
07 settembre, 2008
L’ultima (?) bagatella del Ludwig

05 settembre, 2008
Bayreuth e il nazismo: ne sapremo di piu?
Che dire? È una trovata pubblicitaria? Un’ipocrisia? Un trucco per rimuovere l’opposizione e l’ostracismo a Wagner che ancora oggi in larga parte dell’opinione pubblica ebrea (e non) sono assai radicati? Oppure lo schietto desiderio di chiarire una volta per tutte le responsabilità, le colpe, le omissioni di chi (genitori, zii, nonni di Kathi) era alla testa del Festival negli anni in cui Hitler ne fece una vetrina del regime nazista?
Dall’esterno si può per ora fare qualche considerazione di natura tecnica, artistica e politica.
Sappiamo che villa Wahnfied fu bombardata e semidistrutta durante la seconda guerra mondiale. A seguito dell’occupazione (americana) il Festspielhaus e la villa furono in buona parte saccheggiati dalle truppe occupanti (alla ripresa del Festival nel 1951 Wieland Wagner si ritrovò senza scenografie e fu... costretto a fare le sue splendide regie minimaliste) e non è quindi da escludere che anche parte degli archivi sia stata - oltre che distrutta - trafugata. Insomma, ciò che ancora oggi giace “in cantina” a Wahnfried non è detto che sia tutto ciò che vi si trovava prima della fine del conflitto e - da un giorno all’altro - potrebbero saltar fuori reperti interessanti da altre “cantine”, ubicate magari in Arkansas o in Minnesota. Comunque, meglio di niente.
Ciò che invece si può osservare, sul piano puramente artistico, poichè è storia certificata dalle cronache giornalistiche e cinematografiche di allora, oltre che dalle recensioni, analisi e testimonianze dirette degli spettatori del Festival, è che il livello di quelle produzioni si mantenne assolutamente alto e - soprattutto - non condizionato da fattori o pressioni esterne. In sostanza: vero che la gigantografia del Führer campeggiava nel teatro, e che croci uncinate ne invadevano i dintorni, ma le rappresentazioni dei drammi non furono in alcun modo inquinate dall’ideologia nazista. Era tutto ciò che si vedeva e viveva fuori dal palcosenico e dal golfo mistico che era impregnato di nazionalsocialismo. Ed era ciò che si diceva e si scriveva sui media del regime, che strumentalizzava le rappresentazioni del festival in funzione propagandistica.
Il periodo incriminato è quello (1931-1944) della direzione di Winifred (inglese di nascita, cresciuta in Germania e nazista convinta - al punto da passare al carcerato Hitler i fogli su cui fu scritto il Mein Kampf - ma anche prestatasi per salvare dai campi di concentramento suoi amici comunisti ed ebrei) che era subentrata al marito Siegfried (terzo figlio di Richard e Cosima) scomparso nel 1930. Era lei che organizzava i cartelloni, sceglieva gli artisti e - sul piano organizzativo - si occupava degli aspetti finanziari della conduzione del Festival. L’appoggio di Hitler fu determinante proprio per salvare Bayreuth dalla bancarotta e da una probabile chiusura. In cambio, ovviamente il Führer decise di usare il Festival come vetrina per il regime. Ci sono filmati in cui si vede Winifred ricevere Hitler sulla soglia del teatro, e in cui si intravede - secondi 20-23 del filmato - anche Wieland Wagner. Ma Hitler, convinto che non fosse necessario per la sua causa manipolare le opere di Wagner, non si intromise mai negli aspetti artistici della programmazione - a differenza di quanto il regime fece con molti teatri tedeschi. Tanto è vero che Winifred decise - in un mare di polemiche da parte dei “conservatori” - di rimpiazzare una buona volta le scenografie e i costumi originali, che erano ancora quelli dei tempi di Richard e Cosima!
