25 settembre, 2019
19 settembre, 2019
MITO-2019 - Chiusura milanese di Axelrod al Dal Verme
Ultima
tappa del mio MITO-parcour milanese (con
omaggio di T-shirt gentilmente offerto da uno sponsor) con John Axelrod che in un DalVerme
gremito ha diretto la OSN-RAI in un
programma classico-moderno,
dove un lavoro di un maturo cinese contemporaneo (in prima italiana) si è inserito fra due opere del primo novecento.
Si è quindi
aperto con Debussy e la sua Isle
joyeuse, composta originariamente nel 1904 per pianoforte e
successivamente (1917) orchestrata (col beneplacito dell’Autore) da Bernardino Molinari. Rispetto alla
versione per la sola tastiera,
quella orchestrata da Molinari
presenta per ovvie ragioni sonorità più ricche e complesse (e un finale
tardo-romantico); in compenso appare meno asciutta e impressionista. Tuttavia ad un ascolto superficiale si potrebbe
tranquillamente credere trattarsi della scrittura orchestrale dello stesso
Debussy.
Sono poco più di sei minuti che scorrono
piacevolmente, come del resto suggeriscono il titolo dell’opera e l’ispirazione
che Debussy ebbe dal quadro di Watteau,
oltre a risvolti vagamente autobiografici (l’estate passata al mare con l’amante
che diventerà la sua seconda moglie). Servono
bene a scaldare i motori dell’Orchestra e... le mani del pubblico.
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Il 68enne cinese Qigang Chen (di lui si ascoltò in Auditorium anni fa un pezzo per violoncello e orchestra) è l’autore di Joye eternelle, un concerto per tromba e orchestra, ispirato ad un’antica melodia cinese, esposta all’avvio dal clarinetto:
Concerto composto per la famosa trombettista Alison Balsom e dedicato al maestro YU Long: dopo la prima in Cina, nel 2014, il lavoro venne eseguito a Londra (PROMS) nel luglio dello stesso anno, con gli stessi interpreti (Balsom e YU).
Qui ad
interpretarlo per l’esordio italiano è stata un’altra rappresentante del gentil
sesso, la 32enne norvegese Tine Thing Helseth,
che - presentatasi a piedi nudi! - ha messo in mostra le sue eccezionali doti tecniche superando brillantemente
le difficoltà di cui è popolato questo brano, rilevabili dall’esempio qui sotto:
Il 68enne cinese Qigang Chen (di lui si ascoltò in Auditorium anni fa un pezzo per violoncello e orchestra) è l’autore di Joye eternelle, un concerto per tromba e orchestra, ispirato ad un’antica melodia cinese, esposta all’avvio dal clarinetto:
Concerto composto per la famosa trombettista Alison Balsom e dedicato al maestro YU Long: dopo la prima in Cina, nel 2014, il lavoro venne eseguito a Londra (PROMS) nel luglio dello stesso anno, con gli stessi interpreti (Balsom e YU).
Il finale è davvero pirotecnico e la simpatica Tine si merita ovazioni ripetute, che ricambia con un bis assai più... tranquillo.
___
Chiusura con Mahler e la sua Quarta sinfonia. L’Orchestra la conosce evidentemente come le sue
tasche e Axelrod, che con i nazionali-RAI ha un’antica consuetudine, va
proprio sul velluto. Lui ci mette ovviamente del suo e devo dire con grande
profitto, quanto a tempi e dinamiche sciorinati nei diversi scenari che la
sinfonia propone.
Francamente mi sarei aspettato di più dalla Rachel Harnisch, che ha
esposto con discreto portamento il Lied conclusivo, ma la
voce è scarsina di decibel, specialmente nelle note gravi, davvero poco udibili.
Ma il pubblico ha mostrato di apprezzare, richiamando ripetutamente al proscenio
lei e il Direttore.
16 settembre, 2019
laVerdi ha aperto alla Scala la stagione 19-20
laVerdi ormai da anni e anni è
ospite della Scala per il Concerto
inaugurale della stagione. La cosa si è puntualmente ripetuta ieri sera per
la stagione
19-20. In un Piermarini abbastanza affollato, sul podio il Direttore musicale Claus Peter Flor e
alla tastiera, per Mozart, Steven Osborne
(due che hanno già avuto modo di collaborare in passato).
