bipolarismi

bandiera bianca vs bandiera nera

30 maggio, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 36


Ancora Zhang Xian sul podio dell’Auditorium per un concerto questa volta monopolizzato da Shostakovich.

Curiosamente la proposta è costituita da due componenti estratte da altrettanti programmi di stagioni passate: si tratta dell’Op.35 (Concerto per pianoforte e tromba) che fu presentata nell’ottobre 2011, con lo stesso solista alla tromba, il mitico Alessandro Caruana; e della Decima sinfonia, eseguita da D’Espinosa nel settembre 2012, guarda caso insieme ad un altro concerto per tromba, ancora con Caruana.

Dapprima è la bravissima – e pure bella, il che non guasta mai… - Mariangela Vacatello a proporci (con l’impertinente supporto di Caruana) il Primo concerto, che lei interpreta in modo convincente, sia nelle pagine più esilaranti e parodistiche, che in quelle (vedasi il Lento) più introverse ed elegiache. 

Calorosissima l’accoglienza di un Auditorium ancora assai affollato, e così lei non ci concede un bis ma un… tris! Dapprima con la campanella, poi con Chopin; infine ci saluta con un brano che, di questi tempi, sa di nobile messaggio ecumenico: il celeberrimo Von fremden Ländern und Menschen, che apre le schumanniane Kinderszenen.
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Zhang Xian può finalmente porre riparo alla sua (giustificabilissima, causa fiocco-azzurro) defezione del 2012 dirigendo la Decima, passata alla storia come la sinfonia di Stalin (smile!)

L’Orchestra è una delle più titolate al mondo in questo repertorio e non si smentisce, con una spettacolare dimostrazione di potenza e precisione al contempo, in tutte le sezioni, dagli ottoni alle percussioni, dagli strumentini ai fagotti e ovviamente al pacchetto degli archi: Xian credo non faccia altro che assecondarla al meglio, e il risultato è davvero eccellente, salutato da lunghi e ritmati applausi.   

29 maggio, 2015

Torna alla Scala la Lucia yankee


 

A poco più di un anno di distanza è tornata in Scala (e ci resterà per altre 5 recite, fino all’11 giugno) la donizettiana Lucia di provenienza MET. Sullo spettacolo quindi non avrei da cambiare idea, né da aggiungere altro a quel poco dichiarato a suo tempo.

Sul piano del cast, la continuità col passato è garantita dal solo Vittorio Grigolo, che anche ier sera è stato accolto come un marziano, anche se a me non è parso aver fatto molti passi avanti in questi 15 mesi: eccessive forzature dei suoni in alto e scarsa efficacia nei passaggi più intimistici.

Accolta da grande esultanza Diana Damrau, che effettivamente è stata una Lucia convincente, e non solo nella famosa scena della pazzia: qualche difficoltà nelle note gravi non ha offuscato una prestazione di alto livello, sia sotto il profilo della tecnica che sotto quello del portamento drammatico.

Gabriele Viviani è un Enrico dignitoso, ma non trascendentale. Meglio Alexander Tsymbalyuk, ben calatosi nella parte non facile di Raimondo. Gli altri due componenti del famoso sestetto di fine atto II (Juan Josè de León, Arturo, e Chiara Isotton, Alisa) hanno fatto onestamente la loro parte. Il Normanno Edoardo Milletti ha faticato assai a farsi udire, causa il combinato disposto Ranzani-Casoni 

A proposito dei quali dirò che il Coro ha offerto una prestazione degna della sua fama, travolgendo – nei passaggi d’insieme – anche le voci soliste. Ranzani ha diretto a memoria e, a mio modesto avviso, forse ha talora scambiato la partitura della Lucia per quella di… Attila (smile!)  

Pubblico una volta tanto abbastanza folto (sarà l’effetto-EXPO?) e unanime nel giudizio categoricamente positivo (proprio come si fosse al MET!) per questo spettacolo.
       

25 maggio, 2015

Il Britten fiorentino, riveduto e corretto

 

Ieri pomeriggio seconda recita di The turn of the screw di Benjamin Britten al Maggio Musicale, Teatro Goldoni, un ritrovo discreto – tipo club londinese - per pochi (ma buoni?) intimi.

Comincio dalla parte musicale, che a mio modesto avviso è stata quella più convincente: innanzitutto per la prova dei 13 solisti (proprio così) dell’Orchestra del Maggio, guidati dal violino di Yehezkel Yerushalmi e diretti con gran cura dei dettagli da Jonathan Webb. Tutti insieme (compresa l’arpa traslocata in palco di proscenio) hanno reso al meglio le atmosfere ora idilliache, molto più spesso sinistre, che caratterizzano l’opera. Certamente favoriti anche dalle dimensioni raccolte della buca e del teatro.

Fra le voci direi bene o benissimo tutte quelle femminili, che potrei ordinare in classifica mettendo in testa l’Istitutrice Sara Hershkowitz, seguita dalla Miss Jessel di Yana Kleyn, dalla Flora di Rebecca Leggett e dalla Mrs. Grose di Gabriella Sborgi. I maschietti (si fa per dire) nel cast sono due: benissimo il piccolo Miles, al secolo Theo Lally e più che dignitoso (con quache riserva) John Daszak, sdoppiatosi come consuetudine fra Prologo e Quint.

Per tutti un’accoglienza calorosa, concretizzatasi in parecchie chiamate al proscenio.
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Più articolato il mio giudizio sullo spettacolo, che ha proposto cose interessanti accanto ad altre francamente discutibili.

Come nel recente Flauto di Bologna, anche qui si è fatto uso – da parte del regista Benedetto Sicca – di immagini tridimensionali proiettate su uno schermo rettangolare collocato proprio al centro della scena, a far da parete ad una torre stilizzata (sulla sommità della quale apparivano di volta in volta personaggi del dramma, e non solo Quint). Però, a differenza di Bologna, dove si è impiegata una tecnologia piuttosto antiquata (anaglifo, quella che contempla l’uso degli occhialini con le due lenti colorate (blu e rosso, per semplificare) a Firenze Marco Farace (responsabile delle elaborazioni video) ha fatto uso della tecnologia basata sulla polarizzazione e sulle lenti polarizzate, tecnologia obiettivamente più efficace, oltre che meno disturbante per la visione di tutto il resto di ciò che sta in scena (che poi è la parte più importante dello spettacolo).

Peraltro anche qui ciò che viene proiettato in 3D ha pertinenza ed efficacia piuttosto discutibile rispetto ai contenuti dell’opera: il treno che porta l’Istitutrice a Bly, il cigno (o i cigni) di cui vedremo la (eccessiva) rilevanza attribuitagli dal regista, corpi o volti o scritte più o meno efficaci a sottolineare l’azione che si svolge sul palcoscenico.

Le scene di Maria Paola Di Francesco sono assai spartane e in sostanza abbiamo il palcoscenico suddiviso in tre sezioni: in basso, la parte anteriore è sempre vuota e lì vi si muovono i personaggi in primo piano; nella parte posteriore, separata dalla torre-schermo e da altri pannelli, vediamo ciò che contemporaneamente accade altrove, rispetto all’azione in primo piano; la parte alta (la sommità della torre) serve come detto per farvi apparire Quint (come da libretto) ma anche Jessel e l’Istitutrice. In più anche un paio di palchi vengono impiegati per farvi comparire i due fantasmi.