La programmazione di quegli anni ebbe questi contenuti:
- 1931-1939 (periodo pre-bellico): Ring (2-3 cicli per anno), Parsifal (5-6 rappresentazioni per anno) e - alternati fra loro - Tristan (15 rappresentazioni in tutto) e Meistersinger (12 rappresentazioni in tutto); più qualche Tannhäuser, Lohengrin e Holländer.
- 1940-42 (parte “vittoriosa” del conflitto, per la Germania): Ring (nel 1942 ridotto ad un solo ciclo) e Holländer, null’altro.
- 1943-1944 (la guerra si fa difficile...): solo Meistersinger (28 rappresentazioni nei due anni) evidentemente per “dare morale alle truppe”.
I responsabili della regia (che erano a quei tempi più importanti degli stessi Kapellmeister) si chiamavano: Heinz Tietjen, Emil Pretorius e, per le scene, anche l’innovatore Alfred Roller. Nel 1943 compare per la prima volta il nome di Wieland, ad affiancare l’amico della madre (Tietjen) nella regia dei Meistersinger.
Sul piano politico, non c’è bisogno di aprire alcun archivio per scoprire che tutta la famiglia Wagner fu solidale e convinta sostenitrice di Hitler: Winifred riceveva spesso il Führer a Wahnfried e i “ragazzi” (Wieland e Wolfgang) si intrattenevano in modo formale, ma anche informale, con “lo zio Wolf”, come confidenzialmente chiamavano Hitler. Molte fotografie immortalarono questi frequenti incontri.
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Insomma, avendo già 20-25 anni, i due nipoti di Richard non potevano essere definiti dei bambini ignari di quanto gli accadeva intorno! La loro nomina - a denazificazione completata - a direttori del Festival fu perciò un atto assolutamente criticabile e sostenuto e giustificato da una montagna di ipocrisie. Però i fratelli (soprattutto Wieland, magari dovendo fare buon viso a cattivo gioco) seppero riscattare - almeno sul piano artistico - il loro poco edificante passato.
E così adesso, se si apriranno completamente gli archivi, e visto che la nuova direzione del Festival è costituita da persone nate a guerra finita (Eva-1945, Katharina-1978) e quindi nemmeno sfiorate dallo “scandalo”, forse sarà possibile chiudere una volta per tutte, consegnandolo alla storia, quel periodo disgraziato, per Bayreuth come per il mondo intero.
01 settembre, 2008
Bayreuth: fine di un’era (?)
Archiviata l’edizione 2008 del Festival più esclusivo del mondo, oggi si è riunito a Monaco di Baviera lo Stiftungsrat, il Consiglio di Amministrazione del Festival medesimo, per aprire un nuovo capitolo nella ormai secolare vita del teatro fermamente voluto da Richard Wagner, e da lui inaugurato con la prima rappresentazione completa del Ring nel 1876.
Perchè inizia un nuovo capitolo? Perchè il venerabile Wolfgang Wagner, nipote di Richard, a 89 anni suonati e dopo aver guidato il Festival per 58 (di cui 41 da solo) ha (finalmente) lasciato il suo posto il 31 agosto scorso.
Si fanno quindi oggi i bilanci della sua lunghissima gestione, iniziata nel 1949 - allorquando, a denazificazione compiuta, a lui e al fratello maggiore Wieland, poco più che trentenni nipoti di Richard, fu affidata la riapertura (avvenuta poi nel 1951) del teatro del nonno - e proseguita in solitudine dal 1966, anno in cui Wieland scomparve prematuramente.
