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da stellantis a stallantis

29 settembre, 2009

Sulla soggettività dell’ascolto


Un giudizio espresso di recente in un post sul Corriere della Grisi, dedicato al ricordo di un famoso concerto wagneriano di Bruno Walter, ripropone il tema della soggettività dell’ascolto.

Nel post si definisce pesante e lento l’avvio dell’Ouverture del Tannhäuser, con una velata critica a Walter (peraltro giustamente esaltato, sia prima che dopo). Ora, la redattrice del post ha evidentemente giudicato in base ad un suo – legittimo! – metro. Come spiega nella gentile risposta al mio commento, il suo giudizio è stato influenzato dal confronto con il brano precedente (il Preludio dei Meistersinger). O magari, chissà, per riferimento mentale con ricordi di altre interpretazioni, o con la propria sensibilità o il proprio modo di vivere quella musica. Nulla di male in tutto ciò, intendiamoci. Ma nulla di più soggettivo ed arbitrario.

A chiarimento e completamento informativo del mio commento – con annessa precisazione - a quel post, provo ad esporre la questione con maggior dettaglio tecnico.

L’Ouverture del Tannhäuser si apre con un tempo Andante Maestoso (la marcia dei pellegrini, cui segue l’Allegro, che introduce il Baccanale). Siamo in misura di 3/4 e l’Andante – che non ha al suo interno alcuna ulteriore variazione dinamica, si noti bene – occupa 80 misure, più una semiminima di attacco. Quindi, in tutto, 241 semiminime.

Ora notiamo un fatto importantissimo: per l’ultima volta nelle sue partiture, Richard Wagner prescrive un metronomo. L’Andante Maestoso andrebbe eseguito a 50 semiminime al minuto. (Si noti che lo stesso metronomo è indicato successivamente, per il canto dei pellegrini nel terzo atto).

Adesso ci supporta la matematica per stabilire quanto tempo, secondo l’indicazione dell’Autore, dovrebbe durare l’Andante. A 50 semiminime al minuto, per suonarne 241 sono necessari precisamente 4 minuti, 49 secondi e 2 decimi. Questo dato potrebbe essere addirittura stampato sulla partitura, poiché deriva direttamente (matematicamente) da ciò che Wagner ha scritto, in modo inequivocabile.

Se fissiamo – arbitrariamente, ma credo con un certo buon senso – una forchetta di variabilità della durata del 10% (+/- 5%) potremmo dire che un Direttore è fedele alla lettera di Wagner se esegue l’Andante in un tempo compreso fra 4’34” (e 74 centesimi) e 5’3” (e 66 centesimi).

Orbene, Bruno Walter, nel concerto di cui sopra, suona attorno a 4’35” (l’attacco è coperto dagli applausi) quindi si colloca sul limite inferiore di questa forchetta, perciò va piuttosto veloce, non lento! E tiene, come prescritto, un tempo assolutamente costante (metronomo 52-53, come si può verificare facendo “traguardi” intermedi, ogni minuto). Ecco altri interpreti, tutti più lenti di Walter, si noti (link a Youtube):

Igor Markevitch 4’36”
Leonard Bernstein 4’37”
Federico Santi 4’43”
Ennio Nicotra 4’46”
Arturo Toscanini 4’49” (praticamente perfetto! c’era da dubitarne?)
René Leibowitz 4’53”.

Herbie Karajan suona attorno ai 5’ netti, quindi verso l’estremità superiore della nostra personalissima forchetta. Sforano di poco in lentezza Zubin Mehta e Willem Mengelberg con 5’10” (metronomo 46-47).

Chi è totalmente fuori è Georges Prêtre, che fa fare ai poveri pellegrini, reduci in Germania da una podistica andata e ritorno a Roma, uno sprint sui 100 metri piani: 4’09” (metronomo 58!) Ma non ho dubbi che per moltissimi ascoltatori – dal loro soggettivo punto di vista - questa esecuzione sia la preferita!
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25 settembre, 2009

Stagione dell’OrchestraVerdi - 3

.Il terzo concerto della stagione ha un programma variegato, ed anche – per diverse ragioni – variato (rispetto a quanto previsto).

Inizia proprio con delle variazioni. Precisamente di Rossini per clarinetto, quello di Matthias Müller. Il programma di sala – come sempre molto ben redatto, con dovizia di informazioni e di approfondimenti – descrive minuziosamente, presentandone un’analisi formale, le Variazioni del 1809, di un Rossini diciassettenne. Poi, nelle ultime righe della nota all’ascolto, cita le Variations pour la clarinette, pubblicate nel 1920 a Lipsia e di dubbia paternità. E sono queste, che recepiscono temi da La donna del lago, scritta un anno prima, ed hanno una assai più complessa struttura e maggior durata rispetto a quelle del 1809, ad essere presentate da Matthias Müller. Con grande virtuosismo e, meritatamente, calda accoglienza.

Poi avrebbe dovuto dovrebbe essere la volta di Marcello Giordani, ad offrirci le Otto romanze di Giuseppe Verdi, scritte originariamente per pianoforte e orchestrate tempo fa da Luciano Berio. Ma già un aggiornamento al sito internet dell’Orchestra, e poi un foglietto allegato all’ultimo momento al programma di sala, ci aveva informato dell’improvvisa defezione del tenore, sostituito da Giuseppe Varano. Questo il programma:

1. In solitaria stanza (Jacopo Vittorelli) (Renata Tebaldi, di chi sarà l’orchestrazione?)
2. Il poveretto (S. Manfredo Maggioni) (J.A.Vergel)
3. Il Mistero (Felice Romani) (Victoria Bezetti)
4. L’esule (Temistocle Solera) (Mirella Golinelli)
5. Deh, pietoso, oh addolorata (J. W. v. Goethe, trad. di Luigi Balestra) (Clara Polito)
6. Il tramonto (Andrea Maffei) (Alfredo Kraus)
7. Ad una stella (Andrea Maffei) (Renata Scotto – 3’00”)
8. Brindisi (Andrea Maffei) (Renata Scotto – 2’15”)

(Di passaggio segnalo il sito web, curato dalla canadese Emily Ezust, dove sono catalogati e pubblicamente disponibili quasi 70.000 testi di lieder e romanze. Una vera miniera d’oro!)

Rispetto alle esecuzioni rintracciabili anche su Youtube (di cui ho riportato esempi più sopra) la versione di Berio aggiunge parecchio all’ambientazione e all’atmosfera. Come lo stesso Berio ammette, la sua orchestrazione tiene conto di tutto ciò che verrà (e non solo in Verdi!) anche dopo la composizione di queste romanze. Per dirne una, Ad una stella contiene tratti quasi espressionisti…

Varano ha una voce piuttosto profonda, direi da baritenore. Non so quanto tempo abbia avuto a disposizione per provare… immagino poco. Quindi meritati a maggior ragione gli applausi di cui il pubblico – abbastanza nutrito - lo ha gratificato alla fine.

Dopo la pausa, ecco i Quadri raveliani, appena ascoltati lunedi scorso dai Trepper Philharmoniker con Chung. Roberto Abbado ne dà un’interpretazione a forti chiaroscuri e l’Orchestra risponde da par suo, nell’insieme e nelle parti solistiche: brava in particolare la sassofonista, dislocata qui a ridosso dei corni, mentre Chung aveva sistemato lo strumento a destra, accanto alle tube. Ma bravi tutti (perdoneremo qualche macchiolina degli ottoni) nel rendere al meglio le mille sfumature di cui Ravel arricchisce l’originale e asciutta versione di Musorgski. Chiusa pesantissima (Chung si era di molto trattenuto) e trionfo assicurato.