Ed è appunto con il Concerto K595 di Mozart (il suo ultimo per il pianoforte,
composto a meno di un anno dalla scomparsa) che si è aperta la serata. Il 48enne
scozzese lo ha interpretato con la grande sensibilità che lo contraddistingue (lui
è un po’ anche... filosofo, si sente e si vede). Questo lavoro del Mozart tardo è per lui una specie di serena e
disincantata meditazione sulla vita; e lui lo interpreta quasi sfiorando la
tastiera, come a non voler infierire sullo strumento: un’esecuzione quasi
sognante, che solo nella cadenza del Rondò ha qualche sussulto.
___
Dopo l‘intervallo ecco la Sinfonia per... batteria di Gustav Mahler (così battezzò la Quinta
alle prime prove un’Alma piuttosto esterrefatta,
riuscendo poi a convincere il marito a smagrire un filino le percussioni).
É tuttora diffuso il luogo comune che definisce questa sinfonia come
l’abbandono del mondo del Wunderhorn,
al quale apparterrebbero le tre precedenti, infarcite di Lieder
(con voce o senza) provenienti dalla collana di vonArnim-Brentano, cui Mahler aveva dedicato grande attenzione nei
suoi primi anni da compositore. La Quinta segnerebbe invece l’aprirsi di una
nuova era nel mondo estetico mahleriano, come dimostrerebbero i riferimenti in
essa contenuti a Lieder di Rückert, oltre che ad aspetti più strettamente legati alla
forma (ad esempio l’impiego del Rondò).
E le due successive sinfonie confermerebbero questa tesi.
Peccato che si tratti di una tesi ampiamente
contraddetta proprio dai contenuti di questa Quinta, che accoglie spunti da Mahler messi su pentagramma già ai
tempi della composizione di quei precedenti lavori. Tanto per cominciare, le
terzine di trombetta che aprono la sinfonia avevano fatto una fugace comparsa
nel primo movimento della Quarta;
alla quale quindi rimandano scopertamente. La marcia funebre che apre l’opera è
una riedizione della Totenfeier dalla
quale sbocciò poi la Seconda Sinfonia. Lo Scherzo
in RE maggiore fu pensato in origine come quinto movimento (sottotitolato Die Welt ohne Schwere, Il mondo senza
peso) della Humoreske, che divenne
appunto la Quarta sinfonia, immaginata quando ancora Mahler era alle prese con
la sinfonia precedente!
Quanto ai Lieder, è vero che vi si trovano richiami
e citazioni di Rückert (Nun will die Sonn’ e Ich bin
der Welt abhanden gekommen) ma è anche vero che il quinto ed ultimo
movimento cita esplicitamente Lob des
hohen Verstandes (l’intelligenza di un... asino!) dal Wunderhorn; e poi, al
numero 29 del rondò finale compare, negli
strumentini, un inconfondibile inciso che viene direttamente da Revelge!
E ancora, la forma: la struttura in 5 movimenti richiama la versione originale
della Prima, poi la Seconda e, per difetto, la Terza. Ai quattro movimenti della
tradizione Mahler era già arrivato con la versione definitiva della Prima e con la Quarta, prima di tornarci con la Sesta e (surrettiziamente) con l’Ottava, mantenendo invece per Settima,
Nona e Decima la struttura in 5 movimenti. E l’eterogeneità dei contenuti (bizzarra concatenazione
tonale, irruzioni di motivi sguaiati, un corale, l’interminabile tiritera del
corno obbligato) non si discosta certo da quella delle sinfonie precedenti...
Insomma, suddividere la produzione di
Mahler in blocchi chiusi è proprio fare un torto al compositore, che invece per
l’intera sua opera ha seguito contenuti e strutture formali dettate
esclusivamente dall’ispirazione, e da un approccio estetico-filosofico che non
è mai mutato, tanto da far pensare ad uno sviluppo continuo, quasi che le dieci
sinfonie (più il Lied von der Erde)
costituiscano un unico, gigantesco e - a suo modo - coerente monumento
sinfonico.