I costumi di Marco Piemontese dovrebbero ricalcare quelli dell’epoca del racconto, ottocento avanzato. Efficaci e sempre discrete le luci di Marco Giusti.
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L’interpretazione di Sicca, come detto, è per me caratterizzata da luci ed ombre. In generale il regista si è attenuto al libretto (insomma, non ha inventato un’altra storia, ecco, salvo per il finale, come vedremo) ed anzi il suo è spesso un approccio fin troppo didascalico, il che non è detto sia un bene. Gratuito anche se efficace il mezzo spogliarello del Prologo, che entra in camicia bianca (su pantaloni neri) e poi si toglie la camicia per indossarne una nera (quella da fantasma di Quint) passatagli da… Miles. Poi, i due fantasmi compaiono a fianco dei ragazzi già alla scena V (dove si dovrebbe manifestare solo Quint); nel retroscena si vedono sempre (fin troppo) azioni che dovrebbero soltanto essere immaginate, sulla base dei dialoghi (ad esempio, nella scena VII del primo atto, con Flora e Isitutrice presso il laghetto, si vede sullo sfondo Quint intrattenersi con Miles); peggio accade nella corrispondente scena, sempre al lago, del second’atto, dove arriva anche Quint recando in braccio Miles (!)    

Ma queste in fin dei conti sono sottigliezze di poco conto. C’è invece un’idea che il regista ha messo al centro della sua interpretazione, anzi, propriamente, un simbolo. Ora, nella prima scena del second’atto, quella dove i due fantasmi si ritrovano insieme, Jessel subito rimprovera Quint per averla richiamata dai suoi sogni, e lui risponde: sei tu che hai udito il terribile suono delle ali del cigno selvatico. Frase ad effetto, certamente, ma del tutto isolata: mai più il riferimento al cigno tornerà nel testo della Piper. Bene, questo è invece il simbolo che Sicca mentre al centro della sua concettualizzazione dell’opera.

Già nella seconda scena il cigno ci appare, rappresentato da un origami bianco, nelle mani dell’Istitutrice, che ne fa dono a Miles (mentre non regala nulla a Flora…) D’ora in poi il cigno è protagonista delle animazioni 3D, dove il suo collo si allunga fino a portare il becco dell’animale sul… naso dello spettatore. Poi i cigni diventano due, aggiungendosene uno nero (affibbiato a Jessel, che ne ha uno attaccato al suo vestito, sulla spalla sinistra). I due cigni si vedono anche insieme in alcune animazioni e una grossa piuma cade dall’alto al termine del primo atto.

Ma il colpo di scena (inutile dire che è un’invenzione – peraltro non nuova in assoluto – del regista) arriva alla fine: nella scena VII (al laghetto) l’Istitutrice arriva con in mano l’origami del cigno, poi rimane lì, quasi inebetita e nella scena successiva (l’ultima) avviene il fattaccio: Miles, proprio dopo aver pronunciato la fatidica frase Peter Quint, you devil!, e mentre Quint gli dice addio, riconoscendo di avere fallito, invece di schiattare per colpo apoplettico si getta fra le braccia del fantasma e pure della fantasmessa Jessel, arrivata appositamente sul posto, e con loro se ne va quasi allegramente. La povera Istitutrice pronuncia le sue ultime parole e scimmiotta la canzoncina (Malo) di Miles trastullandosi con l’origami del cigno, mentre tornano pure Mrs.Grose e Flora a portarsela via verso… il manicomio?

Bene, abbiamo capito che Sicca appartiene alla scuola di pensiero che sostiene i fantasmi e le relative conseguenze essere una pura invenzione della mente malata dell’Istitutrice. E quindi, visto l’epilogo, dobbiamo supporre che anche il piccolo Miles sia un fantasma, ecco. E già che ci siamo, perché non anche la stessa Istitutrice? Boh…

Insomma, Sicca falsa smaccatamente il finale per presentarci l‘Istitutrice come colpevole e responsabile di ciò che è accaduto. Ma per insinuarci questo dubbio - che tale dovrebbe restare - bastano ed avanzano il testo di Piper e la musica di Britten, senza bisogno di aggiungervi o mutarci alcunchè.


22 maggio, 2015

Altro giro di vite a Firenze

 

Questa sera nella deliziosa bomboniera del Teatro Goldoni si rappresenta la prima delle 6 recite di The turn of the screw di Benjamin Britten.

Dal sito del Teatro, e in particolare dalla nota e dal video di cui è firmatario-protagonista Benedetto Sicca, responsabile della regìa dell’opera, veniamo a conoscenza di alcuni dettagli interessanti (si fa per dire).

Intanto, leggiamo: Che rapporto c’è tra il defunto Peter Quint e l’altrettanto defunta moglie? Ora, se davvero Sicca deriva dal testo di Britten e dall’originale di James un legame di parentela del genere, deve avere qualche secondo fine…

Subito prima aveva scritto: Perché la Governante lascia sua figlia per andare ad occuparsi di questi due bambini sconosciuti? Sua figlia? Questa è proprio tosta davvero: solo un principiante in lingua inglese può così interpretare la frase dell’istitutrice (The children… the children. Will they be clever? Will they like me? Poor babies, no father, no mother. But I shall love them as I love my own, All my dear ones left at home, so far away - and so different) dove lei si riferisce ai suoi cari e non ad una figlia che non ha, come si evince da tutto il resto del libretto e più ancora dal racconto di James (lei ha 20 anni, è innocente ed inesperta, ultima figlia di un povero parroco di campagna).

Saranno pure dettagli insignificanti, ma danno l’idea di un filino di approssimazione… ecco.

Dal video si apprende invece che, dopo il Flauto bolognese, anche a Firenze si potrà apprezzare al meglio la regìa solo inforcando i classici occhialini bicolore del 3D!

In attesa di permettermi qualche commento, dopo visione in loco, rimando le folle di seguaci del blog ad un mio scritto sul Turn, postato in occasione della pregevole edizione veneziana del 2010.

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 35


La Direttora Zhang Xian fa il suo ritorno – e proprio alla grande! - sul podio dell’Auditorium per dirigere un concerto imperniato su Mozart, ma aperto da Campogrande e chiuso da Prokofiev. Concerto che sulla carta sembrerebbe eccessivamente lungo, ma che in realtà scorre via velocemente e piacevolmente.

Per il ciclo EXPO Variations è il turno dell’Inno nazionale dell’Argentina, che Nicola Campogrande camuffa e nasconde nelle pieghe del suo canovaccio universale. Dove, in omaggio al tema espositivo, nella fattispecie potrebbe pure starci un bel bife de chorizo, ecco.

