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consulta e zecche rosse

30 marzo, 2011

Pappano alla Scala per la CRI



Lunedi 11 aprile Antonio Pappano e gli accademici di Santa Cecilia si esibiranno alla Scala in un concerto benefico a favore della Croce Rossa Italiana, Sezione femminile.

In programma la Quarta di Schumann e il Requiem brahmsiano.

Qualcuno ha voluto preparare un breve video promozionale: la musica che si ascolta è sì un Requiem diretto da Pappano con S.Cecilia, ma è quello di Verdi. Come diceva quel tale? Tanto per la precisione
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Ultimi Vespri al Regio di Torino

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Se ne riparlerà nel 2061. Chissà se il signore qui sopra sarà ancora lì ad accogliere gli spettatori dei Vespri del 200°. O se invece a quel tempo sarà in atto – a Torino - un nuovo, vero vespro, protagonista una popolazione a maggioranza islamica in rivolta contro l'occupante cinese. Una cosa è certa: io non sarò là a godermi né l'uno, né l'altro spettacolo…

Coccarde, bandierine, siparioni tricolori, inno nazionale cantato dal pubblico con la mano sul cuore… e soprattutto lezioni di italianità e di impegno civile impartite dal marketing del 150°. Tutto in smobilitazione, compreso l'allestimento che, fuori dal brodo retorico delle celebrazioni in cui era stato concepito, e dall'atmosfera patriottarda della diretta-TV (a proposito di TV-spazzatura, smile!) appare oggi ancor più insensato e offensivo. Chissà come lo prenderanno ad Oslo, o se a Lisbona Livermore metterà in scena la Giovanna de Guzman ambientandola ai tempi di Salazar (ri-smile!) Intanto qui pare non l'abbiano presa troppo bene, a giudicare dalla netta maggioranza (70-30) dei commenti pubblicati sul sito del Teatro. Peccato davvero perché si lascia una macchia sul lodevole impegno di un'Istituzione che oggi come oggi è la migliore in Italia (ah oui, monsieur Lissner) dal punto di vista del livello complessivo della gestione.

Ma mettiamoci sopra una pietra e abbassiamo le palpebre: in teatro si è tornati a suonare e cantare – ieri per l'ultima volta nella stagione – I Vespri di Verdi. Opera difficile, controversa, incompresa, equivocata e tradita fin dal suo nascere (e per mano nientemeno che del suo Autore!) Opera francese, per genere, libretto e produzione. Composta da un non-francese, come innumerevoli altre da rappresentarsi nel tempio parigino. Grand Opéra, appunto, e non solo per i 30 minuti di balletto rigorosamente collocati, come da regolamento, nel terzo atto (mica nel primo, come fece quel villanzone presuntuoso di Wagner, giustamente ricompensatone con il licenziamento in tronco).

Opera in seguito stravolta, per poter transitare indenne dalle dogane di casa nostra: quelle amministrativo-censorie (altro titolo, altra ambientazione) e quelle estetiche (via i balli, e non certo per penuria di ballerine, ma di autarchici Jockey Club, smile!) Però Verdi è Verdi, anche quando tradisce le proprie creature, trasformando un Grand Opéra in un Ernani (non dico in un Trovatore, ma poco ci manca). E possiamo ancora godercelo – qui a Torino ad occhi rigorosamente chiusi - se chi dirige, suona e canta lo fa come hanno saputo fare Noseda, l'orchestra, il coro e i cantanti, ancora ieri sera.

Il mio concittadino Kapellmeister non si è smentito ed ha padroneggiato alla grande una partitura ostica e, come detto, di non facile approccio, stanti le sue origini e vicissitudini: salvo che nella sinfonia (un gioiellino di per suo conto, dove sono giustificate) non si sono sentite enfasi o esplosioni bandistiche (più adatte ai Vêpres che ai Vespri) mentre sono uscite al meglio (grazie anche agli interpreti) tutte le innumerevoli sfaccettature psicologiche e i caratteri dei diversi personaggi. Orchestra con grande equilibrio fra le sezioni; strumentini su tutti, se proprio devo dare un premio speciale: come non ricordarli nello strepitoso coro del finale terzo! A proposito del quale, il minimo che può capitare è che ne esca uno sguaiato berciare di alpini al termine di una delle loro enologiche feste: qui invece, una cosa proprio grandiosa, ma dal puro lato estetico.

Il forfait della Radvanovsky dopo la sola prima ha caricato sulle spalle di Maria Agresta tutte (meno una) le restanti recite di Elena. A volte sono colpi del caso come questo che fanno la fortuna di un cantante. Ma bisogna anche e soprattutto essere dotati e bravi, per poter cogliere la palla al balzo. E la ragazzona ha confermato di avere doti naturali e bravura acquisita evidentemente in anni di duro studio. La sua provenienza dalla categoria mezzo le dà (pare a me) quella solidità e robustezza di impianto necessaria a ruoli come questo. Brava anche nel far trascolorare col canto la sua personalità, da nobile gelida e vendicativa, a donna sinceramente (ma non per Livermore) innamorata. Un paio di urletti non bastano a scalfire la sua prova.

Di Gregory Kunde si è giustamente scritto che non ha l'età (non solo anagrafica) per il ruolo di Arrigo. In compenso ha esperienza da vendere, e soprattutto deve sapere perfettamente come amministrare le proprie risorse per arrivare in fondo senza farsi massacrare da una parte davvero micidiale. Il tocco del RE acuto in falsettino in chiusura dell'incontro con Elena nell'ultimo atto è solo la simpatica ciliegina su una torta assai ben cucinata.

Il cattivone-paterno Monforte di Franco Vassallo è stato (forse) l'unico della compagnia ad essere piuttosto bistrattato dalla critica nei giorni scorsi. Dico però che il mio palato lo ha sopportato senza reazioni di rigetto, quindi non gli darò di certo l'insufficienza (né l'ha data il pubblico, anzi!) anche se non ci ha risparmiato qualche bercio da osteria. Bravo lui, con Kunde, nel duetto del terzo atto.

Ildar Abdrazakov impersonava il patriota-terrorista Procida. Voce sontuosa e piglio da vero brigatista pronto a tutto, fin troppo (smile!) Alla fine il trionfatore è stato proprio lui.

Tutti gli altri (Russo, Ferrari, Lanza, Stier, Olivieri, Mease Carico, Aimé) meritevoli di stima e approvazione. Claudio Fenoglio è ormai una certezza come conduttore dello splendido Coro.

Bene, qui chiudo la mia personale stagione 10-11 al Regio: Boris, Parsifal, Vespri. Dimenticando Livermore e qualche velleità russa di troppo, un tris da leccarsi i baffi!

25 marzo, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 28



Il funambolico Wayne Marshall si cimenta con musica contemporanea e novecentesca per l'appuntamento n°28 dei concerti all'Auditorium, incentrato su astrologia e astronomia, due campi diversi, ma contigui e in parte sovrapposti; discipline che hanno fin dalla notte dei tempi attirato l'attenzione e l'interesse dell'uomo.

Di Sofija Asgatovna Gubaidulina sono state eseguite – prima in Italia – le variazioni Sotto il segno dello Scorpione, per bayan (fisarmonica russa) e orchestra. La Gubaidulina è una compositrice russa di origini tatare (compirà 80 anni in autunno) di cui, prima del concerto, Fausto Malcovati e Federico Lazzaro hanno tratteggiato la fisionomia umana e artistica: lei, ragazzina ai tempi di Zdanov - e poi guardata con sospetto, dagli eredi del custode della cultura staliniana, per la sua innovatività - fu per fortuna sostenuta da Shostakovich, che le conferì una specie di laurea in contestazione, stimolandola a insistere sulla sua strada.

Solista alla fisarmonica lo straordinario Davide Vendramin, che era pure stato ospite della conferenza introduttiva, spiegando le caratteristiche foniche del bayan con l'esecuzione di altri spezzoni di opere della compositrice russa. Queste variazioni sono un pezzo di digeribilità complicata, e non solo perché mai udito qui da noi, né ancora inciso su disco. Tanto per esemplificare: anche chi ascolta per la prima volta l'Ottava di Beethoven, subito dopo è in grado di fischiettarne i temi principali; e senza dover sapere che il rapporto di altezze fra dominante e tonica è tre mezzi nel sistema pitagorico e radice dodicesima di due elevato alla settima potenza, in quello a temperamento equabile. Viceversa qui, per apprezzare un tema (o una sequenza) bisognerebbe conoscere da quali numeri della successione di Fibonacci è stato ottenuto; e per individuarne il punto culminante si dovrebbe calcolarne la sezione aurea. Con il risultato di non riuscire comunque poi a fischiettarlo (smile!)