___
Da ammiratore de laVerdi, ma avendo ancora nelle orecchie i suoni della Filarmonica di SanPietroburgo, confesso
di aver temuto che il confronto ravvicinato con quei giganti mi creasse qualche...
imbarazzo, ecco. Ma devo dire che Flor e i suoi hanno saputo fugare i miei timori.
Beh, che in un’opera così ostica ci possa scappare qualche svirgolata (gli
ottoni sono per loro natura soggetti a tali pericoli) è quasi pacifico, ma mi
sento di dire che la prestazione nel suo complesso sia stata più che positiva:
solo orchestre di alto livello sono in grado di reggere le difficoltà oggettive
presentate da questa partitura.
Flor già mi aveva convinto con la sua lettura
di un paio d’anni orsono in Auditorium. E ieri l’impressione positiva è stata
confermata in pieno: appropriati i tempi tenuti dal Direttore, interessanti le
rese cameristiche di molti passaggi, come il taglio espressionista dato al tema
del finale, tanto per citare esempi qua e là. E l’interminabile applauso ritmato
che ha accolto l’esecuzione testimonia di come il pubblico l’abbia apprezzata
assai.
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15 settembre, 2019
MITO-2019 - Marin rimpiazza Temirkanov al Conservatorio
Altra stazione del MITO, in un
Conservatorio stracolmo, dove purtroppo il venerabile Yuri Temirkanov, annunciato sul programma originario, ha dovuto
dare forfait (ancora una volta... managgia, ma mica si può criminalizzare un
81enne dalla salute malferma se si vede costretto a disdire appuntamenti; o lo giudichiamo
alla stregua di una qualunque starlette
capricciosa che si prende gioco di tutto e di tutti?) sostituito dal solido, ma
non ancora venerabile, austro-rumeno Ion
Marin a dirigere i Filarmonici di
SanPietroburgo.
Programma
testa-coda:
una prima italiana e una... millesima
mahleriana.
L’apertura è stata però una...
cerimonia: presenti la Presidente e il Direttore artistico del MITO, nonchè
l’immancabile maieuta Gaia Varon, l’Assessore
DelCorno ha infatti premiato il compositore James MacMillan con il prestigioso Sigillo
della città, in omaggio al suo consolidato sodalizio con Milano.
E proprio del compositore scozzese abbiamo ascoltato la prima italiana del Larghetto for Orchestra,
trascrizione strumentale di un brano per coro a cappella del 2009
(originariamente dedicato al complesso londinese The Sixteen) intitolato Miserere (tratto
dal Salmo 51). La strumentazione è
del 2017 e fu dedicata al 10° anniversario di Manfred Honeck come guida della Pittsburgh
Symphony, dei quali si può apprezzare proprio la prima
esecuzione (suggerisco di scaricare l’mp3 per poi ascoltarlo su iTunes
o altro player).
Mentre il Miserere può essere scambiato -
ad un ascolto naïf - per gregoriano o
fiammingo, il Larghetto, introducendo
modiche dosi di armonia, si presenta quasi come un lavoro di primo-novecento,
sospeso fra diatonismo e atonalità. Lo schema che segue consente di allineare i versi del Miserere al Larghetto: i tempi indicati si riferiscono alla citata esecuzione
di Honeck a Pittsburgh.
Larghetto
|
Miserere
|
21”
.
1’11”
.
2’02”
.
2’40”
.
3’40”
.
4’22”
.
5’08”
.
5’50”
.
6’28”
.
7’04”
.
7’34”
.
8’01”
.
8’32”
.
9’42”
.
10’06”
.
10’41”
.
11’18”
.
11’57”
.
12’39”
.
13’31”
.
|
Miserere mei, Deus,
secundum magnam misericordiam tuam.
Et secundum multitudinem miserationum
tuarum,
dele iniquitatem meam.
Amplius lava me ab iniquitate mea:
et a peccato meo munda me.
Quoniam iniquitatem meam ego cognosco:
et peccatum meum contra me est semper.