Poi ecco il cuore mozartiano del programma, aperto dall’Ouverture di Così fan tutte: Xian scalda i motori dell’Orchestra dandone una lettura nervosa e agitata, proprio nello spirito di quest’opera dalla natura indecifrabile.

laVERDI conta due prime parti di clarinetto, che sono casualmente pure marito&moglie: Raffaella Ciapponi e Fausto Ghiazza. Entrambi hanno nel loro repertorio il Concerto per clarinetto, e forse ogniqualvolta viene messo in programma si giocano a dadi chi dei due lo debba interpretare. Quest’anno il sorteggio deve aver favorito ancora Fausto, che credo sia alla sua terza, se non quarta esibizione.

E la sua è stata una prestazione davvero superlativa: non soltanto tecnicamente perfetta, ma soprattutto mirabile sul piano dell’espressività e del pathos di cui Fausto ha ricoperto le celestiali note del grande Teofilo. Perfettamente coadiuvato dai suoi colleghi dell’orchestra, con i quali lui era in perenne contatto attraverso… gli occhi della Xian.

Successo strepitoso e ripetute chiamate da parte di un pubblico tornato per l’occasione ad affollare piacevolmente l’Auditorium.      
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Dopo l’intervallo si chiude la scorpacciata di Mozart con la 36ma Sinfonia, cosiddetta di Linz: Xian ne restringe al massimo il brodo, evitando tutti i ritornelli (salvo i due inderogabili del Menuetto) e ciò che ne risulta è un vero e proprio cammeo, un gioiellino da ammirare a bocca aperta, ecco.

Tocca infine a Prokofiev l’ultima parola, con la celeberrima Classica. Ciò che ascoltiamo sembra proprio una sinfonia di Haydn, ma un Haydn che ha buttato la parrucca alle ortiche per poter prendersi finalmente qualche libertà rispetto ai pedanti canoni del suo tempo. Convincente l’interpretazione di Xian e soprattutto strepitosa la prestazione dei ragazzi (guidati da Dellingshausen) che trascinano il pubblico ad un’autentica esaltazione. 

Insomma, una serata di quelle da incorniciare.    

21 maggio, 2015

Il Flauto in 3D a Bologna

 

Ieri  pomeriggio il Comunale di Bologna ha ospitato la quarta delle sette recite della Zauberflöte, in una nuova produzione caratterizzata dall’impiego di tecnologie cinematografiche 3D, con tanto di occhialini bicolori distribuiti al pubblico all’ingresso in sala.

Devo purtroppo dire subito che - ai miei occhi (e un po’ anche alle mie orecchie) - il 3D è apparso come sinonimo di 3Delusioni. A cominciare proprio dalla base tecnologica materiale della ZAPRUDER: personalmente avevo avuto modo di vedere i primi, pioneristici filmati 3D (prima in USA e poi qui da noi) addirittura decine di anni fa e devo dire che erano di qualità e soprattutto di efficacia immensamente superiore a ciò che è stato presentato in questa edizione del Flauto. Immagini a prevalente contenuto di… frasche e con poche e per nulla impressionanti, né aggressive, apparizioni di oggetti e pupazzi assortiti.

Seconda delusione, il carattere generale dell’allestimento della compagnia di Luigi De Angelis e Chiara Lagani: l’impostazione targata Fanny&Alexander ha purtroppo finito per contagiare di infantilismo l’intera proposta, scaduta a livello di una recita scolastica. Scenografia inesistente; costumi di taglio francamente dimesso; eccessiva presenza in scena di frotte di bambini e ragazzi (a proposito di saggio di fine anno); e poi le solite trovate più disturbanti che gradevoli, quali le passeggiate di personaggi lungo i corridoi della platea, come il corteo di fine primo atto, col coro e poi con Sarastro che arrivano dal fondo della sala e costringono il Direttore a girarsi verso il pubblico, dando le spalle all’orchestra… Poco o nulla anche sul piano attoriale, dove i cantanti sembrano lasciati liberi di muoversi (o di star fermi) a loro discrezione.

E infine, terza (solo mezza, per fortuna) delusione anche sul piano strettamente musicale: dove mi sentirei di salvare la coppia Mariotti-Faidutti (e relativi… addetti) che hanno proposto un Mozart di discreto livello. Delle voci darei ampia sufficienza al Papageno di Nicola Ulivieri (peraltro non esente da qualche pecca sulle note più alte); poi al convincente Tamino di Paolo Fanale (bella voce dal piglio eroico e benissimo impostata); e infine a Maria Cristina Schiavo, una Pamina almeno onesta e gradevole. Tutti gli altri francamente al limite della sufficienza: alla Astrifiammante Christina Poulitsi non serve staccare i FA sovracuti, se poi gli arpeggi che li contornano sono approssimativi e dall’intonazione precaria; Mika Kares è un Sarastro imponente soltanto in… altezza (da pivot) ma per il resto gli mancano autorevolezza e corretto portamento; Gianluca Floris è un Monostatos piuttosto vociferante che cantante; e Anna Corvino una Papagena che canta meglio le frasi che richiedono la palese alterazione della voce (da vecchina sdentata) rispetto a quelle che ne caratterizzano la natura di donna piacente. Gli altri (Dame, Sacerdoti, Oratore) senza infamia e senza lode. Quanto ai tre fanculli-genietti qui si è deciso di schierare proprio tre voci bianche: scelta simpatica quanto discutibile.

La buona notizia è che il pubblico, piuttosto folto, direi, ha mostrato di gradire assai, tributando applausi e ovazioni indistintamente a tutti: quindi tutto bene così!


20 maggio, 2015

CO2: miracolosamente illesi

  

Signori miei, con l’anidride carbonica non si scherza: la mia maestra elementare (tale Ortensia, anni ’50 dello scorso secolo!) mi e ci aveva ammonito che restare in un ambiente saturo di CO2 significa la morte certa, non perché CO2 sia un veleno, ma perché si mangia l’ossigeno dell’aria. Per contro, vuoi mettere il piacere che ti dà una dose di anidride carbonica iniettata in una bottiglia d’acqua (o di Coca, o di qualsivoglia altra bibita gasata)?

La buona notizia di oggi è che lo spettatore che in questi giorni si avventura incoscientemente (o con epico sprezzo del pericolo) dentro le vetuste mura del Piermarini ha ottime possibilità di uscirne illeso (o al massimo con sopportabili conseguenze, nulla di irreparabile, ecco…) soprattutto se sta in loggione o nelle file alte dei palchi. Qualche maggior pericolo lo si corre stando in platea (si sa che la CO2 pesa più dell’aria e si addensa in basso): però se riescono ad uscirne vivi anche gli strumentisti (che stanno ancor più giù) significa che ci si può fidare…    

Insomma, il massimo pericolo che si corre è di sbottare come il mitico Fantozzi alla proiezione della mitica Potemkin… ed è ciò che alcuni del pubblico hanno fatto ieri sera alla seconda, pur mantenendo le imprecazioni a livello di confuso borbottìo e senza ricorrere a plateali vaffa. La maggioranza degli spettatori ha invece applaudito calorosamente tutti, autori e interpreti, probabilmente convinta di aver così dato un decisivo contributo alla lotta contro il surriscaldamento del pianeta. (Però poi tutti via a bordo di mastodontici SUV, tanto si è capito che la Gaia è una mamma di manica larga.)