Che dire? Come in tutte le vicende umane, non esistendo la prova contraria (che sarebbe successo se il Festival fosse stato tolto alla famiglia Wagner dopo la caduta di Hitler? e se Wieland non fosse morto così presto? e se la Fondazione non si fosse mostrata troppo arrendevole, nel 1987, allorquando concesse a Wolfgang la direzione-a-vita del Festival? e se, nel 2001, la figlia di primo letto di Wolfgang, Eva, avesse potuto subentrare al riottoso padre, come stabilito dallo Stiftungsrat? e se Wolfgang non avesse divorziato per sposare la segretaria Gudrun e questa non avesse dato alla luce, nel 1978, la piccola Kathi, naturale candidata alla successione? ...) non resta che prendere atto quanto meno delle capacità di galleggiamento che Wolfgang ha mostrato in tutti questi anni, riuscendo bene o male a tirare avanti la carretta del Festival in mezzo a tante bufere.
A suo merito (o scorno, a seconda dei punti di vista) va ascritta la costante ricerca dell’innovazione, necessaria ai suoi occhi per garantire una vita ed un futuro (finanziamenti inclusi) al Festival. In fondo, l’applicazione ai drammi wagneriani del cosiddetto Regietheater nacque proprio a Bayreuth, e per mano di Wieland, che ricorse al minimalismo e alla presentazione strettamente concettuale delle opere del nonno: un po' per necessità materiali (gli scarsi mezzi tecnici a disposizione) e un po' per necessità morali (ridare a Bayreuth una verginità dopo gli anni di compromissione con il nazismo). Scomparso Wieland, Wolfgang ne ereditò la spinta all’innovazione, senza averne però la sensibilità e la misura, e così a Bayreuth approdarono, dall’allora DDR, registi schierati politicamente, allevati alla scuola di Walter Felsenstein, come Götz Friedrich, responsabile dell’orrendo, irriconoscibile, becero-marxista Tannhäuser del 1972 e poi, nel 1976, per il Ring del Centenario, un regista (Patrice Chèreau) allora trentenne di belle speranze e di grande inventiva, ma del tutto ignorante di Wagner, di Tetralogia e di musica in generale, che mise in scena un Ring socialista, che sarebbe piaciuto forse a G.B.Shaw, ma che con Wagner non aveva alcunchè da spartire. E da lì è stato poi - con rari intervalli - un susseguirsi di allestimenti (inclusi i recenti Meistersinger di Kathi) il cui obiettivo pare essere la dissacrazione dei drammi wagneriani, cioè l’esatto contrario della ragione unica dell’esistenza del Festspielhaus e del Festival.
Piuttosto, stante che il Festival è regolarmente in perdita (ciò è perfettamente normale, per carità) e che sono i contribuenti tedeschi a finanziarlo, dovranno essere loro a giudicare se ciò che Wolfgang gli ha propinato in cambio dei loro quattrini è stato di livello accettabile o meno. Francamente si deve riconoscere che Bayreuth è tuttora una meta esclusiva e come tale ambitissima (le prenotazioni regolari hanno tempi biblici - 7/8/10 anni! - per essere onorate) anche se viene il dubbio che lo sia in quanto reliquia, santuario e non in quanto teatro in cui si possano godere le migliori rappresentazioni in assoluto dei drammi wagneriani (il che - va detto e ridetto - era e dovrebbe essere la ragione unica dell’esistenza del teatro sulla collina verde). In sostanza, la gente va al Festspielhaus come in pellegrinaggio, per poter dire “io ci sono entrato”, mentre se vuol assistere alle migliori rappresentazioni di Wagner, allora va alla Staatsoper di Vienna, o a Berlino, o a Monaco, o al Met, o a Salzburg, o ad Aix, o magari - un pochettino, poco-poco - anche in Italia. Insomma, Bayreuth resta un mito, ma non certo per la qualità di interpreti e allestimenti che vi si danno. E di questo - volente o nolente - è Wolfgang che deve pur rendere conto.
Il nuovo capitolo.