Adesso l’Orchestra, con lo stesso programma e gli stessi interpreti, si sposta in Svizzera (5 concerti a cavallo fra settembre e ottobre). E allora, come preventivo omaggio al Paese dell’emmenthal (e ancora confrontandosi a distanza con i Filarmonici, e con la Santa Cecilia) i nostri ci offrono come bis l’Ouverture dal Guglielmo Tell. Accolta da ovazioni, inutile dirlo…

Fuori, dopo una decina di minuti, arriva lo speciale jumbo-tram che accompagna molti verso Piazza Duomo. È il Presidente della Fondazione in persona a fare da capotreno, mentre il Direttore Generale intrattiene gli ospiti. Più di così…

Il prossimo appuntamento fra due settimane, al ritorno dalla gita elvetica. Sul podio ci sarà Wayne Marshall, a dirigere un programma finno-russo, col concerto per violino suonato da Francesca Dega e la suite dello straordinario Romeo&Giulietta.
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24 settembre, 2009

MiTo ricorda Lincoln… con sorpresa

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Il Teatro DalVerme ha ospitato, nella penultima giornata (per Milano, ultima per Torino) del MiTo un concerto di musiche USA, sul tema Abraham Lincoln, a 200 anni dalla nascita del sedicesimo presidente americano. Verso le 8:30 di sera il Sottovia Mercanti e via Dante sono affollatissime; come inizio d’autunno, almeno a Milano, non c’è proprio male: cielo sereno e temperatura mite; tutti occupati i tavolini all’aperto dei molti bar e ristoranti. Come cantava Rodolfo DeAngelis? ...ma cos’è questa crisi, para para pà ppa ppa ppa ppà!

Però un barlume di crisi si nota: in fondo a via Dante, a 50 metri dal teatro, si prepara una manifestazione di studenti, ci sono drappelli di poliziotti in allerta.

Dentro: affluenza modesta, devo dire (e non credo che tutti i musicofili milanesi fossero migrati a Torino, per la pur invogliante Nona beethoveniana): sono occupati sì e no il 50% dei 1500 posti del teatro. Programma di sala stavolta eccellente, grazie alla penna di Oreste Bossini, ben noto agli ascoltatori di Radio3.

Si comincia con Charles Ives e la sua The Unanswered Question, una specie di Gruppen ante-litteram, dove tre sezioni dell’orchestra (archi, strumentini e tromba solista) dialogano a modo loro, appunto, su una domanda (senza risposta?) formulata 7 volte dalla tromba (sistemata alle spalle del pubblico) e che riceve risposte confuse dai 4 fiati (2 flauti, oboe e clarinetto, messi sull’ultimo gradino del coro) mentre gli archi sembrano assistere impassibili e nemmeno sfiorati dal problema. Che c’è dietro? L’esistenza, o la stessa storia della musica, qualcuno azzarda. L’unica cosa certa (almeno così sembrerebbe) è che Lincoln qui non c’entra proprio nulla. Ecco un illustre riferimento. E qui il prodigio venezuelano alla Scala.

Poi arriva sulla scena la zia Letizia in persona, che si aggiunge alla lunga schiera di illustri personaggi della politica o para-politica che si sono in passato cimentati con il Lincoln Portrait di Aaron Copland. Che è una risposta artistico/patriottica del compositore newyorkese (certo più famoso per Appalachian Spring o, che so, per El salòn Mexico) al proditorio attacco nipponico di Pearl Harbour. Umberto Ceriani recita in italiano le frasi di Lincoln che poi dovremo udire in inglese dalla nostra Sindaco, presentatasi in abbigliamento bianconero (per onore alla To del MiTo e all’orchestra torinese, di juventini forse?): gonna pantalone nera e blusa bianca, ma con aggiunta di improbabile corpetto nero.

Fatto sta che, terminata la lussureggiante introduzione orchestrale, e dopo che ha esposto la prima riga del testo, la sindaco-recitante viene di botto contestata, e assai pesantemente. Non da tifosi del Toro, bensì da un drappello di giovani studentesse evidentemente infilatesi in teatro dalla vicina manifestazione (contro la chiusura di una scuola serale da parte del Comune). Sospensione momentanea del concerto, poi – allontanate le contestanti, subito seguite da un piccolo codazzo di persone (cronisti/e, penso io) – si riprende come nulla fosse e la cosa finisce in… Letizia!

Qui una sanguigna, efficace lettura della grande Katharine Hepburn, che pare sia anche la preferita dalla Moratti. La quale Moratti, dopo l’intervallo, prende posto in platea, circondata da vassalli e notabili, fra cui il capo supremo dei trasporti milanesi che – ne sono certo – le avrà poi offerto un passaggio verso casa su una delle sue metropolitane fuori-serie.

Letters from Lincoln è una recentissima composizione di Michael Daugherty. Sono 6 lettere (o estratti di lettere) di Lincoln, che Ceriani legge di volta in volta in italiano, e che poi il baritono Stephan Genz canta nell’originale inglese. Non deve essere casuale che l’ultima frase della composizione sia esattamente quella che chiude il Portrait. Alla fine viene chiamato sul podio un energumeno (ma dall’aspetto mite) che scopriamo essere proprio l’Autore, venuto qui apposta per il battesimo europeo della sua opera.

Con Daugherty in piedi accanto al direttore, viene suonato The Star-Spangled Banner, l’arrangiamento stravinskiano dell’inno USA. Che serve per chiudere (retoricamente, ma diciamo che fin qui ci potrebbe anche stare) il programma. In realtà si va ben oltre la retorica, con il pubblico che (poche eccezioni, fra le quali mi vanto di annoverarmi) si alza in piedi e ascolta con la mano sul cuore!

Un bravo incondizionato ai professori della Filarmonica '900 del Teatro Regio di Torino guidati dall’appariscente Jan Latham-Koenig.

Fuori la manifestazione è finita. Sono le 22:45 e in via Dante non c’è quasi più nessuno, solo un bar ancora aperto, con tre avventori, non di più. Anche Cordusio, piazza Duomo e galleria Vittorio Emanuele sono pressochè deserte. Nessuna ronda in giro.
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22 settembre, 2009

Chung e la Filarmonica al Palasharp

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Ultimi giorni del MiTo. Al Palasharp è andata in scena ieri la Filarmonica della Scala guidata da Chung con un programma double-face: quattro sinfonie/preludi da opere italiane (2 Rossini e 2 Verdi) e poi i Quadri raveliani sul canovaccio pianistico di Musorgski. Programma che l’Orchestra presenterà (28-29 settembre e 3 ottobre) al pubblico spagnolo di Valladolid, Barcellona e Madrid.

A fianco del palazzetto c’è – come tradizione a settembre - la Festa del PD (ex- festa de l’Unità) che spinge le sue propaggini anche dentro allo stesso impianto, come testimoniano i banconi a lato del parterre dove si può acquistare un gelato, un panino, una birra o un caffè, e prendere una copia omaggio de l’Unità (alla faccia di Berlusconi…)

Già alle 20:30 il palazzone è stracolmo. 8.000 (dicasi: ottomila) e rotte persone! Tutte ben disposte a godersi un programma relativamente leggero, almeno nella prima parte, di impronta familiarmente melodrammatica. Gente che si siede anche sui gradini fra le tribune, o è costretta a trovar posto a 30 metri d’altezza e a 100 dal palco dell’orchestra. Per loro, ma non solo, ci sono due maxi-schermi che riproducono una ripresa televisiva del concerto, con opportuni primi piani. Peccato che, fatto 30, non si sia fatto 31, proiettando anche le didascalie di ciò che veniva suonato. Sarebbe stato utile assai, soprattutto per i Quadri. Vedo in giro un sacco di facce orientali (io non saprei distinguere fra un coreano e un cinese… forse nemmeno loro stessi ci riescono): che siano tutti fans di Chung, arrivati da ogni dove? Oppure Milano è proprio invasa – come si dice in giro - dai cinesi? (però se vengono ai concerti mi piacciono già di più degli islamici, che in fatto di musica – a dispetto del grande retroterra culturale - oggi non vanno oltre le cantilene dei loro muezzin).