Non ho dubbi che eseguire musica come questa richieda agli orchestrali molto più studio che non suonare per l'ennesima volta l'Ottava di cui sopra, e per questo meritano un applauso. Come naturalmente Vendramin, che ci elargisce anche un bis. Forse molti in sala (a partire dal sottoscritto) avrebbero gradito la Celebre mazurka variata di Migliavacca… ma il tempio e il tempo non lo consentono. OK, ok, così abbiamo fatto il nostro fioretto quaresimale da devoti penitenti.

Poi The Planets di Gustav Holst, albionico purosangue, a dispetto del nome (dal quale fece togliere persino il nobiliare von, per distanziarsi dagli odiati crucchi durante la Grande Guerra). Ai tempi (1914-16) i pianeti riconosciuti erano 8 (Terra inclusa) e quindi Holst musicò i 7 extraterrestri. Né volle aggiungere un ottavo movimento a questa specie di sinfonia delle palle (oh, pardon… sfere) celesti quando, anni dopo, Plutone venne ammesso nel club esclusivo dei satelliti del Sole. E fece bene perché, quasi 100 anni dopo, Pluto l'abbiamo meritatamente declassato a Paperino ed espulso seduta-stante dal club, e così oggi l'opera di Holst è potuta finalmente tornare a pieno diritto di attualità: fra gli astronomi (smile!) come nelle sale da concerto (stra-smile!)



A parte il titolo, la composizione tratta i pianeti dal punto di vista della loro identità mitologica, che poco ha a che vedere con quella astronomica (del resto è forse più facile comporre musica mediocre su concetti quali guerra, pace, gaiezza, e così via, che non sul calore di Mercurio o i ghiacci di Marte, o le brume di Venere, o gli anelli di Saturno). Per questo anche la sequenza in cui ci vengono presentati i pianeti non ha probabilmente nulla di astronomico (anche se diversi esegeti hanno buttato via tempo prezioso, sbizzarrendosi a ricercare improbabili razionali di questo tipo) ma è più verosimilmente legata a scelte estetico-musicali (!?) dipendenti a loro volta dalle significanze immateriali degli oggetti descritti.

Il primo a presentarsi è proprio il guerresco Marte, tempo 5/4, scandito dal primo timpano e dagli archi, che introducono gli ottoni, come da copione:


Si era in piena Grande Guerra e pare proprio di sentire il passo delle fanterie e dei primi mezzi corazzati che aravano i campi di battaglia. C'è in effetti più rumore che suono in questo primo brano della Suite, che in certi momenti pare un antesignano dei Pini della via Appia di Respighi.

Poi tocca a Venere, che porta pace (l'amore sarebbe troppo…): due arpe e la celesta creano atmosfere calme e cullanti; il tempo di base è Adagio, con qualche breve intermezzo in Andante e Animato. Chiude quasi mahlerianamente, dondolandosi fra sesta e dominante di MIb.

Segue Mercurio, messaggero alato. È una specie di scherzo, in 6/8, una cosa che ricorda un poco Shehérazade e un altro poco l'Allegro molto vivace della Patetica. Ma tutto leggero ed aereo, come si addice al volante protagonista. Naturale poi che siano strumentini, arpe e celesta ad avervi la parte del leone.

L'allegria (ma sempre?) la porta Giove. È peraltro un'allegria tutta sussiegosa e britannica (non certo da hooligans, però…) che si apparenta ad elgariane Pump&Circumstance (infatti un tema verrà poi associato ad un canto patriottico) e a popolari Londonderry air, oltre che anticipare musica da film western: insomma, tipica merce da notte finale dei Proms.

Saturno ci ricorda che invecchiamo (ma pare che sul nostro PM abbia altri effetti, smile!) Solennità, ordine, calma, frequente scampanìo sono i tratti principali di questo brano. Che inizia con un'introduzione lenta, dalla quale emerge dapprima un promettente motivo ascendente, nei tromboni, poi in tromba, corni, clarinetti e violini, che però rapidamente sfuma in una specie di Dies Irae che via via si anima, accompagnato dalle campane. Dopo una sosta di meditazione, sono i corni a riprendere l'iniziale solennità, conducendo il brano verso una conclusione quasi eterea, scandita dagli armonici delle arpe.

Ecco poi Urano, il mago. Ergo: le sorcier, e infatti Dukas vi fa subito capolino! Si sente anche un vago richiamo al faustiano coro dei soldati di Gounod, prima che il nostro mago svanisca nel nulla, su un vuoto accordo di MI dell'arpa e dei timpani.

Si chiude con il mistico Nettuno. Come per Marte, anche qui il tempo è in 5/4 (3+2). Per sottolineare il misticismo, e un poco anche la lontananza da noi del pianeta, perso laggiù nelle profondità dello spazio, Holst prevede l'intervento di un coro femminile (diviso in 6 parti) nascosto agli occhi dello spettatore, che non canta alcun testo, ma un unico lamento, una specie di ah… Troviamo qui effetti che – guarda caso – richiamano un po' quelli che Kubrick ci proporrà 50 anni più tardi - 2001, Space Odyssey (poco a che spartire con l'attuale Odyssey dawn, che tradurrei odissea giù di sotto) - impiegando Ligeti. Con grande meticolosità la didascalia in partitura prescrive che il coro e l'eventuale suo maestro vengano dislocati in una sala attigua, di cui non si dovrebbe vedere nemmeno la porta. Porta che andrebbe lentamente chiusa sull'ultima battuta (da ripetersi ad-libitum) esalata dal coro, proprio per ottenere l'effetto di far sfumare la musica nel nulla:



Qui in Auditorium non c'è nemmeno la porta aperta e le voci delle signore di Erina Gambarini si odono proprio come fossero perdute nel vuoto siderale.

Prestazione accolta da grandissimi e lunghissimi applausi: di sicuro indirizzati a esecutori e direttori, forse meno all'opera in sé, francamente di livello estetico discutibile.

Ancora Marshall di scena, la settimana prossima, sempre alle prese col '900 …diatonico.
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23 marzo, 2011

Un Flauto poco magico alla Scala


Ancora uno spettacolo appena-appena degno del teatro più importante del mondo (modestissima auto-definizione della Scala). Una produzione che arriva dal Belgio ed è già transitata dal SanCarlo, anni fa. Di livello accettabile nella parte musicale e pretenzioso, ma con risultati così-così (ai miei occhi, s'intende) in quella dell'allestimento. Che ha comunque il non disprezzabile merito di non ambientare l'opera nel variegato mondo e sottobosco delle logge P2, P3, P4 e così via P-contando. (Ma qualche geniale regista prima o poi ci arriva, matematico.)

Dico subito che la ripresa TV di domenica scorsa aveva ulteriormente fatto danni, con inquadrature quasi sempre generali che davano l'impressione di assoluta monotonia e piattezza. In teatro le cose sono andate un filino meglio, ma certo non in misura sufficiente a sollevare il livello della rappresentazione da dignitoso ad eccellente.

Sulle vicissitudini dell'opera e sui relativi caratteri, incongruenze e bizzarrìe, ho già scritto la mia qualche tempo fa, e non sto a ripetermi.

I testi parlati sono stati – come sempre, e non a torto – pesantemente tagliati, anche se in modo tale da garantire un plausibile senso logico allo sviluppo dell'azione. Mi domando però - stante il fatto che l'opera è in lingua crucca e per lo spettatore medio capir qualcosa dai sottotitoli è impresa più ardua dell'imparare i testi a memoria prima di assistere allo spettacolo – se non convenga eliminarli del tutto (come si fa nelle esecuzioni concertanti) rimpiazzandoli con la proiezione di immagini (live o registrate) che spieghino o mimino ciò che dovrebbe essere solo recitato e che – proprio per questo – viene spesso e volentieri tagliato.