Sì, perchè questa è un’opera-manifesto, o un’opera-denuncia come la si voglia definire. Io però comincerei con il contestarne proprio il genere, poichè opera mi pare un termine un filino impegnativo: per il solo fatto di essere rappresentata in Scala, non è che qualunque pièce si meriti quel riconoscimento, altrimenti dovremo chiamare opera anche la presentazione della stagione 15-16 che un famoso attore (smile!) farà il prossimo 27/5, ore 17. Quindi d’ora in poi, e per mero e doveroso rispetto per le attività di chi lo ha pensato e soprattutto realizzato, lo chiamerò lavoro.

Personalmente sono convinto che l’ecologia e i problemi connessi con la difesa dell’ambiente siano materia troppo importante e seria per essere trattati in questo modo. Già si deve purtroppo diffidare anche degli esperti veri, che spesso e volentieri prendono clamorose cantonate, figuriamoci se dobbiamo dar retta a librettisti, compositori e registi che giocano a fare gli ecologisti!

Che si tratti di un’operazione di pura facciata se ne rende conto chiunque prenda fra le mani il programma di sala, dove si è toccato il livello record di ipocrisia, facendolo per l’occasione stampare - invece che sulla consueta preziosissima e costosissima carta patinata - su carta (simil-?) riciclata!  

Va dato però atto a tutti gli autori di questo lavoro di aver fatto le cose proprio da – come dicono ad Oxford – paraculi! Ian Burton ha collazionato per il libretto una montagna di dotte citazioni, da Al Gore a James Lovelock, passando per testi più o meno sacri delle più svariate lingue e provenienze; Carsen, che di solito va a nozze quando può de-strutturare i DonGiovanni, le Tosche, le Alcine e le Salome, qui pare quasi sprecato, però ci ha messo il suo genio (e le straordinarie foto del suo amico Edward Burtynsky) per rendere accattivanti le diverse scene del lavoro, soprattutto quelle di massa. E infine il più paraculo di tutti (anche per origine geografica!) è il compositore Battistelli, che ci ha propinato una musica sempre addomesticabile, anche se non strettamente diatonica, senza comunque mai superare il confine oltre il quale lo spettatore medio comincerebbe ad innervosirsi.

La struttura del lavoro è un’altra paraculata: pur non essendolo nella realtà (di fatto è una specie di documentario, avendo un oggetto e non un soggetto) non vi manca nulla degli ingredienti dell’opera di teatro musicale come la conosciamo e la intendiamo da più di 4 secoli: presentando arie, concertati, cori, declamati, semplici parlati, intermezzi strumentali e – immancabile, nemmeno si fosse all’Opéra (o a Broadway?) - il balletto!

Insomma, si tratta di una raffinata mistificazione, e come capita per molte mistificazioni, può pure darsi che abbia un futuro: certo non sul piano, diciamo così, politico-maieutico, poiché scorre e scorrerà come acqua fresca su un cristallo; ma magari su quello teatrale sì, essendo spettacolo che sa catturare l’attenzione e le simpatie del pubblico.  

Sul piano dell’esecuzione musicale, finchè uno non ha accesso alla partitura non può nemmeno dire se direttore, orchestra e cantanti abbiano interpretato a dovere ciò che il compositore ha voluto trasmetterci: si può soltanto immaginare e sperare che in un’occasione come questa (presenza in loco dell’autore) le cose siano state fatte con il massimo della cura. Per il resto mi limito a riconoscere a tutti (i cori di Casoni, in primis) di aver contribuito – come detto – a rendere lo spettacolo piacevole e digeribile.

Ancora un commento di carattere generale: la Scala sarà pure (o vorrebbe essere) un teatro di livello internazionale e cosmopolita; poi c’è l’EXPO e quindi il tasso di turisti stranieri presenti in sala aumenta ulteriormente… però qui si rappresenta la prima mondiale di un lavoro commissionato dalla Scala ad un compositore italiano. Recitarlo nella nostra lingua, no? Poi fatene pure una versione inglese o tedesca o francese o russa o cinese o burkina-fasonica quando e se qualcuno deciderà di rappresentarlo in Paesi diversi. Purtroppo questo è un brutto vizio: Quartett di Francesconi (2011) ispirato da un testo tedesco a sua volta ricavato da uno francese, fu scritto (dall’autore italiano) in inglese; peggio successe per Cuore di cane (2013) scritto in italiano da un italiano e presentato in traduzione… russa! Allora diciamo: abbasso lo sciovinismo, evviva il masochismo!

Chiudo con una battutaccia: siamo sotto elezioni, e il prode Battistelli si è candidato a sindaco del suo paesello, Albano laziale. Speriamo che venga eletto, così trasformerà finalmente in zona pedonale anche la SS7 (alias: la gloriosa via Appia, una delle più trafficate e inquinate superstrade fin dai tempi dell’antica Roma) ma soprattutto non gli resterà più tempo per la composizione (tera-smile!)

16 maggio, 2015

Anidride carbonica al Piermarini

 

Radio3 ha trasmesso questa sera la prima della nuova opera di Giorgio Battistelli, CO2, ispirata dal libro di Al Gore sui problemi ecologici che assillano questa povera Terra.

In assenza di (e in attesa di vedere le) immagini - che… immagino siano una componente determinante dello spettacolo di Carsen - che dire dei suoni?

Intanto, l’opera è un moderno Singspiel, dato che include corpose sezioni di puro parlato, principalmente affidate al protagonista David Adamson (un nome… un programma!)

Poi ognuna delle 9 scene (più prologo ed epilogo) ha una sua precisa ambientazione sonora: i tabla nel prologo, il tremolo degli archi nella frustrante scena all’aeroporto, una specie di marcia in quella degli uragani, del contrappunto disordinato in quella al supermercato, lo scolastico tritono (LA-RE#) a sottolineare i disastri da tsunami, e così via.

Le parti cantate impegnano particolarmente i cori (adulti e piccoli) e alcuni interpreti cui sono affidate vere e proprie arie (ma mica certo… casta diva!) come quelle di Adamson e della madre-terra (Gaia) o terzetti (Adamo ed Eva col serpente nell’Eden) o quartetti (di arcangeli e scienziati).

Insomma, l’ascolto radiofonico mi ha messo una certa curiosità, anche se, della musica arrivata via etere, non saprei proprio cosa fischiettare domani mattina sotto la doccia (stra-smile!)   


Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 34

  
Chiuso il ciclo 13579 di Mahler si torna ad una programmazione più variegata e subito abbiamo un accostamento interessante, con un’alternanza di due Mozart e due  Bartók. A proporceli dal podio Tito Ceccherini, che ritorna qui dopo quattro anni, in compagnia di Domenico Nordio per il violino… ungherese.
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Lunedì 29 dicembre 1783 Mozart poneva la parola fine ad una composizione per due fortepiano, la Fuga in DO K426. Sono 119 battute in 4/4 e tempo Allegro moderato, nelle quali il Teofilo mostra tutto il suo magistero in quell’arte che Bach aveva così splendidamente illustrato. Se ne può ascoltare qui una particolare interpretazione di Stravinski-padre-e-figlio, del 1938, un’epoca in cui il compositore russo guardava spesso a Bach. Di questa Fuga si era innamorato anche Beethoven, che ne aveva realizzato una sua propria trascrizione per due pianoforti.