Al prezzo politico di 1€ si può avere il programma di sala. La cui qualità è purtroppo direttamente proporzionale al prezzo. Verdi viene fatto nascere nel 1913 e retroattivamente morire nel 1901. Il piano dei Quadri è quello della versione originale per pianoforte, includendo quindi anche la Promenade che separa Limoges dai due Ebrei, che Ravel (chissà poi perché) decise di espungere, e che ovviamente il buon Chung non ha potuto eseguire. Nella presentazione di Lorenzo Arruga si indica nel 1929 la data della composizione degli stessi Quadri raveliani, quando invece è il 1922. A proposito di Arruga: non deve evidentemente aver speso troppa fatica per scrivere una paginetta miserella, con quattro paragrafi che dicono assai meno di quanto chiunque può trovare su Wiki.

Ma veniamo al concerto. Però prima di iniziare si osserva un minuto di silenzio: in onore di tutte le vittime, militari e civili, di tutti i conflitti in atto.

Chung conferma la sua fama di direttore composto e moderato, anche negli atteggiamenti esteriori: dirige con gesti precisi ma mai enfatici; tende a mettere in risalto i dettagli cameristici, frenando le esplosioni di fracasso, che pure non mancano in almeno tre delle quattro partiture operistiche e abbondano assai in quella di Ravel. Quanto all’acustica, pare accettabile, a dispetto dell’enormità dello spazio.

Le due Ouvertures di Rossini son fatte apposta per mettere in risalto le qualità solistiche di alcuni professori. Nell’Italiana sono, in particolare, oboe e ottavino, con quel raffinato scambio di parti nelle due esposizioni (prima in SOL, poi in DO) del secondo tema. Nel Tell, il pacchetto dei 5 violoncelli, quindi corno inglese e flauto. Tutti eccezionali. Però confesso che, nella stessa ouverture dell’ultima opera rossiniana, nell’insieme mi avevano convinto di più i terroni di Santa Cecilia, qualche giorno addietro al Conservatorio (che però ha ben altra acustica).

Di Verdi si esegue dapprima il secondo Preludio della Traviata, che fa da intermezzo intimistico, e dove sono i primi violini a mettersi in mostra. Infine il Destino, dove compare fra gli ottoni il cimbasso, questo strano trombone con coulisse ortogonale rispetto alla campana, che lo fa sembrare un curioso trampoliere.

Niente intervallo (e giustamente, chè un foyer per 8.000 ancor non fu inventato) e si attaccano subito i Quadri, questo strepitoso furto raveliano ai danni – ma anche a grande onore! – di Modest Musorgski. Notiamo subito saxofono e tubetta ad arricchire l’orchestra, oltre a percussioni poco usuali (raganella e campane). Chung li dirige a memoria, con grande equilibrio e senza scadere in facili effetti. Però la chiusa, una specie di Bruckner (3 su 2) elevato a potenza, dovrebbe essere di una luminosità più abbacinante (sonorità – ma anche un po’ la melodia - che ricordano quelle dell’Uccello stravinskiano, di una dozzina d’anni antecedente). La Filarmonica ce la mette davvero tutta per riempirne l’enorme spazio del palasport, ma il risultato non è proprio il massimo dell’efficacia.

Comunque grandi ovazioni per tutti, un generoso bis (Brahms, danza magiara n°5) e poi ci si incammina, attraverso lo stretto imbuto dell’uscita, verso la metro, nella frizzante ma gradevole notte dell’equinozio d’autunno. Fra un paio di giorni confronteremo questi quadri con un’altra copia: quella che ne farà laVerdi all’Auditorium, con Roberto Abbado.
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20 settembre, 2009

Una Messa particolare


Nell’ambito del MiTo 2009 l’Orchestra e il Coro Sinfonico Giuseppe Verdi diretti da Xian Zhang hanno presentato stamane – ingresso gratuito, o meglio con libero obolo per la chiesa ospitante, la Basilica di San Marco – la Missa Solemnis di Beethoven.

Essendomi vergognato di non averci mai messo piede, in più di 40 anni di presenza in quel di Milano, ed anche per accaparrarmi un posto in prima fila, sono andato alla basilica di buon mattino (insomma… verso le 9, pur sempre un tre ore prima dell’inizio). Clima freschino, poca gente in giro in via Pontaccio e Fatebenefratelli, e pochi anche in chiesa, a quell’ora. La basilica è enorme (quasi 100 m di lunghezza) e piuttosto austera, quasi spoglia (certo qui i bizantini non ci han messo becco): pareti e cupola nude, solo i finestroni a vetri policromi danno un po’ di colore.

Alle 9:30 si celebra la Messa normale, cui presenziano 50 persone, forse, che si perdono nelle tre enormi navate. Finita la messa, restiamo in chiesa in meno di una dozzina. Ma abbiamo il privilegio – chè gli ingressi vengono momentaneamente chiusi – di assistere all’arrivo dei Musikanten e, soprattutto, alle prove dell’ultim’ora, volte – immagino – più che al contenuto musicale, alla verifica dell’acustica. E così accade che i quattro solisti, inizialmente posti in prima linea, ai lati del podio, vengano poi retrocessi di una ventina di metri: quanti dividono, appunto, il podio dalla prima fila del coro (in mezzo stanno gli orchestrali).

Verso le 11 tutti si ritirano nelle ampie sagrestie per vestire il frac e il lungo nero. Chissà se alla Kapellmeisterin Xian (e alla conduttrice del coro, Erina e ai solisti) hanno riservato le stanze che tempo fa furono abitate da un giovane pensionato a nome Joannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus

Adesso si riaprono le porte e così si può verificare, una volta per tutte, che Beethoven è un dio, e anche di più (in effetti i suoi messaggi sono diretti a tutta l’umanità, mica solo ai credenti): sì, perché lui è in grado di raccogliere nella basilica una moltitudine che non si registra neanche alle messe di Pasqua e Natale! Dico: gente in piedi, o appollaiata sugli scalini del pulpito, o accovacciata alla meglio ai piedi dell’altare (e della pedana dell’orchestra)!

Alle 12 in punto si dà quindi inizio alla Messa importante: che ha eccezionalmente due concelebranti: Don Luigi Garbini, per la parte liturgica, e Xian Zhang (con Erina Gambarini e i solisti Orla Boylan, Manuela Custer, Jason Collins e Kamie Hayato) per quella musicale. Il rituale è proprio quello della messa (Rito ambrosiano, IV Domenica dopo il Martirio di San Giovanni): il prete accoglie i fedeli, fa l’Atto Penitenziale e… Xian attacca il Kyrie.

Segue quindi il monumentale Gloria, al termine del quale abbiamo la liturgia della parola: una distinta signora, che già lo aveva fatto per lo sparuto drappello dei 50 della messa delle 9:30, legge un brano del Primo Libro dei Re.

Altro intermezzo liturgico, con tanto di scambi di segno di pace, poi siamo al clou della Missa beethoveniana: il Credo, con quel suo amen che batte tutti i record degli amen mai musicati.

Adesso il celebrante (liturgico) va sull’altare (posto in primo piano, davanti al podio) e consacra l’eucaristia, spezzando il pane.

Xian attacca quindi il Sanctus, con corni, poi trombe e tromboni a introdurre i solisti. Straordinario, dopo il Praeludium, l’ingresso del primo violino solo, che da qui accompagna tutto il Benedictus.

