intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

26 giugno, 2024

Il funerale di Puccini secondo Livermore

Ieri sera il Piermarini ha ospitato la prima del nuovo allestimento di Turandot, firmato dalla coppia Davide Livermore / Michele Gamba.

Sul piano dei contenuti del soggetto (libretto e musica) si tratta di un prudente, conservativo ritorno alla normalità, che garantisce l’alto gradimento del vasto pubblico: Alfano-Toscanini, tanto per intenderci, salvo che il libretto, pubblicato sul programma di sala e in Internet, è quello – udite, udite – con il testo del finale di Berio!!! [Ah, scherzi del cut&paste, fatto dall'edizione del 2015 anziché da quella del 2011…]

In ogni caso, ingressi esauriti per tutte le sette recite!

Vengo subito all’allestimento di Livermore. Partendo proprio dal… trapasso. Quello di Liù, che coincide con quello da... Puccini ad Alfano. Il regista ha interpretato a suo modo la ricorrenza dei 100 anni dalla morte del Maestro coinvolgendo l’intero teatro (masse interpreti della produzione e il pubblico in sala) in una cerimonia commemorativa che ha sospeso la rappresentazione per un minuto di raccoglimento, con mezze luci in sala, e minuscoli lumini elettrici di cui sono stati dotati anche gli spettatori.

Sopra il palco era calata un’enorme immagine a mezzo busto (del tipo di quelle che si incastonano sulle lapidi funerarie) di Puccini, recante la scritta delle poche parole pronunciate da Toscanini il 25 aprile 1926 in occasione della prima, dopo aver deposto la bacchetta e chiuso così quella storica recita.

E francamente avrebbe potuto essere la conclusione (da condividersi) anche della serata di ieri… ma evidentemente i contratti con l’editore (Ricordi) prevedono anche uno dei due finali posticci (Alfano o Berio) e quindi la recita è ripresa con Alfano-II. Ma anche con una geniale sorpresa che Livermore ci ha offerto, e di cui scriverò tra poco.

Il regista si è attenuto strettamente al soggetto della fiaba, senza minimamente inquinarlo con personali iniziative, ma interpretandolo con un magniloquente approccio che definirei da versione 2.0 di un de Ana o di uno Zeffirelli.

Le scene (sue e di Eleonora Peronetti e Paolo Gep Cucco) ci mostrano le due facce di Pachino: quella del degrado degli slum dove vive il popolo, un verminaio di esseri perennemente in agitazione, nella quasi oscurità e vestiti di cenci dalle cento sfumature di… nero; e quello, opulento e sfarzoso, della città proibita, con luci (Antonio Castro) sfavillanti, costumi (di Mariana Fracasso) preziosi ed eleganti e cortigiani rigidamente inquadrati in schiere militaresche, tipo il famoso esercito di terracotta, per intenderci.

E poi una serie di oggetti dalla simbologia più o meno chiara, come l’enorme sfera che scende sulla scena; o i riferimenti agli enigmi (tre gabbiani meccanici che svolazzano fissati sulla punta di aste portate in giro da ragazzi, o i tre principini in erba che accompagnano le altrettante fasi della tenzone di sapienza); e poi la sagoma di un bianco cavallo (animato da tre figuranti) che irrompe sula scena prima e dopo gli enigmi, forse a rappresentare l’attitudine di Calaf all’avventura…     

Il tutto accompagnato da immagini video (D-WOK) proiettate sullo sfondo o all’interno della sfera di cui sopra.

Infine Livermore fa comparire in scena il povero Principino di Persia che la folla fin da subito si diverte a bistrattare in ogni modo, umiliandolo e bullizzandolo fino a lasciarlo proprio nudo come un verme, forse a punirne le ingenue velleità… Ma soprattutto ci mostra – e qui mi ricollego al finale – la rinsecchita figura dell’ava Lo-u-Ling, che incombe dietro alla pronipotina a ricordarci la causa del formarsi della gelida personalità di Turandot.

Ebbene, nella scena finale del duetto Calaf-Turandot la trisavola si frappone continuamente tra i due, come per difendere la pronipote dagli assalti di Calaf. Ma poi, ecco la grande trovata di Livermore, che avrebbe potuto persino dare a Puccini l’idea giusta per chiudere lui stesso l’opera in modo conveniente. Invece dell’ultimo assalto – con prosaico bacio - al corpo di Turandot, ecco che Calaf si dirige sull’antica progenitrice e la fa oggetto di un toccante gesto di comprensione, quasi a voler riparare il tremendo torto da lei subito in gioventù.

E così ecco che lo sgelamento di Turandot si giustifica con la parallela presa di coscienza di Calaf! [Tanto di cappello al regista!]  

Aggiungerò un altro paio di idee registiche che mi sembrano degne di nota, perché rivelano qualcosa della natura di due personaggi: il pugnale con cui Liù si ferisce non viene strappato ad un soldato, ma dalle mani di… Calaf! E l’Imperatore Altoum ci viene presentato nei panni – anche materiali - di un innocuo e rassegnato ospite di una RSA!

