Non sono state smentite: abbiamo sentito la Carmen di Bizet. Una discreta (selon moi) Carmen di Bizet.
Abbiamo visto? Dipende: per taluni, una trojata underground anni '70; per pochi (mi spiace vi sia incluso anche il mio idolo Daniel, parte in causa, oltretutto) la Carmen del millennio. Per i più: una moscia e bambinesca mistura di deja-vu, senza capo né coda. Io mi colloco di sicuro in quest'ultimo mucchio, poi fornirò qualche dettaglio.
La Dante ieri sera non si è presentata al proscenio. Paura di una nuova salva di buuh? Nel caso, paura ingiustificata: visti gli osanna che il pubblico, loggione in testa, ha riservato anche agli interpreti degni di censura senza appello, forse anche lei avrebbe portato a casa un successo.
Ma qui bisogna prenderla più alla larga…
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Monsieur Lissner, gran ciambellano del Teatro, ha una sua idea del presente e del futuro del baraccone: la Scala è un oggetto particolare, diverso da ogni altro al mondo. Chiaro per tutti? Anche a Roma, Napoli, Firenze, e Torino? (mi scuso se non nomino gli altri.)
Bene, quindi, per il futuro: assetto ultra-privilegiato, anzi proprio esclusivo, che significa nessun vincolo agli aiuti di Stato, quindi quattrini a volontà (togliendoli a tutti gli altri, quando scarseggiano, come ora). Per fare cosa? E questo riguarda anche il presente.
Per fare qualcosa che vada al di là del puro allestimento di opere. No – pontifica Lissner - la Scala non può e non deve limitarsi a mettere onestamente e professionalmente in scena i capolavori della lirica e dei drammi musicali. No, deve fare molto di più, deve stupire, compreso il dare scandalo, se serve. (Perché solo così si giustifica lo status esclusivo che si pretende di vedersi riconosciuto. Sbaglio, o questo trucco è vecchio quanto il mondo?)
Ora, qual è lo strumento principe per raggiungere un obiettivo quale l'unicità, o l'eccezionalità? Chiunque abbia cognizione di causa della natura del teatro musicale, mescolata ad un minimo di comprendonio, risponderebbe: attirare alla Scala er-meio-der-mejo-der-meyo di strumentisti, cantanti e direttori. Invece a cosa assistiamo noi? Ad una politica che non fa nulla più di un onesto sforzo (sì, nulla più: è ciò che fanno tutti gli altri sovrintendenti, a parità di fondi disponibili) per assicurare al Teatro le risorse fondamentali di cui sopra. Ma allora,come si può pretendere l'eccezionalità? Ecco, cercando di stupire – ah, la diversità! - con allestimenti di rottura; e chi se ne frega se, invece di valorizzarli, involgariscono i capolavori che vengono messi in cartellone? (Tanto il pubblico è bue, e va sorpreso, mica servito o educato!)
Ecco, la Carmen-09 è l'esempio paradigmatico di questa brillante politica. Un'orchestra e un coro più che dignitosi? Certo, ma se fossi un fiorentino, o un napoletano, o un seguace di SantaCecilia mi offenderei a morte, al sentirli definire come di livello superiore. Il Direttore? Uno dei migliori, fuor di dubbio, ma quelli che dirigono al Maggio, al Regio, all'Opera, al Massimo (e resto in Italia!) cosa sono, baluba? I cantanti? Pochi discreti (uno ottimo, per carità) altri promettenti, ma dov'è, caro Lissner, l'eccezionalità?
Intendiamoci, sul piano musicale non sono certo io a fare lo schizzinoso (rilevo solo che chi se ne intende davvero non è propriamente entusiasta): questa Carmen mi è abbastanza piaciuta alla radio il 7 e mi è sufficientemente piaciuta ieri sera al Piermarini. Ma il pretendere che debba fare storia (eh no, caro Daniel!) è un'assurdità, un puro slogan propagandistico, messo in giro da chi ha interesse ad ottenere privilegi che non mostra di meritarsi.
Tanto per chiudere il discorso sul fronte musicale, dirò che Kaufmann è stato superlativo, ma è stato anche l'unico a superare il livello di discreto. Ahinoi l'ascolto dal vivo ha dato responsi peggiori di quello radiofonico per quasi tutti gli altri, a partire da Schrott per finire alla Damato. L'Anitona per radio mi aveva impressionato; non così dal vivo; ha una voce potente, che passa sopra qualunque fracasso orchestrale, ma ciò non basta a farne (ancora) una grande cantante. Avevo sperato che fosse stato l'appiattimento dei suoi della ripresa radio, invece ho dovuto constatare che la ragazza ha un'emissione monotòna, uniforme, ergo senza espressività (non parliamo poi della recitazione, ma qui la regìa non può andare immune da colpe).
