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consulta e zecche rosse

01 settembre, 2008

Ancora e sempre sulle regie di opera...

Ringrazio mozart2006 e Amfortas per i loro commenti al mio post precedente, che mi spingono a qualche ulteriore approfondimento.

Con Amfortas convengo che spesso si confonde regia con scenografia, prendendo la parte per il tutto (la seconda per la prima). È pur vero che la scenografia non può che essere funzionale alla, e quindi dipendente dalla, regia e dal regista, il quale è un po’ il capocommessa dell’allestimento, per tutto ciò che non è musica e canto (ma compresi gli interpreti, per la parte attoriale del loro ruolo). Sempre Amfortas, nel suo commento al mio post precedente, presenta il suo criterio di giudizio su una regia: l’importante è che “trasmetta (faccia capire) il messaggio del Compositore”. Personalmente aggiungerei subito che, oltre al messaggio (il contenuto) conta anche il mezzo espressivo (la forma) che l’Autore ha ideato e codificato sulla partitura: personaggi e loro psicologia, testi che gli vengono messi in bocca e, soprattutto, la musica che sorregge il tutto. Nell’esempio citato da Amfortas (Macbeth) non basta che si mostri il “concetto” (la lotta per il potere e l’ambizione portate alle estreme conseguenze) poichè allora i personaggi del Macbeth si potrebbero intercambiare con quelli del Ring, che contiene lo stesso concetto. Viceversa, riprendendo l’esempio citato da mozart2006 riguardo ad una Tosca ambientata nel fascismo, si rischia di fare davvero di ogni erba un fascio, inducendo lo spettatore ad improbabili (pure non impossibili) analogie fra un regime dittatoriale e il potere temporale papalino, che non è propriamente l’obiettivo che si poneva Puccini nel comporre il suo capolavoro, tutto focalizzato sul tema “dell’amore perseguitato”, più che sui tratti e sulle vicende del regime persecutorio... Comunque ammettiamo pure che, a patto che il concetto venga preservato, non dobbiamo poi sottilizzare troppo sulle forme, anzi apprezzarle se e quando hanno un buon livello artistico di per se stesse: caso mai valuteremo se la diversa forma, rispetto a quella originale, aggiunga, tolga o lasci inalterato il valore dell’opera.

Ma il vero problema - secondo il mio modesto parere - sta molto a monte. In sostanza la domanda che ci dobbiamo porre è: quali finalità aveva l’Autore nel mettersi a comporre la sua opera? Voleva sul serio e primariamente trasmettere un concetto, una filosofia, un’ideologia, una way-of-life, intendeva cioè porsi come maieuta dell’umanità, o invece era portato dalla sua ispirazione, sensibilità, estro, genio a comporre un’opera d’arte, tout cour, di un genere particolare, qual’è l’opera lirica, il melodramma, o il dramma musicale? Mozart scriveva forse la Zauberflöte per diffondere ideologia e prassi massonica? O il Ratto per informarci sul confronto di civiltà occidente-levante? Rossini componeva forse il Barbiere per mandare messaggi e contenuti? E siamo sicuri che il Tell, invece, avesse questo fine precipuo? O non era un soggetto “serio” usato sempre e comunque per scrivere musica sublime? Verdi aveva forse come obiettivo di comunicare al mondo concetti politico-filosofici, o quello di fare opere musicali dove esprimere tutta la sua vulcanica ispirazione? E anche Wagner, il più “concettuale” dei compositori, da cosa era spinto a comporre i suoi drammi? Dal bisogno di diffondere nel volgo la filosofia di Feuerbach o di Schopenhauer? Dal cinico disegno politico di preparare il terreno al nazismo? O invece dall’irresistibile impulso a creare - attraverso la musica - un intero universo, dove entrano certo filosofia, politica, psicanalisi, naturalismo, ma come oggetti, non soggetti, di espressione artistica?

La principale caratteristica delle scuole della regia-di-teatro risiede proprio nel voler considerare l’opera come una manifestazione di carattere politico, una cartina di tornasole della società in cui è stata creata, uno specchio dei rapporti sociali, politici, filosofici che percorrono una società; e che la sua rappresentazione debba anche - se non soprattutto - servire a scopi maieutici, a far “prendere coscienza” allo spettatore di quei problemi, mostrandogli come siano anche problemi suoi... e da qui la necessità di trasporre nell’attuale (tempi e luoghi) ciò che l’Autore aveva invece posto in tempi determinati, ma anteriori dalla contemporaneità, o addirittura “in nessun tempo”, come è il caso quasi costante in Wagner. Patrice Chéreau ha spiegato benissimo questo approccio, quando ha negato qualunque credibilità alla Zeitlösigkeit wagneriana, affermando che anche i miti sono figli della società che li produce: e quindi giustificando ad esempio la sua interpretazione “socialista” del Ring, calandolo di peso nella nostra società contemporanea, ma finendo con ciò col togliergli proprio la sua principale e straordinaria qualità, quella di “contenere il principio e la fine di ogni cosa”, quindi privando lo spettatore della possibilità di godere del “tutto”, in cambio di un’esperienza storicamente circoscritta, anche se accattivante e brillantemente presentata.

Tali scuole hanno anche indubbi meriti, tra i quali basterà ricordare l’attenzione volta alla componente attoriale dell’interpretazione: il cantante che diventa davvero personaggio, anzi persona, invece di piantarsi sul palcoscenico come una statua ed emettere i suoi gorgheggi. Andrebbe però precisato che certi generi musicali, il belcanto ad esempio, nacquero e si svilupparono principalmente con quest’ultima caratteristica, e il tentare di piegarli ad un maggior realismo è un’operazione velleitaria, quando non controproducente. Inoltre anche qui spesso si esagera, quando si costringe un interprete a cantare brani impervi stando in posizioni impossibili, al limite del soffocamento fisico. Oppure si commettono errori, come capitò sempre a Chéreau col suo Ring, dove vediamo un Wotan che, per essere consistente con la vision (socialista) del regista, si trasforma in una persona violenta, manesca, sgradevole, o al contrario assume atteggiamenti di gratuita debolezza... cioè non è più il Wotan di Wagner, puramente e semplicemente.

mozart2006 ricorda le qualità di Peter Konwitschny e il suo ricco pedigree musicale ed artistico. Benissimo, ma resta il fatto che il Parsifal da lui messo in scena a Monaco nel ’95 (e che sarà ora ripreso) non è per nulla il Parsifal di Wagner, anzi ne è l’autentico stravolgimento “concettuale” (precisamente nell’accezione di Amfortas): da dramma religioso ad ateistico, dalla ricerca di redenzione al nichilismo, dall’anelito verso la luce alla disperazione; certo, tutto all’interno di un geniale allestimento che - preso come opera di per se stessa - è di livello storico.

A novembre tornerà a Firenze, per il Siegfried diretto da Mehta, Padrissa con la Fura. Le rappresentazioni di Rheingold e Walküre, andate in onda nella scorsa stagione, sono un esempio per me non disprezzabile di come si possa approcciare il Ring da un punto di vista singolarissimo, impiegando mezzi e ambientazioni iper-moderne, magari esasperate ed esagerate nella spettacolarità da circo equestre, senza però travisare o surrogare o parodiare il “messaggio” wagneriano: molta scenografia e poca “regia-di-teatro”, una ricetta tutto sommato accettabile.

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