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01 ottobre, 2012

Peter Eötvös fa parecchio rumore alla Scala


Il concerto di ieri sera della Filarmonica (Peter Eötvös sul podio, in un Piermarini non propriamente affollato) era di quelli che richiedono, oltre che orecchie ben allenate, anche grandissime doti di sopportazione e spiccata propensione al sacrificio. Dico, un programma dove il brano più abbordabile è un concerto di Bartók non lo si dava nemmeno ai tempi di Abbado e della rieducazione forzata alla musica contemporanea (smile!) Mi si obietterà: ma allora, che ci sei andato a fare? sei proprio masochista. Al che rispondo: più o meno… sono uno che fa i fioretti (così li chiamava mia nonna) per guadagnarsi il paradiso (stra-smile!)

La prima parte del concerto – tutto sommato digeribile – ha presentato Ives e Bartók, due rappresentanti (soprattutto il secondo) di quel novecento che cercava vie nuove in musica senza uscire (troppo) dall'ambito delle regole sintattiche e semantiche della tonalità.

In The unanswered question (1908) Charles Ives intende presentarci – e lo scrive esplicitamente nella prefazione alla partitura – una specie di scenario universale, caratterizzato da tre diversi elementi: l'immutabile ed eterna quiete cosmica (solitudine indisturbata la definisce) impersonata dagli archi (fuori scena) che suonano lentamente con valore di note (il tempo è 4/4 Largo molto sempre) che normalmente si assesta su semibreve e minima e solo in poche occasioni scende alla semiminima; la perenne domanda sull'esistenza, come lo stesso Ives definisce il motto che la tromba (isolata) ripete per sette volte; e la ricerca della risposta (la caccia alla risposta invisibile) affidata a quattro flauti (o strumentini) che ci provano per sei volte, con risultati sempre più scoraggianti, che li portano in uno stato di totale isteria.

Quale significato filosofico ci sia dietro è materia di molte possibili interpretazioni ma, trattandosi qui di musica, a me questo breve brano appare come una visione profetica di ciò che, appunto in musica, sarebbe accaduto nei decenni successivi, e allo stesso tempo contiene un messaggio abbastanza chiaro riguardo alla futilità delle risposte che la musica cosiddetta moderna avrebbe dato alla perenne domanda sull'esistenza

Intanto cominciamo ad osservare la partitura (qui siamo alla quinta risposta) che ci dice cose interessanti:

Gli archi (la quiete cosmica) si muovono su accordi perfetti (per lo più di SOL maggiore, ma anche DO, FA): già questa è una chiara presa di posizione dell'Autore riguardo al ruolo dell'armonia classica, che secondo lui preesiste e sopravviverà alle domande e alle risposte!

Si noti che la tromba - che espone la domanda - ha il rigo sempre perfettamente allineato a quello degli archi (vale a dire che è comunque rispettosa almeno delle universali regole di convivenza); mentre i flauti che cercano la risposta entrano (e proseguono) sempre più fuori tempo (apperò!)

Tornando alla domanda: a ben vedere non è formulata sempre allo stesso identico modo; basta osservare le 7 forme che assume per notare piccole, ma significative differenze:


Tanto per cominciare, l'ultima nota del motto non è sempre la stessa: per tre volte (1-3-5) è il DO, per 4 volte (2-4-6-7) è il SI (peraltro noto che molti direttori, compreso Eötvös, fanno chiudere l'ultimo richiamo sul DO… vai a sapere se è una diversa versione dell'Autore); le altre quattro note sono assai dissonanti rispetto all'armonia cosmica sottostante, però grazie all'enarmonia si possono leggere come gradi della scala maggiore di SI (sensibile, sopratonica, sottodominante, mediante); e mentre c'era stato per le prime 6 domande un regolare alternarsi della chiusura su DO e SI, l'ultima domanda - alla quale i flauti, caduti nella più completa disperazione, non sapranno più nemmeno provare a dare risposta – si chiude ancora sul SI: guarda caso la mediante di SOL, quindi in consonanza perfetta con l'accordo perfetto di SOL degli archi che si perde nelle profondità cosmiche!