È necessario fare qui una premessa doverosa. Wolfgang aveva in mente un disegno (avete presente Wotan?) assai preciso: far passare ancora qualche anno, in modo da dare alla piccola Kathi il tempo e l’opportunità per acquisire le necessarie credenziali, e poi presentarla - magari in vista della fatidica data del 2013, bicentenario della nascita del maestro - come sua naturale erede alla guida del Festival. Ma, proprio come a Wotan, anche a Wolfgang le cose non sono girate per il giusto verso. Lui pensava - pur essendo ormai rincoglionito - di poter continuare a dirigere il Festival per interposta persona (verrebbe da dire... usando il Tarnhelm del nonno): la seconda moglie Gudrun. Come ex-segretaria, poi trasferitasi dalla scrivania direttamente nel letto del direttore, l’indubbiamente intraprendente Gudrun era ormai da anni di fatto alla guida della baracca e preparava (come ogni mamma che si rispetti) la figlioletta Kathi al suo importante destino. La sfiga ha voluto che, lo scorso novembre, entrata in un ospedale per una piccola operazione di routine, Gudrun ne sia uscita a bordo di un carro funebre (e nessuno che suonasse per lei la Siegfrieds Totenfeier). Davanti all’inebetito Wolfgang si è spalancato un abisso (il primordiale Ginnungagap, stupendamente musicato dal nonno nel preludio del Rheingold). E per evitare di precipitarvi, il vecchio ha dovuto sull’istante correre ai ripari: proclamare la sua intenzione di lasciare a fine Festival-2008, proponendo allo Stiftungsrat l’unica soluzione (per lui) in grado di salvare il salvabile: la coppia inedita formata dalle due figlie-sorellastre, Kathi ed Eva (incompatibili come cane-gatto, tanto per essere chiari!)
Manco a dirlo, lo Stiftungsrat ha oggi benedetto (22 voti e 2 astensioni) la coppia delle figlie di Wolfgang, preferendola all’altra coppia, formata da Nike Wagner, figlia di Wieland (il fratello “buono” di Wolfgang) e da Gérard Mortier, campione come lei - e come la piccola Kathi - di Regietheater, tanto per cambiare.
È abbastanza ovvio immaginare che - data la differenza di età (Eva 63, Kathi 30) il futuro arrida alla piccola. Eva, incoronata dallo Stiftungsrat nel 2001 ma avversata dal padre (meglio: dalla matrigna...) ha comunque l’opportunità di rientrare (fisicamente o solo virtualmente) almeno per qualche anno in quella villa Wahnfried da cui fu di fatto estromessa ai tempi del divorzio del padre e della nascita della sorellastra... una prospettiva del tipo “piuttosto che niente, meglio il piuttosto”; Kathi si mette comunque al posto di guida, sia pure momentaneamente in comproprietà, ma sa benissimo che il tempo lavora per lei. Dietro le quinte (anzi, giù nell’Orchestergraben) c’è poi, al suo supporto, tale Christian Thielemann, il novello Furtwängler, che deve essersi posto l’obiettivo di togliere a Daniel Barenboim il primato di direzioni a Bayreuth e che ha già annunciato di co-produrre, con Kathi alla regia, il prossimo Tristan, nel 2015.
Cosa ci dobbiamo aspettare dal nuovo management? Eva, già assai navigata nella direzione artistica (ad Aix-en-Provence, per la precisione) si occuperà verosimilmente dello “staffing” di cantanti e direttori, mentre la vulcanica Kathi, oltre a impegnarsi in qualche regia “geniale” (appunto, il Tristan 2015... ma incombe prima ancora il Ring del bicentenario, 2013) dovrebbe procedere sulla strada delle innovazioni, in particolare su alcuni binari: l’espansione del business mediatico del Festival (iniziato quest’anno con la trasmissione a pagamento, in streaming, dei Meistersinger e la diffusione della stessa opera su schermo gigante, per 20.000 spettatori, in una piazza di Bayreuth); l’iniziativa “Wagner per i piccoli” (che sia uno “zecchino d’oro del reno”?); l’introduzione invero rivoluzionaria nei cartelloni del Festival di altre opere del bisnonno, prima fra tutte Rienzi (che Kathi dirigerà in ottobre a Brema), ma magari anche Die Feen.
