Il problema
Le recenti prese di posizione di Katharina Wagner (nuova co-direttrice del Festival, in tandem con la sorellastra Eva) che prefigurano una storica svolta nel rapporto fra la famiglia Wagner e il suo passato filo-nazista, con l’asserita volontà di rendere pubblici tutti i documenti segreti riguardanti quel disgraziato periodo, hanno anche riportato alla ribalta la figura di Gottfried Wagner, fratello di Eva (e fratellastro di Kathi) che da moltissimi anni si è allontanato da Bayreuth e dal Festival, proprio perchè - questa è la motivazione “ufficiale” - in disaccordo con il padre Wolfgang sul comportamento da tenere rispetto al passato nazista della famiglia.
Gottfried, oggi 61enne, che ha sposato un’italiana (Teresina Rossetti) e vive sul lago di Como, ha avuto fin da piccolo un rapporto difficile con il padre (che vedeva in lui il suo successore). Invece di accettare (e calarvisi) il ruolo di futuro “custode della tradizione wagneriana” (gli era stato imposto, proprio per questo, il nome più appropriato) il nostro si mostrò fin da piccolo sempre riottoso e indisciplinato, ma soprattutto molto curioso di conoscere il passato recente della sua famiglia e in particolare il rapporto che essa aveva avuto con il nazismo. E molto materiale (documenti, scritti, lettere e filmati) che scovava nelle cantine di Wahnfried o nei nascondigli più impensati, gli mostrava chiaramente quanto in quel rapporto ci fosse stato di vergognoso e di colpevole. Per farla breve, dopo aver comunque collaborato in qualche modo con il padre alla gestione artistica del Festival (fra l’altro, nel 1976 fu assistente di Chéreau nello storico e contestatissimo allestimento del Ring del centenario) si allontanò sempre più da Bayreuth, anche a seguito del divorzio di suo padre Wolfgang dalla madre, cui seguì immediatamente il matrimonio del direttore del Festival con Gudrun (sua segretaria, anche lei con nome wagneriano, per quanto non esaltante) che mise al mondo Katharina, nel 1978.
Ma l’aspetto più importante del pensiero e delle azioni di Gottfried non riguarda tanto la critica al comportamento di papà Wolfgang, zio Wieland e nonna Winifred durante il periodo nazista, ma l’aperta denuncia dell’oggettivo legame esistente fra le opere del bisnonno Richard e l’avvento di Hitler e quindi della barbarie che ne conseguì, Olocausto in primis. In alcuni libri e in molte conferenze e interviste, il nostro ha più volte espresso il sospetto (se non proprio la certezza) che l’autore del Ring e del Parsifal abbia inoculato i suoi aperti sentimenti e convinzioni antisemite nel corpo delle sue opere e dei suoi drammi, che sono poi divenuti - nelle mani di Hitler - strumenti utili alla soluzione finale del problema ebraico. Gottfried si è trovato quindi in buona compagnia con quegli ambienti integralisti e radicali del mondo ebraico che non si limitano - cosa assolutamente nobile e meritoria e sacrosanta - a tener vivo il ricordo dell’Olocausto, ma arrivano ad addossare a Richard Wagner la responsabilità oggettiva dell’avvento del nazismo, al punto da contrastare in tutti i modi l’esecuzione dei capolavori wagneriani in Israele. Così si spiega come mai Gottfried sia oggi accolto in Israele con molta simpatia, lui che non è ebreo, al contrario di alcuni ebrei anche assai più importanti di lui, che invece non condividono quelle tesi. Daniel Barenboim ne è un esempio lampante: ebreo doc, ma anche wagneriano doc, al punto da essere tuttora recordman di direzioni a Bayreuth (161)! Che ha provato ad eseguire Wagner in pubblico in Israele ed è stato letteralmente fatto a pezzi; che ha fondato col palestinese Edward Said, mettendo insieme ebrei ed islamici, la Divan orchestra (che spesso esegue Wagner) e per questo è considerato, da molti suoi correligionari integralisti, un traditore della causa sionista.
Ecco, è sul come porsi di fronte al problema “Wagner l’antisemita e Wagner l’artista” che spesso e volentieri si usa molta ipocrisia, quando non si preferisce direttamente evitare l’argomento, per non “correre rischi” e per quieto vivere. Viceversa il problema andrebbe posto ed affrontato con coraggio e soprattutto con “metodo scientifico”, per arrivare una buona volta - o almeno avvicinarci il più possibile - ad una verità che possa essere generalmente condivisa, ponendo fine a quell’assurda contrapposizione di tifoserie: da una parte chi fa processi sommari e condanna senza appello - e soprattutto senza esplorare seriamente, o addirittura ribaltandoli, i nessi causa-effetto - e dall’altra chi - usando l’approccio piuttosto sbrigativo (e parecchio ipocrita) condensato nel motto “qui si fa arte e non politica” che Wieland-Wolfgang esposero alla riapertura del Festival nel 1951 - assolve a prescindere.
(1. continua)
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