Di un giovedì di quasi 5 anni dopo (26 giugno 1788) è invece il completamento dell’opera in programma qui in Auditorium: l’Adagio e Fuga in DO, K546. Il quale non è altro che l’estensione (appunto con l’anteposizione dell’Adagio) della precedente Fuga, il tutto affidato ora agli archi (quartetto o complesso).

L’Adagio consta di 52 battute in 3/4, ed è una pagina di grande rilievo drammatico, che serve mirabilmente, proprio a somiglianza dei Preludi e delle Toccate di Bach, ad introdurre la Fuga. La quale è stata trascritta da Mozart vivacizzandone leggermente l’agogica (qui siamo in Allegro) e affidando ai Primi e ai Secondi Violini rispettivamente le parti della mano destra delle due tastiere, alle Viole e ai Violoncelli (+Contrabbassi) rispettivamente le parti della mano sinistra delle due tastiere. In più, a partire dalla battuta 110 della Fuga e per le restanti 10, Mozart ha aggiunto anche una parte specifica di accompagnamento per i contrabbassi. Un altro cultore di Bach, Benjamin Britten, ce ne dà qui una sua vibrante interpretazione, con la English Chamber Orchestra, nella sua Aldeburgh, 1967.

Convincente l’esecuzione di Ceccherini, che tiene tempi (Allegro compreso) assai sostenuti e mette in risalto tutta l’austerità e severità davvero bachiana di questo brano, ben assecondato dagli archi, ieri guidati da Nicolai (Freiherr von) Dellingshausen.
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Il Secondo Concerto per Violino di Béla Bartók fu composto alla fine degli anni ’30 del secolo scorso e coniuga un rispetto abbastanza rigoroso per le forme classiche (3 movimenti, i due esterni veloci e il centrale più lento; simulacri di forma-sonata; cadenze solistiche) con la proverbiale predisposizione dell’Autore verso echi di musica popolare ungherese e – dal punto di vista della tecnica compositiva – anche con un occhio al sistema seriale schönberg-iano.

Composto espressamente per l’amico violinista Zoltán Székely, nelle intenzioni originarie dell’Autore doveva essere un Pezzo da concerto in forma di tema con variazioni; poi, a fronte delle insistenze del commissionario/dedicatario, Bartók si rassegnò all’idea del concerto tradizionale, ma in qualche modo si tenne fedele alla sua prima impostazione: infatti non solo il secondo movimento è (pur non essendo ciò esplicitamente scritto sulla partitura) precisamente un tema con sei variazioni, ma anche il finale è una specie di variazione sui temi del primo movimento.

Seguiamo il Concerto in questa incisione del 1958 di Isaac Stern, con Bernstein e la NYPO.
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Primo movimento (4/4, tonalità di base SI minore, Allegro non troppo). Sono 6 battute (24 accordi, dapprima in SI maggiore, in stile popolare dűvő) dell’arpa, cui si aggiungono il SI tenuto dei corni e i pizzicati di viole e archi bassi a creare un’atmosfera quasi idilliaca, nella quale il solista (18”) presenta il primo tema di 8 battute, caratterizzato da soggetto e controsoggetto:

Il violino sviluppa poi il tema in modo cantabile, finchè (1’01”) sopraggiunge un’improvvisa accelerazione, fino a 1’42” doveil tema riappare in forma variata. A 2’19” ecco un ponte, assai vivace, che ci porta verso il secondo tema (2’57”) più elegiaco, com’è tradizione della forma-sonata, il quale è curiosamente costruito su una serie di 12 suoni:

Pare che il compositore volesse con ciò ad un tempo riconoscere la validità del sistema di Schönberg e però mostrare come, applicandolo, si potesse comporre ancora musica tonale! (Del resto persino Mozart nel Don Giovanni e poi Liszt nella Faust-Sinfonie avevano utilizzato serie dodecafoniche senza per questo pretendere di imporne talebanamente l’impiego come regola compositiva…) Dopo che il tema è stato sviluppato, ecco un altro tema, vivacissimo (4’00”) che funge da sezione di chiusura dell’esposizione.

Abbiamo ora un articolato sviluppo (4’45”) introdotto ancora dagli accordi delle arpe, poi caratterizzato da un’improvvisa accelerazione (6’45”) che porta infine (8’12”) alla ripresa, con la riproposizione del primo tema, poi del ponte (9’26”) quindi del secondo tema (9’40”) e ancora della sezione di chiusura (10’48”) che incorpora (da 12’05” a 13’40”) anche la corposa cadenza solistica. Una coda (14’28”) chiude il movimento, che muore su un lunghissimo SI tenuto all’unisono da tutta l’orchestra.

Secondo movimento (9/8, tonalità di base SOL maggiore). Come detto, si tratta di un Tema con variazioni: è il solista ad esporre (in Andante tranquillo) il dolcissimo e sognante tema (15’26”) dopo una battuta di attacco con gli armonici dell’arpa e un sottofondo degli archi:


È l’orchestra, in cui si distinguono i rapidi arpeggi dell’arpa, a suggellare l’esposizione del tema, preparando il terreno alla Prima variazione (che si ascolta a 17’02”) sempre in SOL e in tempo Un poco più andante. È caratterizzata da spiccato cromatismo e dal muoversi della linea del solista prevalentemente per gradi congiunti alternati ad ampi intervalli. L’accompagnamento discreto viene dai contrabbassi e dai timpani.

A 18’15” ecco la Seconda variazione, in tonalità MI (Un poco più tranquillo) introdotta dal corno e successivamente caratterizzata dal formarsi di un’atmosfera liquida, creata dall’arpa e dalla celesta, che accompagnano la melodia esposta dal solista, con gli strumentini che pure si mantengono nel registro acuto. La Terza variazione, in tonalità SI (Più mosso) viene presentata a 19’52”: il solista la esegue suonando quasi costantemente in corda doppia, una vaga reminiscenza della musica popolare gitana. È ancora il timpano a condurre l’accompagnamento principale.

A 20’38” ecco la Quarta variazione, 4/4 in tonalità REb e tempo Lento: a dispetto del quale il solista si imbarca in una sequenza di velocissime biscrome che seguono trilli nervosi. La variazione ha un improvviso ritardando (21’20”) per poi riprendere in Andante chiuso dal REb e poi dal LAb degli archi. A 22’01” troviamo la Quinta variazione, in tonalità SIb, 9/8 Allegro scherzando: qui il solista si sbizzarrisce in rapide evoluzioni, ben spalleggiato dall’arpa, dalle percussioni e dalle volate gli strumentini.