Adesso siamo alla Comunione. Don Garbini e un diacono si pongono sul limitare della pedana che regge altare e orchestra e… cominciano a distribuire le ostie ai fedeli. Mentre Xian attacca l’Agnus Dei! Adesso: ascoltare quel celestiale RE maggiore mentre decine di persone si alzano e scavalcano i vicini per mettersi in coda per ricevere l’Eucaristia non è forse da sala da concerto… ma è una cosa straordinaria, nel letterale senso della parola! Cerco di immaginare cosa può aver provato un fedele a fare la Comunione mentre scorrevano le note di Beethoven! E – forse è la prima volta che mi capita nella vita – ho quasi rimpianto di essere un infedele… Particolare importante: non so se qualcuno ha stimato in anticipo il numero dei comunicandi, e quindi il tempo necessario a comunicarli, per verificare che la Missa non finisse malauguratamente prima della comunione. Fatto sta che invece la comunione si è chiusa giusto prima del Presto che introduce il finale.

Ora – tutti tornati ai propri posti - l’orchestra al completo suona l’ultima semiminima del RE maggiore. Silenzio. Don Garbini va al microfono e chiude la liturgia: non ha parole da aggiungere a ciò che si è udito. Si limita alla familiare formula: andiamo in pace! Solo a questo punto si alza, quasi una liberazione, l’applauso del pubblico. Interminabile, convinto. Per tutti: professori, coristi (e relativi leader) e solisti.

Non è qui il caso di fare apprezzamenti sul livello tecnico dell’esecuzione. Pur da infedele, mi sentirei solo di dire a tutti i musicanti: Dominus vobiscum!
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18 settembre, 2009

Stagione dell’OrchestraVerdi - 2


Insolito programma quello del secondo concerto dell’Orchestra Verdi, ieri sera.

Alla seconda di Beethoven, eseguita in apertura, sono stati associati quattro pezzi di Wagner: tre ouverture e la Cavalcata delle Walkirie. Di solito si programma una ouverture d’opera per aprire il concerto, e una sinfonia per chiuderlo.

Evidentemente ieri Xian Zhang ha voluto mettere al centro dell’attenzione Wagner (come ben chiarisce il sottotitolo del concerto) e, collocandola in apertura, ha forse involontariamente accreditato la vox populi che vuole la seconda, come tutte le sinfonie pari di Beethoven, essere un’opera minore, cioè di passaggio, di rincorsa, di ponte fra due lavori impegnati, ossia fra due capolavori. Il che è assai opinabile nella fattispecie, dal momento che l’eroica è di certo una grande sinfonia, ma la prima – con tutto il rispetto – non è poi questo mostro sacro, anzi; al confronto la seconda appare come un deciso passo avanti, sul piano dei contenuti (vi si intravede addirittura la nona, in quell’inciso di una battuta in RE minore verso la fine dell’adagio introduttivo). Il quale adagio, per restare ai confronti superficiali, è di 33 misure (3/4), quindi molto più esteso e importante di quello della prima (12 misure in 4/4). Poi, e questa è una caratteristica sostanziale, presenta per la prima volta uno scherzo in luogo del settecentesco menuetto. E la sua stessa durata - se si esegue il ritornello dell’esposizione nel primo tempo (cosa che la Zhang non ha fatto, ma nessuno la crocifiggerà per questo) - la colloca, dopo nona e terza, fra le più lunghe sinfonie beethoveniane (per quanto la durata possa contare sul piano estetico).

Resta però il fatto che è una sinfonia poco eseguita e apprezzata meno di quanto meriti. Comunque, se si intende presentare in un concerto quel po’-po’ di minestrone wagneriano, allora meglio mettere la sinfonietta di Beethoven come antipasto, chè invertendo l’ordine di esecuzione, essa rischierebbe di apparire come uno di quei bis che si suonano a mò di sorbetto per far digerire un qualche monumentale mattone. Messa invece in testa, ne è stata meglio valorizzata la freschezza e la solida struttura. Meritoria l’esecuzione, con un personale apprezzamento per il larghetto in LA maggiore, esposto con sensibilità e delicatezza, ma senza sdolcinature da minuetto.

Il quadripartito main course wagneriano (una traiettoria circolare, dai Meistersinger alla Cavalcata, passando per Tannhäuser e Holländer) potrebbe essere contrabbandato per una sinfonia nei quattro classici movimenti. Ma in realtà di sinfonico non ha proprio nulla: è una giustapposizione di blocchi sonori che hanno in comune soltanto la paternità e il fracasso, per quanto si tratti di paternità nobilissima e di fracasso sublime.

Interessante la spiegazione del programma wagneriano e originale il proposito di Xian Zhang: primo, mettere in piena luce gli ottoni dell’orchestra, che le hanno da subito fatto grande impressione; secondo, far risaltare, anche da poche battute delle ouverture, i contenuti dei drammi wagneriani, ciò che si sente e si partecipa assistendo alle rappresentazioni in teatro. Proposito originale quest’ultimo, ma piuttosto velleitario (almeno così pare a me) chè le tre ouverture in programma presentano sì i principali temi (nemmeno tutti) delle rispettive opere, ma si tratta di puri rimandi a qualcosa che ci si appresta a godere pienamente di lì a poco, quando quei temi saranno associati a scene, personaggi, sentimenti. Se rimangono isolati, dentro l’ouverture, servono solo da fugace richiamo alla memoria (per chi conosce le opere) o puri temi più o meno orecchiabili (per chi quelle opere non conosce).

Si parte con i Meistersinger. Tacitiamo i puristi precisando che non già di Ouverture si deve parlare, ma di Preludio. Ciò in omaggio al termine (Vorspiel) deliberatamente impiegato da Wagner a partire dal Lohengrin. Puro vezzo anti-italiano peraltro, dato che struttura e contenuti sono precisamente quelli di una Ouverture, come per Holländer e Tannhäuser. Il luminoso DO maggiore dei Maestri, in cui sono incastonati i passaggi in MI, LA e MIb, è uscito bene dall’Orchestra, anche se – piccolo appunto - nel finale gli ottoni si sono troppo esaltati, suonando talmente forte da sovrastare totalmente gli archi.

Poi è la volta di Tannhäuser. Quasi un intermezzo intimistico nel programma, col religioso MI maggiore dei pellegrini e l’allegro del Venusberg. Davvero possente e nobile la perorazione in fortissimo nell’assai stretto finale.

Tocca quindi al fliegende Holländer ripristinare il livello di rumore (sempre detto con simpatia…) La Zhang lo affronta con piglio garibaldino, mettendo subito a dura prova l’abilità dei corni e creando così un efficace contrasto con il tema di Senta.

Si chiude con la Walkürenritt. A differenza dei brani precedenti, che sono in definitiva composizioni chiuse e originali, la cavalcata è una specie di suite strumentale della prima scena dell’atto terzo della Walküre. Per quanto tollerata dallo stesso Wagner per esecuzioni antologiche e in concerto, dal punto di vista strettamente sinfonico non è esente da limiti e da difetti, primo dei quali la monotonìa del tema, a fatica attenuata dal continuo mutare di tonalità. Non dimentichiamoci che nell’opera - come eseguita in teatro - troviamo un elemento fondamentale, che rende il brano più digeribile: le voci delle Valchirie, i famosi ed entusiasmanti Hojotoho! e i loro commenti su sorelle, giumente in calore, eroi recuperati, che fanno da intermezzo ai diversi spezzoni della cavalcata. Qui invece abbiamo un unico polpettone che francamente ci stordisce, a dirla proprio tutta…

In conclusione: un piatto wagneriano di una pesantezza davvero eccessiva. Vuoi vedere che la piccola Xian ci ha fatto fare indigestione di Wagner per aver la scusa per non parlarne più per il resto della stagione? (Non prima di marzo ci sarà un Preludio+Liebestod diretto da Mena, ma poi basta). Intendiamoci: l’Orchestra si è superata, e gli ottoni devono aver premiato la fiducia della cinesina, oltre che infiammato il pubblico, ma francamente: quando è troppo, è troppo!