Ecco, uno spettacolo di gran livello, dove magari è la forma a prevalere, ma dove anche la sostanza non solo non viene adulterata (come troppo spesso accade) ma addirittura nobilitata.
___
Michele Gamba (subentrato al designato Harding) conferma le sue buone attitudini per l’opera, già emerse in precedenza qui alla Scala (Foscari, Elisir, Rigoletto). La sua dimestichezza con la musica contemporanea evidentemente lo aiuta a mettere in risalto le molte modernità della musica di Turandot, assai innovativa anche rispetto allo stesso Puccini delle opere precedenti.

L’orchestra è stata praticamente perfetta, ricreando a meraviglia tutte le atmosfere fiabesche, crude, liriche e drammatiche che caratterizzano la partitura.

E il Coro di Malazzi è stato se possibile ancor più sontuoso del suo solito: in quest’opera trova effettivamente il terreno sul quale dispiegare tutta la sua forza e il suo proverbiale affiatamento.

Di Anna Netrebko mi sento paradossalmente di dire che canti fin troppo bene per abbassarsi ai panni di questa cattivona (!) La sua è stata una prestazione di assoluta eccellenza. Come lo sarebbe forse ancor più se lei vestisse i panni del tritagonista (come quio qui).

La quale Liù è invece la casertana Rosa Feola, che non è (ancora?) la… divina Anna, ma insomma mi pare se la sia cavata – e proprio nelle due arie di cui sopra - più che dignitosamente.

Yusif Eyvazov non ha cambiato (…ehm) i connotati al timbro di voce, il che perpetua la sua qualità meno nobile, ecco. Peccato, perché per il resto nulla gli manca come potenza ed espressività.

Più che discreto il Timur di Vitalij Kowaljow, bel vocione potente ed efficace presenza scenica. Raúl Giménez è stato a sua volta – anche grazie al regista - un patetico Imperatore.

I tre piccoli porcellin alti funzionari statali: Ping (Sung-Hwan Damien Park) Pang (Chuan Wang) e Pong (Jinxu Xiahou) han fatto più che dignitosamente la loro parte, tutt’altro che secondaria, in specie il primo nei suoi patetici ricordi dell’Honan.

Oneste le prove del Mandarino (Adriano Gramigni) e delle due ancelle (Silvia Spruzzola e Vittoria Vimercati.)

Haiyang Guo è il tenore che ha in assoluto la parte più massacrante in tutta la storia del melodramma; dovendo cantare – oltretutto da dietro le quinte (altrimenti ieri sera avrebbe dovuto apparire in pubblico tutto nudo!) - nientemeno che questo:

Beh, ecco: ha superato di slancio l’impervio ostacolo!
___
In definitiva: una proposta accolta trionfalmente dal pubblico, con lunghe ovazioni e consensi per tutti, con punte – ça va sans dire – per la divina Anna. Da non perdere!
   

22 giugno, 2024

Arriva alla Scala la Principessa congelata di Livermore.


Introduco l’argomento in modo semiserio con il segnalare un concettuoso contorto intervento su Puccini di tale Giovanni Giammarino, Direttore d'orchestra poi datosi all’ippica alla gastronomia.
___
Il redivivo Davide Livermore guida una nuova produzione scaligera: Turandot, che ritorna in Scala dopo 9 anni dalla precedente, che presentava come novità – voluta da Chailly - il finale di Luciano Beriouno dei cinque (almeno) esistenti.

Oggi, con Michele Gamba sul podio, si ripropone l’antico – quanto controverso - finale di Franco Alfano(-Toscanini). Quindi, questa sarà una Turandot tradizionale, nel senso di statisticamente più eseguita. Gli altri finali sono di rara proposta: a parte la Scala, si va da qualche intraprendente Festival a iniziative più o meno estemporanee.

Che si continui a presentare prevalentemente il finale posticcio e abborracciato di Alfano-Toscanini (conseguenza, del resto, della totale inconsistenza del libretto) è cosa spiegabile soltanto con il degrado della nostra civiltà: il pubblico pagante – oggi cinese in quota rilevante, guarda caso - pretende il lieto fine (ma sarebbe altrettanto contento di un finale macabro, con Calaf decapitato dalla glaciale principessa) e va perciò accontentato, a costo di rigirare per la millesima volta il coltello nella polvere del povero Giacomo. E dire che ci sarebbe invece una versione che metterebbe tutti (o quasi…) d’accordo!   

Le versioni (ad oggi esistenti) del finale.

Oltre a quella presentata qui oggi (la Alfano-II, rivista e soprattutto barbaramente tagliata da Toscanini) esiste la Alfano-I, l’originale proposta del compositore partenopeo, di circa 6’ più lunga.

