Il ROF-35 ha
chiuso ieri sera i battenti con la quarta ed ultima replica di Aureliano in Palmira al Teatro
Rossini. Dico subito che questa proposta (si tratta dell’ultima opera
importante che mancava al carnet del Festival) merita comunque un encomio:
probabilmente per la prima volta da… 200 anni si è ascoltato questo prodotto
del 21enne Rossini in tutta la sua interezza. Grazie alla Fondazione e a Will Crutchfield che hanno reso
possibile l’impresa.
L’ascolto
integrale dell’opera lascia peraltro intuire le ragioni del suo scarso successo
lungo gli anni, e degli innumerevoli tagli cui è stata regolarmente sottoposta:
a dispetto del grande spessore della musica, incredibilmente innovativa se
pensiamo al 1813, la sua lunghezza smisurata e la scarsa consistenza del
soggetto la rendono difficilmente digeribile. Soprattutto – e vengo a questa
proposta del ROF – se la messinscena (di Mario
Martone, mi spiace per lui) è di sconsolante banalità, tanto che si può
star certi che meglio sarebbe stato affidare la realizzazione dello spettacolo
ai ragazzi e ai docenti dell’Accademia di Belle Arti di Urbino (Barbiere docet!)
Ecco, parto
subito da Martone. Veramente censurabile la sua proposta, priva di una
qualunque cifra interpretativa: sembra il compitino in classe di un ragazzino
cui si è fatta leggere la favola della regina Zenobia. Una cosa fra la
scimmiottatura di Zeffirelli e la parodia di un filmaccio di Maciste. La scena
dei pastori è di un deprimente… realismo: quattro caprette che entrano sul
palco a brucare stoppie! Velleitaria l’idea di mettere in scena i due strumentisti
al continuo (Lucy Tucker Yates e David Ethève).
Ma davvero insopportabile è la trovata finale: per mostrare a tutti che la sua
è una regìa impegnata, Martone che ti
inventa? Mentre i protagonisti stanno cantando il concertato conclusivo, lui fa
scendere il velario trasparente e vi proietta sopra la storia vera (!?) di Zenobia. Così il pubblico si impegna per
leggere il pistolotto e si perde tutto il finale! Pistolotto che si conclude
con un riferimento di tutta attualità: ciò che accade oggi in medioriente altro
non è se non uno strascico di quelle vicende di 2000 anni fa; insomma, i
criminali dell’ISIS sono i nipotini di Zenobia! Ma bravo!
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Ma torniamo
alla musica. Dicevo: opera altamente innovativa, e non a caso Rossini dedicò
alla composizione di Aureliano tempo e fatica insoliti per lui, in quei primi e
vorticosi anni della sua produzione. Un chiaro indizio di ciò è il trattamento
riservato alla Sinfonia: a differenza dei suoi successivi imprestiti (ad Elisabetta e Barbiere, opere dove non ha alcun
riferimento ai contenuti) motivati quasi
esclusivamente da fretta e mancanza di tempo, qui la Sinfonia è parte
integrante dell’opera, anticipandone alcuni motivi peculiari: l’introduzione lenta
in MI maggiore, che udremo nel second’atto, allorquando Arsace si inoltra nei
boschi dopo essere fuggito dalla prigione di Aureliano; la sezione finale del
primo tema (in MI minore); il cantabile in SOL maggiore (seconda sezione del
secondo tema) e il successivo famoso crescendo
e cadenza conclusiva che chiudono il primo atto.
Insomma,
Rossini qui fece le cose con il massimo impegno e la massima cura, e i
risultati si sentono! E se ne rese conto lo stesso Rossini che, a dispetto
dello scarso successo delle prime rappresentazioni alla Scala, pescò
abbondantemente nell’Aureliano per successive opere; a parte la sinfonia, ne
riutilizzò, rielaborandole ma senza renderle irriconoscibili, alcune melodie:
il coro iniziale (Sposa del grande
Osiride) fu impiegato nel Barbiere per la cavatina d’esordio di Lindoro (Ecco ridente); la cabaletta di Arsace (Non lasciarmi in tal momento) divenne
parte dell’aria di Rosina (sempre nel Barbiere); e di lì a poco anche il Sigismondo
mutuerà più di uno spunto dall’Aureliano.
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Il pubblico
(teatro quasi esaurito) ha avuto solo apprezzamenti per tutti, ma Jessica Pratt è stata l’autentica
trionfatrice della serata: dopo il suo MIb sovracuto (Per donarvi libertà) gli applausi e le urla si sono prolungati per
minuti e minuti (forse sperando che la cantante australiana tornasse in scena a
rispondere all’omaggio)! In effetti la giunonica Jesica ha sfoderato tutta la
sua splendida voce, e solo qualche appunto mi sentirei di muoverle alla scarsa
penetrazione nelle note più gravi.
Acclamato
anche Michael Spyres, che pure non mi
è parso al 100% delle sue possibilità: acuti non perfetti e gravi piuttosto
sforzati.
Lena Belkina non mi ha convinto del tutto (rispetto
all’ascolto radiofonico): voce poco… contraltile e con timbro che nelle note
acute tende a metallizzarsi. Mi verrebbe da dire che al suo posto, come Arsace,
avrei visto (sentito) meglio la Raffaella
Lupinacci, che invece è stata una più che apprezzabile Publia.
Degli altri,
bene il Licinio di Sergio Vitale,
mentre non esaltanti mi son parsi Dempsey
Rivera (Oraspe) e Dimitri Pkhaladze
(Gran Sacerdote). Raffaele Costantini
si è dignitosamente comportato nella piccola parte del pastore. Su buoni
standard il coro di Andrea Faidutti.
Will Crutchfield ha tenuto un approccio veramente
(e direi doverosamente) serioso a questa partitura che lui ha personalmente riportato
all’originale splendore, e della quale non ci ha risparmiato nulla (in ciò, come
dicevo più sopra, può anche risiedere il limite della sua proposta, che mette a
dura prova la… resistenza fisica del pubblico): la sua è una direzione sempre sostenuta,
con tempi mediamente dilatati e accenti ieratici; in sostanza, una lettura coerente
con l’intera operazione… filologica. L’orchestra Rossini lo asseconda dignitosamente
e perdoneremo qualche piccolo inciampo dei fiati.
Tutto sommato direi
che si è trattato della più riuscita, musicalmente parlando, delle tre opere del
cartellone principale.
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Ma ecco che, chiuso il 35, già si
profila all’orizzonte il 36:
Come si usa precisare in simili
circostanze: la Direzione si riserva la facoltà di apportare in qualunque
momento modifiche al programma… etc. etc.