (FA#-MI) dell'oboe, che si spegne sul RE di ottavino e violoncelli in armonici.

Poi arriva il goffo e grossolano secondo movimento, con quei fagotti ad introdurre una comoda danza popolare. Subito però i clarinetti, in modo impertinente, ci rimandano all'ewig del Lied von der Erde! Dopo la seconda sezione quasi diabolica torna, nel trio, quello che può essere definito il leit-motif dell'opera: la seconda discendente mediante-sopratonica, nei corni e primi violini. Fanno capolino anche atmosfere che rimandano al secondo tempo della quarta sinfonia. Poi ancora un selvaggio e ubriacante sviluppo che si arena per sfinimento, ancora sulla scala ascendente dei fagotti – prima – e di controfagotto e ottavino poi, a chiudere in pianissimo, col pizzicato degli archi alti. Salonen ha benissimo in mano l'orchestra, ha anche la partitura sul leggìo, che guarda di traverso, di tanto in tanto. Sempre perentori gli attacchi, gesto preciso e secco, senza inutili platealità.

Il Rondò-Burleske è davvero un capolavoro: di Mahler e di Salonen. Anche qui si capisce tutto dalle prime 7 battute, davvero fulminanti, sui righi del compositore, come nella resa dell'interprete! Poi è tutto una vera e propria ubriacatura, interrotta dalla sezione solenne, che ci rimanda alla chiusa della terza sinfonia, col gruppetto (che sarà il cardine del Finale) a farla da protagonista, dapprima presentandosi con portamento nobile, ma poi trasformandosi in autentico sberleffo, nel clarinetto in LA, ma più ancora in quello piccolo in MIb. Il tutto culmina nel più stretto e poi nel presto conclusivi, dove i pur bravissimi Trepper Philharmoniker sembrano faticare a stare alle calcagna del Maestro, ma chiudono comunque in modo più che degno.

Che dire dell'Adagio conclusivo? Pura metafisica. Un trattato di esistenzialismo trasferito dall'anima direttamente sul pentagramma. Bruckner (nona) l'ispiratore, certo, ma qui c'è riassunta tutta la parabola di Mahler, in termini squisitamente musicali, sia chiaro. Alla battuta 13, dove i primi violini entrano – più rigorosamente a tempo – per esporre la seconda strofa del primo tema, Salonen è così deciso nel gesto che… perde la bacchetta, finita tra i piedi di un violinista: per un po' di battute dirige a mani nude, finchè il professore gli recupera lo strumento di comando. Tutta l'orchestra è come una corda tesa; stupenda la resa che Salonen ottiene dell'Höhepunkt dei corni, uno dei passaggi più straordinari di tutta la musica mai scritta. Danilo Stagni qui si supera e la cosa – oltre al resto della sua maiuscola prestazione – gli merita un gesto inconsueto da parte del Direttore: alla fine, Salonen sale fin sul palchetto dove sono sistemati i cornisti, e si va a complimentare personalmente con la prima parte dei Filarmonici!

Tornando a bomba, l'Adagio finisce in sospeso, degradando di un semitono dal RE maggiore del primo tempo, con una lunghissima cadenza, le cui ultime 34 misure sono affidate ai soli archi, contrabbassi esclusi. Il violoncello solo – assai dolce ma espressivo – fa due discese cromatiche, prima LA-SOL#-SOL e poi ancora SI-SIb-LA-SOL#-SOL: quest'ultima a me richiama irresistibilmente alla memoria quel Seines Elendes jammerte mich (MI-MIb-RE-DO#-DO) con cui Isolde ricorda la pena da lei provata di fronte alla miseria di Tristan morente.

Quindi, dapprima adagissimo, poi lento (sul ricordo della giornata, che è bella su quell'altura) e infine con la massima lentezza, arriva la chiusa, un autentico approdo all'omega, un'ora e venti minuti dopo l'alfa dei violoncelli. Si appoggia sulla dominante, ma solo apparentemente, poiché alle viole che vi ondeggiano intorno si aggiunge la tonica nei violoncelli e la mediante nei secondi violini: quindi una perfetta triade di REb maggiore: crepuscolare redenzione? un altro modo di mormorare ewig, ewig? chissà…






.

.

Esa-Pekka chiede l'impossibile agli archi, primi violini in pppp (!) e gli altri in ppp spegnendosi. La Scala è in apnea, come il Duomo al sollevarsi dell'ostia… un religioso silenzio, che poi sfocia in una liberatoria ovazione, anzi in un vero e proprio trionfo per Salonen e per tutti. Un'emozione davvero indimenticabile!

E questa sera, sempre Scala e sempre Pekka!

06 marzo, 2010

Peter Grimes al Regio di Torino

Ieri pomeriggio, al matinée del Teatro Regio di Torino (platea abbastanza affollata, fila di palchi invece deserta al 70%) un interessante Peter Grimes. Nei ruoli principali il secondo cast.

La regìa di Willy Decker ha delle buone intuizioni, affiancate da qualche caduta di stile, o da qualche banalità. Le scene (John Macfarlane) sono improntate ad un minimalismo non del tutto fuori luogo: soliti pannelli mobili, un paio di sfondi dai colori e disegni pallidi e indecifrabili, o che richiamano vagamente cieli striati da cirri e cumuli. I costumi (dello stesso Macfarlane) sono più da città che da borgo marinaro, ma forse una ragione c'è. È la stessa che spiega perché il mare non si vede mai, il che sembrerebbe idea strampalata, mentre tutto sommato ha buon diritto di cittadinanza.