Ecco appunto, la regìa. È quell'ingrediente con cui si può surrettiziamente stupire (quando non si riesce a farlo sul piano musicale) come vorrebbe fare Lissner per accaparrarsi tutto il malloppo dei pubblici sussidi. E ci sono due modi per farlo: uno lo chiamerò à la Herheim (vedi il Parsifal in cartellone a Bayreuth) o anche à la Carsen (ad esempio la sua Alcina) dove il regista stravolge totalmente l'originale, ma almeno costruisce attorno alla sua brillante idea una nuova opera d'arte. L'altro è quello à la Bieito (prendere una regìa delle sue a scelta, tanto son tutte uguali) dove si dà gratuitamente scandalo con qualche spruzzata di sesso e volgarità o con invenzioni demenziali. Ecco, la Dante ha mostrato di non saper seguire né l'una, né l'altra strada (né, è pacifico, quella maestra, che consisterebbe nello studiare libretto e partitura e agire di conseguenza).
Nelle Note di Regìa sul programma di sala, la Dante espone il suo Konzept. Una sola frase (Il mondo fanatico e conservatore in cui vivono i protagonisti dell'opera è in totale contrapposizione con quello di Carmen) la dice lunga sull'approccio tenuto dalla regista nei confronti del capolavoro di Bizet. (A proposito del programma di sala, vi compare il classico refuso: bara invece di vara. La nostra non ha neanche rivisto la bozza, evidentemente. Un'altra topica – in un pezzo pregevole - ce la offre anche Rostagno, quando afferma che, in Mérimée, Carmen non appare mai direttamente, ma solo nella descrizione di José: che il nostro abbia letto solo il Capitolo III del racconto?)
E come mette in essere la sua idea, la nostra regista? Portando in scena e in primo piano la religione (come espressione di quel mondo fanatico e conservatore di cui sopra): qualcosa che Bizet e i suoi librettisti avevano accuratamente e deliberatamente ignorato. Questa Carmen è letteralmente infestata da simboli religiosi, materiali (carri funebri, croci, cotte, candelabri e turiboloni) e antropologici (suore, preti, chierici e prefiche nere, bianche, anziane e giovinette). Ora, bisogna sapere che nella Carmen di Bizet la religione non ha alcun posto. Pochi, remotissimi riferimenti: nel dialogo – che del resto viene quasi sempre tagliato, ed è stato tagliato anche in questa edizione – fra José e Zuniga, laddove Josè dichiara di essere cristiano e che la famiglia avrebbe voluto farne un ecclesiastico; nel racconto di Micaëla, che ricorda l'uscita dalla cappella con la madre di José. E nel monologo della stessa ragazza, al momento di affrontare – da sola – il poco rassicurante ambiente dei contrabbandieri.
Non solo. Nel racconto di Mérimée, che la regista deve avere letto e introitato assai più della partitura bizetiana, troviamo soltanto pochi passi che chiamano in causa la religione e la chiesa: le visite dell'autore al Convento dei Domenicani di Cordoba e le due di Josè in anonime chiesette, l'ultima delle quali poco prima del tragico epilogo. Nel racconto, prima di portarla nel bosco dove la ucciderà, Josè si reca in una piccola pieve di campagna e fa dire una messa votiva – a futura memoria – per Carmen. È una scena di grande umanità, non c'è presenza della Chiesa, delle sue liturgìe, dei suoi candelabri e dei suoi turiboli… solo quella della religiosa compassione del solitario prete che accoglie la richiesta di José, senza fargli domande se non proporgli di aprire la sua anima e ascoltare i consigli di un cristiano. E il racconto di José si conclude proprio con un ringraziamento ed un apprezzamento per la pietà e la misericordia di quell'anonimo curato di campagna. Il volto umano, caritatevole, della religione.
In questa Carmen invece la religione, anzi il suo potere temporale, rappresentato dalla burocrazia (più che dalla gerarchia) ecclesiastica, e dalle sue espressioni più vuote (carri e prefiche) la fa da padrone. Due esempi? L'accostamento di potere religioso e potere economico, il cui torbido legame è impersonato dalla divisa conventuale delle sigaraie; e quello fra religione e civiltà, rappresentato dalla presenza dei simboli più frusti della prima in una delle espressioni peculiari – per quanto discutibili - della seconda: il mondo della corrida.