Tibi soli peccavi, et malum coram te
feci:
ut justificeris in sermonibus tuis, et
vincas cum judicaris.
Ecce enim in inquitatibus conceptus
sum:
et in peccatis concepit me mater mea.
Ecce enim veritatem dilexisti:
incerta et occulta sapientiae tuae
manifestasti mihi.
Asperges me hyssopo, et mundabor:
lavabis me, et super nivem dealbabor.
Auditui meo dabis gaudium et
laetitiam:
et exsultabunt ossa humiliata.
Averte faciem tuam a peccatis meis:
et omnes iniquitates meas dele.
Cor mundum crea in me, Deus:
et spiritum rectum innova in
visceribus meis.
Ne projicias me a facie tua:
et Spiritum sanctum tuum ne auferas a
me.
Redde mihi laetitiam salutaris tui:
et spiritu principali confirma me.
Docebo iniquos vias tuas:
et impii ad te convertentur.
Libera me de sanguinibus, Deus, Deus
salutis meae:
et exsultabit lingua mea justitiam
tuam.
Domine, labia mea aperies:
et os meum annuntiabit laudem tuam.
Quoniam si voluisses sacrificium,
dedissem utique:
holocaustis non delectaberis.
Sacrificium Deo spiritus
contribulatus:
cor contritum, et humiliatum, Deus,
non despicies.
Benigne fac, Domine, in bona voluntate
tua Sion:
ut aedificentur muri Jerusalem.
Tunc acceptabis sacrificium justitiae,
oblationes, et holocausta:
tunc imponent super altare tuum
vitulos.
|
Brano davvero di grande effetto, che i sanpietroburghesi hanno perfettamente introiettato per poi restituirlo ad un pubblico che ha ascoltato in religioso silenzio, prorompendo alla fine in un calorosissimo applauso: per gli esecutori e per l’Autore, tornato sulla ribalta a ringraziare.
___
La super-inflazionata Titan-Sinfonie ha poi chiuso la parte ufficiale della serata. A partire dalla Mahler-renaissance del dopoguerra, chissà quante volte le pareti della vetusta Sala Verdi hanno accolto e riverberato i Naturlaute e i fracassi di quest’opera... ricordo personalmente un’esecuzione degli anni ’70, con l’Orchestra RAI-MI e un ventenne israeliano di belle speranze (quel Daniel Oren che in questi giorni è protagonista del Rigoletto alla Scala) dirigerla danzando sul podio come un orso da circo ed accompagnandola con rantoli e urla strozzate!
Ieri sera i Filarmonici-della-Neva, pur orfani del loro condottiero, hanno offerto una prova magistrale: grazie ai buoni uffici del compassato ma un po’ gigionesco Marin, naturalmente, ma soprattutto - credo io - alla loro perfetta intesa, che li fa assomigliare ad una macchina (come si cerca di fare oggi nel campo automobilistico) che sa perfettamente districarsi da sola anche in mezzo al traffico più caotico! Insomma: difficile stabilire il nesso causa-effetto fra i suoni prodotti dall’Orchestra e le mossette del Direttore...
Trionfo assicurato e congedo con un Brahms ungherese.
La super-inflazionata Titan-Sinfonie ha poi chiuso la parte ufficiale della serata. A partire dalla Mahler-renaissance del dopoguerra, chissà quante volte le pareti della vetusta Sala Verdi hanno accolto e riverberato i Naturlaute e i fracassi di quest’opera... ricordo personalmente un’esecuzione degli anni ’70, con l’Orchestra RAI-MI e un ventenne israeliano di belle speranze (quel Daniel Oren che in questi giorni è protagonista del Rigoletto alla Scala) dirigerla danzando sul podio come un orso da circo ed accompagnandola con rantoli e urla strozzate!
Ieri sera i Filarmonici-della-Neva, pur orfani del loro condottiero, hanno offerto una prova magistrale: grazie ai buoni uffici del compassato ma un po’ gigionesco Marin, naturalmente, ma soprattutto - credo io - alla loro perfetta intesa, che li fa assomigliare ad una macchina (come si cerca di fare oggi nel campo automobilistico) che sa perfettamente districarsi da sola anche in mezzo al traffico più caotico! Insomma: difficile stabilire il nesso causa-effetto fra i suoni prodotti dall’Orchestra e le mossette del Direttore...