A 22’37” ecco la Sesta variazione, l’ultima, in tonalità SIb, tempo Comodo, 3/2: inizia con semibiscrome del solista accompagnate dal pesante ritmo degli archi, sul quale si inseriscono i timpani e il tamburino con isolati interventi: il solista sale poi in tremolo ad altezze vertiginose, prima di acquetarsi in vista della riesposizione (23’48”) del Tema principale, in SOL, 9/8, dove gli archi lo accompagnano nella cadenza conclusiva del movimento.

Terzo movimento, Allegro molto, 3/4, SI minore. Qui si manifesta il carattere di ciclicità del Concerto, a partire dalla struttura del movimento, abbastanza simile a quella dell’Allegro non troppo di apertura: vi possiamo riconoscere un’esposizione di due idee tematiche, in qualche modo legate a quelle del primo movimento; uno sviluppo, una ripresa dei temi e quindi una coda. La chiusura del Concerto presenta due varianti: quella originale (riportata però in Appendice della partitura, come opzionale) affidata alla sola orchestra; e quella reclamata dal dedicatario Székely e normalmente eseguita, che invece impegna il solista fino all’ultima battuta.

A 25’31” quattro battute occupate da violente strappate degli archi introducono il solista che (25’36”) espone il primo tema:


Il quale, come si può notare, ha chiare affinità con il suo corrispondente del primo movimento, a partire dalle sette note iniziali, proprio identiche, pur con lunghezze diverse. A 26’00” (Risoluto) ecco uno sviluppo caratterizzato da veloci terzine del solista accompagnate solo da tocchi del tamburino e sporadici interventi dell’orchestra. La quale a 26’27” si scatena invece in ondate sonore, che portano successivamente (26’54”) ad una sezione di ponte fra il primo ed il secondo tema, dove il solista torna a muoversi su veloci e fluide terzine, con accompagnamento assai scarno dell’orchestra.

Si arriva così all’esposizione del secondo tema (27’33”) che – come il corrispondente del primo movimento – è costituito da una serie completa delle 12 note della scala cromatica:


Qui certo Schönberg avrebbe da ridire, essendo violata una delle sue regole fondamentali della dodecafonia (mai ripetere una nota prima di aver esaurito le restanti 11!) Il tema viene poi sviluppato con interventi di arpa e celesta e archi, mentre il tempo illanguidisce. Per poi tornare risoluto (28’23”) con il solista che ancora si imbarca in volate ascendenti e discendenti, imitato dall’orchestra, che ci portano (29’10”) alla sezione di chiusura dell’esposizione (Più mosso). Qui il solista suona frasi in corda doppia, poi l’orchestra prende il sopravvento e conduce alla sezione di sviluppo (29’41”, Meno mosso).

Il solista si adagia su note lunghe, mentre sono i clarinetti a sbizzarrirsi con volate di terzine; poi (30’33”, Mosso, agitato) il solista tace ed è l’orchestra a incalzare con un crescendo che si esaurisce a 30’54” (Molto tranquillo) dove il solista riprende la guida e, accompagnato dagli accordi dell’arpa e poi dei corni, conduce alla sezione di ripresa.

Qui il solista momentaneamente tace e così il primo tema (31’36”) viene esposto dai fiati, successivamente anche dagli archi. Il solista rientra solo in corrispondenza (32’18”) del ponte che separa i due temi principali. Si arriva così (32’37”, Tranquillo) alla riproposta del secondo tema variato, costituito da altra serie (non dodecafonica) di dodici note, ottenuta ripetendo (quasi irriguardosamente rispetto a Schönberg) ciascuna nota a distanza di un’ottava:


A 33’22” (Assai lento) abbiamo la sezione di chiusura di questa ricapitolazione, introdotta da accordi dell’arpa, che poi si ripetono, interrotti da una brevissima cadenza solistica, e che portano alla coda (35’11”) con ritorno al Tempo I, dove il solista si sbizzarrisce ancora in veloci terzine. A 35’48” abbiamo l’epilogo, che in questa esecuzione vede la presenza… ingombrante del solista.
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L’interpretazione di Domenico Nordio mette bene in risalto sia la cantabilità dei temi (come nell’Andante) che gli squarci espressionisti del concerto, e l’orchestra fa benissimo la sua parte, a cominciare dall’arpa di Elena Piva, giustamente applaudita con il solista, che ci regala non uno ma due bis bachiani.
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Dopo l’intervallo ecco la K543, terzultima delle 41 sinfonie di Mozart, già udita qui negli ultimi anni, due volte con Rilling e poi con Xian. Ceccherini non si (e ci) risparmia nemmeno una nota, rispettando tutti i ritornelli, anche nel finale, per farci godere di questo gioiellino del grande salisburghese.
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Chiude il concerto il Mandarino meraviglioso (o miracoloso che chiamar si voglia) in forma di Suite. La quale altro non è se non il balletto (anzi, la pantomima) originale troncato del bizzarro finale in cui il protagonista fa la sua… Tod und Verklärung. Qui invece tutto finisce con la conclusione della furibonda caccia all’uomo condotta dai malviventi ai danni del povero malcapitato. Successo e applausi da un pubblico piuttosto… scarno.  

13 maggio, 2015

L’Apocalisse in San Marco


Grazie ad EXPO-2015 e alla collaborazione del Festival di Spoleto, la Basilica di San Marco in Milano ha ospitato ieri sera una nuova (e purtroppo abbastanza rara) esecuzione di Apokàlypsis di Marcello Panni, diretta dall’Autore. Come poco più di 4 anni fa a Monza sono stati i complessi strumentali (percussioni e fiati) e corali de laVERDI i protagonisti della serata, questa volta al gran completo, compreso quindi il coro di voci bianche di Maria Teresa Tramontin ad affiancare quello adulto di Erina Gambarini. Le due voci recitanti erano quelle di Elio De Capitani e Chiara Muti.

Anche ieri il Cardinal Gianfranco Ravasi, ispiratore del lavoro di Panni, ha efficacemente introdotto le due parti dell’Oratorio, mettendo in evidenza anche le connessioni sotterranee con i temi dell’EXPO milanese.

A seguire la versatile figlia, qui in veste di recitante, papà Riccardo Muti, in compagnia di Uto Ughi. Basilica affollata e applausi per tutti, con chiamate speciali per Filippo Mazzoli (flauto), Viviana Mologni (timpani) e Giuseppe Amatulli (shofar).



10 maggio, 2015

L’ultima favola a Torino


Oggi pomeriggio al Regio torinese è andata in scena l’ultima delle 5 consecutive repliche di Hänsel und Gretel, in un teatro piacevolmente affollato e con una simpatica componente di spettatori giovani e giovanissimi.

Che hanno accolto la recita con un entusiasmo da stadio, esploso già al momento dello sfornamento della Strega e culminato ben prima che si esaurissero gli ultimi accordi di FA maggiore. Accordi che hanno chiuso una convincente prestazione dell’Orchestra, che Pinchas Steinberg ha guidato con grandissima delicatezza, ottenendo sempre un suono dolce, proprio da favola, e accendendo appropriatamente i fuochi nei momenti più drammatici della storia. A parte qualche incertezza dei corni proprio in avvio del Preludio (la partenza a freddo non è mai agevole) mi pare che i suoni provenienti dalla buca abbiano centrato in pieno lo spirito di questa favola.  