L’incarico di direttore del Festival viene d’ora in avanti assegnato per tempi certi (5, massimo 7 anni) e non più “a vita”, come fu il caso di Wolfgang, e quindi le manager dovranno lavorare sodo, se vorranno garantirsi la riconferma per periodi successivi. Ma tutto lascia pensare che il giorno in cui alla guida del Festival non ci sarà più un, o una, Wagner sia ancora molto, molto lontano.
Ancora e sempre sulle regie di opera...
Con Amfortas convengo che spesso si confonde regia con scenografia, prendendo la parte per il tutto (la seconda per la prima). È pur vero che la scenografia non può che essere funzionale alla, e quindi dipendente dalla, regia e dal regista, il quale è un po’ il capocommessa dell’allestimento, per tutto ciò che non è musica e canto (ma compresi gli interpreti, per la parte attoriale del loro ruolo). Sempre Amfortas, nel suo commento al mio post precedente, presenta il suo criterio di giudizio su una regia: l’importante è che “trasmetta (faccia capire) il messaggio del Compositore”. Personalmente aggiungerei subito che, oltre al messaggio (il contenuto) conta anche il mezzo espressivo (la forma) che l’Autore ha ideato e codificato sulla partitura: personaggi e loro psicologia, testi che gli vengono messi in bocca e, soprattutto, la musica che sorregge il tutto. Nell’esempio citato da Amfortas (Macbeth) non basta che si mostri il “concetto” (la lotta per il potere e l’ambizione portate alle estreme conseguenze) poichè allora i personaggi del Macbeth si potrebbero intercambiare con quelli del Ring, che contiene lo stesso concetto. Viceversa, riprendendo l’esempio citato da mozart2006 riguardo ad una Tosca ambientata nel fascismo, si rischia di fare davvero di ogni erba un fascio, inducendo lo spettatore ad improbabili (pure non impossibili) analogie fra un regime dittatoriale e il potere temporale papalino, che non è propriamente l’obiettivo che si poneva Puccini nel comporre il suo capolavoro, tutto focalizzato sul tema “dell’amore perseguitato”, più che sui tratti e sulle vicende del regime persecutorio... Comunque ammettiamo pure che, a patto che il concetto venga preservato, non dobbiamo poi sottilizzare troppo sulle forme, anzi apprezzarle se e quando hanno un buon livello artistico di per se stesse: caso mai valuteremo se la diversa forma, rispetto a quella originale, aggiunga, tolga o lasci inalterato il valore dell’opera.
Ma il vero problema - secondo il mio modesto parere - sta molto a monte. In sostanza la domanda che ci dobbiamo porre è: quali finalità aveva l’Autore nel mettersi a comporre la sua opera? Voleva sul serio e primariamente trasmettere un concetto, una filosofia, un’ideologia, una way-of-life, intendeva cioè porsi come maieuta dell’umanità, o invece era portato dalla sua ispirazione, sensibilità, estro, genio a comporre un’opera d’arte, tout cour, di un genere particolare, qual’è l’opera lirica, il melodramma, o il dramma musicale? Mozart scriveva forse la Zauberflöte per diffondere ideologia e prassi massonica? O il Ratto per informarci sul confronto di civiltà occidente-levante? Rossini componeva forse il Barbiere per mandare messaggi e contenuti? E siamo sicuri che il Tell, invece, avesse questo fine precipuo? O non era un soggetto “serio” usato sempre e comunque per scrivere musica sublime? Verdi aveva forse come obiettivo di comunicare al mondo concetti politico-filosofici, o quello di fare opere musicali dove esprimere tutta la sua vulcanica ispirazione? E anche Wagner, il più “concettuale” dei compositori, da cosa era spinto a comporre i suoi drammi? Dal bisogno di diffondere nel volgo la filosofia di Feuerbach o di Schopenhauer? Dal cinico disegno politico di preparare il terreno al nazismo? O invece dall’irresistibile impulso a creare - attraverso la musica - un intero universo, dove entrano certo filosofia, politica, psicanalisi, naturalismo, ma come oggetti, non soggetti, di espressione artistica?