Un esempio, assai circoscritto, ce lo propone proprio il regista William Kentridge nel trattamento delle scene 9 e 10 del primo atto, scene di solo parlato ma che hanno (o dovrebbero avere) una certa importanza, trattandosi del primo impatto che lo spettatore ha con il mondo di Sarastro. Nella prima compaiono tre schiavi che si rallegrano della fuga di Pamina, che dovrebbe avere come conseguenza la punizione capitale di Monostatos, suo carceriere e loro aguzzino, da parte di Sarastro (che non ci farebbe propriamente la figura di un capo nobile e illuminato, ma di uno schiavista che applica giustizia sommaria). Nella seconda, si ode Monostatos ordinare agli schiavi di preparare le catene per Pamina, che lui ha riacciuffato. Ecco, Kentridge taglia al completo – come sempre accade - il parlato delle due scene (e già che c'è toglie anche dalla locandina i personaggi dei tre schiavi) però recupera parte del contenuto di esse con un siparietto in controluce – accompagnato dal fortepiano - in cui si vede Pamina che si divincola dal bavoso Monostatos (che cerca di ingropparsela) e scappa… per poi arrivare in scena nelle grinfie dell'aguzzino, che è riuscito a riagguantarla, e iniziare il N°6, Terzetto.

Kentridge – che non è un regista di professione, e questo potrebbe anche essere un merito (smile!) – imposta la sua messinscena partendo dalla contrapposizione oscurità-luce (chiave dell'opera) che lui materializza nell'oggetto/concetto macchina fotografica: dove chiaro e scuro si invertono, da negativo a positivo, dove la luce penetra nella camera oscura, che la filtra prima di portarla all'occhio; e l'occhio, sappiamo, è uno dei simboli massonici, incastonato nel triangolo, nel numero tre, altro simbolo esoterico, centrale nel mondo della massoneria. Di passaggio segnalo qui una particolarità: in partitura si legge che le tre Dame escono dal Tempio armate di argentei giavellotti e con quelli ammazzano il serpentone, tagliandolo precisamente in tre pezzi. Strano che Kentridge, così attento alla simbologia, trascuri questo particolare.

Tornando all'allestimento, l'idea originale del chiaro-scuro dell'apparecchio fotografico viene applicata di continuo, attraverso la proiezione di immagini in bianco-nero (fisse o in movimento, per simulare movimenti) e soprattutto di linee bianche: rette, continue o tratteggiate, o curve, che costruiscono in tempo reale, su fondo scuro (tipo lavagna) figure e simboli legati alla dottrina massonica. Peccato che la cosa, alla lunga, finisca con lo stancare l'occhio dello spettatore, o per distoglierne la mente – impegnata a decifrare simboli – dall'azione e soprattutto dalla musica. Inoltre, il concetto chiaro-scuro non pare applicato con coerenza: nel procedere dell'azione, dalla notte di Astrifiammante alla luce solare di Sarastro, ci si aspetterebbe che quelle linee trascolorino al nero e che i fondi trascolorino al bianco. Invece no, anche la scena finale avviene nella camera oscura, con le linee bianche e una luce che sembra rimanere un miraggio, più che un elemento che si imponga, inondandola completamente.

In conclusione, un'idea intelligente che mi è parsa realizzata in modo troppo stucchevole e monotòno. Quanto ai personaggi, una regìa apprezzabile, tenuto conto del soggetto.

Sul fronte musicale note positive per Alex Esposito (trionfatore della serata) che mostra di identificarsi perfettamente con la personalità di… Schikaneder!

Albina Shagimuratova è stata una più che discreta Astrifiammante. Oltretutto ha eseguito in modo abbastanza corretto i suoi impegnativi svolazzi sui FA sovracuti (dove domenica aveva francamente palesato qualche difficoltà).

Sui FA gravi ha invece mostrato la corda Günther Groissböck, per il resto un Sarastro per nulla disprezzabile, anche come presenza.

Steve Davislim e Genia Kühmeier se la sono cavata discretamente, ma senza suscitare (almeno nel sottoscritto) particolari entusiasmi.

Nella normalità anonima tutti gli altri, eccetto Peter Bronder che ha interpretato un Monostatos schiamazzante, sparando esclusivamente berci invece di suoni.

Lodi meritate, come sempre, per i cori (adulti e piccoli) di Casoni. Roland Böer pare un giovane di solida preparazione, si vede che con questo Mozart si trova a casa sua. E l'orchestra lo ha ben assecondato.

Pubblico timido – o non entusiasmato – negli applausi alle singole arie. Più deciso nell'approvazione generale, a fine spettacolo. (Il campionato riprenderà prossimamente.)
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20 marzo, 2011

Il Presidente ospite de laVerdi


Specialissimo concerto – questa sera all'Auditorium - in onore di Giorgio Napolitano, a Milano nelle sue interminabili peregrinazioni per celebrare i 150 anni di casa nostra (e anche, di passaggio, le 5 giornate!)

Si sa che il Presidente (quello buono) qui è in famiglia, anche per ragioni affettivo-politiche (mica c'è da vergognarsi del passato, caspita!) Questa sera poi c'è stato un autentico abbraccio collettivo al nostro arzillo vecchietto che davvero - di questi disgraziatissimi tempi - è un autentico dono della Provvidenza (per chi ci crede).

Impressionante il silenzio assoluto, durato almeno 5 minuti, mentre tutto l'Auditorium - dagli spettatori delle ultime file di galleria, al coro schierato sul fondo del palcoscenico – attendeva l'ingresso del Presidente. Silenzio che è poi stato rotto da un lunghissimo, oserei dire amorevole applauso.

Jader Bignamini, che solitamente vediamo schierato in Orchestra con il suo clarinetto, è salito sul podio per l'occasione, guidando i colleghi in una serie di brani legati alle celebrazioni in atto. Oltre all'Inno di Mameli (che non capita spesso di ascoltare completo di tutte le 5 strofe) sono stati eseguiti brani di Rossini e Verdi (cori e sinfonie d'opera) ma anche altra musica risorgimentale o legata alle 5 giornate. Interessante anche la riesumazione (operata da Carlo Lanfossi) di una Fantasia Funebre di Giovanni Bottesini.

Chiusura da manuale, con il Va, pensiero. Altre ovazioni al Presidente, cui il vecchio compagno migliorista Luigi Corbani (oggi Direttore Generale de laVerdi) presenta Bignamini, la Erina Gambarini (che guida il valoroso coro) e il Konzertmeister Luca Santaniello.

Uscito Napolitano dalla sala, il pubblico pretende, ed ottiene, il bis del brano più bissato in assoluto nella storia della musica.

Poi tutti fuori, a far da ala festante al Presidente che si allontana.

W l'Italia!
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Ancora sui Vespri del Regio di Torino


Anche senza aver assistito dal vivo (cosa che farò prossimamente) provo a buttar giù alcune considerazioni sulla produzione dei Vespri del Regio di Torino, la cui seconda – alla presenza del Presidente Napolitano - è stata trasmessa lo scorso venerdì da RAI-Storia (e Radio3).

Siamo in tempi di celebrazioni, ed è più che giusto che anche il teatro musicale dia il suo contributo alla bisogna, essendo stato a suo modo protagonista delle vicende che si commemorano. C'è caso mai da lamentare che solo due teatri – per quanto importanti (Roma e Torino) - se ne siano ricordati e che si siano ricordati solo di Verdi.

Subito una domanda: la celebrazione si serve presentando l'opera originale e ricordandone – a margine – il ruolo di stimolo che ebbe a suo tempo sulle coscienze personali e collettive, oppure la si serve forzando dentro l'opera originale contenuti estranei, sia pur vagamente legati ai fatti storici che si commemorano, o a scenari di attualità su cui si desidera attirare l'attenzione e stimolare la riflessione del pubblico?

A Roma si è seguita la prima strada: rappresentazione asettica (avrebbe potuto essere benissimo in forma di concerto, e poco sarebbe cambiato) del Nabucco. Scelta assolutamente corretta nel titolo: Nabucco, pur trattando fatti storici del tutto estranei al Risorgimento, era però immediatamente assurta a simbolo dello stesso, issata dagli italiani del tempo come vessillo dell'idea di liberazione e di unità della Patria sì bella e perduta. E oggi la possiamo ascoltare chiedendole di far rivivere anche in noi quei sentimenti di indipendenza e di unità che i nostri antenati provavano ascoltandola quasi 170 anni or sono. Ma senza bisogno di mostrare Zaccaria, Ismaele e Fenena ammantati di tricolore, né sostituendo la Tavola della Legge, recata dal Levita, con il testo della Costituzione Italiana.

