Torna dalla Malesia Claus Peter Flor per dirigere un concerto di quelli davvero tosti: dopo un antipasto - ma di quelli abbondanti - di Bach, la poderosa Ottava di Anton Bruckner.
Deborah York, una specialista di questo repertorio, apre il concerto con la cantata Mein Herze schwimmt im Blut (Il mio cuore nuota nel sangue) BWV 199. Pezzo assai impegnativo per il soprano, chiamata ad un vero tour-de-force, più di 20 minuti di canto quasi continuo! Basti pensare che la cantata si articola su quattro recitativi che introducono altrettante arie (o un corale, nel terzo caso).
Una cantata quasi unica nella produzione bachiana, strutturata proprio come un dramma, di un individuo che confessa in modo straziante i suoi peccati, per arrivare alla luminosa beatitudine garantitagli da quel Dio con cui ha finalmente fatto pace.
Della cantata esistono due versioni, che differiscono (quasi esclusivamente) per la tonalità: la versione originale di Weimar (DO minore, chiusa in SIb maggiore) e quella successiva di Köthen e poi di Lipsia, che è innalzata di un tono intero, per mantenere invariata l'altezza del suono in presenza (a Köthen e a Lipsia) di diapason di un tono più basso rispetto a quello di Weimar (Kammerton invece di Chorton). Un'altra non piccola differenza risiede nello strumento che accompagna il Corale: a Weimar una viola, a Lipsia un violoncello piccolo. Qui si è impiegata la prima versione di Weimar.
Musicalmente è un lungo cammino, che ci porta dal DO minore (e relativa MIb maggiore) dei primi due recitativi e delle prime due arie fino al FA maggiore del corale e da qui al SIb maggiore dell'ultimo recitativo e della giga conclusiva.
I primi versi del primo recitativo e dell'aria conclusiva ne sono chiara dimostrazione: alla disperata esternazione, ripresa dal titolo, di un cuore letteralmente annegato nel sangue, fa da contrappeso il liberatorio Wie freudig ist mein Herz (Com'è gioioso il mio cuore) che ci mostra quello stesso cuore rinato a nuova vita nella grazia del Signore: qui i due versi nelle versioni di Lipsia e di Weimar:
Insomma, un mirabile tragitto, dall'inferno al paradiso, che la York ha interpretato con grande profondità e magistero, accompagnata a dovere dagli strumentisti di casa: su tutti l'oboe di Luca Stocco, davvero strepitoso nell'accompagnamento della seconda aria. Ma anche Gabriele Mugnai con la sua viola ha fatto grandi cose nel difficile accompagnamento del corale.
Davvero un degno preludio per il piatto forte della serata: l'Ottava e penultima sinfonia (l'ultima completata) di Anton Bruckner.
Il quale, dopo averla riveduta e corretta in seguito all'iniziale stroncatura di Hermann Levi, ci scrisse (ma appunto a-posteriori) delle note esplicative – raccontando amenità, dalla morte che bussa alla porta, al buon tedesco operoso e un po' ingenuo, per finire agli augusti incontri di cavallerie di zar e imperatori – note che personalmente reputo più fuorvianti che utili all'apprezzamento dell'opera. Che invece si erge come un monumento proprio grazie alla sua (mi permetto di usare parole spese da Adorno per Mahler) immanenza formale, che ovviamente si accompagna alla bellezza dei temi ed alla coerenza con cui vengono proposti.
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Il movimento iniziale, che a prima vista (meglio, al primo ascolto) potrebbe apparire astruso e farraginoso, è invece di una disarmante chiarezza e linearità (in forma-sonata, appunto) che principia con l'esposizione dei tre temi: il primo, ripetuto in fortissimo dopo l'iniziale presentazione assai sommessa, che dall'incipit oscuro sboccia in uno sviluppo quasi enfatico, introducendo il bruckneriano stilema 2+3; il secondo, di grande lirismo, con le caratteristiche ascensioni, anch'esso ripetuto e sviluppato sul 2+3; e il terzo, ancora cupo al principio, che si appoggia sul ritmo 3+3, e porta rapidamente ad un acceso dialogo archi-ottoni, con discendenti quintine sforzate; il tutto chiuso da una spettacolare fanfara delle trombe. Poi lo sviluppo, in cui non è difficile scorgere i tre temi (o spezzoni di essi) che si ripresentano in sequenza, manipolati e incalzati dal ritmo del primo tema. Segue la ricapitolazione dei tre temi, con i dovuti e canonici cambi di tonalità (ad esempio il terzo che passa a quella di impianto di DO minore, da quella dell'esposizione, MIb minore) fino ad arrivare ad una enfatica perorazione sull'accordo di DO minore e poi sul solo DO ribattuto (sempre sull'incedere martellante del primo tema) da corni e trombe. Qui si arriva inaspettatamente (fu una delle radicali modifiche apportate dall'Autore in fase di stesura della versione definitiva) alla Coda, che presenta il primo tema e letteralmente lo sottopone ad un processo di decomposizione, fino a soffiarne via anche l'ultima particella di polvere.