Poi ci sono due versioni straniere: quella della zelante americana Janet Maguire (mai registrata, per quanto se ne sa) e quella più recente del cinese Hao Weiya, che fa solo piccole modifiche al libretto di Adami-Simoni.

Infine - in fiduciosa attesa di una nuova commissione aggiudicata al nostro grande Mozart contemporaneo (Giovanni Allevi) o, più seriamente, a qualcuno che provi almeno a mettersi nei panni (postumi) di uno Zandonai o di un Ravel, da molte parti indicati come i musicisti più adeguati a compiere l’impresa – esiste appunto la versione commissionata da Ricordi (copyright owner…) a Luciano Berio (2000) inaugurata da Chailly nel 2001 e dallo stesso incisa con laVerdi nel 2004 (da 7’33”) e infine portata qui al Piermarini nel 2015. Versione che comporta interventi non da poco sul testo originale.

Alla base di tutte queste versioni esiste un materiale autenticamente pucciniano, consistente in 30 schizzi/appunti lasciati dal compositore sul comodino del letto di morte, a Bruxelles (Institut du Radium). E sul foglio n°17 Puccini vergò due criptiche parole: …poi Tristano…

Cosa è accaduto prima del finale.

Riassumo brevemente i fatti succedutisi fino alla morte di Liù.

Dunque: Turandot, per 2 atti e mezzo su 3 (i 5/6 dell’opera!) ci appare come una donna (anzi, una ragazzina) fondamentalmente e congenitamente cattiva. Nel primo atto non canta una sola sillaba, ma il suo pollice verso nei confronti del principino di Persia ci basta ed avanza per inquadrarne la sbifida personalità.

Nel second’atto perde la tenzone di sapienza con Calaf e, invece di accettarne il verdetto e le relative conseguenze, magari adducendo la solita, ipocrita scusa: lo faccio per dio, non per piacer mio, va a piagnucolare dal padre, reclamando l’annullamento della prova! Sbeffeggia a tal punto il vincitore Calaf da ottenerne, perso per perso, una prova d’appello (la scoperta della di lui identità).

Nel terzo atto la carognaggine della principessa rasenta addirittura l’efferatezza, allorquando Turandot emana un editto che impone a tutti i suoi sudditi – pena la morte, quisquilie! - di scoprire per lei il nome del principe. E come alternativa i tre porcellini offrono a Calaf escort in quantità industriale, per cercare (inutilmente) di convincerlo a rinunciare al meritato trofeo.

Ebbene, dopo che ha dovuto constatare il proprio completo fallimento, la nostra simpaticona assiste al sacrificio di Liù (scena che muoverebbe a pietà persino un tagliagole dell’ISIS!) e invece di aprire gli occhi sulla realtà e sulla forza dell’Amore (col che il quadro finale avrebbe sì, allora, una sua piena e nobile giustificazione) rimane ancora e sempre impassibile e sprezzante (statuaria, senza un gesto né un movimento) al punto tale che lo stesso innamorato pazzo Calaf le si avventa contro apostrofandola con Principessa di morte! Principessa di gelo!

Però, attenzione: non è che l’attitudine del maschio Calaf verso di lei sia tanto più commendevole. Lui, di fatto, gioca ad una particolare specie di riffa, dove in palio non c’è un oggetto, ma appunto una donna-oggetto (succede ancora oggi in qualche quartiere del vizio che il palio di una riffa sia una prostituta…) Avendo vinto, esige il possesso dell’oggetto in palio, come testimoniano le sue reiterate pretese: ti voglio mia! sei mia! (perché ti ho vinto ad una scommessa, non perché ti ho con-vinto con l’Amore!) [Julian Budden scrive di approccio ormonale…] 

Ora ricapitoliamo, manca solo un sesto di opera da completare – tutto il resto è già perfettamente strumentato, e da mo’ - ma ancora non si vede il benché minimo spiraglio che possa plausibilmente giustificare il voltafaccia della principessa e il suo miracoloso finale scongelamento: tutt’altro, lei è sempre più ibernata e incarognita!

Che fare, una volta scartata la possibilità offerta dal sacrificio di Liù? Inventarsi un filtro magico à la Tristan (era forse questo cui voleva alludere l’appunto di Puccini?) oppure far comparire lo spettro dell’ava Lo-u-Ling che convinca Turandot che non tutti i maschi sono poi così vomitevoli come quel pipistrello che l’aveva violata?   

Ecco, in questa situazione, i librettisti del sempre più insofferente Puccini non sanno che pesci pigliare né proporgli - di scongelante - nulla di più e di meglio che una bella ingroppata (!) Con la frigida cattivona che – praticamente fatta segno di un mezzo-stupro da parte di Calaf - sbrodola un ridicolo Che è mai di me? e pare convincersi a cedere, arrivando ad ammettere (Del primo pianto, spesso tagliata!che lei, in fondo, si era già un pochino innamorata fin dal primo incontro. [Tristan, è lei?]