Quanto alle voci, do la precedenza a quelle… bianche dei cori del Regio e del Conservatorio, guidate da Claudio Fenoglio, che hanno splendidamente illuminato il finale dell’Opera. Fra gli interpreti, benissimo l’unico… maschio (papà Peter) Tommy Hakala, voce solida, autorevole e ben intonata; più che bene la Strega Natasha Petrinsky  che ha ricevuto il suo applauso a scena aperta dopo la cavalcata nel terzo quadro; e benissimo anche la sdoppiata Bernadette Müller (efficacissima nei panni dei due maghetti che rispettivamente addormentano e risvegliano i fratellini persisi nel bosco). Discreta anche Atala Schöck, nei panni della mamma a buon motivo complessata, che ha ben esposto nel primo quadro la sua crisi esistenziale. 

I due protagonisti (al maschile nel senso di soprano e mezzosoprano) erano Annalisa Stroppa e Regula Mühlemann. Di entrambe mi sento di dire bene quanto a intonazione ed espressività, ma un po’ ad entrambe è mancata la… penetrazione: voci sottili, come si conviene a personaggi men che adolescenti, ma anche poco passanti, nonostante Steinberg tenesse il volume al minimo. 

Ma in complesso una prestazione, sul piano musicale, assolutamente convincente.
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La regìa di Vittorio Borrelli ha rispettato in modo quasi ossessivo le indicazioni del testo, prendendosi soltanto due piccolissime libertà: dividere i 14 angeli in 8 in carne-ed-ossa (le bravissime danzatrici istruite da Anna Maria Bruzzese) e 6 in… cartone (!); e poi incaricando anche Hänsel di toccare i piccoli ciecati per restituir loro la vista. Il suo è uno spettacolo davvero godibilissimo. Anche grazie alle scene, semplici e scarne di Emanuele Luzzati, che benissimo evocano il mondo magico di queste fiabe popolari germaniche che affondano le radici nei secoli XVII e XVIII. Così come i costumi di Santuzza Calì, appropriatissimi sia per i protagonisti umani che per quelli… fiabeschi; e le luci di Andrea Anfossi, che hanno efficacemente ricreato le diverse atmosfere di cui l’opera è ricca. 

In definitiva, una bella riscoperta (almeno per il pubblico italiano) di cui dare atto al Teatro torinese. 
 

09 maggio, 2015

La Turandot di Chailly-Berio alla Scala

 

L’EXPO2015 ha regalato alla Scala un secondo SantAmbrogio (il 1° maggio persino il meteo si era allineato a dicembre!) e così ecco questa Turandot tutta nuova (almeno per il Piermarini) di cui ieri sera è andata in scena la terza delle otto rappresentazioni. (Qui la registrazione della prima).   

La (stagionata) novità di questa proposta consiste nel presentare - al posto di quello composto da Franco Alfano sotto la tutela di Toscanini, sempre criticato ma sempre eseguito in Scala (salvo alla… prima del ‘26!) - il finale di Luciano Berio, ormai vecchio anch'esso di 14 anni.

La mia (e non solo mia, direi) personale avversione alla pretesa di chiudere a tutti i costi l’opera secondo il libretto (e magari pure forzandolo, visto che lo stesso Puccini non si decideva a condividerne il finale) quando vi manca circa l’ultimo 10% di musica (di cui il compositore lasciò solo degli spizzichi e bocconi senza capo né coda) ho già manifestato nel post-scriptum di questo resoconto della penultima apparizione dell’opera in Scala, diretta da Gergiev, quindi qui mi limiterò ad integrare il concetto con qualche dettaglio in più.

Dirò subito che delle quattro versioni esistenti del finale posticcio-abusivo (rintracciabili in rete: 1. quella originale di Alfano; 2. quella tradizionalmente eseguita, e ulteriormente tagliata, come qui, di Alfano con i tagli chiesti da Toscanini ma con la chiusa del coro col Gloria sulle note di Vincerò; 3. quella di Berio; e 4. quella recente del cinese Hao Weiya – alle quali va aggiunta quella dell’americana Janet Maguire, mai eseguita) questa di Berio mi sembra perlomeno la più dignitosa, o la meno gratuita, anche grazie a qualche opportuno intervento sul libretto, a partire dall’espunzione del coro finale.

Insomma, a me pare che Alfano (imitato da Weiya molti anni dopo) tenda ad interpretare la scena finale come fosse quella del Siegfried: dove Brünnhilde inizialmente si nega al ragazzo, per poi cedere ai suoi focosi assalti e unirsi anche carnalmente a lui. Però in Wagner le premesse stanno agli antipodi rispetto alla Turandot! Brünnhilde ha apprezzato l’amore di Siegmund e Sieglinde fino al punto da perderci la… divinità; ha poi amato Siegfried fin dal suo concepimento; ha implorato Wotan di farla risvegliare dal Wälso; e ha subito manifestato la sua gioia nel riaprire gli occhi proprio su Siegfried. La sua iniziale ritrosia ad accoppiarsi con lui è tutta e solo freudiana: la paura - o meglio la tristezza, squisitamente femminile - legata alla prospettiva della perdita della verginità; non certo un pregiudizio idiota legato ad un fatto di cronaca nera di cui fu vittima un’ava nemmeno conosciuta. E alla fine è lei, liberamente e coscientemente, a concedersi al Wälso. Turandot invece è da sempre un pezzo di ghiaccio venefico; e tale rimane anche dopo aver assistito alla morte della povera Liù; il suo cedimento a Calaf è tutt’altro che spontaneo e convinto, anzi appare come conseguenza di un atto di molestia sessuale, per non chiamarlo di violenza carnale bella e buona!

Scena finale che Berio cerca invece di Tristan-izzare, seguendo un vago accenno lasciato da Puccini sui suoi confusi appunti. L’idea sarebbe anche supportata da una testimonianza indiretta (perché riferita da Leonardo Pinzauti) di Salvatore Orlando, cui il Maestro avrebbe suonato – occhio alla data – nel 1923 un finale dell’opera dal sapore tristaniano. Però risulta che Puccini – a settembre 1924, due mesi prima di morire – avesse suonato alcune idee del finale anche a Toscanini, che poi avallò quello tutt’altro che tristaniano di Alfano! (Insomma, ce n’è per tutti i gusti…)

Il programma di sala ci offre un interessante documento che finora era di non immediata accessibilità: si tratta dell’Appendice I del saggio di Marco Uvietta È l’ora della prova: un finale Puccini/Berio per Turandot, originariamente pubblicato nel 2002 in Studi Musicali. Questa Appendice riporta in dettaglio tutti gli interventi di Berio, che si caratterizzano per: tagli al testo e alle didascalie (corposi); aggiunte o modifiche al testo (minime); impiego di molti (23 su 30) degli schizzi lasciati da Puccini; utilizzo di frammenti musicali prelevati da altre parti dell’opera; inserimento di frammenti musicali alieni (Wagner, Mahler, Schönberg, oltre a Berio medesimo).