La principale caratteristica delle scuole della regia-di-teatro risiede proprio nel voler considerare l’opera come una manifestazione di carattere politico, una cartina di tornasole della società in cui è stata creata, uno specchio dei rapporti sociali, politici, filosofici che percorrono una società; e che la sua rappresentazione debba anche - se non soprattutto - servire a scopi maieutici, a far “prendere coscienza” allo spettatore di quei problemi, mostrandogli come siano anche problemi suoi... e da qui la necessità di trasporre nell’attuale (tempi e luoghi) ciò che l’Autore aveva invece posto in tempi determinati, ma anteriori dalla contemporaneità, o addirittura “in nessun tempo”, come è il caso quasi costante in Wagner. Patrice Chéreau ha spiegato benissimo questo approccio, quando ha negato qualunque credibilità alla Zeitlösigkeit wagneriana, affermando che anche i miti sono figli della società che li produce: e quindi giustificando ad esempio la sua interpretazione “socialista” del Ring, calandolo di peso nella nostra società contemporanea, ma finendo con ciò col togliergli proprio la sua principale e straordinaria qualità, quella di “contenere il principio e la fine di ogni cosa”, quindi privando lo spettatore della possibilità di godere del “tutto”, in cambio di un’esperienza storicamente circoscritta, anche se accattivante e brillantemente presentata.
Tali scuole hanno anche indubbi meriti, tra i quali basterà ricordare l’attenzione volta alla componente attoriale dell’interpretazione: il cantante che diventa davvero personaggio, anzi persona, invece di piantarsi sul palcoscenico come una statua ed emettere i suoi gorgheggi. Andrebbe però precisato che certi generi musicali, il belcanto ad esempio, nacquero e si svilupparono principalmente con quest’ultima caratteristica, e il tentare di piegarli ad un maggior realismo è un’operazione velleitaria, quando non controproducente. Inoltre anche qui spesso si esagera, quando si costringe un interprete a cantare brani impervi stando in posizioni impossibili, al limite del soffocamento fisico. Oppure si commettono errori, come capitò sempre a Chéreau col suo Ring, dove vediamo un Wotan che, per essere consistente con la vision (socialista) del regista, si trasforma in una persona violenta, manesca, sgradevole, o al contrario assume atteggiamenti di gratuita debolezza... cioè non è più il Wotan di Wagner, puramente e semplicemente.
mozart2006 ricorda le qualità di Peter Konwitschny e il suo ricco pedigree musicale ed artistico. Benissimo, ma resta il fatto che il Parsifal da lui messo in scena a Monaco nel ’95 (e che sarà ora ripreso) non è per nulla il Parsifal di Wagner, anzi ne è l’autentico stravolgimento “concettuale” (precisamente nell’accezione di Amfortas): da dramma religioso ad ateistico, dalla ricerca di redenzione al nichilismo, dall’anelito verso la luce alla disperazione; certo, tutto all’interno di un geniale allestimento che - preso come opera di per se stessa - è di livello storico.
A novembre tornerà a Firenze, per il Siegfried diretto da Mehta, Padrissa con la Fura. Le rappresentazioni di Rheingold e Walküre, andate in onda nella scorsa stagione, sono un esempio per me non disprezzabile di come si possa approcciare il Ring da un punto di vista singolarissimo, impiegando mezzi e ambientazioni iper-moderne, magari esasperate ed esagerate nella spettacolarità da circo equestre, senza però travisare o surrogare o parodiare il “messaggio” wagneriano: molta scenografia e poca “regia-di-teatro”, una ricetta tutto sommato accettabile.