Pare che lo stesso Britten si sia lamentato di una scenografia troppo esplicitamente marina in occasione di un allestimento londinese. E in effetti non c'è bisogno di vedere un mare di cartapesta, quando il mare lo si vede benissimo con l'orecchio! Grazie ai colori della splendida orchestrazione britteniana (a proposito, complimenti davvero ai professori addetti a flauto, ottavino e clarinetto, che hanno dato vita – con i corni e tutti gli altri - alle bellissime atmosfere acquatiche, non solo degli interludi). Secondo Britten (con cui si potrebbe magari filosoficamente ed antropologicamente dissentire) il Grimes non è una storia di gente di mare, ma di un certo tipo di gente, sempre uguale sotto qualunque orizzonte e latitudine. Una comunità che sfoga i suoi sensi di colpa sul primo individuo avvertito come diverso, il quale finisce quindi per divenire a sua volta diffidente di tutto e di tutti.

E il regista fa quindi benissimo a mostrarci Grimes sempre isolato dal resto del popolo, fin dalla prima scena dell'istruttoria processuale. Dove il pescatore appare recando una piccola bara, col corpo dell'apprendista morto, oggetto dell'istruttoria medesima. Bara che poi si porta via, proprio come un fardello di cui non si potrà mai liberare.

Il primo atto si apre – anziché sulla battigia, con barche e pescatori, e ragazzi che sguazzano – in un locale chiuso che pare proprio una chiesa, a giudicare dal fatto che è il reverendo Adams a dirigere il coro dei borgatari, tutti ordinatamente seduti su seggiole perfettamente allineate, e tutti con tanto di spartito in mano. Esattamente la stessa scena si vedrà alla conclusione dell'opera (dove del resto il coro canta quasi le stesse note, nella stessa tonalità di LA maggiore) prima che il sipario cali. Qui francamente l'intento didascalico di Decker – mostrarci una comunità integralista oltre ogni limite – mi è parso eccessivo. Oltretutto – massima contraddizione, certo voluta, ma altrettanto discutibile – allorquando (prima scena del secondo atto) il popolo è in chiesa per davvero, allora lo vediamo in totale disordine, in piedi, disattento e indisciplinato! Mah…

Nella scena della taverna, primo atto, durante la tempesta, c'è forse troppo andirivieni di comparse. La cosa è giustificata dalla presenza del coro, però Decker mescola troppo i personaggi principali con le masse, il che ne rende poco distinguibili, e udibili, gli interventi.

Altro discutibile aspetto della regìa è l'impiego della croce nelle due scene di caccia a Grimes (secondo e terzo atto): anche qui la metafora della crociata contro il diverso si poteva presentare in modo più efficace (almeno credo io).

Assai più efficace, appunto, l'impiego delle maschere di animali da branco (pecore, galline, conigli e maialini) nella scena della festa nella Sala Civica (inizio del terzo atto).

Un'ultima nota riguarda la fine dell'atto secondo, laddove, dopo essere scomparsi precipitando nel dirupo (cosa risultata fatale al ragazzino) Grimes e lo stesso riemergono nella loro casupola, dove il pescatore depone il corpicino morto – e senza maglione – sul letto. La cosa è inventata (nel libretto invece è Balstrode a calarsi a sua volta lungo la scogliera). L'unico valore aggiunto che questa trovata ci dà rispetto all'originale è di spiegarci meticolosamente come mai il maglioncino dell'apprendista sarà poi rinvenuto da Ellen in riva al mare.

Quanto alla caratterizzazione dei personaggi, direi che Decker abbia fatto centro. In particolare nelle macchiette come Swallow e Adams (dissacrante la scenetta con le nipotine all'inizio del terzo atto) Boles, efficacissimo nelle movenze e Mrs. Sedley, perfetta nel ruolo della benpensante fanatica. Grimes, Ellen e Balstrode: proprio come uno se li aspetterebbe.

Vengo alla parte musicale. Confermando subito il mio bravo incondizionato – già emesso dopo l'ascolto radiofonico della prima - al Kapellmeister Yutaka Sado. Che curiosamente abbandonava sul leggìo la bacchetta ad ogni attacco degli Interludi. E con lui all'orchestra del Regio, che evidentemente il mio concittadino Gianandrea Noseda sta curando con profitto. Mentre per radio mi era parsa spesso troppo invadente (colpa dei microfoni?) ieri non ha mai coperto le voci.

Grimes era Jon Ketilsson. Se dividiamo schematicamente gli interpreti del pescatore in due scuole (Pears e Vickers) il nostro è più della prima che della seconda (quindi sarebbe gradito a Britten!) A me è decisamente piaciuto di più del Shicoff ascoltato per radio alla prima. Voce non potentissima forse, ma canto assai pulito, mai impiccato, e buona espressività.

Janice Watson era nei panni di Ellen, ruolo da lei già altre volte sostenuto. Tecnicamente ed attorialmente bravissima, purtroppo ciò che a me personalmente non piace di lei è la voce che, appena deve superare il piano, diventa metallica, chioccia, quindi poco gradevole. Quindi non adatta ad un personaggio che ha un animo dolce e materno, ma forse più ad una bisbetica come Mrs.Sedley! Più di lei mi era piaciuta per radio la Gustafson, una voce più calda e morbida.

Mark S.Doss si è confermato un baritono coi fiocchi e un Balstrode quasi perfetto.

Bravi, anche come qualità mimiche, il Boles di Mark Milhofer, il Keene di George von Bergen, lo Swallow di David Wilson-Johnson e il reverendo Adams di Dominic Armstrong.

Su discreti standard gli altri: la zia di Cornelia Wulkopf, le nipotine Silvia Colombini / Daniela Schillaci, la Mrs.Sedley di Claudia Nicole Bandera e l'Hobson di Lucas Harbour (che se l'è cavata bene anche come tamburino).