Trionfo assicurato e congedo con un Brahms ungherese.
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MI-TO
14 settembre, 2019
Scala: un Rigoletto accademico.
Ieri sera alla Scala terz’ultima recita
dell’ultima (per la stagione) puntata del Progetto
Accademia, con il Rigoletto
di Nucci-Oren (i due tutor che Pereira ha affiancato per
l‘occasione ai giovani accademici).
Teatro pieno se non strapieno (la sesta di Rigoletto-Nucci batte anche la prima di Elisir di parecchie decine di
posti...) per questa decima
consecutiva (!) ripresa dello spettacolo di Gilbert
Deflo, dopo il debutto nell’ormai giurassico 1994: altro che museo!
Personalmente ho visto solo 3 di queste 10 riprese e devo dire che non mi sono
per nulla annoiato, pur ricordando quasi nei dettagli tutto ciò che scorre in
scena: l’interesse (come è naturale, credo, trattandosi di teatro musicale) è per ciò che arriva alle
orecchie e l’occhio non se la prende troppo se l’eccipiente è sempre lo stesso.
Nulla scrivo quindi della (lodevole,
come ormai assodato da decenni) regìa, e passo direttamente ai suoni. Tenendo
ovviamente presente che il grosso degli interpreti è rappresentato da allievi
dell’Accademia, e non da navigati
frequentatori di buca e palco della Scala.
Le due
eccezioni (i fuori-quota, haha!)
devono aver fatto un buon lavoro sui giovani, a giudicare dai confortanti
risultati dell’impresa. E arrivo quasi a dire che gli allievi abbiano superato
i maestri... Perchè Nucci sarà sempre (per altri 500 Rigoletti) un Rigoletto
carismatico, però ormai declama più che cantare e le note di arrivo di
intervalli ascendenti le prende con un semitono, minimo, di avvicinamento: il che è francamente
tipico di schiamazzi da osteria e lascia una sgradevole impressione (per la
cronaca: niente bis vendicativo...
meglio così). Quanto ad Oren, ora che ha passato abbondantemente i 60, non
emette più grugniti da scimpanzè, nè prende il podio come un tappeto elastico,
però la sua concertazione mi è parsa un tantino approssimativa, ecco.
Gli allievi sono tutti da elogiare, se
non altro per non essersi fatti attanagliare dall’emozione: è evidente che
debbano ancora studiare assai per aspirare a salire in SerieA. In particolare i
due deuteragonisti Rodrigo Porras Garulo
e Francesca Manzo sembrano
promettere bene: lui ha una voce da lirico
che forse si adatta meglio a un certo Rossini; lei pure tende a volte a pigolare,
ma ha anche staccato un paio di acuti non disprezzabili. Gli altri, così come
il coro di Salvo Sgrò, non hanno
affatto sfigurato.
Bene anche l’Orchestra, che Oren ha
gestito con prudenza, salvo pochi sconfinamenti nel fracasso gratuito.
Successo calorosissimo (un po’ meno per
Oren) non sai se dettato da... superficialità di un pubblico di turisti o da
comprensibile atteggiamento incoraggiante verso questi giovani virgulti.
Pereira - conti alla mano - credo stia gongolando.
12 settembre, 2019
MITO-2019 - Chung-Romanovsky agli Arcimboldi
Ieri
sera il vasto anfiteatro degli Arcimboldi - riempito più di un uovo! - ha
ospitato la Filarmonica scaligera per
un concerto
tutto russo. Sul podio il redivivo orientale-estremo Myung-Whun Chung e alla tastiera l’orientale-semplice
(ma svezzato qui da noi, nel bolognese) Alexander Romanovsky.
É
curioso ricordare il diverso atteggiamento tenuto (ai suoi tempi) verso i due
brani in programma da tale Gustav Mahler.