Ma poi torna a rinchiudersi a riccio e ordina a Calaf di andarsene, visto che ha ottenuto – fare sesso con lei? - ciò che desiderava. E così abbiamo questa ulteriore strampalata manfrina, con lui che le rivela il nome, lei che pare volerlo carognescamente buggerare coram-populo, come avesse vinto una gara regolare, e infine la sorpresa (ma per favore…) della dichiarazione d’amore che consente la chiusa in gloria e magna pompa.       

E Puccini, secondo voi, era uno disposto ad accettare questo farsesco guazzabuglio, oltretutto dopo il poco onorevole precedente della Fanciulla? E infatti fino all’ultimo – pur avendo buttato giù tutti quegli schizzi – il compositore non fece che cincischiare, e con infinita pena, attorno ad un finale che non gli veniva proprio, fra continui rimpalli di responsabilità con i suoi librettisti e laceranti dubbi sulla consistenza drammatica ed estetica del lieto fine e soprattutto della sua necessaria premessa: l’inopinata, improvvisa e inverosimile, totalmente gratuita virata di 180° nell’atteggiamento di Turandot.    

Alfano, Berio e… Wagner.

L’enigmatico riferimento a Wagner nel foglio n°17 degli schizzi può aver indotto Alfano (imitato da Weiya molti anni dopo) ad interpretare la scena finale come fosse quella non del Tristan, ma del Siegfried: dove Brünnhilde inizialmente si nega al ragazzo, per poi cedere ai suoi focosi assalti e unirsi anche carnalmente a lui.

Peccato però che in Wagner le premesse stiano precisamente agli antipodi rispetto alla Turandot! Brünnhilde ha apprezzato l’amore di Siegmund e Sieglinde fino al punto da perderci la… divinità; ha poi amato Siegfried fin dal suo concepimento; ha implorato Wotan di farla risvegliare dal Wälso; e ha subito manifestato la sua gioia nel riaprire gli occhi proprio su Siegfried. La sua iniziale ritrosia ad accoppiarsi con lui è tutta e solo freudiana: la paura - o meglio la tristezza, squisitamente femminile - legata alla prospettiva della perdita della verginità; non certo un pregiudizio idiota legato ad un fatto di cronaca nera di cui fu vittima un’ava nemmeno conosciuta. E alla fine è lei, liberamente e coscientemente, a concedersi al Wälso.

Turandot invece è da sempre un pezzo di ghiaccio venefico; e tale rimane anche dopo aver assistito alla morte della povera Liù; il suo cedimento a Calaf è tutt’altro che spontaneo e convinto, anzi appare come conseguenza di un atto di molestia sessuale, per non chiamarlo di violenza carnale bella e buona!

Scena finale che Berio cerca invece di Tristan-izzare, in ciò supportato da una testimonianza indiretta (perché riferita da Leonardo Pinzauti) di Salvatore Orlando, cui il Maestro avrebbe suonato – occhio alla data – nel 1923 un finale dell’opera dal sapore tristaniano. Però risulta che Puccini – a settembre 1924, due mesi prima di morire – avesse suonato alcune idee del finale anche a Toscanini, che poi però avallò quello, tutt’altro che tristaniano, di Alfano! (Insomma, ce n’è per tutti i gusti…)

Nell’Appendice I del saggio di Marco Uvietta È l’ora della prova: un finale Puccini/Berio per Turandot (accessibile in rete – in lingua inglese - previa registrazione) originariamente pubblicato nel 2002 in Studi Musicali, si riportano in dettaglio tutti gli interventi di Berio, che si caratterizzano per: tagli al testo e alle didascalie (corposi); aggiunte o modifiche al testo (minime); impiego di molti (23 su 30) degli schizzi lasciati da Puccini; utilizzo di frammenti musicali prelevati da altre parti dell’opera; inserimento di frammenti musicali alieni (Wagner, Mahler, Schönberg, oltre a Berio medesimo).

Nel suo saggio, Uvietta presenta ed analizza poi i razionali che sono stati posti da Berio alla base della sua proposta. Lo scopo principale degli sforzi del completatore è di riuscire là dove l’Autore non aveva avuto modo (e/o tempo?) di arrivare: aggirare in sostanza lo scoglio insormontabile legato alla prosaica (per non dire… criminosa) modalità di scongelamento della Principessa.

Il cuore di tale tentativo è rappresentato proprio dall’Interludio orchestrale (dove compaiono anche le citazioni aliene) che Berio ha predisposto come colonna sonora alla scena (Il bacio tuo…) dell’abbraccio di Calaf al corpo di (così la nuova didascalia!) Turandot. Orbene, mentre in Alfano-II quella scena passa alla velocità della luce (quando in Alfano-I e in Weiya occupa almeno 30”), in Berio abbiamo ben 2’30” (scusate la battuta sconcia: il tempo per una sveltina?) di musica che dovrebbe evocare la trasformazione della Principessa da sbifida carogna in angelica creatura (!?)