Alla fine grandi applausi per tutti, compresi Sado e il coro con il suo Gabbiani. Doss e Watson i più gratificati. Per la verità abbiamo avuto anche un applauso a scena aperta – ahimè dovuto a crassa ignoranza, da parte di qualcuno che forse pensava essere quella la conclusione dell'opera – dopo il primo dei tre Peter Grimes! che tutti (Ellen e Balstrode esclusi) cantano a squarciagola in SIb subito prima del sesto interludio. Pazienza.

Appuntamento fra pochi giorni con Wagner.


05 marzo, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 21

Ancora un grande programma per laVerdi, in un affollatissimo Auditorium.

Il trentaseienne lionese di belle speranze Ludovic Morlot attacca la verdiana sinfonia da La forza del destino, con quei sei poderosi MI raddoppiati all'ottava, suonati da tutti gli ottoni (con tuba a sostituire il cimbasso, as usual) e dai fagotti.

Quando ascolto il tema di Leonora (Madre, pietosa vergine) non posso fare a meno di richiamare alla mente Wagner (Tristan, Atto I) e l'esternazione di Isolde:








Sarà pura coincidenza (in fondo abbiamo 12 note e le loro combinazioni possono ripetersi casualmente, e poi Wagner parte dalla sottodominante) e forse, nel 1862, Verdi ancora non aveva dato una scorsa alla partitura del Tristan, di cui si racconta che rimarrà poi meravigliato ed atterrito. Ma fra i due sommi autori non sono pochi i punti di contatto, pur dovendosi escludere esplicite citazioni.

Ecco ora il Concerto per Orchestra di Béla Bartók. Opera davvero affascinante di questo grande del novecento, che ha creato un pezzo per solisti dentro l'orchestra, forse per solleticare l'amor proprio dei professori della Boston Symphony, di fatto dedicatari e primi esecutori del pezzo, col loro Direttore e commissionante Serge Koussevitzky.

A volte contiene trovate francamente bizzarre, come le tre battute della seconda arpa, verso la fine dell'Introduzione, così notate:



.

.

E dove all'esecutore è richiesto l'impiego di un mezzo ligneo o metallico con cui strofinare le corde. In questa ripresa di Pappano con la S.Cecilia si può vedere il particolare a 9'22" del filmato.

A dispetto dell'epoca moderna della composizione (1943) il concerto non ha mancato di creare equivoci e problemi di interpretazione (anche perché il suo autore scomparve pochi mesi dopo la creazione). Il principale riguarda il metronomo del secondo movimento (sottotitolato Giuoco delle coppie, o forse Presentando le coppie, dove compaiono appunto le cinque coppie di strumenti a fiato che presentano i rispettivi temi): sull'edizione stampata in origine, e impiegata per parecchio tempo da tutti i direttori, compariva il metronomo di 74 semiminime (il tempo è 2/4) e l'indicazione Allegretto scherzando. Poi fu Georg Solti a scoprire, quasi casualmente, che il manoscritto originale recava indicazioni diverse: Allegro scherzando e, soprattutto, metronomo di 94 semiminime! Una bella differenza, il 30% più veloce! Direi che Morlot si sia senz'altro attenuto all'edizione aggiornata (1997) di Boosey&Hawkes (Pappano è un poco più lento – 86 - come anche Boulez, con la Chicago Symphony).

A proposito di prestazioni solistiche dei vari strumenti, nell'Intermezzo interrotto c'è il famoso tema (calmo) presentato inizialmente dalle viole (sempre Pappano, qui a 5'29") che il timpano deve accompagnare percorrendo praticamente tutta la scala cromatica: SOL-DO-FA-SIb-MIb-LAb-DO-FA-MIb-REb-MI-RE#-SOL#-LA-RE-SOL:





Un'impresa non proprio facile, poiché il timpano non è certo un pianoforte, né un violino! Inutile dire che la bravissima Viviana Mologni lo ha eseguito in modo impeccabile, muovendo evidentemente alla perfezione anche i piedi, oltre che le braccia.

Nel Finale ascoltiamo un tema che richiama da vicino una rumba, El Cumbanchero, che il portoricano Rafael Hernandez Marìn aveva lanciato proprio nel 1943 e che faceva furore fra gli ispanici, e non solo, di New York, dove nacque il Concerto:




.

.

.

Qui lo si sente esposto per primo dalla tromba, a 3'12" del filmato (sempre Pappano).

Meritatissimi applausi all'Orchestra, anzi ai singoli Professori, ma anche al maestro Morlot, che ha mostrato di avere grande dimestichezza con quest'opera assai difficile.

Dopo la pausa, ecco la Quinta di Beethoven, sesta in ordine di esecuzione stagionale dell'integrale, che si completerà fra fine maggio e primi di giugno (con prima, quarta e terza, tutte dirette da Xian Zhang).

Qui magari chi ha nelle orecchie Karajan o Kleiber o Abbado con orchestre come i Berliner, o i Wiener, sarà portato a fare confronti ingenerosi… ma oggi di grandi alternative ai CD di quei mostri non ce ne sono in giro poi molte, e una cosa è certa: Morlot e laVerdi non ci hanno fatto rimpiangere di non essercene rimasti a casa con le cuffie in testa!

Morlot la fa proprio lunga, eseguendo non solo il ritornello dell'iniziale Allegro con brio (cosa più che legittima e normale) ma anche quello del Finale (cosa invece assai discutibile, chè appesantisce inutilmente la narrativa di questo capolavoro). Comunque il pubblico gli tributa alla fine un gran trionfo, che il Maestro giustamente condivide con gli orchestrali, chiamati ad alzarsi quasi uno ad uno.

La prossima settimana torna all'Auditorium il venerabile Rudolf Barshai.