A Torino si è scelta l'altra strada. Si è presa un'opera oltretutto nata fuori dall'Italia e che con il Risorgimento poco o nulla ebbe a che fare, e la si è violentata per infarcirvi riferimenti all'attualità (nemmeno al Risorgimento). Scelta assai discutibile, pericolosa e potenzialmente devastante, principalmente sul piano artistico. Perché, se si intende o pretende di caricare su un'opera d'arte anche obiettivi e contenuti educativi, allora si sa dove si comincia… ma non dove si va a finire. Sappiamo - o dovremmo sapere - che la vicenda dei Vespri con il Risorgimento c'entra come i cavoli a merenda. Perciò, proprio una celebrazione come questa avrebbe dovuto essere l'occasione buona per fare finalmente piazza pulita – tanto sul piano storico come su quello artistico – di tutte le scorie di retorica pseudo-risorgimentale che si sono accumulate su di essa. Sarebbe stata davvero un'operazione di educazione civica, oltre che culturale. Invece, si è aggiunta nuova cartapesta e pericolosa retorica a quanta già sfornata nel passato.

Primo: proporre paralleli fra lo scenario della Sicilia del '200 e quello dell'Italia di metà '800 (e, peggio, con quello di oggi, come accade a Torino) è semplicemente assurdo, quindi altamente diseducativo. La Sicilia di fine medioevo era un crogiolo di etnie e di civiltà che si erano via-via stratificate nei secoli, a fronte di perenni invasioni e conquiste: greci, fenici, romani, goti, islamici, normanni, svevi e – al tempo dei Vespri – angioini. I Vespri furono una rivolta - come ce ne sono mille al mondo, e non per questo sono tutti risorgimenti - di gente semplicemente esasperata dal vessatorio dominio dell'ennesimo padrone straniero (Angiò, imposto dal Papa). In luogo del quale – manovrando e cavalcando opportunisticamente le sommosse succedutesi a quella di Palermo - i baroni siculi guidati da Procida intendevano ripristinare un altro tutore straniero: il ghibellino svevo, che era molto amato, magari a buona ragione, in Sicilia (ma abbastanza odiato da altre parti, e non solo dai guelfi, e massimamente al Nord, visto che aveva vendicato il Barbarossa, catturando il Carroccio; per di più il suo regime – pur caratterizzato da mecenatismo e cultura - era stato di quelli più accentratori, autoritari e antidemocratici che si possa immaginare). In subordine, tanto per migliorare le cose, i notabili siculi erano pronti ad accogliere a braccia aperte il suo parente spagnolo.

Cosa abbia tutto ciò a che fare con un movimento genuinamente patriottico, indipendentista e unitario, fondato su basi ideali e sullo sviluppo di un pensiero filosofico, politico e culturale come quello che animò la prima metà dell'800 italiano, è davvero un mistero. Meno ancora ha a che fare con i problemi della nostra contemporanea società, che soffre di malattie sociali allora del tutto sconosciute. Se poi consideriamo gli sbocchi che i Vespri ebbero nei decenni successivi (la progressiva decadenza della Sicilia) ne abbiamo abbastanza per capire che quello fu tutto tranne che un bell'esempio di rivendicazione di autonomia e indipendenza, men che meno di unità o di democrazia.

Secondo: il Verdi che affrontò l'impresa Vêpres nemmeno lontanamente pensava di farne uno strumento di propaganda risorgimentale: a lui premeva – e come dargli torto – di entrare con successo all'Opéra di Parigi, e il soggetto non fu di certo una sua scelta, ma gli fu sottoposto-imposto da Scribe&C, delegati dall'Opéra medesima alla bisogna. E nel libretto di Scribe, di patriottismo ce n'è assai poco: c'è un miscuglio di interessi o rivincite personali (Procida, Elena), ci sono crisi di identità (Arrigo, che scopertosi mezzo-galletto, smette di fare l'irredentista e poi Elena, che scopertasi innamorata di un mezzo-francese, dimentica le sue vendette anti-francesi) e c'è la tracotanza del tiranno (Monforte) mitigata però dall'amor paterno per il figlio mezzo-siculo (è un caso che il tema più famoso dell'opera sia proprio quello cantato insieme da padre e figlio, che assommano ad un totale di 3/4 di sangue francese?)

E poi: Monforte non risparmia per caso la vita, e per ben due volte, a Procida? Ed Elena – dopo averlo maledetto come assassino del fratello - non accetta di buon grado la sua protezione, a ciò consigliata dal machiavellico e assai poco patriottico salernitano? Addirittura, nella versione originale francese, Elena alla fine si oppone a Procida, che la fa massacrare insieme a tutti gli altri, gridando ai quattro venti la sua vera natura: Frappez-les tous! Que vous importe? Français ou bien Siciliens, Frappez toujours! Dieu choisira les siens! Insomma, Scribe mise furbescamente insieme un minestrone cerchiobottista, che sembra fatto apposta per evitare usi irredentisti in Italia e rimostranze scioviniste in Francia. E Verdi mostrò quanto nullo fosse il suo interesse per gli aspetti patriottici dell'opera allorquando – pur di farla a tutti i costi rappresentare in Italia – suggerì lui stesso di ri-ambientarla in Portogallo! Solo dopo la proclamazione del Regno d'Italia, quindi a Risorgimento concluso, l'opera verrà stampata con titolo e testo italiani, ed entrerà faticosamente nel repertorio.

Quindi – sembra paradossale, ma è così - fu il Risorgimento ad aiutare i Vespri verdiani, e non viceversa!

In conclusione, il fatto che nell'800 i Vespri (storici) siano stati contrabbandati come proto-Risorgimento (dalle opere di Amari, al famoso quadro di Hayez, al richiamo nell'Inno di Mameli) e che nel passato, recente e non, i Vespri (opera) siano stati ambientati nell'800 risorgimentale, con tanto di tricolori sventolanti, non trasforma merce di contrabbando in prodotti genuini.

È poi assolutamente falso sostenere che con i Vespri Verdi avesse in mente di stimolare l'amor patrio, o l'impegno civile, degli italiani. E purtroppo queste sono invece le parole d'ordine che sono risuonate in modo martellante attorno a questa produzione dei Vespri, e si sono materializzate in un allestimento volgarmente ed incoerentemente ideologizzato, oltre che stravolgente dell'originale.

Intendiamoci: trasferire l'ambientazione in luoghi e tempi diversi rispetto al libretto non è né un peccato, né tanto meno una novità; e può avere risultati entusiasmanti o merdosi. Come sempre, it depends (così dicono dalle mie parti, su nelle valli bresciane). Da che cosa? Intanto dall'atteggiamento e dalle aspettative (influenzati dal grado di sensibilità e di preparazione) dello spettatore-ascoltatore. Chi ignora i contenuti (soprattutto) estetici dell'opera e va a teatro (o guarda in TV) con atteggiamento passivo, può benissimo accettare e gradire anche allestimenti che snaturano del tutto l'originale (e i suoi contenuti estetici): ha assistito – senza rendersene conto – alla rappresentazione di un maldestro surrogato, o ad una parodia (o, ancor peggio, ad una supposta commemorazione) ma l'ha trovata interessante e applaude convinto. Beato lui, che ha goduto. Ma l'operazione è quanto di più diseducativo si possa immaginare.

Viceversa chi ha un minimo di conoscenza dell'opera originale, e va a teatro per godersi quella, e non per celebrare ricorrenze, per quanto importanti, né tantomeno per prendere improbabili lezioni di patriottismo o di educazione civica, tenderà naturalmente a giudicare ciò che gli viene propinato rispetto a parametri e criteri di valutazione ben precisi, il primo dei quali è la coerenza fra ciò che si vede e ciò che si sente. Sì, perché è questo l'elemento fondante del teatro musicale, e il pregio e il livello artistico-estetico di un'opera sono direttamente proporzionali al grado di coerenza fra immagine, testo e musica. Così come risulterebbe inaccettabile - perché assurdo ed esteticamente nullo - l'accompagnare un testo che esprime euforia con una musica che alle nostre orecchie esprime dolore, e viceversa (salvo casi eccezionali, non infrequenti in Wagner, per dire, in cui si debba esprimere un'evidente dissociazione psicologica) è altrettanto inaccettabile che ciò che viene mostrato in scena contraddica palesemente, e proprio sul piano artistico ed estetico, ciò che si ascolta, testo e musica. Per questo tipo di spettatore (che magari è minoranza, purtroppo) la semplice genialità del regista (o meglio, del suo Konzept) è condizione forse necessaria, ma di sicuro non sufficiente alla riuscita dell'operazione, se non si accompagna con il rispetto della coerenza di cui sopra.