Il saggio di Uvietta presenta ed analizza i razionali che sono stati posti da Berio alla base della sua proposta. Lo scopo principale degli sforzi del completatore è di riuscire là dove l’Autore non aveva avuto modo (e/o tempo?) di arrivare: aggirare in sostanza lo scoglio insormontabile legato alla prosaica modalità di scongelamento della Principessa. Il cuore di tale tentativo è rappresentato proprio dall’Interludio orchestrale (dove compaiono anche le citazioni aliene) che Berio ha predisposto come colonna sonora alla scena dell’abbraccio di Calaf al corpo di (così la nuova didascalia!) Turandot. Orbene, mentre in Alfano quella scena passa alla velocità della luce, in Berio abbiamo ben 2’30” di musica (scusate la battuta sconcia: il tempo per una sveltina?) che dovrebbero evocare la trasformazione della Principessa da sbifida carogna in angelica creatura (!?) E per rendere la cosa plausibile, evitandole il successivo clamoroso voltafaccia, dopo che Calaf ha rivelato il suo nome, i versi di Turandot (So il tuo nome! Arbitra sono ormai del tuo destino! e fino a …la mia fronte ricinta di corona!) sono stati abilmente ma bellamente cassati.

Ma alla fine i nodi vengono al pettine: come diceva il calvissimo Ispettore Rock nel carosello della brillantina Linetti, togliendosi il cappello? Anch’io ho commesso un errore! Eh sì, anche Berio (e prima di lui Puccini, se davvero pensava al Tristan) ha preso una bella cantonata: come spiegare tristanianamente l’esternazione di Calaf (che permane nella versione beriana) È l’alba! E amor nasce col sole! ??? 

Insomma, come la si voglia prendere, siamo sempre lì, accanto a Puccini sul lettino dell’ospedale belga dove morirà: la personalità della protagonista, come emersa e consolidatasi fino a quel momento dell’opera (parole e musica) rende irrimediabilmente vano ogni tentativo di giustificarne la repentina conversione, e così anche Berio – del quale va incondizionatamente apprezzato lo spirito, oltre che il livello assoluto del contenuto musicale del suo completamento - purtroppo pretende l’impossibile, finendo con il contrabbandarci per Verklärung una volgare Vergewaltigung!  
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In questo allestimento è il regista Nikolaus Lehnhoff che cerca di far quadrare il cerchio del finale, naturalmente contravvenendo lo stesso libretto di Berio, che prevederebbe per i 150” dell’Interludio un altrettanto lungo abbraccio di Calaf a Turandot: invece il regista ci mostra la principessa, in preda a dubbi e angosce, vagare per il palcoscenico ritrovando prima il suo copricapo da spaventapasseri, poi il suo mantello piumato, quasi a voler con essi processare tutta la sua precedente esistenza, fino poi a raccogliere dalle mani di Calaf il pugnale con cui si è ammazzata Liù e minacciare di usarlo (contro lui o contro di sé? mistero)  per poi farlo cadere e gettarsi (ma senza eccessiva convinzione…) fra le braccia del Principe. Dopodiché, in assenza del trionfalistico coro finale, i due si allontanano insieme, ma in un’atmosfera strindberghiana (e al buio, altro che alba luminosa!) forse puniti e contriti entrambi per le loro (pur diverse) malefatte.

In sostanza: il regista cerca lodevolmente di assecondare al meglio la grande musica di Berio per restituire un minimo di plausibilità ad un finale che proprio non ne ha, e così il risultato – dal punto di vista del dramma - è comunque deludente, pur per ragioni opposte a quelle che rendono indigesto il completamento di Alfano.

Per il resto la regìa di Lehnhoff non disturba nessuno, dato che racconta la storia per filo e per segno, senza pretendere di aggiungervi (né togliervi) alcunché. Dalle scene di Raimund Bauer non c’è da rimanere a bocca aperta, anzi bisognerebbe suggerire allo scenografo di recarsi almeno una volta in loggione, per verificare ciò che della sua opera d’arte si vede di lassù: così sistemerebbe le cose in modo che di Turandot (Atto I) e dell’Imperatore (Atto II) si veda qualcosa di più delle… ciabatte! Belli i costumi della Andrea Schmidt-Futterer, con un calo di stile per la verità nei confronti dei tre poveri P(i-a-o)ng, scaduti a livello di… battistrada. Efficaci le luci di Duane Schuler e i movimenti coreografici di Denni Sayers.
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Va riconosciuta invece al prossimo Direttore Musicale scaligero la coerenza di approccio interpretativo dell’opera, anche rispetto al finale prescelto: pur senza stravolgerne le originarie caratteristiche, Chailly ci propone una Turandot dai tratti decisamente asciutti e scevra da compiacimenti a buon mercato. Un Puccini – e la cosa non è poi tanto campata in aria - allievo della seconda scuola di Vienna? Certo qualche decibel di troppo in un paio di occasioni ha messo a repentaglio i cantanti, ma in generale la sua è stata una concertazione pregevole.

La protagonista Nina Stemme tende pericolosamente a sforzare gli acuti, sfociando nell’urlo: però in tal modo riesce a farsi sempre sentire, anche sopra i fracassi dell’orchestra. Certo, Turandot non è Brünnhilde… e poi Berio non è Alfano, così la svedesina riesce, con molto mestiere, a farsi apprezzare.

Aleksandrs  Antonenko mostra voce discreta, non potentissima, con qualche vibrato sgradevole, arriva bene agli acuti e insomma fa il suo compitino con diligenza, senza destare grandi entusiasmi.

Brava come sempre Maria Agresta, che disegna una convincente Liù: a lei va la palma di migliore in campo (ma con quei concorrenti non le è stato difficile conquistarla).

Poco più che sufficiente il contributo di Alexander Tsymbalyuk, un Timur poco penetrante nel canto e poco efficace nel portamento scenico.

Dai tre… porcellini Michelin (smile!) luci ed ombre, con una menzione per Paolo Veccia, che almeno si fa sentire con facilità e non demerita con la sua casetta nell’Honan; i due tenori (Roberto Covatta e Blagoj Nakoski) fanno molto avanspettacolo e poco… canto!

L’Imperatore ha una parte circoscritta, ma Carlo Bosi ci si mette d’impegno per rendercela al meglio. Poco convincente invece il Mandarino di Gianluca Breda, che mi è parso un po’ in difficoltà (entrare a freddo non è sempre facile).

Azer Rza-Zadà (basta giochi di parole sul suo nome…) deve cantare due semicrome sul MI e una minima, tenuta, sul LA acuto (Tu-ran-dot): ce l’ha fatta! Certo le migliori qualità le ha mostrate il suo fisico statuario, di cui il pubblico può ammirare il lato… C!

Oneste le prestazioni delle due ancelle: Barbara Rita Lavanan e Kjersti Ødegård.

Sempre bravamente all’altezza il coro di Bruno Casoni, tanto nei grandi come nei piccoli.

Alla fine, successo pieno per uno spettacolo di livello decisamente superiore alla media scaligera.