Il prossimo appuntamento vedrà sul podio Roberto Abbado, con un programma che – tra autori e arrangiatori – si estende su quasi 150 anni.
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16 settembre, 2009

Sperperi?

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Leggo e personalmente mi rallegro della serie di concerti gratuiti che Uto Ughi terrà a Roma, una vera e propria Oktoberfest, ma di cultura.

Il Comune di Roma (Alemanno) e la presidenza del Consiglio (Letta) sono fra gli sponsor della manifestazione.

Mi chiedo cosa pensi invece il simpatico Brunetta di tanto sperpero di soldi nostri.
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14 settembre, 2009

Una sagra di provincia al mare

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Siamo a metà settembre e l’estate dà ormai chiari segni di cedimento: qui a Rimini ci si prepara a smontare tutto (ombrelloni, lettini, giostrine, trespoli di scarpe e cianfrusaglie assortite, gazebo e pagode posticce) ciò che verrà puntualmente rimontato (avete presente Sisifo?) ai primi di giugno 2010. I pochi ambulanti extracomunitari che ancora stazionano sulla battigia adesso quasi ti regalano braccialetti-orologio in plastica, cinture, borsette, ciondoli, asciugamani, mentre nessuno più passa a offrire spiedini di cocco o a proporre ai bimbi foto con l’uomo-ragno o con la barbie-nera. Anche il tempo – ieri sereno, ma freddino, oggi uggioso, direi proprio – asseconda la tendenza al signori, si chiude!

Questo, in spiaggia. Ma Rimini non è soltanto mare&sole&fantasia. E così, da buon riminese (di adozione), non potevo ignorare una manifestazione che quest’anno compie 60 anni.

La scelta, non proprio casuale… ma quasi, è caduta su Daniel Harding e la sua nordica Orchestra della Radio di Svezia, che dovevano eseguire il programma annunciato, con la presenza della scozzese Lisa Milne, che avrebbe dovuto cantare alcuni lieder dello Strauss giovane (1885-1900). In realtà il programma ha subìto una importante modifica: un grave lutto ha costretto la Milne alla rinuncia, e così è stata rimpiazzata – degnamente direi! - da Michelle DeYoung, che sostituirà la Milne anche oggi (14/9) alle Settimane meranesi e il 16/9 (ripresa di Radio3) al Lingotto, nell’ambito del MiTo (domani 15/9 tutti saranno al Conservatorio di Milano con Wagner, Berlioz, ma senza la Fantastica, sostituita dalla prima di Mahler).

La DeYoung ha presentato un programma straussiano così articolato:

Heimliche Aufforderung (Invito segreto) op. 27 n.3 (testo e riferimenti).

Allerseelen (Giorno dei morti) op.10 n.8 (testo e riferimenti).

Zueignung (Dedica) op.10 n.1 (testo e riferimenti).

Morgen (Domani) op.27 n.4 (testo e riferimenti).

Cäcilie (Cecilia) op.27 n.2 (testo e riferimenti).

La DeYoung ha un fisico da walkiria, che fa sembrare ancor più basso il simpatico Harding, che le arriva a malapena alle spalle. Però lui ha il vantaggio di poter salire sul podio, e così rimette le altezze a posto. Lei si presenta al pubblico con un paio di gesti (scaramantici?) non propriamente raffinati: una sfregatina di mani e poi l’indice sinistro passato sotto le narici! Voce calda e morbida, la sua, che si accompagna ad una ormai consolidata esperienza e consuetudine con il mondo tardo-romantico. E così al termine ha avuto meritati applausi e diverse chiamate.

Dopo Strauss, Mahler, dei due l’inattuale (a quei tempi!) Proprio nello stesso Palacongressi di Rimini dove, ormai quasi 20 anni fa, avevo ascoltato un ancora imberbe Valery Gergiev dirigere da par suo gli ex-leningradesi nella colossale sesta del boemo.

La prima, al confronto, è una sinfonietta (l’unica, con la quarta, a non superare l’ora) anche se quando apparve – 1888 - dovette sembrare una cosa interminabile (oltretutto perché aveva… un movimento in più): da soli tre anni Brahms aveva composto la sua ultima sinfonia, mantenendosi sempre in dimensioni temporali relativamente ridotte. Solo Mendelssohn con la sua seconda – in realtà una cantata-oratorio più che una sinfonia – e poi Bruckner (soprattutto con l’ottava) avevano osato sfidare il Beethoven della Nona quanto a lunghezza di una composizione di tal genere.

Harding – partitura sul leggìo, sollevata alla fine per mostrarla al pubblico, quasi a volerle trasferire gli applausi scroscianti - ne ha dato una lettura con forti chiaroscuri, sia nel volume del suono (approccio cameristico e poi scoppi fragorosi) che nella dinamica (scarti nervosi fra passaggi tenuti e irruzioni violente). Nel finale ha fatto emettere ai violini quasi degli ultrasuoni, tanto era parossistico lo spasimo esecutivo che gli ha richiesto.

L’Orchestra – età media apparentemente… di mezzo, con buona presenza femminile, a partire dalla bravissima Konzertmeister – ha mostrato grande affiatamento, ma anche specifiche qualità: strepitosi in particolare gli ottoni, nei tremendi berci cui Mahler li costringe spesso e volentieri. Una curiosità: questi scandinavi si sono disposti alla tedesca (violini secondi davanti) ma con i contrabbassi in linea frontale, quasi sul fondo, a dividere le percussioni dalle file dei fiati (corni a sinistra).

Le ovazioni dei 1500 del Palacongressi (pochissime le poltrone rimaste vuote) sono state contraccambiate dai nordici con un bis di tutto riguardo: il Liebestod, un’anticipazione del programma di domani al Conservatorio.
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11 settembre, 2009

Stagione dell’OrchestraVerdi - 1


Dopo l’anteprima di domenica 6 alla Scala, laVerdi è tornata nella sua casa dell’Auditorium di Largo Mahler con un programma di tutto rilievo e di pura tradizione, come spiega qui Xian Zhang, nuova guida musicale dell’Orchestra.

Auditorium quasi al completo per questa apertura di stagione; c’è anche una nuova gestione del bar, che offre un calicetto a fine concerto. Un volantino annuncia poi che da giovedi prossimo l’ATM metterà a disposizione un jumbo-tram straordinario, dopo il concerto, per tornare a Piazza Duomo. (Domande: come fa il tramviere a conoscere al minuto l’ora della fine del concerto? che fa, si ferma lì davanti in via Meda, a bloccare il traffico, finchè almeno 200 persone non escono dall’Auditorium? oppure si tratta semplicemente di una corsa aggiuntiva del 3, programmata più o meno verso l’ora di fine presunta del concerto, e chi c’è c’è? Tanto per cominciare, ieri sera la corsa del 3 delle 22:18 è saltata bellamente e la gente – ma eravamo sì e no in 30 - ha dovuto aspettare quella delle 22:34!)

Altra nota di cronaca: oggi è l’anniversario della tragedia delle Twin Towers: proprio l’11 settembre del 2003, laVerdi tenne un concerto straordinario in memoria delle vittime, suonando Ein Deutsches Requiem, sotto la guida di Claus Peter Flor.

E torniamo quindi alla musica.

Si comincia con i Vier letzte Lieder di Strauss, cantati da Orla Boylan, che era alla terza esperienza con questi lieder, da lei già interpretati con le orchestre di St.Gillen (Jiri Kout) e Hallé (Sir Mark Elder).