26 febbraio, 2010

Bach dal web

Fino a pochissimi anni fa era cosa avventurosamente concessa solo a qualche dotato radioamatore: sintonizzarsi su un'emittente aliena per ascoltare qualche interessante trasmissione. Oggi – grazie soprattutto al web, Marconi non ce ne voglia! – chiunque, dotato di ADSL, può sbizzarrirsi a cercare e trovare in giro per il pianeta tesori apparentemente nascosti.

Questa sera la Bayerischer Rundfunk ha trasmesso, dalla Herkulessaal della Residenz di Monaco, la bachiana Johannespassion (quella cruenta e realista) con l'esperto tulipano Ton Koopman alla guida della gloriosa Orchestra della Radio Bavarese.







.

.

Fra prescrizioni e inquinamenti materiali e politici, non ci resta che Bach…

Stagione dell’OrchestraVerdi - 20

Riecco il sommo Beethoven della Missa.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

C'è chi sostiene che – a differenza delle classiche messe precedenti – questa sia impossibile da eseguirsi all'interno di una canonica cerimonia liturgica. Cosa clamorosamente smentita proprio dall'Orchestra e Coro de laVerdi lo scorso settembre, alla Basilica di SanMarco, nell'ambito del MI-TO 2009. Sopravvivono, di quella esecuzione, la mezzosoprano Manuela Custer e il basso Kamie Hayato, cui si aggregano la soprano Helena Juntunen ed il tenore Richard Berkeley-Steele.

Ma ora siamo all'Auditorium, pieno come un uovo, al pari del palco, pur se l'organico per la Missa non è certo di stampo mahleriano o straussiano… Quindi in un luogo certo più adatto ad eseguire un'opera che, come tutto Beethoven del resto – e a dispetto della pomposa dedica al Cardinale suo allievo e mecenate, nonché Arciduca, Rodolfo - è indirizzata alla ragione, oltre e forse più che alla fede, o alla fede nella ragione.

Quanto ai solisti, la Juntunen, già ascoltata qui a fine anno in un'improbabile nona diretta da Marshall, ha voce penetrante, anche se in alto un pochino chioccia, quindi non proprio gradevolissima. Berkeley-Steeleheldentenor lo classifica la sua biografia – sfoggia effettivamente una bella voce piena e chiara, come la Manuela Custer, mentre Kamie Hayato fa dignitosamente la sua parte non proprio proibitiva.

Ma è il coro qui a farla da padrone, un coro nato – val la pena ricordarlo sempre – dalle amorevoli cure e dalla sapienza ed esperienza scaligera di Romano Gandolfi, alla cui memoria questo concerto è significativamente dedicato. Un coro che oggi non sfigura affatto di fronte a quello, sempre immenso, di Bruno Casoni. Un coro che affronta da par suo le impervie difficoltà di questa interminabile partitura. Erina Gambarini, che ne è guida e anima, si va a sistemare in mezzo ai suoi, dando così anche il suo contributo diretto di voce.

Però, anche in un'opera in tutto e per tutto corale, Beethoven trova modo di infilare un mirabile intervento solistico. È quello del violino, che introduce e poi sostiene e contrappunta l'intero Benedictus. Una vera perla, un tocco di cesello sull'immensa struttura di questa cattedrale:



.

Tocca al Konzertmeister de laVerdi, Luca Santaniello, porgerlo in modo sublime, proprio come musica che scenda dall'alto dei cieli…

Dopo l'ultimo Dona pacem del coro, Xian Zhang chiude con grande compostezza, scandendo senza enfasi le tre ultime semiminime, sull'accordo di RE maggiore.

Grandi applausi – anche ritmati - ed ovazioni per tutti, coro in testa, com'è ovvio.

Prossimo appuntamento fra una settimana, con un grande Bartók e ancora un sommo Ludwig.

25 febbraio, 2010

Peter Grimes a Torino (su Radio3)

Ieri sera Radio3 ha diffuso la diretta della prima di Peter Grimes al Regio di Torino.

In attesa di assistere dal vivo, ecco le mie telegrafiche impressioni ricavate dall'ascolto via-etere, e qualche commento su quest'opera - ai non-più-teen-agers ancora contemporanea - per la quale si potrebbe quasi-quasi spendere la definizione di capolavoro.

Grimes era Neil Shicoff, a cui le 61 primavere cominciano evidentemente a pesare: ci ha messo l'anima e tutta l'espressività di cui è capace, ma la voce è quella che è, piuttosto impiccata e con difficoltà di intonazione. Convincente la Nancy Gustafson in Ellen: voce calda e gradevole. Grande il Balstrode di Marc S.Doss. Elena Zilio come Mrs.Sedley mi è sembrata eccedere nel parlare: quando ha cantato, lo ha fatto piuttosto bene. Su standard più che accettabili tutti gli altri/e. Preciso e pulito il coro di Gabbiani.

La direzione di Yutaka Sado mi è parsa davvero eccellente. Tempi sempre accurati e ottima resa delle ricche sonorità britteniane, non solo nei famosi interludi.

Sentiremo meglio dal vivo (ma con altri interpreti). Intanto qualcosa sul soggetto.

Non vorrei scomodare paragoni irriverenti o …pruriginosi, ma il Grimes è nato in un'atmosfera esistenziale non poi tanto diversa da quella (inizio 1800) in cui un tale Rossini scriveva opere per una tale Colbran. Nei primi anni '40 Ben Britten e Peter Pears stavano da tempo felicemente convivendo, il secondo collaborò in modo determinante con Montagu Slater alla stesura del libretto e fu il primo e forse - Vickers permettendo – il più grande interprete di Grimes. E proprio al tempo della creazione dell'opera i due si trasferirono al Aldeburgh, luogo dove il Grimes è ambientato e che si trova poco a sud di Lowestoft, dove lo stesso Britten era nato e aveva vissuto da ragazzo. Insomma, ci sono molti ingredienti – certo non sufficienti, ma utili – per garantire una buona riuscita dell'impresa.