Non c'è bisogno di sottolineare come invece tutte le note delle risposte dei flauti siano, oltre che disallineate e dissonanti con il pedale degli archi, anche dissonanti fra loro, cioè intrinsecamente estranee all'armonia tradizionale, anche la più… forzata. E addirittura l'ultima loro risposta isterica inizia scimmiottando la domanda medesima (questo lo vedo proprio come il finale sberleffo che Ives riserva al loro disordinato agitarsi…)

Guarda caso, nel 1973 il grande Lenny Bernstein chiudeva il suo ciclo di lectures 
ad Harvard intitolato al brano di Ives (sono 6 lezioni, di cui almeno la quinta e la sesta chiunque voglia documentarsi sull'evoluzione della musica nel secolo scorso dovrebbe impararsi a memoria…) esponendo il suo credo nella tonalità e nelle serie armoniche
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Eötvös dispone i 4 flauti davanti a lui, gli archi assai dietro e la tromba nel palco reale. Tiene – direi apprezzabilmente - tempi assai larghi e ottiene dagli archi un bel pianissimo (ppp) sul quale spicca spettralmente il suono della tromba. Esecuzione direi proprio impeccabile.

Ecco poi Bartòk con il suo Secondo concerto per pianoforte, interpretato dal 55enne Pierre-Laurent Aimard. Il quale si tiene, cosa piuttosto insolita per un solista, lo spartito sul leggìo. Così come è insolita – ma mi sentirei di approvarla, date le caratteristiche della partitura – la disposizione dell'orchestra: grancassa, tamburi, triangolo e timpani al proscenio, a sinistra; ottoni davanti a destra: legni davanti al podio; e gli archi sul fondo.

Esecuzione che non mi è dispiaciuta, direi senza infamia né lode (ma certo la coppia Boulez-Pollini di un paio d'anni fa mi aveva fatto tutt'altra impressione!) 

Dopo l'intervallo, arrivano… gli esercizi spirtuali (smile!)

A cominciare proprio dal brano del Direttore, zeroPoints. Incredibile, ma vero: è lo stesso autore a certificare il suo obiettivo di rappresentare in musica (anche) i rumori, come ad esempio i fruscii prodotti dalle puntine dei vecchi giradischi! Cioè a pretendere di portare a livello artistico di musica ciò che è semplicemente un aspetto fastidioso della tecnologia, che con tanta fatica la tecnologia medesima ha cercato di eliminare (lo stesso principio guidava Stockhausen a comporre assurdità musicali, anzi propriamente rumoristiche, come l'Helicopter-Quartett!) 

Poi, da buon austro-ungarico, il nostro ci infila anche un po' di walzer, che non guasta. Una cosa è certa: deve trattarsi di musica assai difficile, se persino il suo Autore la deve dirigere sfogliando la partitura! A me – con tutto rispetto - sembra musica che lascia la domanda di Ives senza risposta (smile!)

La conclusione del concerto era affidata a Edgard Varèse, che con Amériques 
pretese a sua volta di far passare per musica seria un'accozzaglia di motivi (impossibile chiamarli temi) presi dai suoni che il nostro sentiva entrare dalle finestre del suo appartamento, o che giungevano alle sue orecchie da bar, locali notturni o kermesse di strada in quel di Manhattan. Così sentiamo echi zigani, spagnoleschi, indiani, mescolati al suono di sirene dei docks o delle auto della polizia. Magari il tutto rivisto in sogno (o incubo, forse) e messo sul pentagramma senza apparente logica, né narrativa. 

Un brano che dura 23 minuti, ma potrebbe indifferentemente durarne 230, oppure – e per me sarebbe già troppo, smile! – due e trenta.

In questi casi è difficile separare in modo chiaro l'applauso doveroso per i Musikanten (che magari pure si divertono a suonare roba come questa) dal pollice verso per l'Autore. Così non è chiaro se i bravo che scendevano dal loggione erano indirizzati a direttore e orchestrali o – post mortem – anche al povero Varèse. Nel dubbio, mi tacqui. (E spero soprattutto che mia nonna avesse ragione…)

2 commenti:

Unknown ha detto...

ho assistito al concerto, ho 71anni ma l'autore di questo commento ne dimostra il doppio.

daland ha detto...

@Mino Penna

Accipicchia!
Avverto subito Berlusconi che può aggiungere altri 20 anni al suo obiettivo!
Ciao!