31 agosto, 2008
MaaZeff vs Carsen&C
Da una parte due vecchi (in tutte le accezioni - buone-cattive - del termine): Lorin Maazel e Franco Zeffirelli; dall’altra un regista canadese (Robert Carsen) in rappresentanza della nutrita schiera dei giovani registi-di-teatro che, soprattutto in Europa, imperversa da anni in molti teatri - non solo tedeschi, dove la practice è nata - con allestimenti controversi e spesso davvero indecenti, di opere e drammi musicali.
MaaZeff sostengono il principio sacrosanto - che sulla carta nemmeno Carsen&C contestano, altrimenti passerebbero subito dalla parte del torto - della supremazia dell’opera d’arte originale e del rispetto che le si deve.
Casren&C - i C si chiamano Bieito, Herheim, McVicar, Guth, Decker, Sellars, Vick, Wilson, Barlow, Brockhaus, Wagner (Kathi), Schlingensief... e hanno come maestri-tutori i vari Konwitschny, Kupfer... e come più lontani campioni Chéreau, Friedrich e addirittura Wieland Wagner - sostengono la necessità che l’ambientazione di un’Opera vada rinnovata, rispetto all’originale e alla tradizione interpretativa, in modo da renderla meglio e più comprensibile e godibile da parte di un pubblico che ha sulle spalle 50 anni, o uno o due o tre secoli di storia, di esperienza e di evoluzione della civiltà, rispetto a quello dei tempi in cui l’Opera fu creata. Lo slogan che tipicamente viene impiegato per supportare tale necessità è: se non viene innovata, un’opera lirica (o un dramma musicale) si trasforma in un museo.
Aperta parentesi: già, un museo. Come quell’obbrobrio del Louvre, vero? dove tuttora ci si interstardisce ad esporre (ma perchè mai milioni di persone la vanno ancora e sempre a vedere?) la Gioconda, proprio come il maestro la dispinse, senza cambiarle una virgola, che so, l’antiquato abbigliamento, o la ridicola pettinatura. Oppure gli Uffizi, dove si può sostare per un tempo limitato (dalla massa di visitatori che premono) ad ammirare capolavori del passato. O l’Ermitage, il Museo Egizio di Torino (o del Cairo) e tutti gli altri musei grandi e piccoli sparsi in tutto il pianeta. Insomma, il museo - per l’opera lirica e il dramma musicale - sarebbe equiparabile ad una discarica maleodorante e impresentabile! Chiusa parentesi.
In sostanza, i campioni del Regietheater sostengono la necessità - quindi il diritto addirittura - di regista, scenografo e costumista (e aggiungiamo pure del responsabile delle luci) di intervenire di testa propria su regia, scene e costumi di un’Opera musicale, con il nobile scopo di mantenere alti l’interesse e la partecipazione del pubblico verso questo genere di Arte.
Tutto ciò rappresenta un fine per nulla disprezzabile. A patto che non si superi un certo limite: quale? Quello oltre il quale l’operazione si trasforma in un vero e proprio sequestro di un capolavoro (come tale universalmente riconosciuto) da parte del regista, allo scopo di promuoverne la sua propria (del regista) visione, con ciò distorcendo però quella del creatore dell’opera medesima, fino a renderla irriconoscibile, privando quindi l’opera delle qualità che ne hanno determinato, nel tempo, l’universale riconoscimento di capolavoro.
17 agosto, 2008
Ciajkovski l’incompreso
Comparso nel 1898, sul Boston Evening. Citato qui.
16 agosto, 2008
Barenboim, la Palestina e Wagner
Chi parla in questo modo è Daniel Barenboim: un ebreo, nato in Argentina da genitori di discendenza russa, che non solo non odia Wagner, ma lo apprezza a tal punto da essere, ancor oggi e di gran lunga, il recordman in fatto di direzioni a Bayreuth (161).