La caratterizzazione del personaggio Grimes fu evidentemente condizionata da Pears (che a sua volta condizionò il librettista Slater e il compagno compositore Britten): da individuo quasi congenitamente perverso (pur figlio di un omonimo padre amorevole e ammirevole) qual è il Peter Grimes originale di George Crabbe, quello di Pears-Britten diventa un poveraccio perseguitato dal destino-cinico-e-baro (la sfiga che gli fa crepare, uno dopo l'altro, i suoi apprendisti) e contemporaneamente dalla società che lo circonda (anzi, che lo bracca, propriamente). Vive in un circolo vizioso: strafare e rischiare oltre il ragionevole per promuovere la propria immagine è incappare così in una disavventura dopo l'altra è vedere quindi la propria immagine deteriorarsi ulteriormente è rischiare ancor più per recuperarla è e così via precipitando in vite… un cerchio che lo stringe sempre più da presso, fino a schiantarne la robusta fibra e la folle determinazione.

Sui risvolti personali e sui paralleli autobiografici con l'opera (le vicissitudini a sfondo pedofilo vissute da Britten durante la pubertà e le loro ripercussioni sui suoi comportamenti da adulto; la coppia gay Britten-Pears guardata con qualche storcimento di naso dalla puritana società albionica del secondo dopoguerra) penso sia meglio lasciar perdere: se anche possono avere costituito – come è verosimile – un qualche stimolo per la creazione artistica, mi pare che non trovino alcun particolare riscontro dentro l'oggetto della creazione medesima. Non aveva quindi tutti i torti Jon Vickers (pur non apprezzato come interprete – ma solo sul fronte estetico - dallo stesso Britten, che aveva comprensibilmente negli occhi e nelle orecchie solo il suo Pears) a rifiutare qualunque caratterizzazione del personaggio in senso omosessuale o, peggio ancora, pedofilo.

Né alla tragica condizione di Grimes all'interno della società in cui vive si può assimilare quella dei due autori, che in fin dei conti – grazie certo alla loro preminente posizione – poterono condurre un'esistenza più che serena spiritualmente, oltre che materialmente agiata (Britten fu anche insignito del titolo di pari). Insomma, Britten e Pears erano dei diversi che poterono vivere passabilmente bene, senza subire più che tanto le conseguenze della loro diversità. Merito loro è comunque di aver artisticamente rappresentato – in Grimes, e in altre opere successive - la condizione di tanti altri diversi anonimi, poveracci e bistrattati dalla società cosiddetta benpensante.

Nel 1830, epoca in cui è ambientata la vicenda (e in cui Crabbe scrisse i versi che ispirarono più di un secolo dopo Britten&C) i ragazzini orfani o abbandonati venivano ancora sbolognati – per pochi soldi – dagli istituti a chiunque se li volesse prendere per farne liberamente uso, ad esempio impiegandoli in umili attività manuali, con trattamenti che sfioravano, se non configuravano in pieno, aspetti di vera e propria schiavitù e – purtroppo – anche di brutalità sessuale. Insomma, una situazione quasi normale e tollerata dalla società, che però parallelamente sfogava il suo ipocrita moralismo su qualche soggetto assunto a capro espiatorio di tutte le comuni colpe. Ed è su quest'ultimo aspetto che Pears e Britten misero l'accento, mostrandoci Grimes come una vittima (della società e dei suoi pregiudizi, del gossip dei vari Bob Boles e Mrs.Sedley) e non come un aguzzino violentatore di poveri orfanelli.

Nel Grimes c'è il classico spaccato della nostra società contemporanea: persone per bene, con la testa sulle spalle e cristiana carità (Balstrode, Ellen, Hobson); bigotti, visionari e falsi moralisti (Boles e Sedley); gente che pensa solo agli affaracci suoi (Keene, Auntie e nipotine); pubblici ufficiali o religiosi, che sembrano sempre agire con qualche secondo fine (Swallow, Adams). E poi – fondamentale – il coro, l'opinione pubblica, potremmo dire, che si muove ondeggiando, proprio come un branco di pecore, o un banco di aringhe nella fattispecie, a seconda di come tira il vento o il mare. Il povero Grimes sta lì in mezzo, disadattato e insolubile in questa brodaglia, il classico diverso, ora tollerato - ma sempre guardato di sottecchi - ora apertamente braccato, come pubblico pericolo.

E la sua fine è quanto di più pessimistico e addirittura nichilista si possa immaginare. Se è vero che - come unica alternativa alla prospettiva di essere catturato e sottoposto a sommaria giustizia dalla parte ipocrita della società, ormai fattasi maggioranza - anche la parte ancora sana e pietosa di quella medesima società non riesce a suggerire, per non dire imporre, a Grimes altro che il suicidio! In particolare, un verso di Balstrode è addirittura agghiacciante: Since the solution is beyond life - beyond dissolution (Poiché la soluzione è oltre la vita – oltre la dissoluzione). Sembra la maledizione di Ahasvero! Ma lo stesso Grimes, poco prima, aveva così delirato: Where's my home? Deep in calm water (Dove è casa mia? Nel profondo dell'acqua calma).

Dopodichè – sistemata in qualche modo la faccenda Grimes - la vita del borgo tornerà a scorrere pigramente, sempre uguale a se stessa, perfetta immagine dell'eterno tira-molla della marea. E con il coro a chiudere in LA maggiore, proprio come aveva aperto nel primo atto, come nulla fosse accaduto, in attesa del prossimo uragano, e del prossimo gossip.