I VlL sono una specie spuria (chè Strauss non li pensò come ciclo) ma sublime di quattro stagioni: dalla primavera in tutta la sua magnificenza, come un prodigio; all’estate che in settembre trascolora, ma ancora sorride stupenda e languida; all’autunno dei sensi che si assopiscono, mentre l’anima in liberi voli si librerà; e infine all’inverno della vasta e silenziosa pace.

Poco c’è da dire sul contenuto musicale, che già non sia stato scritto. Mi limito a citare come curiosità un paio di dettagli (un poco bizantini, o maniacali, lo ammetto, ma sono legati a ciò che Strauss ha scritto sul pentagramma): due passi che pongono problemi di esecuzione alla cantante, e che perciò sono spesso interpretati in modo difforme dalla partitura originale.

In Frühling l’ultima parola è Gegenwart. Strauss estende la prima sillaba (Ge) su quasi 4 misure, per la precisione su 33 crome (siamo in 9/8, tempo allegretto, ma un poco più tranquillo) tutte in un unico legato: ciò richiede alla cantante di tenere per un tempo che va dai 12 ai 15 secondi, su una melodia peraltro relativamente pianeggiante (FA#-MI-SOL#-FA#-MI-RE). Non tutte le soprano rispettano Strauss alla lettera; due esempi: Edda Moser, che è quasi perfetta; e invece la nostra Orla Boylan, che prende il respiro dopo due misure, circa a metà della frase (e non è la sola); altre soprano (compresa la grande Gundula Janowitz, che peraltro tiene con Celibidache un tempo lentissimo) respirano dopo tre misure.

In Beim Schlafengehen c’è il famoso tausendfach, la cui prima sillaba (tau) copre quasi 4 misure (estendendosi dal LAb al SIb acuto, per poi scendere al MIb) e che Strauss ha notato in totale legato (15 crome, siamo in tempo di 4/8, andante, ma qui molto tranquillo). Bene, a partire dalla Flagstad, che eseguì per prima i 4lL con Furtwängler nel 1950, tutte le soprano - solo su youtube ne trovate un paio di dozzine! - prendono il respiro dopo la seconda misura (8 crome) ed anzi molte di loro ripetono due volte la radice tausend della parola. Tutte, meno due. La prima è Teresa Stich-Randall, che esegue il legato – oltretutto a tempo davvero sehr ruhig, come prescrive Strauss - in modo impeccabile, per circa 20 secondi (a meno che non sia tutta una montatura in studio dei tecnici del suono?) L’altra è proprio la nostra Orla Boylan, che per la verità, dopo 14 secondi, arriva fino alla croma 13 e poi incespica, scorda addirittura il testo e raffazzona ciò che segue in modo invero penoso… ma almeno ci ha provato.

Per la cronaca, ieri la Boylan ha “respirato” a metà in entrambi i passi, evitando così il peggio. La sua è stata nel complesso una onesta prestazione: la voce nei passaggi alti ha inflessione tendente al metallico, quindi non proprio gradevole e in basso (RE, REb, DO) passa pochissimo. L’Orchestra l’ha peraltro supportata bene, suonando forse ancor più cameristicamente di quanto già la partitura non contempli (note di merito qui per violino e corno solisti, giustamente chiamati per applausi personali). Si apprende dal programma di sala che la Boylan canterà prossimamente i 4lL anche a casa sua, con la RTE di Dublino: non potrà che migliorare ancora, c’è da starne certi. Una nota di colore: la nostra è una ragazzona molto in carne (come si deduce da ciò che lei stessa dice di sé, a proposito di debolezze per la buona cucina…) e quando è entrata sul palcoscenico, seguita dalla piccola Xian (che è veramente piccola) pareva una tata che si porta dietro il bambino da accompagnare a scuola!

Ancora un paio di considerazioni sui 4lL.

Nell’epilogo di Im Abendrot, dopo la parola Tod (morte) Strauss cita un frammento del tema dell’ideale, da Tod und Verklärung, scritto "solo" sessant’anni prima: là concludeva – la trasfigurazione! – in un affermativo DO maggiore… qui c’è ancora grande serenità, ma dal 1889 i tempi sono cambiati, ciò che là si era descritto dal di fuori adesso lo si vive dal di dentro, ma soprattutto tante illusioni e tanti ideali sono annegati in un mare di sangue, quindi… bisogna abbassare i toni; precisamente di un semitono, a DO bemolle. Per poi chiudere citando l’adagio della settima bruckneriana – già di per sé carico di simboli - anche qui abbassato di un semitono, a MIb. Ecco: rimandi, significati, segnali, allusioni, ammiccamenti e ripensamenti che soltanto la musica consente di esprimere in modo così stupefacente!

Qualcuno sostiene che il Lied sia un genere minore, insomma: canzonette d’arte, nulla più. Evidentemente si è fermato a Tosti. Questi ultimi lieder di Strauss non sono che l’ennesimo tributo ad una tradizione (non solo tedesca per la verità) di grande, grandissima arte, i cui frutti meritano giustamente di stare a fianco e alla pari di altre forme (concerti, sinfonie) nei programmi delle istituzioni musicali.

E appunto parlando di sinfonie, con le orecchie ancora rimbombanti dei suoni della Santa Cecilia di due giorni addietro, riascoltiamo per un’altra volta la Quinta di Ciajkovski.

Va premesso che l’Orchestra – ci saranno stati ricambi da quei tempi, ma l’ossatura è rimasta – è nata con tale Vladimir Delman, che di Ciajkovski un pochettino se ne intendeva. Ed ha evidentemente lasciato il suo DNA, che ancora si sente (qui nella Quinta peraltro – vado a ricordi di quasi 20 anni fa ai tempi dell’Orchestra RAI, con cui il maestro russo registrò in TV le sinfonie, e altro, di Ciajkovski, con annesse lezioni – Delman mi pareva smussare maggiormente certe spigolosità e tenere di più a freno le non poche enfasi retoriche).

Il confronto con i ceciliani è arduo, anche per mere ragioni materiali: quelli sono di più, nella sezione archi; poi si dispongono alla tedesca, portando avanti tutti i violini e mettendo in retroguardia i violoncelli e a sinistra i bassi; poi martedi suonavano al Conservatorio, sala dalla topografìa opposta a quella dell’Auditorium (il quale è stato ricavato da una sala cinematografica, va ricordato…) Insomma, troppe variabili al contorno che rendono difficilmente confrontabili – dal punto di vista della pura resa sonora – le due esecuzioni. E l’ambiente materiale influenza anche l’attitudine dell’ascoltatore, e le sue sensazioni: là di grandiosità e uniformità di colore, qui di spigolosità e forti contrasti (ad esempio, nel raccolto ambiente dell’Auditorium gli schianti di timpani e ottoni – a parità di esecuzione materiale - risaltano assai più che nel grande spazio del Conservatorio). In comune fra le due compagini ho notato il piacere di far musica, che mi sembra la cosa più importante (sarebbe interessante stabilire se questa attitudine sia tipica di orchestre puramente dedite al concerto, rispetto a quelle dei teatri d’Opera…)

Dal punto di vista interpretativo, ho trovato personalmente più similitudini che distanze fra Matheuz e Zhang (o i rispettivi mèntori, sarebbe da dire). Persino nei particolari, ultimo dei quali il sigillo finale, il ta-ta-ta/tà, eseguito da entrambe le formazioni con estrema pesantezza e con enfasi (per me) eccessiva, anche se di grande effetto (ma l’effetto a volte scade nella gigionerìa).