Artefice di questo mistificatorio allestimento è Davide Livermore, un regista che applica – vantandosi pubblicamente, per di più, di agire nel pieno rispetto della partitura – l'odiosa metodologia del Regietheater più bieco: inventare un proprio Konzept (in questo caso un classico cliché ideologico marxista-leninista in salsa socialdemocratica: la condanna dei mali dello stato borghese e il richiamo a superiori ideali di giustizia) per poi adattargli attorno il capolavoro da rappresentare. E chissenefrega se quel capolavoro tratta di tutt'altro: per il regista è solo un volgare strumento di promozione del suo messaggio (in questo caso, ideologico) e al servizio di questo viene piegato in tutti i modi. E ha anche la faccia tosta di sentenziare, il regista: Qui si fa arte, non politica… Arte? Di sicuro, Zdanov approverebbe.

Ma adesso entro nel merito. Cominciando dallo scenario generale, per poi esaminare qualche dettaglio.

Ciò che è scritto nel libretto di Scribe musicato da Verdi (sì, la partitura, caro Livermore) e ciò che sentiamo cantare – parole e musica – sul palco, è uno scenario così articolato: c'è una contrapposizione fra due (non tre, teniamolo subito presente, questo particolare) protagonisti di massa, 1. i francesi occupanti da una parte e 2. i siciliani oppressi e vessati, dall'altra. All'interno di questo macro-scenario - e sullo sfondo di piccole manifestazioni di insofferenza verso i francesi da parte del popolo vessato - si muovono i quattro protagonisti principali: il tiranno Monforte e i tre presunti irredentisti (Elena, Arrigo e Procida, in ordine di apparizione) che ne progettano la morte. Uno solo di questi quattro (Procida) si manterrà ostinatamente e pervicacemente fermo nel suo disegno (ammazzare Monforte per far sollevare i siciliani) mentre gli altri tre vivranno laceranti vicende esistenziali, stupendamente musicate da Verdi, determinate dalla rivelazione e dall'insorgere di affetti personali (Monforte che scopre di essere padre di Arrigo; Arrigo che si scopre mezzo-francese e opera contro Procida, vanificandone gli attentati al padre; Elena che dimentica il suo odio per Monforte e la sua sete di vendetta dopo essersi innamorata di Arrigo ed avere scoperto poi la verità sulla sua identità).

Ora, nel Konzept di Livermore lo scenario generale è la Sicilia di oggi (da 150 anni parte dello Stato italiano) dove si muovono – questa è cronaca di tutti i giorni – non due, ma tre macro-protagonisti: 1. lo Stato italiano (con le relative Forze dell'ordine e i liberi, sulla carta, organi di informazione mediatica); 2. il Popolo siciliano, desideroso di pace, prosperità e giustizia dentro (non contro) lo Stato italiano; e 3. la mafia, il cancro anti-stato che ne corrompe il tessuto sociale.

Ohibò, gia qui ci sarebbe da rinunciare all'impiego dei Vespri, per supportare il Konzept, poiché sappiamo che l'opera originale ci presenta solo due macro-protagonisti, e non tre. Ma Livermore non si perde d'animo, lui ha inventato il suo straordinario Konzept e chissenefrega se l'originale di Verdi non lo supporta? Elementare, Watson! Si piega l'originale alle esigenze maieutiche del regista. Strepitoso, bravo, bene, bis!

Quindi adesso sappiamo che Livermore ha un problema: come rappresentare i suoi tre macro-protagonisti, visto che Scribe-Verdi ne forniscono solo due? Semplice, si assegnano due ruoli (lo Stato italiano e la mafia!) ad uno stesso protagonista (Monforte e i suoi sgherri). Magari facendogli indossare e togliere una maschera di gomma, quasi che Stato italiano e mafia fossero lo stesso soggetto, che di volta in volta si traveste (!?)

Ce n'è già abbastanza per prendere Livermore per pazzo, ma vediamo i dettagli.

Cominciamo dal primo atto, dove Elena canta il suo dolore privato per il fratello, giustiziato dagli odiati francesi. Ma cu fu, costui? Fu tale Federico d'Austria (amico e sodale dello svevo Corradino) uno che la Sicilia manco la vide in fotografia (smile!) dato che fu decapitato insieme allo stesso Corradino (non a Palermo, ma a Napoli, dai francesi) mentre era in viaggio verso l'isola. Mi dite voi che cazzo ha a che fare con Vito Schifani, il caposcorta di Falcone, siciliano d.o.c. e martire dello Stato italiano? Elena, irrisa dai gendarmi francesi, canta (la partitura di Verdi) un invito ai siciliani per riprendere in mano le loro sorti, e ciò fa nascere una mezza sommossa contro gli occupanti francesi. Ora, cosa vediamo noi in scena e in TV? La vedova di Schifani che si scaglia contro la mafia; e la polizia di Palermo, Italia, che tiene a bada una folla inferocita. Ma allora chi si sta fronteggiando qui? Il popolo italiano e la Polizia dello Stato italiano. Quindi, lo Stato italiano sarebbe l'occupante straniero? Mandante ed esecutore dell'ammazzamento del fratello di Elena? Del quale adesso si fa però il funerale di Stato? Dove interviene Monforte nei panni di un alto funzionario dello Stato italiano… Monforte che invece nell'opera di Verdi rappresenta il tiranno francese occupante!?

Ecco a dove porta l'idea scellerata di Livermore di usare i Vespri per presentarci la sua brillante lezioncina di educazione civica. Ma ci si rende conto dell'assurdità di tutto ciò?

E come nulla fosse noi vedremo – perché questo è ciò che sta scritto sul libretto, e fu musicato da Verdi, e viene cantato in scena – che Elena si innamorerà di un rivoluzionario siciliano, al quale affiderà la sua vendetta contro gli uccisori del fratello. Ma quel giovane si scoprirà figlio illegittimo dell'occupante francese (ma qui è lo Stato italiano, o la mafia, vero Livermore?) e di conseguenza smetterà di fare il rivoluzionario, anzi salverà il padre dai complotti di Elena&C. Dopodichè Elena per amor suo abbandonerà il popolo e passerà con gli occupanti (lo Stato italiano, o la mafia?) Ma che figura ci fa adesso la vedova di Schifani? Roba da chiodi, anzi da denuncia per diffamazione!

Passiamo al secondo atto: Procida arriva sull'isola e canta la sua nobile O tu, Palermo, terra adorata. Cosa ci indica il libretto, ad ambientazione di questa accorata e dolcissima perorazione? Le coste palermitane, circondate da colline fiorite e sparse di cedri e d'aranci. E Verdi splendidamente esprime i sentimenti che quella vista suscita, con una musica in uno struggente SOLb maggiore, che sembra precisamente emanare profumo di zagara. Ora domandiamoci: se il libretto, puta caso, avesse invece previsto una scena ingombra di patiboli e ceppi, disseminata di teste siciliane mozzate dai francesi del bieco Monforte, Verdi secondo voi ci avrebbe scritto sopra quell'aria sbudellante, tutta inghirlandata di arabeschi dei flauti?

Orbene, cosa ci mostra appunto la disgraziata ambientazione di Livermore? L'autostrada e le auto sventrate dall'attentato di Capaci! Ma ce la vedete, anzi sentite, questa musica a fare da colonna sonora alle immagini – e agli odori - di una strage?

Ma torniamo ai fatti. Siamo quindi in presenza della strage mafiosa più terribile della nostra storia recente. Ma Livermore non può farci capire chi sono i responsabili, perché è a corto di personaggi. O meglio: stando a ciò che sentiamo, Procida canta il suo desiderio di vendetta contro gli occupanti francesi e, insieme ad Elena e Arrigo, pianifica l'attentato contro il loro capo, Monforte, ritenuto responsabile dell'assassinio del fratello di Elena (quindi della strage di Capaci?) Ma il Monforte che vediamo (quello di Livermore) è un alto funzionario dello Stato italiano (o è invece un capocosca mafioso? o entrambe le cose insieme? fa lo stesso?) Quindi Procida con chi ce l'ha? Il personaggio storico fu un illustre medico, e anche diplomatico, che si adoperò in tutti i modi per contrastare gli angioini. In favore dell'indipendenza della Sicilia? Ma manco per niente: per cercare di imporre il ritorno dei suoi protettori-clienti Hohenstaufen. Per Scribe e Verdi è un cospiratore di pochi scrupoli, che ha come unico obiettivo ammazzare Monforte. Ma con Livermore ancora non capiamo se Procida sia un irredentista, un brigatista, o un mafioso di una cosca nemica di quella che ha cacciato i suoi compari (che però non sappiamo distinguere dallo Stato italiano, perché in scena c'è solo Monforte, vero Livermore?)