Ma è anche un accanito e convinto assertore della necessità e della possibilità di convivenza fra i due popoli che abitano la Palestina, e che da più di mezzo secolo invece si affrontano e arrossano di sangue le dolci colline di Qalqilya, come gli affollati viali di TelAviv.
Israeliani e palestinesi, ebrei e islamici, insieme a formare quanto di più cooperativo si possa immaginare a questo mondo: un’orchestra (la Divan).
E dove entrambe le parti devono rinunciare a fior di pregiudizi: gli islamici, accettando di suonare la musica nata dal seno della civiltà occidentale, quella che i loro integralisti dipingono come demonìaca; gli ebrei, accettando di suonare la musica di un autore che è da molti dei loro padri considerato il responsabile oggettivo dell’Olocausto.
Eppure... funziona. A Ravello l’11 agosto scorso ne abbiamo avuto tangibile conferma.
Parsifal 2008: aveva ragione Gatti? (update)
Su questo Parsifal, le mie sono perplessità di fondo, come non manco di ripetere, e riguardano precisamente le conseguenze che una certa (non tutta) “regia di teatro” induce sulla fruizione dell’opera (soprattutto dei drammi wagneriani) da parte dello spettatore. Il rischio è che il dramma diventi il mezzo usato per raggiungere il fine della spettacolarità dell’allestimento, e cioè l’esatto contrario di ciò che dovrebbe essere... secondo logica.
L’avviso del 1951 - riportato da Herheim come testimonianza storica di ciò che Bayreuth ha rappresentato e rappresenta, non solo in Germania - è la dimostrazione lampante di quell’inversione fra causa ed effetto, fra mezzo e fine, fra significato e significante, che finisce per negare allo spettatore la possibilità di vivere nel modo giusto l’esperienza davvero unica, o quasi, dei drammi wagneriani (diverso è ovviamente il discorso per le classiche opere di belcanto, dove non c’è molto da capire, ma solo da godere appunto il canto e la musica). Lo spettatore “non iniziato” a Wagner ne uscirà con una impressione come minimo distorta, quello “esperto” rischia di sentirsi “disturbato” dagli aspetti gratuiti dello spettacolo. Leggo sulla stampa tedesca commenti che rivalutano (rispetto ad Herheim) nientemeno che Schlingensief (?!) che almeno aveva un sua personale interpretazione “filosofica” del sacro dramma.
Sul piano musicale, temo che Gatti sia vittima, da un lato dell’eccessiva attenzione riposta sulla regia, dall’altro di una (immeritata) fama di “italianate” che lo accompagna, oltre che dei suoi modi riservati, dal basso profilo che tiene (il che per me è un merito, sia chiaro) ed anche della non perfetta dimestichezza con la lingua tedesca (al contrario di un Sinopoli, per dire): iniziare un’intervista in radio o in TV con poche parole di circostanza in tedesco, e poi passare subito all’inglese... costituisce agli occhi di molti (orchestrali inclusi) un indizio piuttosto negativo. L’impressione che ne ho avuto ascoltando in radio la prima del 25 luglio è stata positiva, ma non entusiasmante, in particolare l’atto di mezzo ha lasciato a desiderare (complici le “fanciulle-fiore”?) Adesso, oltre alle restanti rappresentazioni 2008, Daniele avrà altri 3-4 anni di repliche e tutto il modo di rifarsi.
04 agosto, 2008
Parsifal 2008: aveva ragione Gatti?
La prima di venerdi 25 luglio sembrava invece aver consacrato Herheim (molto meno Gatti, per la verità) alla storia.
Domenica 3 c’è stata la seconda (con un pubblico prevedibilmente più competente e di bocca meno buona - anche perchè pagante, e sono bei soldoni, oltre agli anni di attesa!): molti buuh per la regia, e critiche non proprio morbide anche per il Kapellmeister.
Insomma, un pallone che si sta già sgonfiando? Effetti senza cause?