La cinesina mi pare un tipo mica male – a dispetto della statura fisica (ma hanno forse alzato di una spanna il podio, per lei?) - capace di guidare con sicurezza una macchina che ha tanti cavalli da poter finire fuori strada, se non la si ha in mano più che saldamente: senza troppi fronzoli, gesti semplici ma perentori e attacchi sempre puliti. Grazie anche al grande affiatamento dei professori – non c’è dubbio – ma comunque è un rapporto che pare ben avviato. Già il prossimo 17 avremo un altro test interessante.
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09 settembre, 2009

La Santa Cecilia al Conservatorio per il MiTo

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Privata della sua carismatica guida, la più importante e rinomata Orchestra Sinfonica italiana è approdata a Milano, dopo aver visitato Torino, nell’ambito del MiTo. A sostituire il convalescente Antonio Pappano era Diego Matheuz, un prodotto di quel sistema Abreu di educazione musicale giustamente osannato per aver dato un futuro a migliaia di ragazzi di strada e per aver sfornato un tale Gustavo Dudamel, oggi re di LosAngeles.

Anche il programma è mutato rispetto al previsto, con la corposa Quinta ciajkovskiana a rimpiazzare Ponchielli e Respighi, chiudendo il concerto dopo l’ouverture del Tell e l’Italiana di Mendelssohn.

Impressionante la prestazione dell’Orchestra (disposta come sempre secondo una variante del layout teutonico classico: violini contrapposti ai lati del direttore, violoncelli e bassi a sinistra, viole a destra, ma con i corni in fondo a sinistra, opposti agli altri ottoni) davvero ai vertici nel panorama italiano: evidentemente sa suonare a memoria, anche quando il suo conduttore è a casa a riposare. Detto – sia chiaro! - con tutto il rispetto per il buon Diego, che però di tempo per provare e soprattutto per lasciare la sua impronta ne ha avuto davvero poco (avrà modo magari di farlo in futuro, visti i suoi impegni di gennaio con l’orchestra). Orchestra con professori di valore solistico assoluto, come ben si è potuto sentire nell’Ouverture rossiniana, ma anche – per citare uno dei tanti esempi – nell’incipit dell’andante ciajkovskiano.

A proposito della Quinta di Ciajkovski (come e forse più dell’Italiana): è ormai uno di quei pezzi talmente inflazionati da esecuzioni, CD e riproduzioni varie, che il rischio è di farne indigestione, e di non apprezzarne più le qualità (o magari di ascoltarne interpretazioni gigionesche, come una recente del pur grande Gergiev, piena di forzature dinamico-agogiche). Ma ieri ci ha pensato la Santa Cecilia a renderla non solo digeribile, ma interessante ed entusiasmante, come ad un primo ascolto… (E domani la stessa Quinta si replica in Auditorium con laVerdi! Vedremo come finirà questo confronto, a distanza ravvicinata, fra i sovrani di Roma e gli outsider di Milano).

Alla fine grandi ovazioni e due generosi bis: la fin troppo famosa Danza ungherese n°5 di Brahms e la enigmatica variazione Nimrod di Elgar.

Note stonate? Più o meno 200… quante le poltroncine della sala Verdi rimaste desolatamente vuote.
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08 settembre, 2009

Chailly ai Proms, con la decima di Mahler-Cooke&C

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L'appuntamento Prom-69 presentava, in apertura, il concerto per piano di Mendelssohn, certo non il pezzo più pregiato del compositore di cui ricorrono nel 2009 i 200 anni dalla nascita, e a cui Londra ha dedicato grande attenzione, data la popolarità che il grande compositore tedesco ebbe lassù.

Con la Gewandhaus, l’orchestra dove Mendelssohn era di casa, e dove oggi – grande onore – è di casa il nostro Riccardo Chailly, è stato interprete del concerto Saleem Abboud Ashkar, trentatreenne pianista israelo-palestinese. Cioè un palestinese di etnìa e israeliano di nazionalità (oggi sono circa 1,7 milioni, su 7,3 milioni di cittadini di Israele, i palestinesi come lui). È nato nel 1976 a Nazareth, villaggio biblico che la risoluzione 181 dell’ONU (1947) aveva destinato agli arabi di Palestina, e che Israele annesse, con tutta la Galilea, dopo la Guerra del 1948-49. Evidentemente i nonni e i genitori di Saleem decisero di restare a Nazareth e di diventare così cittadini di Israele, invece di trasferirsi, per dire, di pochi Km, nella West Bank; e forse ciò ha permesso al ragazzo di disporre e di accedere più facilmente a certe risorse, e di arrivare dov’è oggi. Anche se lui stesso non nasconde la sua condizione di estraniato, come erano e sono altri palestinesi della diaspora, Edward Said in testa.

Ma veniamo alla Decima. Premesso che la Gewandhausorchester e Chailly hanno dato il meglio di sè, resta il fatto che quella che ascoltiamo – salvo l’adagio iniziale - è una ipotesi di lavoro, e in gran parte un esperimento di laboratorio. Che Mahler avesse lasciato un faldone nero contenente dei pentagrammi riempiti di note – insieme a commenti, imprecazioni, vaneggiamenti – non autorizza a dedurre che quello fosse la sua decima sinfonia. Sappiamo che molti anni prima, a cavallo dei due secoli, da un cumulo di schizzi e idee Mahler aveva ricavato nientemeno che tre sinfonie (3-4-5). Chi può dire che in quel faldone non ci fossero spunti che avrebbero potuto costituire – fosse Mahler vissuto – addirittura movimenti di sinfonie diverse (due scherzi, nella stessa sinfonia?)

Insomma, una sinfonia virtuale, che mai e poi mai sarebbe stata data così alle stampe da Mahler, abituato a pensare e ripensare le sue opere addirittura ad anni di distanza. Ma i ricostruttori della cosiddetta decima hanno voluto scimmiottare Mahler anche nell’abitudine di fare revisioni continue all’opera e così ieri sera – proprio per fare un esempio concreto – Chailly ha presentato una nuova formulazione dei famosi colpi di tamburo militare coperto, il primo dei quali chiude il 4° movimento, e che poi si ripetono all’inizio del 5°: nella partitura di Cooke-Goldschmidt-Matthews del 1976, seguita dai direttori che l’hanno incisa fino ad oggi, i colpi sono rappresentati da una singola semiminima; ieri invece Chailly (o chi per lui...) forse per metterli in relazione con l’inciso dei corni, li ha trasformati in due semicrome + una croma + rimbombo, con un effetto del tutto stravolto!

Insomma, questa ricostruzione, credo io, andrebbe presentata per quello che è, un esercizio scolastico - una serie di pezzi separati - e giusto per darci un’idea di ciò che Mahler poteva avere in mente; così si potrebbe anche apprezzare lo sforzo di Cooke&C. Ma in nessun caso andrebbe programmata – e venduta in CD - come la Decima di Mahler (pur con la postilla: completata da …)
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07 settembre, 2009

La “cinesina” della Verdi conquista la Scala


Xian Zhang ha debuttato ieri sera ufficialmente come Direttore Musicale dell’Orchestra Verdi nel concerto inaugurale ospitato in una Scala mutilata del secondo loggione e deturpata da impalcature e strumenti non propriamente musicali (comunque, se si toglie di mezzo una buona volta lo sbifido asbestos, sarà un bene per tutti).

Dico subito che l’Orchestra (mi) ha veramente impressionato (con ciò confortando la mia convinzione di aver ben speso i quattrini per l’abbonamento alla stagione): archi compatti e senza sbavature, fiati e percussioni semplicemente impeccabili, ottoni smaglianti (anche se con un paio di …smagliature nei corni, per dire il vero).