Ad esso segue lo Scherzo, dal tipico stilema bruckneriano, riconoscibile fra mille, una specie di danza ossessiva, sulla scala di DO minore: DO/MIb-FA-SOL/SOL-DO (tema che tornerà nel finale e, in maggiore, proprio nella chiusura della Sinfonia). Esposto una prima volta e chiuso in MIb, invece del Trio gli succede una seconda esposizione variata e sviluppata, fino alla nuova chiusa, adesso in DO maggiore. Solo ora abbiamo il Trio, di proporzioni gigantesche, dove si alternano momenti di intimo raccoglimento (notiamo l'intervento delle due arpe) ad altri di esaltazione. Il Trio si chiude in LAb maggiore, seguito dalla canonica e pedestre ripetizione dello Scherzo.
L'ipertrofico Adagio, in REb, è puro distillato di suoni, a cominciare dal primo tema, con quella specie di sospiro (LAb-SIbb-LAb) che sembra rifarsi al primo tema del movimento d'apertura, che porta lentamente ad una perorazione in fortissimo di tutta l'orchestra, con arpeggi degli ottoni culminanti in una quintina che sfocia sul LA maggiore. Tema ripetuto e sfociante stavolta in SI. Poi un nuovo tema, che ricorda la Settima, seguito da un altro nelle tubette, solenne e arcano, in DO maggiore, che scende dalla mediante alla tonica e da qui giù, plagalmente, alla sottodominante FA, per poi risalire di un'intera ottava. I temi vengono più volte sviluppati, con un lungo alternarsi di slanci verso l'alto e ripiegamenti intimistici. Si torna al tema principale e da qui a sviluppi che conducono ad un primo climax, che si spegne immediatamente, ma per dar inizio ad un crescendo che porta alla nuova perorazione in tutti i fiati, in MIb, dove torna l'enfatica quintina, di cui si ricorderà Mahler nel finale della sua Terza (ma non solo lì):
Adesso ci si avvia alla Coda, che è una cosa grande, a cominciare dal recitativo dei corni (anche questo verrà ripreso da Mahler in chiusura del primo movimento della Nona):
Ma davvero stupefacente è tutta la cadenza conclusiva, in REb, esposta dai primi violini, su un dolcissimo pedale dei corni che espone la cellula iniziale, di una bellezza semplicemente incomparabile:
Il Finale si apre con un gran fracasso di ottoni, poggiante sulle semiminime acciaccate degli archi: per carità, lasciamo perdere Olmütz e l'incontro equestre fra l'Imperatore asburgico e lo Zar di tutte le Russie! Apprezziamo questa musica perché è bella, e basta! Per contrasto, segue un gruppo di temi di carattere religioso, poi solenne, che porta ad un gigantesco tutti dell'orchestra, chiuso sul ritmo martellante del primo tema della Sinfonia. E proprio in omaggio alla ciclicità della forma, Bruckner ricapitola anche tutti gli altri motivi, a cominciare da quello dell'Adagio e poi – delicatissimo, trasfigurato, nei flauti - a quello dello Scherzo. Ma il cammino è ancora lungo, un altro poderoso tema irrompe negli ottoni, poi ancora un religioso raccoglimento sulle note del tema iniziale, che viene viepiù sviluppato, prima di tornare nella sua pienezza. Ma non è ancora finita, c'è un nuovo raccoglimento, un'altra esplosione, quindi un lungo tratto, per così dire di… penitenza, prima di arrivare al Ruhig (Tranquillo) dove inizia la perorazione finale. È il tema dello Scherzo, adesso davvero maestoso, che sigilla l'opera, in un pesante DO maggiore, che culmina in una perentoria discesa da mediante a tonica, MI-RE-DO!
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Flor – che ha schierato l'orchestra in formazione alto-tedesca (bassi a sinistra e violini secondi al proscenio) con le arpe sull'estrema destra - mi è personalmente piaciuto assai: per i tempi che ha staccato, senza mai estremizzare, e per i bellissimi contrasti che ha saputo portare a galla, fra i fracassi più smaccati e i passaggi quasi cameristici di cui è costellata questa immensa partitura. I ragazzi hanno risposto benissimo, e gli perdoniamo volentieri qualche piccola sbavatura qua e là, che nulla ha tolto alla splendida riuscita dell'esecuzione.