Come ogni dramma che si rispetti, anche il Grimes ha il sui momenti tòpici, quelli che i tedeschi chiamano Höhepunkte, punti culminanti. Coinvolgono sempre il protagonista, com'è giusto che sia. L'ultimo di questi si trova quasi alla fine, ed è il disperato sfogo del pescatore, ormai incapace di connettere, prima di "lasciarsi convincere" a farla finita. Ecco come lo interpretò il grande Jon Vickers. A sottolineare questo allucinato monologo di Peter, Britten prescrive una tuba fuori scena, che impersona il Fog-horn, la sirena che avverte i naviganti in caso di nebbia: suona sempre – la udiamo esattamente per 12 volte - un'unica nota, MI bemolle, con finale appoggiatura sul RE puntato, un effetto rabbrividente davvero (lo si ode per la prima volta, nel filmato, e bisogna farci caso con molta attenzione, proprio immediatamente prima dell'entrata di Peter, fra i due richiami - Grimes! - del coro).

Immediatamente dopo ciò che si vede e ascolta nel filmato, Grimes canta (tradotto):

Quale porto ripara la tranquillità?

Lontano dalle onde di marea, lontano dalle tempeste

Quale porto può rinchiudere Terrori e tragedie?

Il suo seno è anche un porto – In cui la notte si volge in giorno.

Sono precisamente le ultime parole di Peter, rivolte ad Ellen e a Balstrode, ma in realtà al vuoto. Non sono nuove: sono (quasi) le stesse che Grimes aveva pronunciato nel primo atto (qui sempre Vickers) al momento dell'incontro-confessione con lo stesso Balstrode, di fronte allo scatenarsi dell'uragano. Ma è la musica a spiegarci stupendamente come ora davvero non ci sia più speranza: là quei versi erano cantati in chiave di LA naturale, con la notte che volge in giorno a salire ostinatamente, dal MI al FA#; adesso invece la fine si avvicina, e quindi tutto si degrada, un semitono più sotto, chiave di LA bemolle, e il volgersi della notte in giorno è in realtà un precipitare in basso, un autentico e profetico inabissarsi, quasi un'ottava, dal RE al MIb, sul quale incontrare proprio il cupo suono del Fog-horn.

Miracoli dell'espressività musicale!

Qui uno spezzone di questa scena, fino alla conclusione dell'Opera, dalla produzione BBC del 1969, Britten sul podio e il suo compagno (e co-autore) Pears nella parte di Grimes. Da notare come Britten, per il drammatico frangente del commiato di Balstrode ed Ellen da Grimes, rinunci alla musica e ricorra al semplice e nudo parlato:

Balstrode (si avvicina a Peter e parla): Avanti. Vi aiuterò con la barca.

Ellen: No!

Balstrode (parlando): Fate vela finché perdete di vista la terra. Poi affondate la barca. Mi sentite? Affondatela. Addio, Peter.

Sulla spiaggia ciottolosa di Aldeburgh, affacciata sul Mar del Nord, circa 160Km da Londra, che ispirò George Crabbe, prima ancora che Ben Britten e Peter Pears (di cui divenne la dimora e sede di festival) da qualche anno è stata posta una contestata scultura (The Scallop, la capasanta) che reca, traforato sul bordo, un verso del Grimes (monologo alla fine dell'Atto II, altro Höhepunkt dell'Opera): Odo quelle voci che non annegheranno













.

.

.

..

Sono quelle voci che ricordano implacabilmente a Grimes il suo tragico destino di uomo senza dimora, senza pace e senza speranza.

Ma un uomo capace anche di esternazioni come questa (Atto I):

Ora l'Orsa Maggiore e le Pleiadi, man mano che la terra si muove,

Raccolgono le nuvole della sofferenza umana

Con un solenne respiro nella notte profonda.

Chi sa decifrare nella tempesta o alla luce delle stelle

I caratteri scritti di un destino favorevole –

Mentre il cielo ruota per cambiarci il mondo.

Ma se l'oroscopo è incomprensibile

Come il sommovimento lampeggiante di un banco di aringhe,

chi, chi, chi, chi,

chi può riportare indietro i cieli e ricominciare daccapo?


.

.

(le traduzioni sono di Maria Luisa Bignami)

19 febbraio, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 19

Torna la cinesina a guidare la sua orchestra in un programma coi fiocchi, davanti ad un pubblico abbastanza folto.

Si apre con Brahms e il suo Concerto per violino. Contrariamente a quanto annunciato in sede di programmazione originaria, non è Daniel Hope ad interpretarlo, ma la brava Francesca Dego, già esibitasi qui poco tempo fa, nel concerto di Sibelius. Bella, oltre che brava, questa poco più che ventenne lecchese, ieri sera in un lungo nero scollato, con fascia bianca spiovente. E anche assai alta: la piccola Xian, per guardarla negli occhi, deve salire sul suo podio da 40 cm!

La tonalità del concerto di Brahms è RE, come anche lo è per Beethoven, Paganini (1° e 4°) Ciajkovski e Sibelius, per citare solo i più famosi. Ma anche per Mozart (2° e 4°) Prokofiev (1°) Lalo (sinfonia spagnola), Wieniawski (2°) e Schumann.

Solo qualche curiosità su quest'opera celeberrima. Per le prime 80 battute dell'Allegro non troppo il violino solista tace, poi finalmente entra con un lungo recitativo, che per altre 35 misure è accompagnato instancabilmente, in pianissimo, dal rullo del timpano della sempre impeccabile Viviana Mologni.

Brahms è assai parco di indicazioni agogiche per il solista, e così è ancora più singolare quell'isolato lusingando che compare alle misure 224 (esposizione, tonalità LA) e 467 (ripresa, tonalità FA#) e che sarebbe interessante capire come venga inteso da ciascun interprete, per poi essere tradotto in suoni. E se poi faccia proprio quell'effetto lusingante sull'ascoltatore!