Quanto al resto, troviamo in questa regìa – e nelle scene - delle invenzioni di gusto assai discutibile. Qualche esempio: una donna gravida che partorisce per strada – sotto gli occhi di Moralès e compagni che sghignazzano indifferenti e fanno commenti sui passanti; i battitori ambulanti di tappeti; i vecchi sudati che – a bocca aperta - si fanno aria con i ventagli; i pastrani made-in-DDR di cui sono vestiti i soldati del reggimento di Alcalà; la messa recitata in occasione del duetto José-Micaëla; le due enormi e lunghissime funi che, appese in alto, trattengono Carmen (e Josè) al momento del suo arresto; gli ascensori che conducono alla taverna di Pastia (lasciamoli ai simpatici della Fura, please); i contrabbandieri del terzo atto, avvolti di stracci e cartapesta in modo da sembrare alberi; l'enorme letto in cui viene sepolta Micaëla; i macabri ex-voto che vediamo fuori dalla plaza-de-toros. E mi fermo qui, per non annoiare anche chi non ha avuto la possibilità di farlo, non essendo presente in teatro.
I riferimenti a Mérimée sono parecchi e sempre e regolarmente finiscono col degradare il livello estetico (non parliamo di quello artistico…) della messa in scena. Ad esempio, il bagno delle suorine-sigaraie proprio sotto gli occhi dei maschi concupiscenti, nel primo atto, non è mica una geniale idea della regista, ma viene dal racconto. Perchè è lì, proprio nella prima pagina del capitolo II, che la Dante ha trovato – non a Siviglia, ma a Cordoba – la sua brillante ispirazione. Peccato che il raffinato Mérimée paragoni le fanciulle che si spogliano e si bagnano nel Guadalquivir – nella serotina penombra dopo l'Angelus e osservate da lontano, in modo solo immaginifico, da una moltitudine di uomini – a Diana con le Ninfe! La scena della fuga di Carmen, finale Atto I, non è quella di Bizet, ma di Mérimée, laddove José, rialzandosi dopo la spinta della gitana, blocca di fatto i commilitoni accorsi per catturarla: cosicchè ciò che vediamo ha semplicemente del comico, o dell'incomprensibile.
Ci sono poi forzature indebite, rispetto all'originale, che nascondono forse, o senza forse, messaggi di ribellione politica. Ad esempio il cambio della guardia. Una scena in cui Bizet (e i suoi librettisti) hanno mirabilmente inventato la presenza dei bimbi che marciano e cantano imitando i militari, per colorire in maniera brillante, originale, leggera, simpatica e musicalmente deliziosa un momento dell'Opera che altrimenti sarebbe da Operetta. Cosa vediamo invece? Arrivare dei bimbi vestiti da militari e, con loro, altri vopos mediterranei, che si portano in spalla altri bimbi, che sarebbero poi loro stessi prima di asservirsi per due piastre al lurido potere! Manco a dirlo, la straordinaria freschezza dell'originale bizetiano va a farsi benedire, insieme con il piacere che dovrebbe creare nello spettatore: un grazie di cuore alla regista.
Poi la scena della lite nella manifattura. Attenzione: nell'originale, la zuffa semi-cruenta coinvolge esclusivamente Carmen e Manuela; le altre sigaraie, divise in due fazioni (pro-Carmencita e pro-Manuelita) si limitano ad urlarsi addosso, e ad imprecare contro i militari. Nessun cenno, neanche minimo, a zuffe e accapigliamenti fra loro (neanche in Mérimée, attenzione!) Il libretto effettivamente recita, a proposito delle sigaraie: Elles sont malmenées par les soldats, quindi un poco di violenza qui ci deve essere, sono i soldati che cercano di allontanare le sigaraie che premono su di loro. La Dante, inventandosi un realismo degno di miglior causa, ci propina invece una indisponente gazzarra fra le ragazze, con tiramenti di capelli, scazzottature, calcioni e colpi di karatè e poi ci mostra una carica di polizia assai violenta e disumana da esser degna di quelle del famigerato – suo conterraneo - Mario Scelba, anni '50 (mancano solo le camionette usate come testuggini). Un accanimento davvero morboso, del tutto sopra le righe (anzi, i righi di Bizet) gratuito e quanto mai fuori luogo.
Nel finale dell'Atto II tutti cantano la liberté. Ma sappiamo, da ciò che abbiamo sentito prima, che trattasi della libertà esistenziale e comportamentale di Carmen, oltretutto usata qui strumentalmente e subdolamente dalla gitana per convincere Josè ad arruolarsi fra i briganti del Dancaïre. Invece in scena vediamo una specie di parata, di dimostrazione di un gruppo anarchico che inneggia alla libertà contro un fantomatico potere, coltellacci librati in aria.