E per rendere la cosa plausibile, evitandole il successivo clamoroso voltafaccia, dopo che Calaf ha rivelato il suo nome, i versi di Turandot (So il tuo nome! Arbitra sono ormai del tuo destino! e fino a …la mia fronte ricinta di corona!) sono stati abilmente ma bellamente cassati.

Ma alla fine i nodi vengono al pettine… Eh sì, anche Berio (e prima di lui Puccini, se davvero pensava in questi termini al Tristan) ha preso una bella cantonata: come spiegare tristanianamente l’esternazione di Calaf (che permane nella versione beriana) È l’alba! E amor nasce col sole! [??? Ribadisco: l’amore che nasce all’alba e si compie in pieno sole meridiano è quello di Siegfried, non di Tristan.]

Insomma, come la si voglia prendere, siamo sempre lì, accanto all’infastidito Puccini sul lettino dell’ospedale belga dove morirà: la personalità della protagonista, come emersa e consolidatasi fino a quel momento dell’opera (parole e musica) rende irrimediabilmente vano ogni tentativo di giustificarne la repentina conversione.

E così anche Berio – del quale va incondizionatamente apprezzato lo spirito, oltre che il livello assoluto del contenuto musicale del suo completamento - purtroppo pretende l’impossibile, finendo con il contrabbandarci per Verklärung una volgare Vergewaltigung! 

Al proposito mi pare fulminante questa considerazione che Michele Girardi ha proposto nella sua introduzione all’Opera, comparsa sul programma di sala de LaFenice, pochi anni orsono: …un compositore che non voleva morire artisticamente, per non morire fisicamente, avendo scelto una principessa frigida per comunicarlo a tutto il mondo.

E infatti fu proprio la frigidità della principessa a creare l’ultimo problema – irresolubile, e perciò fatale - della sua vita. Ma per ragioni di bassa cassetta ci si continua invece a propinare il finale da avanspettacolo, della serie: dì la verità che hai goduto, zoccola!

Morale della favola?

Dopo la morte di Liù, nella storica edizione Ricordi abbiamo esattamente 60 pagine (402-461) che sono invenzione di Alfano, oltretutto depurate (da Toscanini) di molti improbabili wagnerismi che l’autore di Sakuntala ci aveva infilato, credendo così di interpretare la volontà di Puccini.

In realtà, la verità è una e dovrebbe ormai essere chiara a tutti, e prenderne atto risolverebbe alla radice il problema del finale: la Turandot è opera che finisce con Liù perché Puccini – o più probabilmente il suo subconscio – aveva preso atto che così dovesse ineluttabilmente accadere.

Ecco perché, esalato il MIb minore di archi e ottavino, personalmente preferirei che il Direttore posasse la bacchetta, come fece alla prima assoluta proprio Toscanini, pentitosi (per poi contro-pentirsi il giorno dopo) di aver avallato un misfatto.

A.T.: Qui finisce l’opera, rimasta incompiuta per la morte del Maestro.

15 giugno, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.26

Chiusura in bellezza della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano, con il ritorno sul podio di una vecchia conoscenza, Patrick Fourniller, e alla tastiera dei due fratelli (ma qui separati, salvo... bis!) Jussen. Presente anche il Coro Sinfonico, a (quasi) completare tutto l’organico musicale della Fondazione.

Programma invero sontuoso, tutto beethoveniano. Si parte infatti con l’Imperatore! È il maggiore dei due olandesini, Lucas, a cimentarvisi. Prestazione davvero impeccabile, per mirabile rigore tecnico coniugato con raffinatezza di tocco e perfetta intesa con orchestra e direttore.

Scroscianti applausi e ovazioni per lui, che (ma solo per ora…) non concede bis
___

Ecco quindi il gran finale, con la Fantasia op. 80, che impegna Arthur al pianoforte, il Coro di Massimo Fiocchi Malaspina, e sei solisti (SATB): Bernarda Bobro e Sarah Fox (soprani); Aoxue Zhu (alto), Patrik Reiter e Artavazd Sargsyan (tenori); e Matthias Winckhler (basso).

Giovedi 22 dicembre 1808 il Theater an der Wien ospitò un concertucolo di opere beethoveniane (una delle cosiddette accademie che i compositori organizzavano per farsi pubblicità…) avente in programma:

- Sinfonia n°5 e Sinfonia n°6 (prime esecuzioni);
- Concerto per pianoforte n°4;
- Aria Ah, perfido!;
- Messa in DO maggiore (3 movimenti);
- Fantasia corale op.80 (prima esecuzione).