Chi ci capisce qualcosa?

Il terzo atto ci mostra la rivelazione di Monforte ad Arrigo, che subito cambia atteggiamento e, in luogo di ammazzare il padre tiranno, lo salva dall'attentato di Elena e Procida, che vengono imprigionati. Che dobbiamo pensare, caro Livermore? Che anche Arrigo è un picciotto? O si è scoperto figlio del capo della Polizia italiana? Ce lo vorresti spiegare, di grazia?

Nel quarto atto Arrigo si rivela (per figlio di Monforte) ad Elena. E qui la donna cambia a sua volta campo, passando da quello del popolo italiano a… chi? Lo Stato italiano, o la cosca di Monforte-Arrigo? Chiedere a Livermore, prego.

Nel quinto e ultimo atto assistiamo al tira-molla (matrimonio sì, matrimonio no) fra Elena e Arrigo, con Procida che ha predisposto tutto per la sommossa che dovrà far secchi Monforte e tutti quanti, francesi e collaborazionisti siculi. E quando il matrimonio avviene e suona la campana noi sentiamo, ma proprio bene, il popolo siciliano che si appresta a massacrare i francesi cantando a squarciagola:

Vendetta! vendetta!
Ci guidi il furor!
Già l'odio ne affretta
Le stragi e l'orror!
Vendetta, vendetta
È l'urlo del cor!

Vendetta, vendetta, vendetta!


Ora, il nostro maestro Livermore, poveraccio, si è preso sulle spalle il pesante fardello di educare gli italiani alla giustizia, alla democrazia e alla non-violenza. Quindi, mica ci può far vedere il massacro, che è una delle pochissime verità (storiche e… operistiche) dei Vespri. Perciò, dopo aver già rovinato tutto il resto, si copre con l'iride della pace e manda all'aria anche il finale di Verdi. Mostrandoci il Parlamento (italiano, o regionale, di oggi) dove tutti – occupanti francesi, o mafiosi? e italiani per bene? – si purificano sotto l'Art.1 della Costituzione.

Demenziale. Insomma, l'allestimento di questi Vespri torinesi pare a me una indegna operazione di marketing per il 150°, diseducativa e volgare. Non lamentiamoci poi se i nostri giovani non prendono a cuore il rispetto e il ricordo delle nostre radici, da un lato, e snobbano sempre di più il teatro musicale, dall'altro. E spiace che il Presidente si sia – involontariamente, di certo – prestato per dare lustro a questa pagliacciata.
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19 marzo, 2011

I Vespri Siciliani secondo il dottor Stranamore



1. La Polizia italiana è una forza straniera di occupazione.

2. La strage di Capaci fu opera della Polizia italiana.

3. La vedova del caposcorta di Falcone si è invaghita di un figlio illegittimo di Provenzano.

4. L'attuale Parlamento Italiano è incostituzionale.


Beh, come lezioncina per il 150° non è davvero male.

Post-scriptum: la conduttrice di RAI-Storia ci ha informato che l'autore del libretto è tale Victorien Sardou.
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18 marzo, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 27



Torna all'Auditorium il simpatico (e soprattutto bravo!) John Axelrod, con un programma di quelli da collezione popolare, o da inserto+CD del quotidiano di turno.

Prima di cominciare, si dedica il concerto al martoriato Giappone e si suona – e canta, in platea – l'Inno di Mameli. L'orchestra è schierata (come accade sempre più spesso) con i contrabbassi in fila frontale, fra percussioni e ottoni. Viole al proscenio. Il Konzertmeister Santaniello torna per l'occasione all'antico look con capelli stirati e codino.

Poi Axelrod attacca lo straussiano Don Juan, la prima di sette (o nove, se si includono la Sinfonia Domestica e Eine Alpensinfonie, o dieci, se ci si aggiunge anche Aus Italien) composizioni che sono etichettate con il termine poema sinfonico. Termine che era stato coniato da Liszt per definire della musica puramente strumentale, ma ispirata ad un programma letterario (di solito). Strauss usò invece il termine Tondichtung (letteralmente poema in suoni) per sottolineare come il programma poetico fosse per lui soltanto uno stimolo per l'espressione, in suoni appunto, dei propri sentimenti, e non lo spunto per una descrizione in musica di fatti/personaggi di natura materiale. (Quanto ciò sia coerente con opere come Ein Heldenleben, o peggio ancora come la Sinfonia Domestica, sarebbe da discutere.)

Ispirato al poema di Nikolaus Lenau, il Don Juan di Strauss sprizza esuberanza, vitalità, perenne ricerca dell'ideale femminino spinta – oltre l'erotismo - fino all'eroismo. Mirabili sono gli intermezzi amorosi, i corteggiamenti e gli abbandoni che vi sono disseminati (l'oboe di Emiliano Greci è strepitoso nel descrivere la principale love-scene, in SOL). Romantica fino all'estremo la conclusione dell'esistenza dell'eroe: quasi un tristaniano suicidio, sottolineato dal dissonante FA naturale delle trombe, poi dei corni, che cade sul MI, la tonalità del Don, che a sua volta va scemando, prima da maggiore a minore, per trovare pace sul MI all'unisono (archi in pizzicato, controfagotto, tromboni, tuba e timpano) delle due conclusive semiminime.

È curioso notare come la composizione (606 misure) sia tutta in tempo alla breve (2/2) eccetto cinque singole battute: la 30 (in 3/4) la 433 e 440 (3/2) la 507 (2/4) e la 542 (3/2). Axelrod ne cava fuori tutta l'energia e la cantabilità, ben coadiuvato dall'orchestra, dove gli ottoni sono chiamati ad imprese titaniche. A proposito, è sempre emozionante ed impressionante l'emergere improvviso del tema eroico del Don:



Ieri peraltro i corni mi sono sembrati, come dire, un po' trattenuti da Axelrod, mi sarei aspettato più grinta ed… eroismo! Comunque il pubblico non ha fatto di certo mancare applausi convinti.

Benedetto Lupo si siede quindi al pianoforte per suonarci il Primo Concerto di Franz Liszt. Pezzo che è stato al centro di altri due programmi sinfonici contemporanei lunedì scorso: suonato da Barenboim con la Filarmonica diretta da Wellber alla Scala e da Boris Berezovskyi con la Santa Cecilia diretta da Pappano (quest'ultimo concerto è stato trasmesso in streaming). Il Primo di Liszt ha l'incipit forse più enfatico e drammatico che sia mai stato scritto:



È un concerto davvero innovativo (per quei tempi): oltre ad avere una forma ciclica, con temi che tornano variati nel corso della composizione, vi si trovano indicazioni agogiche inconsuete, quali: grandioso, strepitoso, quasi Arpa! Addirittura ci sono parti che sembrano orchestrate per Triangolo obbligato (guardando la ripresa dal Parco della Musica si noterà che il percussionista era dislocato al proscenio, proprio a fianco del solista, in veste di vero e proprio concertante…)

Benedetto Lupo sa essere contenuto, pacato e sognante nell'iniziale parte solistica – che sembra una cadenza - del Quasi adagio; per il resto non lesina di certo gli effetti, anche i più plateali, nelle volate a rotta di collo, come nei poderosi passaggi con scale di ottave, mostrando tecnica eccezionale (non scalfita da qualche piccola imprecisione) e suscitando l'entusiasmo del pubblico.