Il quale, nel 1911 a New York, si adoperò allo spasimo per ribadire il successo
al nuovissimo Terzo concerto di
Rachmaninov con la NY Philharmonic, un paio di mesi dopo la prima eseguita dalla NY Symphony con
Damrosch sul podio. Lo stesso Autore (e interprete) rimase stupefatto dal
rigore e dal perfezionismo di Mahler, che non esitò a strapazzare gli
orchestrali, costringendoli ad un super-lavoro nelle
prove per
raggiungere l’eccellenza nell’esecuzione.
Ecco invece come lo stesso Mahler,
nell’estate di 10 anni avanti, a Vienna, aveva descritto a Guido Adler la Patetica ciajkovskiana:
Apperò!
___
___
Dopo
il consueto pistolotto (in senso non salviniano!) della maestrina Gaia Varon, che è incorsa in un tipico
lapsus da lateral-thinking
(attribuendo l’idea di appiccicare alla Sesta il titolo di Patetica
a Modest... ehm, Musorgski) il 35enne ukraino si è quindi cimentato
con il famigerato Rach3, da
lui caricato di tutto il possibile tardo-decadente-romanticismo, che da sempre suscita
nel pubblico e nei critici ampie divisioni, fra ammiratori estasiati e detrattori
nauseati. Ma il ragazzo (non sembra cambiato molto dal lontano 2001 quando si
impose al Premio Busoni) ha una tal carica espressiva, coniugata con una innata
modestia (temprata dagli anni duri che lui e famiglia passarono dopo l’emigrazione)
da garantirsi un successo clamoroso e ripetute chiamate, alle quali risponde dapprima
con un altro Rachmaninov e poi con un Bach... adulterato!
___
Chiusura quindi in
grande con la Patetica, dove Chung ha avuto modo di smentire ampiamente il velenoso giudizio di Mahler,
mettendo in risalto di questa ormai inflazionata partitura il carattere di sguardo-all’indietro (come sarà, ma guarda
un po’ la nemesi, la Nona mahleriana)
a ripercorrere una vita artistica accidentata e costellata di grandezze - lo
spontaneo applauso arrivato alla fine dell’Allegro
molto vivace ne è stato testimone - e di miserie, destinata inesorabilmente
a chiudersi nel silenzio, dopo le ultime battute della triade di SI minore
esalate dagli archi bassi, sull’indicazione Molto
ritenuto (e non... Morendo, come
la simpatica Gaia ha inventato, anche qui parlando di Mahler!)
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11 settembre, 2019
Un frizzante Elisir mette la Scala di buonumore.
Sarà forse perchè i contestatori seriali
delle prime hanno prolungato le
vacanze, fatto sta che L’elisir
d’amore andato in scena ier sera al Piermarini (peraltro con
diverse poltrone vuote in platea...) è stato accolto con pieno consenso di
pubblico, senza se e senza ma. Intendiamoci, nulla di storico o di strabiliante, ma uno spettacolo che nel complesso si è
rivelato di buon livello, in tutte le sue componenti: voci, orchestra e
allestimento.
Allestimento di Grischa
Asagaroff
già ampiamente e positivamente collaudato alla sua comparsa nel 2015, con le
poetiche e favolistiche scene e gli sgargianti quanto esilaranti costumi di Tullio Pericoli, il tutto sapientemente
illuminato da Hans-Rudolf Kunz.
Alla
grande come sempre il Coro di Mario Casoni, che Donizetti qui impegna
corposamente ad interloquire con i protagonisti, o a creare le tipiche atmosfere
contadine in cui prende piede la patetica vicenda di Nemorino e Adina.
E
i protagonisti di questo lieto fine hanno riscosso un caloroso consenso di
pubblico: lo yankee René Barbera per la sua voce squillante
che ha messo al servizio del rustico
e ingenuo personaggio, prestazione culminata con un trionfo dopo la Lagrima; la casertana Rosa Feola (non proprio impeccabile
soprattutto nelle note gravi) per la civetteria e la verve di cui ha ricoperto la sua parte di ragazza un po’ viziatella
ma alla fine... innamorata.
Ambrogio Maestri sembra nato per parti come questa di Dulcamara (o di
Schicchi o Falstaff): le fa con tanta efficacia che poi rischia di...
compromettere personaggi seri o truci come Amonasro, per dire. Per lui, ormai
beniamino della Scala e deus-ex-machina
della vicenda, accoglienza poco meno che trionfale.