I personaggi si muovono o poco o male. Intanto c'è troppo spesso troppa gente in scena, che vaga qua e là solo per movimentare l'atmosfera, con effetto distraente. Carmen è spesso e volentieri piantata come una cariatide (con le mani sui fianchi, vedi Habanera) oppure assume atteggiamenti volgari, fuori luogo e soprattutto infedeli rispetto all'originale: ad esempio nel terzo atto, quando fa le moine a Josè, prima di mandarlo a quel paese, oppure - caso eclatante - nell'ultima scena, dove lei dovrebbe sempre sdegnosamente tenere a distanza Josè, mentre invece sembra addirittura adularlo, per poi stenderlo al suolo con mosse di karatè. Lo stesso mezzo stupro a cui assistiamo è di quelli – il gentil sesso non me ne abbia – che in tribunale vedrebbero lo stupratore assolto perché la stuprata era consenziente!
Micaëla, oltre a tirarsi dietro il codazzo liturgico, fa sempre la parte della donnicciola insignificante, che ha un solo obiettivo: accasarsi. Nulla di più lontano dall'originale bizetiano. Non vorrei fare sotterranee insinuazioni, ma a me pare che sia, nell'Atto I, la Dante a 17 anni e, nell'Atto III, la Dante di oggi, con tanto di mèches bianche…
Le scene? Lo scenografo Peduzzi non è da meno, presentandoci sempre e puntualmente e immancabilmente e pervicacemente l'esatto contrario di ciò che il libretto prescrive (vecchio vizio questo, che si porta dietro dal lontano 1976, Ring del centenario a Bayreuth, e di cui non è andato immune col recente Tristan scaligero). Per la scena che apre l'Opera è stato – dal nostro – riciclato un pezzo dell'orrendo e tetro muraglione dell'altrettanto orrendo Tristan, tuttora custodito all'Ansaldo (così il sovrintendente ha potuto risparmiare qualcosa). Già questo dovrebbe far nascere dei sospetti. Dopodichè, se chiediamo a 100 persone come si immaginano la scena, avendo letto il libretto ed ascoltato la musica (un leggero allegretto in SIb, sul quale i militari se la spassano a guardare l'andirivieni dei passanti) 99 diranno che Peduzzi deve aver capito male, convinto di dover inscenare Il Castello di Barbablu. Oppure ancora che la scena debba essere stata estratta a sorte, pigliando un bigliettino dal cappello, fra altre 150-200 possibili, ma nessuna che avesse minimamente a che fare con l'oggetto del lucroso contratto con Lissner. Poteva uscirne indifferentemente una palestra di body-building, una stradina di Nieuwmarkt (ai tempi…) o il mercatino di Touggourt, una favela di SaoPaulo, o anche una delle banlieue tanto care a Sarkozy. I muri che troviamo nella Carmen di Bizet sono quelli della Siviglia del 1820 che – per l'epoca – dovevano essere di sicuro della massima modernità. Quelli di Peduzzi sono invece ciò che resta e si vede (o si vedrebbe oggi) di quei muri, dopo 200 anni! E ciò dicasi per tutte le scene dell'Opera. Una pura e semplice idiozìa. L'idea dei contrabbandieri-albero sarà di Dante o di Peduzzi? Di Duzzi o di Pedante? Fatto sta che è una ridicola parodia della foresta di Birnam (che qualcuno pensasse di dover inscenare Macbeth? chissà…)
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Conclusioni e morali?
Il recente scandalo di Zeffirelli, che contemporaneamente insulta la Dante ma fa ancor peggio di lei, decretando l'ostracismo contro cantanti pur graditi al Kapellmeister e ad una folla di ammiratori, è solo l'ultima dimostrazione dell'effetto deleterio indotto dal potere che da anni i sovrintendenti (e Lissner è solo un follower, in ciò) hanno assegnato a chi – invece di servire – si serve dei capolavori del teatro musicale per arricchirsi e/o ottenere notorietà, realizzando a buon mercato le proprie opere d'arte, o le proprie stronzate: i registi.
È ciò che abbiamo vissuto con questa Carmen: ci è stata propinata un'accozzaglia di banalità infantili, luoghi comuni, stupide allusioni, imbecillità travestite da intellettualismo. Un ciarpame che purtroppo il nostro infernale sistema farà immeritatamente sopravvivere in DVD, che apporteranno ulteriore miseria alla nostra già declinante cultura.
C'è solo da augurarsi che i giovani, i nostri figli - magari solo per ignoranza, beata, santa e benedetta, in questo caso! - scarichino in una cloaca tutta questa fuffa. E che i boiardi che siedono sulle sovrintendenze delle Fondazioni abbiano un sussulto di dignità.