Dopo l'intervallo torna ancora Lupo nella lisztiana Totentanz, questo Dies Irae trasformato in una specie di ballata infernale (Danse macabre ne è il sottotitolo). Concetto subito e perfettamente inquadrato dall'introduzione, dove il RE minore del canto gregoriano, esposto da fiati e archi è inquinato dai SOL# e SI naturale di pianoforte e timpani, che letteralmente satanizzano il Dies Irae con un'orgia di tritoni. Fino ad esplodere – battuta 11 – in quel terrificante accordo di tutta l'orchestra (solista escluso) che sembra far materializzare davanti ai nostri occhi Belzebù in persona. Chi pensava che Berlioz – nel suo incubo sabbatico - avesse raggiunto il limite, qui deve ricredersi (molto più tardi peraltro anche tale Rachmaninov, col Dies Irae, ne combinerà di cotte e di crude).

Lupo non si tira indietro (si guarda bene dall'accorciare il pezzo, come pure suggerito dall'Autore) né cerca di indorarci la pillola: usa il pianoforte proprio come strumento a percussione e lo strapazza per benino. (Dopo due pezzi come questi di Liszt mi sa che lo strumento necessiti di ore e ore di riaccordatura, smile!) Alla fine si merita il gran trionfo che il pubblico gli tributa per lunghi minuti.

Si chiude tornando a Strauss, con la Suite del Rosenkavalier, un piatto francamente un tantino stomachevole, come trangugiare in tre soli bocconi un'intera Sacher. Strauss va perdonato, perché si limitò ad acconsentire (ma aveva poca scelta, alla fine del 1944!) alla cottura di questo raffazzonato minestrone, fatta in USA da Artur Rodziński. Così la si prende come un'appendice tardiva del concerto di capodanno, e via con gli applausi (che ovviamente si meritano in pieno Axelrod e soprattutto i professori!)

Per l'appuntamento n°28 ci sposteremo decisamente nel XX e XXI secolo! Ma prima ci sarà una parentesi patriottica: domenica 20 il Presidente di tutti gli italiani (non quell'altro che piace soprattutto ad evasori fiscali, puttanieri e piduisti, e della cultura se ne fa un… bunga-bunga) sarà in Auditorium per celebrare, con l'Orchestra e il Coro de laVerdi, i 150 anni di Unità d'Italia.
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11 marzo, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 26


Siamo nell'anno di Mahler, e il ciclo prosegue con la Quinta Sinfonia, diretta da Xian Zhang e degnamente introdotta, nell'ambito del meritorio ciclo di conferenze sulle sinfonie del boemo, da un intervento di Maurizio Corbella, eclettico musicista-musicologo-compositore-attore-ed-altro-ancora.

Ma come prologo abbiamo un pezzo assai poco eseguito, e non solo perché venuto alla luce nel 1989 (la caduta del muro però non c'entra…) Si tratta di Rendering, opera che Luciano Berio ricavò da abbozzi di Schubert per quella che avrebbe potuto essere la sua decima sinfonia in RE maggiore. Molti di noi hanno in mente il motivo dell'Allegro finale, per essere da anni impiegato come sigla di un container di Radio3:


Qui una registrazione di Eschenbach. Questa (supposta) sinfonia è stata anche completata da Brian Newbould, che ha dedicato una vita a ricostruire opere di Schubert a partire da schizzi e abbozzi. Qui la sua versione diretta da Marriner.

La peculiarità di Rendering consiste nel singolare approccio con il quale Berio ha affrontato l'impresa di portare alla luce la sinfonia. A differenza di Newbould, che si è messo nei panni di Schubert e ha prodotto un lavoro compiuto, ma ovviamente apocrifo (un po' come il suo compatriota Derick Cooke si comportò con un'altra Decima, quella di Mahler) Berio ha invece evitato di comporre à la Schubert, ed ha riempito i tasselli mancanti al mosaico del manoscritto originale con proprie e perfettamente distinguibili tessere (in cui c'è del materiale schubertiano) che di volta in volta sfumano da Schubert verso Berio (atonalità, dissonanze, suono della celesta) e viceversa. Insomma, non ha completato, né ricostruito, ma ha appunto portato alla luce ciò che Schubert ci ha lasciato, non solo rendendo udibili le parti originali, ma mostrandoci chiaramente anche le lacune che l'ormai quasi moribondo compositore non fece in tempo a colmare. Insomma, un approccio a sua volta non poco narcisistico, se si vuole, ma almeno originale. (Personalmente trovo insopportabile la ricostruzione di Newbould.)

Si è ampiamente notato come l'atmosfera dell'Andante abbia un sapore mahleriano: e certo da Schubert il boemo prese innumerevoli spunti. Ma a me colpisce anche il secondo tema dell'iniziale Allegro maestoso, in LA, che sembra un germoglio da cui sboccerà quasi 30 anni dopo il primaverile Winterstürme:


(Certo Wagner nulla poteva sapere di quello schizzo schubertiano, ma la somiglianza balza all'orecchio, anche nell'armonizzazione.)

Delicata e misurata l'interpretazione di Zhang, che fa proprio emergere le tracce di Schubert da una specie di nebbiolina beriana.

Ecco poi la Quinta di Mahler, eseguita anche nella stagione scorsa (con Damian Iorio). Ieri è sembrata uscire irrobustita dalle mani di Zhang. Che evidentemente sta lasciando sempre di più sull'orchestra la sua precisa impronta interpretativa. Lo Scherzo e l'Adagietto (lentissimo, ma mai sdolcinato) mi son parsi al limite dell'eccellenza, ma tutta la sinfonia è uscita in modo splendido, negli insiemi e nelle parti solistiche, la tromba di Caruana e il corno di Ceccarelli in testa a tutti. Insomma, un'esecuzione di quelle che ti lasciano davvero qualcosa dentro.

Prossimamente ancora romanticismo, maturo e …tardo.
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09 marzo, 2011

Più bunga-bunga, meno Vespri

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Death in Venice, Life (?) in Scala



Death in Venice (ieri alla sua positiva seconda, dopo una prima filata via altrettanto liscia, a giudicare dall'ascolto di Radio3) è la quintessenza di un teatro musicale che mai e poi mai avrebbe potuto e potrebbe giustificare l'esistenza dei loggioni (termine da intendersi in senso antropologico e non catastale; tipo le curve degli stadi calcistici, per capirci).

 
Neanche la fantasia più sfrenata potrebbe immaginare il formarsi – sull'oggetto: come interpretare Britten? - di tifoserie e fazioni nemmeno lontanamente parenti di quelle accanite e ringhiose che si sono ancora di recente affrontate sul selciato antistante il Piermarini. Vi immaginate una diatriba tra chi loda la purezza dei declamati dell'Aschenbach di turno (di 16 o 18 o… 34 note senza indicazione di lunghezza) e chi lamenta che il direttore non ha fatto emergere con pienezza estetica la putridità dei canali della Serenissima? Anche il rilievo dato nella circostanza da giornali, siti e blog è quello che, nello sport, si riserva ad un concorso ippico (magari con telecronaca di Alberto Giubilo, riding-cap in testa, ai tempi) o a una partita di polo (smile!) Eppure si tratta di un esordio assoluto dell'opera alla Scala…

 
Dove il pubblico (ieri occupante non più del 75% dei posti disponibili, e ciò vorrà pur dir qualcosa…) ha ascoltato in silenzio, ha applaudito solo dopo che l'addetto alle luci ha aperto l'interruttore generale dell'elettricità del teatro – come si fa altrimenti a sapere se l'atto è finito? – e ha dato mostra di aver gradito lo spettacolo con applausi durati parecchi minuti (anche perché i solisti del coro di Casoni e le altre comparse – decine di persone – si sono presentati alla spicciolata, smile!) Poi se n'è tornato a casa – non pochi anticipando il rientro già all'intervallo, per la verità - come dopo una messa dei morti, felice per aver fatto un fioretto quaresimale e con lo spirito sollevato perché la prossima messa sarà celebrata solo fra un mese o più ancora. Domanda: quanti rinnoverebbero l'abbonamento, se il cartellone prevedesse 10 opere di questo tipo?

 
A questi risultati porta il progresso. Eh sì, perché ascoltando la famigerata Tosca, chiunque non può non ficcarsi in testa almeno i tre volgarissimi accordi che aprono l'opera, e poi ricollegarli al volgarissimo Scarpia, visto che tornano regolarmente ogni volta che lo sbifido siculo aleggia nei paraggi. E pazienza se uno ignora che fra le note estreme dei tre suddetti accordi c'è la distanza del diabolus… Col Britten di Death in Venice la cosa è un pochino più ardua. Perché anche qui c'è – per dire, ed è solo un esempio – un Leit-motiv principale (se così si può chiamare) dell'opera, ma decifrarlo non è propriamente facile, meno ancora riscoprirlo nel seguito, per collegarlo ad eventi, stati d'animo e così via.