Solo 4 orette di musica, che sarà mai… Qui un dipinto di Moritz von Schwind che raffigura una fase – piuttosto, ehm… disordinata - delle prove della Fantasia:

Il piccolo seme da cui germoglierà la Fantasia è un Lied giovanile (1795) intitolato Seufzer eines Ungeliebten (noto come Gegenliebe, Amore reciproco). E in seguito dal tema della Fantasia nascerà quello, passato alla storia, dell’Inno alla Gioia della nona:

Seguiamo un’esecuzione dei Wiener con Lenny Bernstein e Homero Francesch. L’articolazione del brano è essa stessa assai bizzarra: (50”) una lunga (a dispetto delle sole 26 battute) Introduzione del pianoforte solo, in tempo Adagio (DO minore-maggiore) e in forma di cadenza concertistica è seguita direttamente dal Finale, che ha una struttura assai complessa, anticipando (in scala ridotta) quella del finale della nona.

È aperto (4’01”) in DO minore, tempo Allegro, dall’orchestra, con i bassi a supportare il pianoforte nella transizione a DO maggiore (Meno allegro, 5’10”) dove il solista, introdotto da una lenta fanfara di corni e oboi, espone quello che sarà il tema cardine dell’opera, derivato dal Gegenliebe, e che successivamente verrà ripreso da solisti e coro, proprio come avverrà (in proporzioni moltiplicate) nell’Op.125.

Il pianoforte chiude questo primo intervento con uno svolazzo di biscrome, quindi si limita ad accompagnare il flauto solo, che gli subentra (6’06”) presentando una virtuosistica variante (semicrome in luogo di crome) del tema, poi imitato (6’35”) dagli oboi e successivamente (7’02”) dai clarinetti, contrappuntati dal fagotto.

Infine (7’28”) entra il quartetto d’archi, imitando i legni con una versione più mossa – quasi un controsoggetto - del tema principale, che torna in grande spolvero (7’56”) con un robusto tutti della sola orchestra.

Il pianoforte chiude questa sezione (8’23”) con una lungo ponte che modula (8’38”) a SOL maggiore e sfocia (9’07”) in una veloce (sempre più allegro) cadenza che riporta SOL a dominante e apre (Allegro molto, 9’13”) una sezione di sviluppo in DO minore caratterizzata da un serratissimo dialogo solista-orchestra.

Sfumato il quale, ecco un’altra sorpresa, con il solista che modula arditamente (9’43”) a SI maggiore (!) per riesporre il tema. Quindi fa progressivamente degradare la tonalità (10’13”) a LA minore, sempre in stretto dialogo con l’orchestra, preparando la successiva sezione (Adagio ma non troppo, 10’58”) in LA maggiore. È un passaggio sognante del pianoforte, discretamente accompagnato da clarinetti, fagotti, viole e celli.

Altra ardita modulazione (13’54”) a FA maggiore, e passaggio in Marcia, assai vivace (anche qui si anticipa la nona!) per una nuova esposizione variata del tema da parte dell’orchestra (quasi alla turca…) Il solista (14’22”) torna ad interporsi all’orchestra, mentre i… turchi si allontanano.

Il pianoforte ancora in primo piano (15’05”) con un mesto ricordo del tema, riportando la tonalità a DO minore, poi si torna all’Allegro introduttivo, con i bassi (15’44”) a preparare l‘Allegretto, ma non troppo (quasi Andante con moto, 16’06”) che prelude finalmente all’ingresso dei solisti (16’25”) e poi di tutto il coro.

Siamo tornati al solare DO maggiore, e ascoltiamo l’inno alla fratellanza di Christoph Kuffner, una pagina breve ma efficace, da cui Beethoven coglierà più di uno spunto (non ci vuol molto ad individuarlo…) per musicare – anni e anni dopo – Schiller.   
___
Il giovane Arthur si fa valere nella difficile Introduzione solistica, come nei diversi dialoghi con l’orchestra che caratterizzano il brano. Orchestra sempre all’altezza della sua fama. Le sei voci soliste e il Coro di Fiocchi Malaspina danno il loro grande contributo al successo dell’esecuzione, salutata da ripetuti applausi ritmati.

Prima dell’ultimo omaggio generale torna sul palco Lucas e si siede a destra di Arthur sullo sgabello del pianoforte. Insieme ci lasciano con il Bach della Sonatina dall’Actus Tragicus, trascritta da Kurtág.

Davvero una conclusione di stagione alla grande. Ma l’Orchestra ora si prepara ad una importante trasferta a Francoforte, dove con Tjeknavorian porterà i Carmina Burana.

11 giugno, 2024

Dopo 44 anni riecco un grande Werther alla Scala

La Scala ripropone il capolavoro di Jules Massenet dopo più di 44 anni (ultima apparizione il 23 febbraio 1980, allora il sommo Georges Prêtre sul podio e l’indimenticabile Alfredo Kraus nel ruolo del titolo). Si tratta di una nuova produzione, in partnership con il Théâtre des Champs-Élysées, dove approderà fra poco meno di un anno. Allestimento di Christof Loy e direzione musicale di Alain Altinoglu.