.

Francesca – chissà se riesce proprio a lusingarci… - lo esegue comunque con gran portamento e delicatezza, al pari di tutto il resto, va detto.

L'Adagio è aperto dal primo oboe, Emiliano Greci, che canta il dolcissimo tema principale in FA maggiore, che verrà poi ripreso dal solista.









.
.

Il grande Sarasate si rifiutò sempre di eseguire questo concerto perché – a suo dire – di buono conteneva solo quel tema; e a lui avrebbe dato fastidio doverlo ascoltare standosene sfaccendato sulla sua pedana, a guardare il pubblico… La Dego invece ha tutta la pazienza di aspettare che arrivi il suo turno per esporci – variata – questa incantevole melodia.

Poi, con uno scarto cromatico dal FA al FA#, attacca l'Allegro giocoso conclusivo, caratterizzato da quel tema che nasce nervoso e scattante per poi – al poco più presto - addolcire di molto le sue spigolosità. Trionfo per la bravissima Francesca, che ci regala un gran bis paganiniano.

E dopo Brahms, ecco la Quarta di Ciajkovski. Sinfonia a sandwich, con i movimenti esterni enfatici, affettati e fracassoni che stritolano i due interni, di carattere più intimistico ed elegìaco.

Qualche passaggio non proprio impeccabile di corni e trombe nell'iniziale esposizione del millantato tema del destino, poi la Zhang dosa con sapienza i tempi del Moderato con anima negli archi, partendo un po' al rallentatore per poi ottenere un grande effetto con un crescendo generale. Bravi ancora tutti i legni nella sezione centrale Moderato assai, quasi andante, e brava ancora la Zhang a controllare lo stringendo di tutta l'orchestra, che porta alla riproposizione del tema del destino.

È ancora l'oboe protagonista dell'apertura dell'Andantino in modo di canzona, che crea uno stacco deciso dal fracasso del movimento iniziale. Efficace poi l'attacco della sezione centrale, dove clarinetti e fagotti presentano quel tema ostinatamente ondeggiante fra tonica e dominante (FA-DO) poi ripreso e rinforzato dagli archi e quindi contrappuntato dalle terzine degli ottoni. È poi nuovamente il fagotto a condurre alla chiusa, con la riproposizione del primo tema.

Il pizzicato ostinato è aggredito con la dovuta risolutezza da tutti gli archi, fino all'irruzione del lungo LA dell'oboe, anche qui protagonista, che introduce una specie di trio:





seguito poi da un concertino marziale, dove si mettono bene in mostra tutti gli ottoni.

Il finale Allegro con fuoco è una cosa invero tremenda per l'orecchio – mai peggio di certo Stockausen elicotterista, peraltro – e pieno di retorica a momenti quasi insopportabile. Nella battuta conclusiva Ciajkovski ci prende pure in giro, facendo tacere – nel generale triplo f - piatti, gran cassa e ottavino, bontà sua!

La piccola Xian cerca di non farsi mordere dalla tarantola, né dà in escandescenze come capita a molti direttori, che si fanno prendere la mano dalle turbe di zio Piotr. Va da sé che bisogna fare un monumento ai professori – dalla prima all'ultimo - per la loro stoica abnegazione.

È però il vecchio e caro Brahms ad avere l'ultima… nota: dato che la Zhang attacca – come bis – la quinta danza ungherese del burbero Johannes. Ancora ovazioni, e tutti a casa sotto la solita, fastidiosa pioggerella di questo febbraio meneghino.

Fra una settimana ancora la simpatica cinesina in un vero monumento dell'arte musicale, già presentato da lei e dai complessi de laVerdi lo scorso settembre, al MI-TO.

17 febbraio, 2010

In che modo le predette Sedeci chorde siano state da i Latini denominate.




.
.
.
.
.
.
.
.
.
..
.
ET benche gli antichi Greci nella fabrica, ò diuisione de i Monochordo, considerassero solamente Sedeci chorde, diuise in cinque Tetrachordi; ne tentassero di passar più oltra, per la ragione detta di sopra; nondimeno i Moderni non contenti di cotal numero, lo accrebbero; passando più oltra, hora nel graue & hora nell'acuto; imperoche Guido Aretino nel suo Introdottorio, oltra le nominate chorde, ue n'aggiunse dell'altre alla somma de Ventidue, & le ordinò in sette Hexachordi; & tale ordine fu & è più che mai accettato & abbracciato dalla maggior parte de i Musici prattici; essendo che in esse sono collocate & ordinate le chorde al modo delle mostrate Pitagoriche. E ben uero, ch'à ciascuno di essi, aggiunse, per commodità de i cantanti, alcune di queste Sei sillabe: Vt, Re, Mi, FA, Sol, La, cauate dall' Hinno di San Giouanni Battista;

Vt queant laxis Resonare fibris Mira getorum Famuli tuo- rum; Solue polluti Labij reatum sancte Iohannes;