 
Compare per la prima volta accompagnando il verso d'esordio del Viaggiatore, che è il primo di sette diversi personaggi interpretati dallo stesso cantante (basso-baritono); personaggi che rappresentano in qualche modo le forze dionisiache che dapprima intaccheranno, quindi mineranno e infine distruggeranno l'apollinea irreprensibilità di Aschenbach. Il viaggiatore misterioso è in realtà un serpente tentatore (nel racconto di Mann, nemmeno parla) che stuzzica la curiosità e poi l'irrefrenabile desiderio dell'attempato scrittore con la promessa di meraviglie svelate (Marvels unfold). Lo canta sulle note RE-DO-MI-RE#:

Il quale Aschenbach, dopo aver cercato di ignorare lo straniero, cade invece preda dell'irresistibile desiderio (sudden desire for the unknown) che vorrebbe tener celato al pubblico (il quale deve ignorare la fonte d'ispirazione dell'Artista!) ma che traspare impietosamente dal suo stesso canto, precisamente mutuato da quello del viaggiatore, RE-DO-MI-RE#:

(Tanto per complicare le cose, il declamato di cui sopra può essere tagliato – Britten consenziente – e tagliato viene in questa produzione). Il tema ha effettivamente un che di arcano, non è per nulla rassicurante. Infatti presto le meraviglie e l'ignoto si manifesteranno per qualcosa di assai poco meraviglioso e di molto tristemente conosciuto: il colera! È la musica – basta cercare con pazienza - a spiegarcelo inequivocabilmente, attraverso la tuba, che espone il tema (RE-DO-MI-MIb) all'inizio del secondo atto, dopo che il barbiere si è lasciato sfuggire la verità; e poco dopo attraverso i corni, che lo innalzano di una terza maggiore (FA#-MI-SOL#-SOL) e subito dopo di una terza minore (FA-MIb-SOL-FA#) sulle domande del perplesso Aschenbach:

Ed ancora riascoltiamo il tema sulle parole che Aschenbach, girovagando per Venezia, legge sul Tagblatt, RE-DO-MI-RE#:

Cases of cholera! E il povero scrittore, che vede l'epidemia come una possibile minaccia alla sua prossimità con l'adolescente Tadzio (o, in alternativa, spera che faccia secchi tutti quanti, tranne se stesso e il suo amore) si vuole auto-convincere del contrario, cantando Ugh! rumors, rumors, rumors… ma proprio sulle note (trasposte) del nostro tema: dapprima LA-SOL-SI-SIb e poi (leggermente variato) DO-SI-RE-REb! La conferma definitiva ci viene dall'accompagnamento dei bassi al preoccupato e preoccupante resoconto sull'epidemia fatto dall'impiegato dell'agenzia di viaggi, ancora RE-DO-MI-RE#:

Ma tutto questo ancora è niente, poiché dovremmo nel frattempo aver scoperto che la malattia vera è quella che si annida nell'Io profondo di Aschenbach, ed è assai più insidiosa (e altrettanto mortale) dell'epidemia. Ecco perché il tema compare subdolamente in altre circostanze, ad esempio verso la fine del primo atto, dopo che lo scrittore ha rinunciato, impotente, ad approcciare Tadzio e riflette sul fatale desiderio: So longing passes back and forth between life and the mind. Con altezze diverse (LA-SOL-SI-LA#) il motivo sottolinea (in corni, arpa e viola) proprio le parole life and mind, la realtà e lo spirito, le due polarità (Dioniso-Apollo) fra cui si dibatte l'Io di Aschenbach. E subito dopo lo udiamo ancora, negli stessi strumenti, ma un semitono sotto, mentre Tadzio passa vicino allo scrittore inebetito e gli sorride (!) spogliandolo definitivamente di tutte le sue apollinee (e ipocrite?) difese e gettandolo in pasto a Dioniso. Il tema torna a farsi sentire, appena variato, all'inizio della seconda parte, nell'accompagnamento del pianoforte, quando il protagonista prende atto e razionalmente/esteticamente cerca di giustificare a se stesso quel suo I love you che nelle ultime battute della prima parte aveva indirizzato a Tadzio. E poi ancora, nelle tube, durante l'onirica orgia dionisiaca; e sempre nelle tube al momento in cui l'efebico polacchino soccombe al rude coetaneo Jaschiu nella zuffa sul bagnasciuga che precede l'epilogo.

 
Di questo passo potremmo anche scoprire che di una certa malattia dell'Artista aveva già trattato qualcuno, in un'opera musicale, addirittura 30 anni prima che Thomas Mann venisse al mondo: mettendo in parole e musica baccanali chèz Venus e severe tenzoni canore in quel di Turingia. E comunque, con tutto ciò avremmo solo esplorato la punta di un iceberg, figuriamoci! Aggiungiamo poi che parecchi interrogativi e lati oscuri dell'opera si possono chiarire solo dopo aver letto la novella di Thomas Mann che ispirò Britten-Piper: ad esempio che i risvolti omosex-pedofili della vicenda - pur tanto cari al compositore (come al sommo Luchino) e impiegati dal marketing teatrale per stuzzicare la curiosità morbosa dello spettatore verso una cronaca di turismo sessuale – sono solo una, e forse nemmeno la più importante, delle componenti del dramma; e che al fondo di Death in Venice - come di Der Tod in Venedig – c'è invece qualche problemino da nulla, filosofico-estetico-esistenziale, vecchio quanto il mondo.

 
Considerazioni per nulla nuove, queste, e presentate in modo assai più dotto e strutturato sul programma di sala, che però uno si dovrebbe studiare per bene prima di andare a teatro, invece di scorrerlo in fretta nei 5 minuti che precedono il via, o nei 10 di intervallo.

 
A proposito di programmi di sala, quello distribuito nell'occasione è al 70% scopiazzato – per gentile concessione - da quello che nel 2008 venne meritoriamente prodotto – ed è disponibile in web - dalla Fenice di Venezia. Incluso il libretto con la traduzione di Renato Pontiggia, ma senza la preziosa esegesi di Daniele Carnini (a pag.41 del citato programma) che qui viene indicato, come revisore del testo, con il nome di Davide Carnivi (ma è solo un imperdonabile errore di stompa, o c'è dietro qualcos'altro?)

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La produzione viene da Londra (E.N.O.) dove nel 2007 ottenne un successo (non incontrastato peraltro) di critica. L'allestimento di Deborah Warner prevede scene minimaliste, ma proprio per questo assai adatte a gestire i frenetici andirivieni Lido-Venezia; ci sono abili giochi di luci per trasmettere sensazioni ed emozioni; efficaci i movimenti delle masse e dei singoli; encomiabili i danzatori della scuola dell'Accademia scaligera e su tutti il Tadzio di Alberto Terribile. Personalmente mi sento invece di censurare l'eccessiva caricaturizzazione di Aschenbach, presentato fin dall'inizio non solo come un individuo in preda a dubbi di natura intellettuale e a vaghe inquietudini da crisi di ispirazione artistica, ma anche come un personaggio in uno stato di permanente crisi epilettica, sempre sospettoso, scontroso e in guerra con tutti e tutto. Insomma, viene così a mancare quel drammatico crescendo che caratterizza il percorso dello scrittore verso l'abisso.

 
John Graham-Hall (a parte la citata e discutibile caratterizzazione attoriale) ha mostrato di padroneggiare assai bene il ruolo sul lato vocale: efficace espressione e chiarezza e profondità del suono. All'opposto (mi è parso) Peter Coleman-Wright, eccellente nel proporre i sette ruoli – e diversissimi – in cui è impegnato; ma un po' meno sul piano vocale, dove ha faticato a penetrare gli ampi spazi del Piermarini. Meglio di lui l'Apollo di Iestyn Davies. Fra gli altri interpreti minori citerei Jonathan Gunthorpe, l'efficace impiegato dell'agenzia di viaggi e Anna Dennis, la venditrice di frutta. Da elogiare incondizionatamente il coro di Casoni, che qui è chiamato, oltre che a cantare, anche a dare corpo e volto alla varia umanità che circola in albergo e in città.

 
Edward Gardner deve essere uno che sa come gestire un'orchestra, a giudicare dagli applausi arrivatigli dal teatro, ma più ancora dalla buca!
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