Per la simpatica Xian un debutto tutto sommato incoraggiante: interpretazioni convincenti, soprattutto Petruška, e bacchetta autorevole, a dispetto della statura minuscola. Dopo la Settima beethoveniana – perfettibile ma di buon livello, soprattutto nei movimenti centrali - grandi applausi per tutti (con qualche isolato dissenso dal loggione, o ho sentito male?) e così la cinesina ha richiamato in palcoscenico l’intero organico, per offrire due bis: ancora Stravinskij con l’abbacinante chiusa dell’Uccello e la ciaikovskiana Trepak.

Giovedi 10 primo concerto all’Auditorium, con un programma tosto assai: Vier Letzte Lieder e Quinta in MI minore.
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03 settembre, 2009

Un MiTo alla terza edizione


Nata nel 2007, compie oggi tre anni questa settembrina kermesse padana, uno dei pochi esempi di cooperazione bi-partisan fra due città divise da vecchie e nuove rivalità, non solo nel campo sportivo. Significativa la circostanza che, poco dopo la rassegna musicale, dovrebbe diventare (finalmente!) operativo l’intero percorso Mi-To della TAV, finora castrato della tratta Milano-Novara. In attesa del treno veloce, gli organizzatori mettono a disposizione degli spettatori navette pullman che collegano le due città per gli avvenimenti principali.

Qualche intoppo già all’inizio: la Scala – che ospita domani il primo evento a Milano – ha scoperto improvvisamente dopo anni – durante i quali il teatro è stato pure ristrutturato! - che nei controsoffitti sopra il loggione c’è ancora dell’amianto. Così in fretta (mica troppa…) e furia (quella dei loggionisti!) si procede ora a lavori che dureranno due mesi. Pazienza, e peggio per coloro che avevano già i biglietti in tasca.

Poi ci si è messo anche il maestro Pappano, che si è fatto ricoverare (augurissimi!) in ospedale e non potrà dirigere i due concerti con la Santa Cecilia. Sarà sostituito da Diego Matheuz che, per risarcire gli spettatori, rimpiazzerà due brani di Ponchielli e Respighi addirittura con la Quinta di Ciajkovski!

Il Comune di Milano ha mostrato grande attenzione ai costi e – per contenerli – ha deciso di mettere a disposizione del MiTo – senza compenso – il suo assessore alla Cultura, Max Finazzer Flory, che il 22/9 a Torino reciterà un suo scritto su Beethoven e poi nientemeno che il Sindaco in persona: la cara zia Letizia farà da voce recitante nel Lincoln Portrait di Aaron Copland, il 23/9 a Milano.

Anche l’Orchestra Verdi - di recente gratificata dal Comune di Milano di un sostanzioso contributo – offrirà il suo obolo: domenica 20, con ingresso libero, nella Basilica di San Marco (quella di Milano, sia chiaro) Xiang Zhang dirigerà la Missa Solemnis beethoveniana (i laici – come fioretto – si dovranno sorbire la celebrazione di Don Luigi Garbini).

Insomma, il programma è vasto e variegato e il portale web all’uopo predisposto è ricco di informazioni e servizi. Peccato che – a giudicare dai tempi di risposta - i server appaiano un pochino sottodimensionati.
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01 settembre, 2009

La stagione della “Verdi” inizia il 6/9 alla Scala


Domenica 6 settembre la Scala ospita il concerto inaugurale – fuori abbonamento – della stagione 2009-10 dell’Orchestra Verdi.

La novità assoluta per l’Orchestra è il nuovo Direttore Musicale. O dobbiamo chiamarla Dilettlice? Sì, poiché è una simpatica cinesina trapiantata a Manhattan e pure fresca mammina, Xian Zhang.

La Verdi ha avuto e ha tuttora una vita difficile. Nata nei primi anni ‘90, col venerabile Delman, in una Milano nel ciclone di tangentopoli (Milano che era stata governata e “bevuta” dai craxiani appoggiati dai “miglioristi” del PCI e alla vigilia dell’avvento di Lega e Forza italia) è stata fin dall’inizio una scommessa, sempre in bilico fra utopia anti-statalista e piagnistei contro lo Stato insensibile alle giuste esigenze di arte e cultura. I fondatori sono da ritrovarsi nell’alta borghesia (illuminata?) milanese, e in dirigenti (Cervetti, Corbani, oggi presidente e d.g.) provenienti allora dalle file dell’ex-PCI, ma passati da tempo sulla sponda migliorista, anche se mai caduti in braccio a Berlusconi.

Proprio perchè sorta quasi sfidando le leggi che regolano l’establishment musicale italiano (associazioni e fondazioni che nascono e vivono in un rapporto di reciproco ricatto con lo Stato) la Verdi non ha mai goduto buona reputazione nella burocrazia pubblica, che ha tenuto nei suoi confronti l’atteggiamento di chi è seduto sul bordo del fiume aspettando che transiti il galleggiante cadavere. Nei suoi 16 anni di vita la Verdi ha ricevuto solo minuscole e quasi offensive elemosine dagli enti pubblici (Stato, Regione Lombardia, Provincia e Comune di Milano) che invece dispensavano molti più quattrini a tutte le istituzioni e fondazioni “allineate e coperte” o comunque omologate all’andazzo prevalente, non importa di qual colore politico. Così la Verdi è stata spesso – e anche oggi non è del tutto immunizzata da una simile prospettiva – sull’orlo del fallimento, presa in mezzo fra costi e debiti (affitto dell’Auditorium di Largo Mahler, ristrutturato oltretutto con quattrini privati, e debiti proprio verso l’erario e la previdenza) e la quasi totale mancanza di sostegno pubblico.

Basta leggere i bilanci (certificati!) della Fondazione per conoscere cifre e dati impressionanti riguardo la sperequazione di trattamento di cui la Verdi è stata ed è tuttora vittima, rispetto ad istituzioni e fondazioni assai meno “produttive” e performanti. Negli ultimi due anni, sia il (breve) governo di centro-sinistra, che l’attuale amministrazione di centro-destra hanno letteralmente prosciugato le già asfittiche fonti di finanziamento pubblico alla Verdi che, come qualunque istituzione artistica (italiana o straniera fa lo stesso) senza contributi pubblici non può in alcun modo sopravvivere, oppure può farlo riempiendosi di debiti (finchè qualche banca gli presta soldi…) Purtroppo il retaggio politico che il management si porta dietro (Corbani sostenne la candidatura Ferrante contro la Moratti nel 2006) ha complicato le cose: tanto per dire, a fine 2008 il consigliere di amministrazione che rappresenta il Comune di Milano si dichiarava apertamente critico nei confronti del management e non nascondeva che solo un cambiamento radicale alla guida della Fondazione avrebbe potuto riportarla nelle grazie degli enti pubblici.

Poi, quasi miracolosamente, qualcosa è successo: grazie a prestiti e mutui di varie banche, e alla generosità di mecenati, la Fondazione ha acquisito di fatto la proprietà dell’Auditorium (oggi Auditorium di Milano Fondazione Cariplo, il cui affitto è sempre stata una grossa voce di costo del conto economico) e ha potuto ripianare gran parte dei debiti verso l’erario. Ecco quindi che lo stesso consigliere ha smesso lo scetticismo ed ha potuto trionfalmente annunciare, pochi mesi fa, un discreto stanziamento di fondi del Comune di Milano per l’Orchestra, cosa non da poco con questi chiari di luna.

Da parte sua, la mammina cinese promette di portare in breve tempo la Verdi fra le prime 20 orchestre del mondo: un’utopìa? Forse. Ma Milano – sulla carta - non ha poi risorse inferiori a Lipsia o Vienna, o Philadelphia, tutto sta a usarle bene, affidarle a gente capace e integrarle con i necessari aiuti pubblici. Il brano con cui si apre domenica la nuova stagione è Le Creature di Prometeo. Che la piccola Xian voglia fare proprio sul serio?
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