Qualche – più o meno peregrina – osservazione sul plot (quello del libretto, in confronto con il romanzo dell’irraggiungibile Goethe) avevo già avanzato più di sette anni orsono, in occasione di una recita a Bologna, alla quale rimando perciò le moltitudini di curiosi e perditempo…

Attenzione: le – sacrosante – critiche al libretto (profonde e maldestre deviazioni rispetto al testo di Goethe, presenza di fatti e situazioni del tutto improbabili se non addirittura in aperto contrasto fra loro, …) non comportano assolutamente un giudizio negativo sull’opera che al contrario, e grazie alla musica di Massenet, continua a coinvolgere ed emozionare ad ogni ascolto. In specie se presentata con la cura e la professionalità che contraddistinguono questa nuova produzione scaligera.

Benjamin Bernheim: un fenomeno davvero, Werther perfetto, fino al midollo. Non gli manca proprio nulla della personalità disturbata del protagonista: canto e portamento scenico in assoluta simbiosi (possiamo discutere la scelta registica del finale, dove Loy calca la mano sul melodramma strappalacrime, facendolo cadere e rialzare un paio di volte mentre duetta con Charlotte). A lui il pubblico ha meritatamente riservato il massimo del calore.  

Alain Altinoglu guida un’orchestra in gran forma, cavandone fuori tutte le meraviglie che costellano questa partitura: voci sempre accompagnate con equilibrio, squarci naturalistici che non cadono mai in eccessi di decadentismo e pathos continuamente tenuto alto (un breve applauso a scena aperta per Charlotte – per fortuna non per Werther nel Pourquoi me réveiller – ha un po’ rotto l’incantesimo).

Victoria Karkacheva è stata una Charlotte più che dignitosa: forse un po’ attorialmente impacciata e con qualche debolezza nella parte bassa della tessitura; ma anche per lei l’accoglienza è stata da alto gradimento.

I due comprimari (Jean Sébastien Bou e Francesca Pia Vitale) hanno degnamente completato il quadro: lui mettendo la sua calda voce baritonale al servizio di un Albert che sotto la crosta del fair-play nasconde una crescente insofferenza verso Werther, culminata (grazie a Loy) nel trattamento che riserva alle… lettere nel finale del dramma; lei creando una Sophie tutta verve e maliziosità, aiutata in ciò dalla scelta registica (quanto mai azzeccata) di farcela comparire in scena in tutti i momenti topici, dall’apertura del sipario all’arrivo di Werther, poi a tutto il finale,  dove i quattro protagonisti restano sempre presenti.

Di tutto rispetto le prove degli altri: Armando Noguera, Borgomastro severo e un po’ lunatico, Rodolphe Briand e Enric Martínez-Castignani (gli amiconi di mangiate e bevute).

Ammirevole la prestazione dei sei fanciulli, guidati dal venerabile Mario Casoni, con il loro canto fuori registro alle… prove di luglio che si nobilita poi nella notte di Natale.

Con i due personaggi muti (Pierluigi D’Aloia ed Elisa Verzier, Bruhlmann e Katchen) passo quindi a qualche nota sulla regìa di Christof Loy. Che ce li mostra quasi come due alias dei protagonisti: lui sempre ubriaco – di mal d’amore? – e lei perennemente cupa e preoccupata.

Johannes Leiacker ha approntato un ambiente scenico assai ristretto: in pratica al solo proscenio allargato, chiuso da un’alta parete che mostra una grande porta scorrevole. Oltre la quale si intravedono di volta in volta ambienti diversi a caratterizzare i diversi momenti del dramma: tavole imbandite, due grandi vasi con cespugli rinsecchiti (ritorno di Werther) e il finale albero di Natale. Per il resto, tutto si svolge in primo piano e a scena spoglia.   

I costumi di Robby Duiveman ci portano ad un’anonima contemporaneità, e le luci di Roland Edrich sono manipolate con parsimonia, senza grandi effetti speciali.

Fino alla scena madre del terz’atto (la tentata violenza di Werther su Charlotte) Loy si tiene su un rigoroso piano interpretativo che potrei definire fin troppo tradizionale e rispettoso anche della lettera (oltre che dello spirito) del dramma.

È il finale che ci riserva l’immancabile tocco di genio (o… sregolatezza? Ciascuno giudicherà liberamente…)

In scena vediamo tutti i quattro protagonisti, sempre insieme! Albert sopraggiunge accolto (ancora!) da Sophie, che lì resterà fino alla fine: dopo Charlotte, redarguita dal marito, rientra in scena anche Werther (!) al quale la donna reca direttamente le pistole, che lui si porta dietro la porta scorrevole. [Ho il vago sospetto che Loy abbia già in mente una versione ancor più concentrata del finale: dove sarà direttamente Charlotte a ficcare un bel colpo di pistola in testa a Werther.]