Discreto
anche Massimo Cavalletti, efficace
nell’impersonare il tronfio Belcore: qualche forzatura di tono magari poteva
essere evitata.
L’accademica Francesca Pia Vitale ha
dignitosamente interpretato Giannetta,
un ruolo tutt’altro che di contorno.
Per
tutti, incluso il mimo Stefano Guizzi
(tirapiedi di Dulcamara) applausi e bravo!
si sono sprecati.
Positivo
anche il ritorno sul podio del 35enne Michele
Gamba, che ha guidato un’orchestra in gran spolvero (qualche eccesso di decibel si può perdonare, e comunque non
è mai andato troppo a discapito delle voci) e concertato con cura e precisione
singoli e masse sul palco (lavorare con gente come Pappano e Barenboim
evidentemente fa bene alla salute!) Lo si rivedrà nel sinfonico, il 3 ottobre in Auditorium quando inaugurerà Milano
Musica con laVerdi in
Francesconi e Mahler.
Come
ripeto: tutto sommato una serata più che positiva.
04 settembre, 2019
A Rimini un po’ di Rotterdam
Il glorioso e centralissimo Teatro
Amintore Galli di Rimini - che aveva ospitato nel 1857 la prima rappresentazione nientemeno che di
un’opera di Giuseppe Verdi (Aroldo) -
a seguito dei bombardamenti della seconda guerra mondiale era caduto
praticamente nel dimenticatoio. Fino a quando (pochi mesi orsono) è finalmente
stato riportato al suo antico splendore: Cecilia
Bartoli lo ha re-inaugurato nell’ottobre
2018.
Così ora può ospitare, oltre a
rappresentazioni di opere, anche i concerti della Sagra musicale malatestiana (arrivata quest’anno alla 70ma
edizione) che si tenevano tradizionalmente nelle sale alquanto anonime dei
Palazzi dei Congressi (vecchio e poi nuovo) della periferica via della Fiera.
Quest’anno la Sagra ha già ospitato Riccardo
Muti (spostatosi di pochi chilometri dalla sua casa di Ravenna) e la London
Symphony con Simon Rattle.
Ieri sera è stata la volta della
prestigiosa Rotterdam
Philharmonic, in tournèe estiva, proveniente da Gstaad e poi diretta
(domani) a Verona ad offrire ad un pubblico folto quanto entusiasta un
interessante programma otto-novecentesco.
Lahav
Shani,
trentenne israeliano pupillo di Mehta, fresco di nomina a Direttore musicale dell’Orchestra - uno che dirige fcendo uso assai
parco della mano sinistra - ha presentato dapprima le musiche dallo
stravinskiano Petruška, che hanno consentito ai professori della sua Orchestra di mettere in luce le loro grandi
qualità, i fiati e le percussioni in particolare.
Poi la bella e brava 33enne violinista
norvegese Vilde Frang ha interpretato quell’autentico distillato e concentrato
di romanticismo virtuosistico che risponde al nome di Concerto op.26 di Max Bruch. E lei ne ha
fatto emergere proprio il lato più dolciastro (detto nel bene
e nel male) mentre Shani, quando era l’Orchestra a prendere la scena, ha un po’
troppo esagerato con il fracasso. Ma il successo non è mancato e i due
protagonisti si sono poi esibiti in un bis di duo piano-violino.
Ha chiuso la serata ufficiale il Walzeraccio di Ravel, dove ancora Shani ha lasciato briglia sciolta all’Orchestra, davvero compatta
e dal suono tagliente, proprio adatto ad esaltare le impertinenze di questa
bizzarra partitura raveliana. Per mandarci a letto contenti, l’Orchestra ha
offerto una bis... sognante.
Fra
poche settimane toccherà a Jordi Savall,
che proporrà un insolito - fino a poco tempo fa, per lui - programma
beethoveniano: 3-5; e poi - a dicembre - alla Santa Cecilia (con Dudamel) chiudere il ciclo dei 5
concerti sinfonici della Sagra-70.
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