& li concatennò con tale arteficio & in tal maniera; che ciascuno contiene tutte le Specie della Diatessaron, le quali sono tre; come vederemo nella terza parte; accommodando il Semituono, circoscritto da queste due sillabe mezane Mi & Fa, nel mezo di ciascuno. La onde aggiunse primieramente alla Proslambanomenos di questo suo ordine nella parte graue una chorda, distante per un Tuono, segnata con lettera Greca maiuscola ritrouata forse per inanti, ouero aggiunta da altri Musici de suoi tempi all'ordine delle chorde Greche in questo modo G; & l'altre poi con lettere Latine; che dinota, la Musica (come uogliono alcuni) essere stata ritrouata primamente da i Greci, & posta in uso; & al presente da i Latini essere honoreuolmente posseduta, abbracciata & accresciuta. Et alla predetta Lettera aggiunse la prima delle Sei sillabe; cioè, Vt; in questo modo G, vt; che uuol dire Gamma ut; & cosi nominò la chorda aggiunta di tal nome; & è la prima chorda della sua ordinatione. Chiamò poi Proslambanomenos de i Greci A re; ponendo insieme la prima lettera latina & la seconda sillaba delle mostrate; & fù la seconda chorda del suo Introdottorio. La terza poi; cioè, la seconda Greca, detta Hypate hypaton, nominò r mi; ponendo insieme la seconda lettera latina, & la terza sillaba seguente; & pose tal lettera quadrata, differente da la b rotonda; per dinotarci la differenza de i Semituoni, che fanno queste due chorde; conciosiache non sono in un'istesso luogo; quantunque siano alle fiate congiunte quasi in una istessa lettera sopra una istessa riga, ouero spacio; come altroue vederemo. Nominò dopoi la quarta C fa ut, & il resto per ordine, fino à Netehyperboleon, applicandoli vna delle prime lettere latine, A, r, ouer B, C, D, E, F, G; descriuendole nel primo ordine maiuscole, nel secondo picciole, & nel terzo raddoppiate; come nell'Introdottorio si uedono. Ma sopra Nete hyperboleon aggiunse altre cinque chorde nel terzo ordine; cioè, bb fa, ee mi; cc sol fa; dd la sol; & ee la; & fece questo per finire gli ultimi due Hexachordi, de i quali l'uno hà principio in f; & l'altro in g: & per tal modo le chorde Greche acquistarono altra denominatione. Fù tenuto tale ordine da Guido (com'io credo) forse non senza consideratione, applicando cotali Sillabe alle chorde sonore, moltiplicate per il numero Settenario; perche comprese, che nel Senario si conteneua la diuersità de i Tetrachordi; & che nel Settenario erano Sette suoni, ò uoci, l'una dall'altra per natural diuisione al tutto uariate & differenti; come si può vedere, & udire nelle prime Sette chorde, le quali sono essentiali, & niuna di loro s'assimiglia all'altra di suono; ma sono molto diuerse. Questa diuersità conobbe il dottissimo Homero, quando nell'Hinno fatto à Mercurio disse:

Ma Sette chorde fatte di budella
Di pecore distese, che tra loro
Erano consonanti.


Cosi Horatio parlando all'istesso Mercurio, commemorò tali chorde con queste parole;

Tuque testudo resonare septem
Callida neruis.

Et se ben Theocrito pone, che la Sampogna di Menalcha pastore facesse Noue suoni differenti, quando disse:

Questa bella Sampogna, la qual feci
De Noue suoni.


Credo, che questo habbia fatto; perche (com'è manifesto & lo afferma Giouanni Grammatico) Theocrito scrisse nella lingua Doricale sue poesie, le quali cantandosi alla Cetera, ouer Lira, si cantauano nel Modo Dorio; che procedeua (secondo che uederemo nella Quarta parte) dal graue all'acuto, ò per il contrario, per un tal numero di chorde. Ma Virgilio suo imitatore, accordandosi con Homero, nella Bucolica espresse il numero di sette chorde solamente, dicendo:

Est mihi disparibus septem compacta cicutis
Fistula.


Et nel libro Sesto dell'Eneida toccò tal numero; quando disse,

Necnon Threicius longa cum veste sacerdos,
Obloquitur numeris septem dicrimina uocum.


Similmente Ouidio nel Secondo libro delle Trasformationi disse:

Dispar septenis fistula cannis.

Et però con giudicio (com'hò detto) esse Lettere da Guido furono replicate, & non variate; perche conobbe, che l'Ottaua chorda era simile di uoce alla prima; la Nona, alla seconda; la Decima, alla terza, & l'altre per ordine. E' vero, che non mancano quelli, che per le autorità addotte de i Poeti uogliono intendere le Sette consonanze diuerse, contenute nella Diapason; che sono l'Vnisono, il Semiditono, il Ditono, la Diapente, l'Hexachordo minore, il maggiore, & essa Diapason; & altri anco, che intendono il simigliante; lasciando fuori l'Vnisono; perche non è Consonanza propriamente detta; come vederemo al suo luogo; ponendoui la Diatessaron; le quali opinioni non sarebbono da sprezzare, quando fussero secondo la mente de tali autori, & non fussero lontane dalla verità; imperoche seguendo i Poeti indubitatamente l'opinione di Pitagora, di Platone, di Aristotele, & d'altri eccellentissimi Musici & Filosofi più antichi; non si può dire, che mai hauessero alcuna opinione, di porre il Semiditono, il Ditono, & li due Hexachordi nel numero delle Consonanze; per le ragioni dette di sopra. Ma s'alcun dicesse, che nella Diapason si ritrouano non solo Sette suoni, ò voci differenti; ma di più ancora; come si può uedere ne gli Istrumenti artificiali; il che arguisce contra quello, che di sopra hò detto; Si risponderebbe, ch'è uero, che tra la Diapason si ritrouano molti Suoni differenti, oltra i Sette nominati; ma tali Suoni non sono ordinati secondo la natura del genere Diatonico; ne meno sono acquistati per alcuna diuisione della Proportionalità harmonica.
























INTRODUTTORIO DI GVIDO Aretino ordinato secondo le diuisioni Pitagoriche nel genere Diatono Diatonico.

ISTITVTIONI HARMONICHE DEL REV. M. GIOSEFFO ZARLINO DA CHIOGGIA,
Maestro di Capella della Serenissima Signoria DI VENETIA. Seconda Parte. Capitolo 30. (MDLVIII)