Albert raccoglie le lettere di Werther (che Charlotte aveva estratto nella famosa scena dalle tascone della pelliccia…) e le sfoglia, spargendole sul pavimento. Si odono due (!) colpi di pistola dietro la porta scorrevole. Ne esce Werther, barcollante. Dapprima si stravacca – e qui ci siamo! - proprio sulle sue lettere, ma poi si risolleva e ricade un paio di volte (e qui davvero si fa largo un po’ di Kitsch…) fino a stramazzare definitivamente. (Sophie ha indossato la pelliccia di Charlotte, non senza psicologica spiegazione.)

Devo dire che tutto ciò, insieme ad aspetti del tutto condivisibili, mi ha lasciato abbastanza perplesso (siamo al famola strana?)
___
In ogni caso il pubblico ha tributato un autentico trionfo a tutti. Cosa che nella sostanza mi sento di condividere ampiamente.

08 giugno, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.24

Il penultimo concerto della stagione 23-24 dell’Orchestra Sinfonica di Milano ci offre un programma tutto russo-sovietico, da fine ‘800 a metà ‘900. E perciò sul podio sale un Direttore che viene da quelle parti, il redivivo Stanislav Kochanovsky, fresco Direttore Principale della NDR RadioPhilharmonie di Hannover.

Ecco quindi Ciajkovski e il suo iper-inflazionato Primo Concerto per pianoforte, interpretato dalla bella 41enne Anna Vinnitskaya da Novorossysk (un posto oggi piuttosto insicuro, a ridosso della Crimea, preso spesso di mira dai resistenti ukraini) ma ormai stabilitasi in occidente e in Germania in particolare.

Esecuzione davvero trascinante, negli enfatici passaggi dei due movimenti esterni come nei languori dell’Andantino semplice e nei virtuosismi delle cadenze. Da parte sua Kochanovski ha gestito con equilibrio il dialogo con la solista, accompagnandola sempre con discrezione, salvo scatenare l’orchestra quando necessario.

Accoglienza trionfale per la Vinnitskaya che ci ha regalato ancora Ciajkovski e poi il Mendelssohn veneziano della Romanza senza parole op.30, n°6. 
___

Il secondo brano in programma è – al contrario del primo - di abbastanza rara esecuzione: si tratta di 6 dei 18 brani che costituiscono le quattro Suites dal balletto Spartak dell’armeno (nato peraltro a Tbilisi, in Georgia) Aram Khachaturian, che nella parte centrale del ‘900 fu, con Shostakovich e Prokofiev, uno dei principali alfieri della musica sovietica, avendo quindi con il regime rapporti altalenanti, fra incarichi, onorificenze e… zdanoviane accuse di formalismo.

Il balletto, del 1954, si ispira alle gesta di Spartacus, eroe della Tracia che più di 2000 anni orsono guidò a Roma una delle rivolte degli schiavi. Una figura emblematica dello spirito di lotta per la libertà, che quindi ebbe in URSS vasta popolarità (anche nello sport, vedi lo Spartak Mosca, una delle più titolate squadre calcistiche del mondo sovietico).

Khachaturian ricavò via via ben quattro Suites dalle musiche del balletto. Lo schema sottostante ne riporta la struttura, affiancata dai sei numeri liberamente scelti da Kochanovsky per questo concerto.

Suite
Brano
Kochanovsky
I
1. Introduzione e danza delle ninfe
 
 
2. Adagio di Aegina e Harmodius
 
 
3. Variazioni di Aegina e Bacchanalia
2
 
4. Scena e danza di Crotalusa
3
 
5. Danza delle Gaditanae – Vittoria di Spartacus
6
II
1. Adagio di Spartacus e Frigia
4
 
2. Entrata dei mercanti – Danza delle cortigiane romane – Danza generale
5
 
3. Entrata di Spartacus – Contesa – Tradimento di Harmodius
 
 
4. Danza dei pirati
 
III
1. Danza dello schiavo greco
 
 
2. Danza della fanciulla egiziana
 
 
3. Intermezzo notturno
 
 
4. Danza di Frigia – Scena del commiato
 
 
5. Al circo (Danza delle spade)
1
IV
1. Danza malinconica di Bacchante
 
 
2. Processione di Spartacus
 
 
3. Morte del gladiatore
 
 
4. Chiamata alle armi – Rivolta di Spartacus
 

È tipica musica da film, o da musical, orecchiabile, con qualche inflessione sincopata, o di jazz e di swing… ma vi troviamo anche squarci di grande lirismo.

In platea ad ascoltare c’era anche un altro personaggio di origine armena, quell’Emmanuel Tjeknavorian che fra poche settimane sarà anche formalmente il nuovo Direttore Musicale dell’Orchestra di casa.

Dopo la vibrante esecuzione dei brani della Suite di Spartacus, accolta da trionfali applausi, Kochanovsky e l’Orchestra hanno offerto come bis quello che è un po’ il marchio di fabbrica di Khachaturian!